CyberBugie

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Cyber Bugie CORRIE WANG


A mia madre, per avermi sempre dato risposte. – Corrie Wang

Corrie Wang CyberBugie Traduzione di Simona Brogli Hotspot è un marchio di Editrice Il Castoro www.hotspotlibri.it © 2017 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Copyright © 2017 Corrie Wang Pubblicato per la prima volta nel 2017 con il titolo The Takedown da Freeform, un marchio di Disney Book Group 125 West End Avenue, New York, New York 10023 ISBN 978-88-6966-232-4


CORRIE WANG

Cyber Bugie Traduzione di Simona Brogli



1 ORA

V

i avverto in anticipo. Forse non vi piacerò. A prescindere da cosa scrivo, penserete che ho avuto quello che mi meritavo. Di conseguenza non mi prenderò il disturbo di addolcire la mia storia o far finta di essere chi non sono. Voglio dire, non è che ottieni più di cinquecento milioni di visualizzazioni e ti frega ancora qualcosa di quello che pensa la gente. Oddio, magari un pochino. Contrariamente a quanto può sembrare, non sono una vampira senz’anima. Ma ho sempre detto che c’erano solo due modi per uscire dalle superiori. Segnata o adorata. E fin dal primo anno non è stato difficile indovinare quale strada avevo preso. Prima di iniziare, credo di dovervi dire che io non sono come le altre ragazze di cui leggete. Non mi è mai successo di andare a sbattere con leggiadria contro qualche grosso oggetto immobile. Cioè, dai: gli occhi ce li ho. E visto che l’essere capitano della squadra di dibattito mi ha in un certo senso obbligata a farmi venire in mente le parole esatte nel momento esatto in cui ne avevo bisogno, non mi impappino se sono con 5


qualche bel ragazzo. O con chiunque altro, se è per questo. Grazie poi al fortunato mix genetico franco-cinese – merci e xièxie, mamma e papà! – mi sono ritrovata più bella di quasi tutte le altre ragazze della scuola. E non sono mai stata il tipo che dice “Oh, sì, sono carina” quando sa benissimo di essere uno schianto. Chi vuoi prendere in giro, fintona? Ricordate. Vi ho già avvisati che non avrei suscitato la vostra empatia. Quindi non importa se, oltre a tutte queste cose, ho anche cercato di essere una brava figlia, una sorella protettiva e un’amica leale. Non importa se ho sempre avuto buoni rapporti con quasi tutti i miei compagni di classe. Quando il video-bomba è stato sganciato, tutti hanno visto soltanto, voi vedrete soltanto, che facevo parte di un gruppo di quattro ragazze della nefasta specie scolastica detta delle popolari. (Perché poi equipariamo l’essere “popolari” all’essere benvoluti, ancora non l’ho capito. Forse ha sempre voluto dire essere le più guardate. Nel qual caso, non c’è dubbio che l’anno scorso io sia stata l’adolescente più popolare del mondo.) Così, messo tra parentesi. Suppongo che quanto sto tentando di dire sia che capisco. Capisco la reazione negativa. Dopotutto, io e le ragazze abbiamo preso i doni fortunati che ci erano stati concessi e li abbiamo sfoggiati. Abbiamo sfoggiato fisico e capelli e amicizia e gusto per la moda, per non parlare della nostra intelligenza. Perché credo sapessimo tutte che, se non avessimo sfruttato la nostra buona sorte, avremmo passato gli anni delle superiori a nasconderci in casa ogni weekend, mangiando schifezze nell’attesa che succedesse qualcosa di importante. Eppure, continuo a dire che non me lo meritavo. Avevo mai minacciato qualcuno in rete? No. Le mie compagne erano mai tornate a casa in lacrime per colpa mia o avevano mai 6


avuto paura dei corsi che frequentavamo insieme? No. Avevo mai volutamente trasformato in un inferno la vita di qualcuno? No. Perché avrei dovuto? Percorrevo la strada dell’adorazione. Prego notare il tempo passato. Già, perché alla fine ho scoperto che esiste solo un modo per uscire dalle superiori.

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2 ALLORA MERCOLEDÌ 22 DICEMBRE

R

ipensandoci, il giorno in cui il video venne postato in rete era stato uno schifo fin dall’inizio. Alle sei del mattino erano scesi già sessanta centimetri di neve. Poi non mi ero svegliata in tempo e avevo perso il mio turno in bagno. Poi mio fratello aveva pensato bene di metterci una vita per scompigliarsi i capelli a puntino. E poi, come se non bastasse, la fretta mi aveva impedito di contribuire all’intensa maratona mattutina di messaggi con le ragazze. Perciò era molto probabile che Audra fosse imbufalita con me già alle otto a.m. Mentre uscivo di casa a rotta di collo, quindi, gettai appena un’occhiata al primo messaggio dell’inquietante mittente anonimo. [ ] T meno dieci, nove...

Pensai che si trattasse di una app per il conto alla rovescia inviata da una delle venti università cui volevo presentare domanda d’iscrizione. I primi dieci atenei della mia lista avevano tutti il termine del 1° gennaio, e io non avevo ancora cliccato “Invia” per nessuno. Ma quindici minuti dopo, mentre scalavo faticosamente il cumulo di neve che pareggiava la scalinata 8


della scuola, avevo problemi più grandi dei miei saggi incompiuti per il college. Ero agitata, accaldata, e in ritardo di sette minuti per la Sfilata. Oh, le innocenti preoccupazioni di una vita che non conosce rovina. La scuola, a proposito, era la Parkside Preparatory, un disordinato insieme a tre piani di torrette in pietra bianca e vetrate istoriate, confinante con Prospect Park. Se non siete mai stati a Brooklyn, immaginate un Central Park più pittoresco, con qualche zona poco raccomandabile in più. E se non siete mai stati a New York... mandatemi un messaggio; occorre farvi uscire più spesso. All’interno, logori tappeti orientali coprivano i pavimenti. Nei corridoi, invece di teche con i trofei, c’erano arazzi dell’Ottocento. Era strano andare a scuola in un palazzo signorile? Claro que sí. Certi giorni avevo l’impressione che sarei stata espulsa se solo mi fossi azzardata a fare un ruttino. Ma in generale mi piaceva molto. La Park Prep, come la chiamavamo, trasudava un’atmosfera quasi britannica di grande cultura, come se Jane Austen o Dickens o la Rowling avessero studiato lì. Mentre varcavo la porta di solida quercia vecchia di due secoli, strinsi il mio Doc contro lo stomaco come la coperta di Linus. Cálmate mi dissi. Ero in ritardo solo di sette minuti. Audra non si sarebbe incazzata per sette minuti. Gettai in fretta il giaccone nel mio scaffale appendiabiti (perché quale residenza signorile di duecento anni fa possiede degli armadietti di ferro?), mi lisciai i capelli all’indietro, inspirai e diedi il via alle danze. Fawn fu subito al mio fianco. Alla povera Fawnie avevano appioppato uno scaffaletto al secondo piano, vicino all’aula d’arte, così ogni giorno era costretta a mostrarsi occupatissima fino alla Sfilata senza avere nemmeno un angolino a pianterreno 9


in cui ficcare la sua roba. Fortunatamente per lei, c’era sempre un ragazzo più che disposto ad aiutarla a temporeggiare. Ne lasciò uno a metà frase proprio in quel momento, per venire a schierarsi vicino a me. Mi passò il braccio intorno alla vita. I nostri fianchi cominciarono a ondeggiare l’uno accanto all’altro in completa sincronia. Parecchie teste si voltarono a guardarci. «Sei in ritardo. Oooh, che bel papillon rosso.» Le sue dita danzarono all’altezza della mia gola, per poi risalire ad accarezzarmi con leggerezza le trecce. Finché non le aveva sfiorate, per Fawn non esisteva nient’altro. «E – tutto maiuscolo – ADORO i tuoi capelli.» Se mai due genitori meritavano una A+ per il nome dato al figlio, quelli erano i genitori di Fawn “Cerbiatta” Salita. Mezza filippino-irlandese e mezza iraniana, era un incrocio tra Bambi e una principessa Disney vecchio stampo: viso perfettamente ovale, occhioni innocenti e una cascata di boccoli... quella era Fawn. Al momento in fase hippy, indossava una maglietta corta e aderente sotto un mini-gilet rosso con un’ampia gonna a vita così bassa che le si vedeva la ciccia della pancia e l’anello ingioiellato all’ombelico. Uno degli obiettivi nella vita di Fawn era mangiare in tutti i ristoranti di Flushing Boulevard, nel Queens. «Settanta paesi diversi, tutti rappresentati in una roba tipo due isolati. Il sogno dei rotondetti.» Se fosse per Fawn, l’estate prossima lavorerebbe in un’azienda agricola in Perù. Se fosse per sua madre, Fawn si ritroverebbe iscritta all’Accademia culinaria francese di Manhattan. «Mi piace molto, quel gilet», dissi a Fawn. «È così...» «Rosso che ti fa bruciare gli occhi?» Si mise a ridere. Rosso. Era il tema del giorno di Sharma, perché Sharma era una che andava sempre dritta al punto. Proprio come fece quando si staccò da Sir Joan – era così che avevamo soprannominato lo stemma gentilizio vicino al suo scaffale – e si affiancò a noi. 10


«In ritardo», disse. «E il presidente ha firmato una nuova legge finanziamenti piccole imprese, e uno schifoso membro del Congresso si è dimesso, oggetto: scandalo sesso online. Votazioni speciali ASAP.» Mentre Fawn ammazzava il tempo che precedeva la Sfilata flirtando, Sharma scandagliava il web. Era il nostro sommario mattutino di video da vedere, pettegolezzi sulle celebrità e ultime notizie. «Dite ai vostri genitori di votare per la candidata donna», intervenni. «È la più progressista. E ha progetti realistici per la sicurezza ambientale.» Dopo il diploma, Sharma sarebbe entrata nel programma dell’esercito per gli informatici. L’avevano reclutata quando era al primo anno e aveva vinto quella sfida di programmazione organizzata dal progetto Giovani Menti. Perciò non la prendevamo mai troppo in giro, anche se i suoi temi per gli outfit erano banali e di solito riguardavano i colori, visto che presto sarebbe stata lei a proteggere i nostri cyber-confini. E poi, non tutte erano Audra, che ideava i temi migliori e più intellettuali. “Pomeriggio di pioggia a Parigi” era ancora il mio preferito in assoluto. Feci scivolare il braccio intorno alla vita inesistente di Sharma, una nerd totale in un corpo da modella. Se non l’avessi vista mangiare, avrei pensato che si procurasse calorie nello stesso posto in cui si procurava tutto quello che nutriva la sua vita: Internet. I capelli neri superlisci le arrivavano alla vita. Come sempre, i suoi occhi nocciola chiaro erano contornati d’oro – iride e matita – e quel giorno protetti da un paio di occhiali rossi. «Carino, il papillon», disse, studiandomi nello specchio olografico del suo Doc perché era più facile che voltare la testa. «Grazie, è di mio padre.» E mentre sollevavo il Doc per mandare una foto al genito11


re, vidi che era comparso un nuovo messaggio dello stronzo anonimo. [ ] T meno dieci, nove, otto...

«In ritardo e distratta?» Audra. Si scostò dallo specchio antico del corridoio dove ogni mattina si ritoccava il rossetto o mandava messaggi (a noi) finché non era il suo turno di partecipare allo spettacolo. Il nostro quartetto era completo. «È sempre un piacere trovare posto nella sua agenda, signorina Cheng.» «Ma cavolo, erano solo sette minuti.» Feci scivolare il mio Doc nella borsa mentre Audra si incuneava tra me e Sharma. «Ed è appena successa una cosa stranissima...» «Oddio, la presidente Malin ha risposto sul serio a uno dei tuoi messaggi su Quip?», scherzò Fawn. «Hai preso una A senza + all’esame di scienze politiche?», chiese Sharma. «No, no, no, ci sono», si intromise Audra. «Stamattina tua madre ha fatto i pancake senza le scaglie di cioccolato?» Audra mi fece scivolare un braccio intorno alla vita, e io feci lo stesso con lei. Nonostante le scarpe rosse con i tacchi a spillo che portava, dovetti piegarmi per arrivarci. Audra era minuscola. Quando era tutta in ghingheri – come quel giorno – avevo l’impressione che la mia migliore amica fosse una bambola di porcellana. Due settimane prima, in onore del suo diciottesimo compleanno, si era tagliata le lunghe trecce e tinta i capelli color platino. Il suo nuovo taglio corto era modellato dal gel e tenuto indietro da un fermaglio rosso a forma di cuore. Era tutta vestita di nero, a eccezione del reggiseno di pizzo rosso che sbucava da sotto la camicetta attillata. Nessuna aveva un décolleté simile a quello di Audra: per quanto piccola, era equipaggiata da paura. Quanto a ciò che avrebbe 12


fatto dopo il diploma, un’ipotesi valeva l’altra. Al secondo e al terzo anno, sembrava decisa a fare domanda di ammissione al FIT, il Fashion Institute of Technology. Ma poi, in autunno, abbiamo iniziato la preparazione al college, e di colpo lei ha cominciato a parlare di prendersi un anno sabbatico... per «evolversi». Sospirai tra me e me. Adoravo le mie amiche, ma di certo richiedevano una bella dose di pazienza. Era come se avessi dieci schermate aperte di continuo, e se non interagivo contemporaneamente ed entusiasticamente con ognuna, tutto il mio sistema si sarebbe impallato. «Be’, è proprio strano che non sia successa nessuna di queste cose, ma vi ringrazio per la toccante visione che avete della mia esistenza a quanto pare insignificante. Quello che è davvero bizzarro, però, è che il mio Doc sta facendo un sacco di capricci e...» Le ragazze gemettero allo svanire della possibilità che avessi qualche pettegolezzo piccante da riferire. «Fagli dare un’occhiata da Sharmie in classe», disse Audra con aria di disapprovazione. «Che è dove dobbiamo correre adesso, visto che una certa stronzetta allampanata era in ritardo di sette minuti e mezzo e io devo ancora finire il mio saggio d’inglese. Baci?» Eravamo arrivate in fondo al corridoio, all’ampia scalinata che portava a tutte le classi umanistiche dei piani superiori e rappresentava la fine della Sfilata. Dato che la scala si trovava proprio accanto al Coffee Check, la minuscola caffetteria alloggiata in un ex guardaroba, quel particolare atrio era il luogo di ritrovo per la maggior parte degli studenti dell’ultimo anno. Con gli occhi di tutti puntati addosso, facemmo una specie di cincin unendo i nostri Doc e demmo inizio alla nostra tradizionale routine mattutina, sempre molto commentata su Quip. «Come se non fosse già abbastanza odioso che si lancino 13


baci con i loro Doc», aveva postato una nostra compagna di classe, «sono anche baci all’europea, su tutte e due le guance». Quando tirai fuori il mio Doc, sullo schermo c’era ancora un altro messaggio dell’oscuro Tizio. [ ] T meno dieci, nove, otto, sette...

Quello non era il promemoria di una app per le iscrizioni, e non era neanche un problema tecnico. Qualcuno stava intenzionalmente prolungando la suspense prima di... cosa? In quel momento lo avvertii: uno sguardo d’odio su di me. Non fu difficile individuarne l’origine. Dietro il ficus in vaso, Jessie Rosenthal ed Ellie Cyr ci stavano fissando. Che la Sfilata garantisse mortali occhiate laser non era insolito, ma la combinazione di quelle due sì. Ellie Cyr era la stella del basket della Park Prep. Al terzo anno, gli osservatori delle università avevano ormai un loro settore riservato nelle partite che giocavamo in casa. Ellie avrebbe ottenuto una borsa di studio ovunque volesse... e per fortuna, perché il suo fantastico tiro da tre punti non era di grande aiuto con una media di C-. Allo stesso tempo, Jessie era l’unica studentessa della Park Prep ad aver intrapreso una strada artistica. Nascondeva il corpo terribilmente magro solo e soltanto sotto abiti vintage di alta sartoria, e il suo atteggiamento perenne nei confronti del mondo era di annoiato disprezzo. (Con la collezione di borse e scarpe Puccini che aveva, la vita doveva proprio essere dura.) Solitaria per definizione, il flusso dei suoi messaggi Quip si incentrava tutto su quanto fosse deprimente vivere ogni giorno a contatto con “i locali”, vale a dire noi, i suoi compagni di classe. Non dirò che l’unico motivo per cui Jessie era mia rivale per il discorso di commiato riservato al miglior diplomato dell’anno risiedeva nel fatto che tutti i suoi corsi consistevano soltanto nello spargere colori su della carta. Mi limiterò a pensarlo. 14


Scoccai alle due ragazze un sorriso smagliante. Ellie ricambiò il sorriso. Jessie no. Sollevai un pugno, e poi quattro dita. Virgola quattro. Il numero esatto di punti che mancavano alla media di Jessie per raggiungere la mia. Riuscivo a sentire il rantolo di rimprovero di mia madre: Kyle! Ma la famiglia di Jessie era piena di soldi. Lei sarebbe diventata il tipo di artista che avrebbe fatto parlare di sé le gallerie di Chelsea appena uscita dall’accademia di belle arti e che sarebbe entrata a far parte della collezione del MoMA entro i trent’anni. Quello poteva essere l’unico momento della sua vita in cui non otteneva esattamente ciò che voleva. Un piccolo, salutare sberleffo le avrebbe fatto bene. Doveva pur rafforzare il carattere, in un modo o nell’altro. Jessie rispose sollevando un solo dito. Non era quello amichevole. «Sei cattiva», rise Fawn. Sogghignando, riportai l’attenzione sulle ragazze, giusto in tempo per vedere Audra lanciare un sorriso per metà sincero e per metà benedicente oltre la mia spalla. Dietro di me, una massa di riccioli e uno sguardo da cucciolo adorante desideroso di compiacere si stavano facendo largo attraverso l’atrio affollato. E a proposito di abbinamenti bizzarri... oh no, di nuovo! «Konichiwa, Ailey-chan», tubò Audra. «Konichiwa, Senpai.» Ailey era raggiante. Ailey. Ailey era stata la mia migliore amica dall’asilo alle medie, ma ci eravamo allontanate al primo anno della Park Prep. O vogliamo evitare di indorare la pillola? Io mi ero allontanata. Da allora, Ailey e io sguazzavamo in ambienti del tutto diversi. Lei in senso letterale, visto che era il capitano della squadra di nuoto e in generale una simpatica sportivona. Dato che la vedevo ancora tra le mie notifiche, sapevo che partecipava a 15


feste più che passabili, che adesso era la migliore amica della summenzionata Ellie Cyr e che si interessava a molta di quell’invidiabile roba culturale, tipica della vita di ogni adolescente newyorchese. E andava tutto alla grande finché proprio quell’anno, il nostro ultimo alle superiori, con un bizzarro colpo di scena Audra aveva giudicato Ailey “carina”. Nel triennio precedente avevano semplicemente seguito le stesse lezioni, ma poi si erano ritrovate a essere le uniche due anziane al corso facoltativo di “Vita, arte e amore in Giappone”, e di punto in bianco la mia nuova migliore amica si era messa a magnificare la mia vecchia migliore amica come se fosse un immobile di fine secolo in piena Brooklyn e io mi fossi fatta sfuggire l’occasione di comprarlo. A ogni loro incontro, escludevano chiunque altro – cioè me – e si stringevano in un abbraccio che durava, non scherzo, un minuto buono. Simulai grande interesse per lo schermo a tema zombie di Sharma finché quella scena pietosa non finì e Ailey riprese la sua strada. E a quel punto il mio Doc mandò un cinguettio ben noto e a me non fregò più un accidente di niente. Dei messaggi inquietanti o del mio ritardo o del fatto che vivevo in una condizione di tensione continua per l’umore della mia migliore amica mentre lei si dedicava a nuove e a quanto pareva più appaganti amicizie ostentando un giapponese tanto incantevole quanto esasperante. Il mio cuore perse un battito. Mac. [mac] Gabinetto dei maschi. Adesso, ragazza.

Sbuffai. «Ciaociao, belle», dissi mentre la luce della batteria passava dal giallo al rosso. «Con il mio ritardo di ben sette minuti e 16


mezzo, stamattina non ho avuto neanche il tempo di fare una vera pipì.» «Che schifo!» Sharma arricciò il naso. «Sharma», disse Fawn con aria di disapprovazione. «Fare pipì è una cosa naturale.» «Buuh!», mi gridò dietro Audra. «Non saliamo insieme?» «Audry, ci vediamo tra due minuti.» «Ma io come sopravvivo, nel frattempo?» All’improvviso il mondo tornava a girare nel verso giusto. Lanciandomi una civettuola strizzatina d’occhio, Audra prese sottobraccio Fawn e Sharma. Io mandai loro un bacio. E anche se la parte del mattino che preferivo era quasi arrivata – il momento di Mac –, mi fermai un secondo a guardare le mie esuberanti amiche mentre salivano le scale. Ci restavano solo sei mesi da trascorrere insieme, poi saremmo passate a università diverse, stati diversi, differenti impegni mondani, vite distinte. Era un periodo prezioso. Prezioso e limitato, perché proprio in quell’istante, più che mai, ebbi il brutto presentimento che stesse per finire tutto. E indovinate un po’? Avevo ragione, come sempre.

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Se non l’avessi tolto, quel video sarebbe stato per sempre la prima cosa che chiunque avrebbe conosciuto di me.


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