Caro George Clooney puoi sposare la mamma?

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A tutti i membri della mia famiglia: Nielsen, Fernlund, Inkster e Dixon. Sono molto fortunata ad avervi nella mia vita.

Caro George Clooney puoi sposare la mamma? di Susin Nielsen Traduzione di Francesca Crescentini © 2014 Editrice Il Castoro Srl viale Abruzzi 72, 20131 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Edizione pubblicata in accordo con Tundra Books, divisione di Random House of Canada Limited. Copyright testo © 2010 Susin Nielsen Copyright illustrazioni © 2010 Oskar Fernlund Design Kelly Hill Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale. ISBN 978-88-8033-821-5


TRADUZIONE DI FRANCESCA CRESCENTINI



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P

ER LA CRONACA: non avevo intenzione di mandare al

pronto soccorso le mie due sorellastre. È andata così: Rosie – la mia vera sorella – e io eravamo a Los Angeles per il nostro secondo Finto Natale. Avevamo già festeggiato il Vero Natale a Vancouver, con la mamma. Il Finto Natale si è celebrato il ventisette dicembre a Los Angeles, da papà. L’ho chiamato così perché, a cominciare dalla data e dall’albero, è stato fasullo in tutto e per tutto, tette di Jennica incluse. I regali, però, non erano finti per niente. Erano veri, e ce n’erano un sacco. Rosie ha ricevuto una bambola parlante e un costume da fatina e dei giochi per il computer e quella scatola di Playmobil per costruire il negozio di frutta e verdura che voleva da sempre ma che la mamma non si poteva permettere. Nel set c’erano dei minuscoli cetriolini, e mele, fagioli e banane da mettere su una piccola bancarella, più quattro omini di plastica. Piaceva persino a me, e sono praticamente una teenager. Io ho ricevuto un iPod Touch e due nuove paia di Converse alte. Le prime sono delle Chuck Taylor, con una stampa a rose e teschi; le seconde sono di pelle nera. Fantastiche. 5


Jennica mi ha anche regalato una gonna, che non metterò mai perché le gonne non le porto – solo jeans e magliette –, e credevo che ormai l’avesse capito. Anche Lola e Lucy hanno ricevuto un mucchio di regali, anche se ne avevano già avuti a tonnellate quando avevano festeggiato il loro Vero Natale. Ma Jennica non voleva che si sentissero escluse. Devo ammetterlo, la parte di scartamento-regali della nostra visita è stata divertente. La parte strana è stata la cosiddetta “sorpresa”. Papà era venuto a prenderci all’aeroporto, quella mattina, tutto abbronzato e in gran forma. «Ragazze, ho una sorpresa per voi», aveva detto imboccando l’autostrada. Per un fugace e pazzo momento in stile Pollyanna, ho davvero pensato che volesse mollare Jennica e tornare a Vancouver. Invece ci ha portate a Santa Monica, una bellissima cittadina vicino all’oceano. Ha parcheggiato nel vialetto di una casa gigantesca e moderna in stile ranch, con un giardino rigoglioso. «Vi piace? È nostra.» Ho capito subito che con nostra non intendeva davvero nostra. «Wow», ha esclamato Rosie, praticamente al rallentatore. Con i suoi cinque anni, non era proprio riuscita a nascondere lo stupore. «Che cos’è successo all’appartamento di Burbank?», ho domandato. Papà si è stretto nelle spalle. «Stava diventando un po’ piccolo per noi quattro. Ed eravamo in affitto.» La nuova casa era splendida. Enorme. La veranda non 6


cadeva a pezzi, le grondaie non erano rotte, ed ero piuttosto sicura che il tetto non avesse bisogno di essere sostituito. Non aveva niente a che fare con la nostra casa di Vancouver. Stavo pensando a qualcosa di sgradevole da dire quando Moglie Numero Due si è precipitata fuori per venire ad abbracciarci. «Ragazze, sono così felice di vedervi!», ha detto Jennica, dimostrando per l’ennesima volta di essere una pessima attrice. «Mi piacciono i tuoi capelli, Violet. Sono molto carini, un po’ più lunghi.» Ho giurato silenziosamente di chiedere alla mamma di tagliarmeli di nuovo, appena tornate a casa. Le gemelle stavano facendo il riposino, così papà e Jennica ci hanno fatto fare il giro della casa. Tutte le stanze erano sul medesimo piano, ma era un piano immenso. Ben pochi mobili mi erano familiari. «La roba vecchia non andava bene per questo posto», ci ha detto Jennica passandosi le mani nei lunghi capelli biondi. «In più, questa casa è moooolto più grande dell’appartamento.» Ci hanno portate in salotto – c’erano questi divani eleganti e moderni, in tinte che (a quanto pare) si chiamano caffelatte e tortora – e nella cucina ampia e luminosa, con i pensili di acciaio inossidabile. Poi ci hanno fatto vedere le camere da letto, dall’altra parte della casa. Nella loro stanza c’erano un letto a due piazze e mezza e una cabina armadio grossa come la camera che io e Rosie ci dividiamo a casa, ma senza il soffitto mansardato. I vestiti di mio padre occupavano circa un ottavo dello spazio – il resto del guardaroba traboccava di roba di Jennica. Aveva più vestiti di mamma, Rosie e me messe assieme. 7


La stanza delle gemelle era vicino a quella di papà e Jennica. Jennica ha aperto la porta senza fare rumore per lasciarci dare un’occhiata dentro. «Volevo che somigliasse a una favola», ci ha sussurrato. Le gemelle dormivano sodo, distese su una coppia di lettini a baldacchino identici. Le sponde erano alzate, per non farle ruzzolare giù. I baldacchini e le trapunte erano foderati con un tessuto rosa luccicante. Sopra a un lettino, in caratteri d’argento, c’era scritto “Principessa Lola”, e sull’altro “Principessa Lucy”. Il davanzale della finestra traboccava di cuscini rosa e argentati. Il soffitto era un tripudio di stelle e lune dipinte. I giocattoli erano tutti ben riposti sulle mensole incassate nelle pareti. «E questa è la vostra stanza», ha detto Jennica indicando la porta in fondo al corridoio con un ampio gesto del braccio, come se fosse una valletta della Ruota della Fortuna. I muri beige erano spogli, tranne che per un insignificante tramonto ad acquerello, appeso tra due letti singoli dell’Ikea. Quando le gemelle si sono svegliate, abbiamo aperto i regali nel salotto nuovo, sedute per terra vicino al finto albero di Natale. Alle tre del pomeriggio avevamo già finito, così papà ci ha portate fuori. Il cortile era ancora più grande del giardino che dava sulla strada. C’erano un’altalena, una buca della sabbia come quella di un parco giochi e una piscina recintata a forma di fagiolo. Nel nostro cortile a Vancouver c’era un tappeto elastico arrugginito con una gamba rotta. E tanto fango. «Non sapevo che a Jennica piacesse il giardinaggio», ho detto a mio padre mentre cercavo di abituarmi a tutti quei 8


fiori colorati e a quelle piante. Si è messo a ridere. «Non le piace, infatti. Il giardino era già così, quando abbiamo comprato la casa. Per fortuna la nostra tata ha il pollice verde.» Mi ero scordata della tata. «C’è troppo freddo per fare il bagno», ha detto papà. «Perché non giocate un po’ nella buca della sabbia?» In qualità di quasi-teenager, la prospettiva non mi entusiasmava per niente, ma a Rosie e alle gemelle sembrava un’idea fantastica, e così abbiamo scoperchiato la buca della sabbia e ci siamo saltate tutte dentro. Lola e Lucy erano carine da star male. Hanno poco meno di due anni e sono riuscite a ereditare il meglio dei geni dei loro genitori: i folti capelli biondi e i grandi occhi castani di Jennica, e la fossetta sul mento e il sorriso da un milione di watt di papà. Io e Rosie non siamo state altrettanto fortunate, alla lotteria genetica. Anche se abbiamo lo stesso padre e una mamma molto attraente, abbiamo ereditato solo gli scialbi capelli castani di papà e la sua miopia. Lui porta le lenti; noi gli occhiali. Io ho anche trovato il modo di ereditare i suoi piedoni e le sue grosse orecchie, e quelle ginocchia nodose da maschio. Tutte queste cose hanno un bell’aspetto, su papà, ma trapiantate su una ragazzina ossuta come me il risultato è davvero spiacevole. Papà si è seduto sul divano a leggere il giornale, ma quando Lola e Lucy sono andate a rannicchiarsi vicino a lui, ha messo giù il giornale e le ha prese entrambe tra le braccia. Le chiamava “le mie stelline luccicanti” e faceva loro il solletico. Ridevano a crepapelle, in un groviglio di braccine e gambine. 9


Rosie era seduta lì vicino, con le labbra strette. Quando Jennica ha portato via le gemelle per fare il bagnetto, Rosie gli si è gettata addosso. «Papino!», ha gridato, saltandogli in braccio. «Ahi!», ha esclamato papà. «Rosie, porca vacca, sei diventata grande! Siediti vicino a me, ok? Sei troppo pesante per starmi sulle ginocchia.» L’ha presa e l’ha spostata di fianco a lui. Poi ha aperto il giornale e ha ricominciato a leggere. Rosie è rimasta lì con il labbro che tremava, ma non ha detto una parola. «Violet, mi stavo quasi per dimenticare», ha detto mio padre nascosto dalla sezione sportiva. «Ti spiace andare fuori a rimettere il coperchio sulla buca della sabbia? I nostri vicini, sia quelli qua di fianco che gli altri, hanno dei gatti.» «Certo», gli ho risposto. Mi sono alzata e sono uscita dalla stanza. Invece di andare fuori, però, mi sono infilata di soppiatto nel bagno enorme di papà e Jennica e ho fatto la pipì, senza tirare l’acqua. Arrivato il momento di andare a letto, Rosie mi ha obbligata a montare la guardia vicino alla porta mentre si infilava un pannolino, sotto al pigiama. «Non lo dirai a nessuno, vero?», mi ha chiesto, cacciandosi il pollice in bocca. Le ho tirato fuori il dito. «Mai e poi mai.» «Croce sul cuore potessi morire che ti caschi la lingua se dovessi mentire?» «Croce sul cuore e tutto quanto il resto, promesso.» La mattina dopo, finita la colazione, le gemelle volevano tornare nella buca della sabbia. Le ho portate fuori, stringendo quelle loro manine paffute, con Rosie che ci seguiva, 10


indietro di qualche passo. Papà e Moglie Numero Due sono rimasti in cucina a bersi i loro cappuccini. Stavamo giocando da pochi minuti quando Lola ha chiesto: «Cod’è?». Col ditino indicava due grosse cacche di gatto, mezze sepolte nella sabbia. PER LA CRONACA: non sono fiera di quello che ho fatto. Ma non penso nemmeno che tutto il casino che ne è seguito sia stato del tutto giustificato. Ecco cosa è successo: quando ho visto che Rosie stava per rispondere, le ho tappato la bocca con una mano. «È cioccolato», ho detto. «Deve averlo lasciato Babbo Natale. Guardate, ce n’è un pezzo a testa.» Le gemelle si sono messe a frugare nella sabbia. Hanno raccolto le cacche. Se le sono buttate in bocca. Hanno masticato. Hanno inghiottito. E sono scoppiate a piangere. Papà e Jennica sono piombati fuori in un secondo. Quando Jennica ha scoperto che cos’era successo (grazie a Rosie, che non riuscirebbe a dire una bugia nemmeno per salvarsi la pelle), voleva che papà chiamasse l’ambulanza. Sul serio. Lui l’ha fatta ragionare, più o meno, e tutti e due insieme hanno portato le gemelle all’ospedale più vicino. Non chiedetemi che cosa si aspettasse Jennica dal dottore del pronto soccorso. Che sciacquasse la bocca delle gemelle con un collutorio superpotente, magari? Rosie e io siamo rimaste sole a casa per più di due ore. Siamo andate in sala e abbiamo acceso la Tv a schermo piatto. Sapevo di essere in guai seri. Sapevo che non l’avrei passata liscia, con la mamma. 11


E sapevo ancora meglio di dovermi dispiacere per quello che avevo fatto. Ma non era così. Mi sentivo vuota – come se, guardando dentro di me in quel preciso istante, non ci fosse un bel niente. Solo un grosso spazio pieno di nulla. Dopo un quarto d’ora passato a guardare una replica di Arthur, Rosie ha detto, continuando a fissare la Tv: «A me la cacca non l’hai mai fatta mangiare». «No, Rosie», ho risposto, tirandole fuori il pollice dalla bocca, con delicatezza, e prendendo la sua mano nella mia. «E non lo farei mai.» Quando sono tornati a casa, Jennica non voleva nemmeno guardarmi. Quella sera ho sentito papà che parlava al telefono con la mamma del mio “persistente pessimo comportamento”. La mattina dopo, ho annunciato che avrei preferito tornare a Vancouver. Nessuno si è opposto. Rosie non se ne voleva andare, ma è troppo piccola per viaggiare da sola, e così le è toccato seguirmi. Ho messo in valigia tutti i nostri vestiti e i regali, tranne la gonna, che ho buttato sotto al letto. Siamo arrivate a Vancouver in tempo per la cena. Il Finto Natale era durato poco più di ventiquattro ore.

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