Fesso

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Rebecca Spath

Mark Goldblatt

CMYK

Mark Goldblatt

è editorialista, romanziere e professore al Fashion Institute of Technology. Vive a New York. Fesso è il suo primo libro per ragazzi.

Design di copertina di Heather Palisi Illustrazioni © Joanna Szachowska

€ 15,50 ISBN 978-88-6966-058-0

“A volte, ti prepari a una tempesta e ti ritrovi con una brezza delicata. La tempesta, invece, arriva quando non ti sei preparato a niente.”

Io non volevo mica che Danley si facesse male . . . Julian Twerski non è un bullo. Ha solo commesso un grosso errore. Per questo, quando torna a scuola dopo una settimana di sospensione, il suo prof di lettere gli fa una proposta: se terrà un diario e racconterà del terribile “incidente” a causa del quale lui e i suoi compagni sono stati puniti, potrà in cambio evitare di scrivere una relazione sul Giulio Cesare di Shakespeare. Julian detesta Shakespeare, e non si lascia sfuggire l’occasione. Inizia così l’accurato resoconto sulla sua vita quotidiana, tra i fuochi d’artificio fatti in casa, le imprevedibili conseguenze di una lettera d’amore scritta per fare un favore a un amico, e la preoccupazione di non essere il più veloce corridore della scuola pubblica 23. Ma fra le righe di ogni racconto resta in sospeso l’unica storia che il suo prof vorrebbe sentir raccontare. Ispirato all’infanzia dell’autore nella New York degli anni Sessanta, Fesso è un libro pieno di umorismo e sentimenti, buoni e cattivi. È una storia forte, che farà ridere e piangere i lettori, insieme ai personaggi, decisamente scombinati, ma indimenticabili. Design sovraccoperta Laurent Linn

www.castoro-on-line.it www.castoro-on-line.it

Illustrazioni: sfondo – Scott M. Fischer ragazzo – Andrea Parisi


Mark Goldblatt Fesso Traduzione di Francesca Capelli © 2016 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it

Pubblicato per la prima volta con il titolo Twerp Copyright testo © 2013 Mark Goldblatt Illustrazioni sovraccoperta © 2013 Joanna Szachowska Traduzione pubblicata in accordo con Random House Children’s Books, una divisione di Random House LLC. Le citazioni sono state tratte da: William Shakespeare, I sonetti, Sansoni, Firenze, 1941, trad. di Piero Rebora; William Shakespeare, I sonetti, Feltrinelli, Milano, 1941, trad. di Lucifero Darchini; Ernest Hemingway, I quarantanove racconti, Mondadori, Milano, 1974, trad. di Giuseppe Trevisani; William Shakespeare, Giulio Cesare, atto V, scena 5, trad. di Sergio Perosa in Teatro completo di William Shakespeare, volume V, Mondadori, Milano, 1978; William Shakespeare, Amleto, atto II, scena 2, trad. di Agostino Lombardo, Feltrinelli, Milano, 2002.

ISBN 978-88-6966-058-0


Mark Goldblatt

FESSO Traduzione di Francesca Capelli



Ai ragazzi della Trentaquattresima Strada: Eddy, Larry, Ricky, Joey, David e Sheldon.*

*Non cercate di capire chi è chi. Non ci riuscireste.



Julian Twerski

11 gennaio 1969

I piccioni del Ponzini

Mr. Selkirk, il mio insegnante di lettere, dice che devo scrivere qualcosa – qualcosa di lungo – su ciò che è successo durante le vacanze invernali, anche se – secondo me – non servirà a molto. Io non volevo mica che Danley si facesse male e non credo nemmeno di avere un uno per cento di colpa, figuriamoci di più, anche se non posso negare di essere stato presente. Quindi immagino di essermi meritato la sospensione come tutti gli altri. Voglio dire, magari avrei potuto impedirlo. Magari. Ma ora la sospensione è finita e Selkirk dice che devo scrivere qualcosa – e siccome lo dice lui, allora lo dice pure mio padre – be’, non ho alternative. So benissimo perché. Selkirk pensa che se scrivo cos’è successo, capirò cos’è successo. Che non ha senso, se uno ci pensa un attimo, perché se davvero non l’ho capito, cos’è successo, figuriamoci se riesco a scriverci su. Oltretutto, ne ho combinate di peggio. Molto peggio. E non ci ho scritto su nemmeno una parola. E il fatto che non abbia scritto nemmeno una parola non ha avuto conse1


guenze, né buone né cattive, quindi scrivere o non scrivere non proverà nulla. Mi conosco abbastanza bene, se proprio devo dirlo. In confronto alla maggioranza dei dodicenni, ecco. Non che sia già un uomo fatto e finito. So di avere ancora molta strada da fare. Frequentare la sesta non è l’ultima tappa. Mio padre dice che se pensa a quand’era bambino, non sa se ridere o se piangere. So che un giorno ci sarà un Julian Twerski che guarderà il passato nella stessa maniera e magari scuoterà la testa. (Quest’ultima frase dovrebbe piacerle, prof.) Ma se guardo al passato adesso, dico solo che ciò che è successo con Danley Dimmel non è la cosa peggiore che io abbia fatto. Vi faccio un esempio perfetto: l’anno scorso, Lonnie e io eravamo al Ponzini, a far niente a parte chiacchierare. A proposito, Lonnie è il mio migliore amico, definizione che non rende l’idea di quanto siamo legati. Secondo mio padre, se Lonnie mi dicesse di fare un salto, io gli chiederei: «Da che altezza?». Fa il sarcastico, mio padre, ma da un certo punto di vista ha ragione. Perché una cosa è certa: Lonnie non mi direbbe mai di saltare se non avesse un buon motivo per farlo. Quindi, è vero che gli chiederei «Da che altezza?» come lui lo chiederebbe a me, se fossi io a dirgli di saltare. Conosco Lonnie da quando avevo due anni e lui tre e mi darebbe una botta in testa se scrivessi di alcune delle cose che sono successe tra noi, ma sono sicuro che non ci saranno problemi se racconto la storia dell’uccello. Ah, dimenticavo! Ponzini è il nome che abbiamo dato allo spiazzo dietro al vecchio condominio di Parsons Boulevard, dove vive Victor Ponzini. Perché abbiamo cominciato a chia2


marlo così è tutta un’altra storia, che non ha alcuna rilevanza con quella dell’uccello. Basta sapere che Lonnie è stato il primo a chiamarlo così e la cosa si è diffusa tra noi. Il nome funziona. Quel posto ha proprio l’aspetto di un Ponzini. Se volete sapere com’è fatto, immaginatevi uno strato marrone sporco su uno strato di cemento grigio delle dimensioni, più o meno, di un campo di basket. Qua e là ci cresce qualche ciuffo d’erba, tutto intorno ci sono vetri rotti e una mezza dozzina di carcasse arrugginite di auto che un tempo erano parcheggiate nel garage sotterraneo, ma che poi sono state portate fuori e lasciate sul retro quando i loro proprietari sono spariti. Ci sono ratti – manco a dirlo – ma escono solo di notte. In altre parole, è disgustoso e inutile, un po’ come Victor Ponzini che una volta ha fatto la spia sul fatto che Lonnie bigiasse. Voglio dire, che gliene frega a lui? Il tipo fa la quinta e non è nient’altro che una palla di grasso, ma almeno lo sa, e forse questa è l’unica qualità che gli riconosco. Comunque, Lonnie e io eravamo lì, in fondo al Ponzini, a fare quattro chiacchiere per passare il tempo, quando io mi accorgo che una dozzina di piccioni si sono posati tra due dei rottami arrugginiti. Faccio un cenno con la testa a Lonnie, in direzione dei piccioni, lui si gira a guardare e allora io chiedo: «Che cosa ne facciamo?». Non avevo ancora finito di parlare, che un altro gruppetto di piccioni era a terra. Era una scena assurda che sembrava uscita da quel film di Hitchcock dove un milione di uccelli si riuniscono e senza nessuna ragione attaccano una piccola città. Non c’era ragione nemmeno per materializzarsi al Ponzi3


ni, peraltro. Cibo non ce n’era. Voglio dire, avrebbe avuto un senso se qualcuno avesse sparso delle briciole di pane. Ma non c’era niente di niente. Era come se un piccione si fosse messo in testa che in fondo al Ponzini avrebbe trovato un buon posto per riposarsi un minuto e tutto lo stormo l’avesse seguito. Lonnie e io stavamo lì a guardare. Nel giro di un minuto centinaia di piccioni si erano stipati tra i due rottami e l’aria si era riempita del loro tubare. Dondolavano le teste su e giù, avanti e indietro e si guardavano tra loro. Sembrava un carnevale degli uccelli. Mai vista una roba simile. Fu allora che Lonnie si girò verso di me e mi disse: «Tira un sasso». Io lo fissai. Non aveva senso. «Che cosa vuoi dire?» «Di tirare un sasso» mi rispose lui. «Perché mai dovrei tirare un sasso?» Lonnie fece un risatina: «Forza, Julian, tira ’sto sasso». «Io non tiro nessun sasso. Tiralo tu.» «Non vuoi vederli prendere il volo tutti insieme?» «Potrei colpirne uno» dissi. «Non ne colpirai nessuno.» «E che ne sai?» «Se anche fosse? Sono piccioni. Fanno schifo.» «Be’, io non tiro un sasso…» «Dai» insistette Lonnie. «Sarà un esperimento scientifico.» «Che vuoi dire?» chiesi. «Tu sei convinto di colpirne uno. Io no. È come se tu avessi la tua ipotesi, io avessi la mia ipotesi e facessimo un esperimento scientifico per vedere chi di noi due ha ragione.» 4


«Tu vuoi solo vederli volare tutti insieme.» «Non lo nego» disse Lonnie. «Sto solo dicendo che la cosa ha anche un lato scientifico.» «E perché non lo fai tu, allora?» «Primo, perché tu hai più forza nelle braccia, quindi riusciresti a tirare il sasso più in alto e daresti ai piccioni il tempo di volare via. Secondo, perché l’idea è stata mia e voglio vederli volare tutti insieme. Il cielo si riempirà di piccioni e io voglio godermi la scena dall’inizio alla fine.» «Però secondo te non ne colpirò nemmeno uno?» «No, nel modo più assoluto» disse Lonnie. «È come la sopravvivenza del più forte. Usa la testa, Julian. Pensi che un piccione resisterebbe anche solo una settimana da queste parti, se non riuscisse a scansare una pietra?» E qui mi lasciai convincere. Ho visto centinaia di piccioni morti. Piccioni investiti dalle auto. Piccioni catturati e mangiati da cani e gatti. Piccioni fulminati dai tralicci elettrici. Piccioni congelati che cadono dai rami sul marciapiede coperto di ghiaccio. Ma nessuno di loro, a quanto ne so, è mai stato colpito in testa da un sasso. Mi chinai e raccolsi una pietra. Era grigia, con striature nere tutto intorno, grande più o meno come una Reese’s Cup, ma con più protuberanze e molto più pesante. Quando me la sentii in mano quasi ci ripensai. Sapevo che se avesse colpito un uccello lo avrebbe ferito seriamente. Ma poi mi dissi che Lonnie aveva ragione, che i piccioni avrebbero visto arrivare il sasso, avrebbero spiccato il volo tutti insieme e sarebbe stato bello vederli. Così lo feci. Tirai il sasso. 5


Sapevo che era stupido, ma lo feci. E ripensandoci ora, ha ragione mio padre con il suo discorso su Lonnie che mi dice di saltare. Solo che ormai eravamo arrivati al punto che io volevo tirare il sasso, anche se sapevo che era stupido, perché volevo vedere cosa sarebbe successo. Per sentirmi più tranquillo, un secondo prima di tirare, urlai: «Attenzione, uccelli!» a voce altissima e poi lanciai il sasso, il più alto possibile, e il cielo si era già riempito di piccioni. La pietra non aveva ancora raggiunto il punto più alto della sua traiettoria che quelli avevano preso il volo, a ondate successive. Ce n’erano così tanti nell’aria che era quasi impossibile seguire il percorso ascendente del sasso, perché a quel punto non era nient’altro che una cosa grigia e nera in una massa di cose grigie e nere. Però fu possibile seguirne la discesa. Era l’unica cosa che andava verso il basso e solo allora mi resi conto che molti uccelli erano ancora a terra quando il sasso piombò giù. Erano ammassati, non c’era abbastanza spazio nell’aria perché i ritardatari potessero spiccare il volo e non ce n’era a terra perché potessero spostarsi. Tra il momento in cui lo capii e quello in cui la pietra colpì, passò un secondo, ma un secondo di quelli lunghi. La mia mente correva già in avanti e io aprivo e chiudevo le dita della mano destra, come per afferrare l’aria, come per far tornare indietro il sasso e annullare la mia stupidità per averlo tirato. Intanto speravo – anzi, pregavo – che la pietra colpisse solo il suolo, così sarebbe andato tutto bene. Ma quando la roccia atterrò – e il suono non fu un clack secco ma un soffice puff – capii di aver colpito un uccello. Mi fu impossibile dire quale ancora per qualche secondo. 6


Giusto il tempo necessario agli altri per sparpagliarsi e decollare, dopodiché uno solo rimase a terra, agitando le ali come un pazzo, con l’unico risultato di camminare in cerchio e sollevare una nube di polvere. «Santo…!» esclamò Lonnie. «Oh, no! Dio mio… Avevi detto che si sarebbero tolti di mezzo!» «Era solo la mia ipotesi.» Mi precipitai a controllare come stava il piccione. Girava su se stesso senza andare da nessuna parte. Non sanguinava, almeno per quello che potevo vedere. Ero sicuro che la pietra l’avesse squarciato o gli avesse spaccato la testa. Invece tutto sommato sembrava a posto, a parte quello strano modo di battere le ali. Forse aveva solo bisogno di calmarsi un minuto e accorgersi che non era ferito gravemente. «Dai» mi chiamò Lonnie con un urlo sussurrato. «Togliamoci di qui.» «No, aspetta!» «Scappiamo, Julian. Ormai quel che è fatto è fatto.» «No!» Lonnie si avvicinò ed entrambi rimanemmo a guardare per circa un minuto il piccione che nel frattempo si era stancato. Dopo aver girato su se stesso battendo le ali, si era messo a saltellare di qua e di là, avanti e indietro, per poi fermarsi e limitarsi a dondolare la testa. Infine, nemmeno quello. Restò immobile, accovacciato per terra. «Vedi?» fece Lonnie. «Starà benone.» Mi avvicinai di un passo al piccione. Questi si alzò, si spostò di due passetti, poi si accovacciò di nuovo. Io feci 7


un altro passo, e così il piccione. «Mi sa che non riesce a volare» dissi. «Ma certo che ci riesce. Guarda…» Lonnie mi superò e fece il gesto di buttarsi sul piccione. Questi fece un frullo d’ali ma si spostò solo di quindici centimetri. Allora Lonnie batté un piede a terra e questa volta il piccione nemmeno si mosse, a parte girare la testa dall’altra parte, come se non gli interessasse sapere cosa sarebbe accaduto dopo. «Questo piccione è andato» disse Lonnie. «Che cosa facciamo?» Lonnie alzò le spalle: «Direi che è il caso di filarcela...». «No, il primo gatto che passa se lo mangia.» «Allora c’è rimasta solo una cosa da fare.» «Cosa?» «Porre fine alle sue sofferenze.» «Ucciderlo?» «Se sta per morire, non c’è alternativa.» «Ma non sappiamo se sta per morire.» «E allora andiamocene da qua!» «Ma…» «Julian, delle due l’una.» Lonnie si avvicinò al piccione e raccolse il sasso, quello che avevo tirato io, che ormai era distante una trentina di centimetri dall’uccello. E io chiusi gli occhi, strettissimi. Non volevo vedere. Poi, un attimo dopo, sentii che mi metteva la pietra nella mano destra. Aprii di nuovo gli occhi e la vidi. «Oh, no…» «Devi farlo tu, Julian.» 8


«Perché io?» «Perché sei stato tu a tirarla.» «Ma l’idea è stata tua.» «Però io non l’ho tirata.» «Ma l’idea è stata tua!» «Però io non l’ho tirata!» «Piantala, Lonnie…» «Guarda, possiamo continuare per l’eternità. Quindi te lo dico chiaro e tondo: io non ucciderò questo uccello. O lo fai tu, o lo lasciamo qui a morire per conto suo. Ci sono solo queste due possibilità, okay?» Dite quello che volete su Lonnie, ma un fatto è innegabile: è uno che parla chiaro. Non volevo che il piccione morisse dopo una lunga e penosa agonia, ma sarebbe andata a finire così se non avessi fatto ciò che era necessario. Era come se Lonnie avesse sollevato il braccio del giradischi e spostato la puntina alla fine della canzone. Sapevamo entrambi cosa dovevo fare. Solo che eravamo arrivati a questa conclusione senza girarci troppo intorno. Così mi avvicinai all’uccello fino a trovarmi in perpendicolare su di lui – non volevo correre il rischio di mancarlo o colpirlo di nuovo sull’ala e provocargli un’ulteriore sofferenza. Dovevo mirare alla testa. Come un killer. Pensai di inginocchiarmi accanto a lui, ma in quel modo non avrei avuto abbastanza spinta. Decisi di stare in piedi, posizionandomi con i piedi ai lati del piccione, per lasciare cadere il sasso in verticale. Alzai il braccio ma, un decimo di secondo prima di scagliare la pietra, mi resi conto di avere chiuso gli occhi. Per 9


poco non tiravo alla cieca, l’ultima cosa che avrei voluto! Così mi scrollai, alzai di nuovo il braccio… E di nuovo sentii che avevo chiuso gli occhi. “Dai!” mi dissi. Alzai il braccio per la terza volta e per la terza volta chiusi gli occhi. «Che problema c’è, adesso?» chiese Lonnie. Feci un respiro profondo: «Non va bene». «Uccidilo. Punto.» «Mi viene da chiudere gli occhi.» «Bene, e tu non chiuderli.» «Chissà perché non ci ho pensato da solo» dissi. «Non c’è nessun bisogno di fare il sarcastico.» «Voglio solo piantarla qui.» «C’è solo un modo giusto per farlo.» Lonnie iniziò a guardarsi intorno, come fa ogni volta che sta pensando intensamente, e in quel momento seppi – non capii, proprio seppi – che se ne sarebbe venuto fuori con una nuova idea. E infatti l’idea arrivò nel giro di dieci secondi. Lonnie corse in fondo al Ponzini e sparì dietro la carcassa di un’auto. Pochi secondi dopo, riapparve barcollando. Reggeva un blocco di cemento grigio. «Guarda che non è vietato aiutare!» mi gridò. Corsi da lui e iniziammo a spostare il blocco verso il piccione. Il cemento pesava una tonnellata. A ogni passo mi sentivo sempre peggio, pensando a quello che stavamo per fare, al piccione indifeso, al dolore che gli avevo provocato e a quello che ancora doveva arrivare. Voglio dire, magari anche solo per un centesimo di secondo, il piccione avrebbe sentito che il blocco lo stava schiacciando. Ma almeno sarebbe finito tutto in fretta. 10


Eravamo ormai a tre passi dall’uccello, quando Lonnie si fermò e disse: «Ci pensi tu adesso?». Ansimavo: «In che senso?». «È un lavoro per un uomo solo.» «Lonnie!» «Julian, devi farlo.» «E perché non possiamo farlo insieme?» «Perché se non lasciamo andare il blocco esattamente nello stesso istante, potrebbe cadere di traverso e mancare l’uccello.» Scrollai il capo: «Mi stai dicendo che non lo vuoi fare, vero?». Scoppiò a ridere, malgrado la situazione. Rideva e annuiva. Io inspirai ed espirai a fondo. «Okay, da qui in poi ci penso io.» Lonnie mollò il blocco di cemento e io ne percepii il peso intero per la prima volta. Dovevo stringerlo forte per non lasciarlo andare lì dov’ero. Mi sembrava che volesse sfuggirmi dalle mani e cadere per terra, come per tornare al suo posto, dal quale io l’avevo allontanato. Abbracciando il blocco grigio, arrancai per gli ultimi tre passi e poi scavalcai il piccione, in modo da trovarmi esattamente in verticale rispetto alla sua testa. Dissi una preghiera – non ad alta voce, solo tra me – e chiesi a Dio di avere pietà di lui e di avere pietà di me per ciò che stavo per fare. Guardai in basso per l’ultima volta e il piccione mi guardò e basta, senza fare nessun’altra mossa. Ma proprio non potevo farlo. 11


Indietreggiai e lasciai andare il blocco a trenta centimetri dal piccione, che nemmeno sobbalzò per il tonfo, il tipico tonfo del cemento sul cemento. Guardai Lonnie. Aveva le mani sui fianchi e scuoteva la testa. «E adesso che c’è?» chiese. Fu allora che mi venne l’idea. «Me lo porto a casa.» Strabuzzò gli occhi. «Non puoi portarti a casa quella cosa.» «Mi occuperò di lui finché non guarisce.» «Tua madre darà di matto. I piccioni sono uccelli schifosi.» Non aveva tutti i torti, ma ormai io ero deciso. Mi inginocchiai vicino al piccione e infilai la mano destra sotto il suo corpo. Non gradì, mi diede una beccata energica e si scostò. Gli andai dietro. Sapevo che più lo inseguivo, peggio era. Così lo afferrai a due mani, prima che potesse muoversi di nuovo. Per un paio di secondi non accadde nulla. Lo tenevo e non sembrava infastidito. Poi riprese a beccarmi a più non posso. Le dita. I palmi. I polsi. Non mollavo. Sentivo che era furioso. Era una palla di rabbia, dotata di ali battenti e becco acuminato. Alla fine, per essere sicuro di non lasciarlo andare, lo strinsi al petto e lo avvolsi nella maglietta. Servì a calmarlo. Sentivo il suo cuore che batteva contro il mio e lanciai un’occhiata a Lonnie che aveva alzato gli occhi al cielo come se fossi diventato matto. E forse aveva pure ragione, ma ero deciso a fare la cosa giusta e curare quel piccione. Lonnie mi diede un colpetto sulla schiena come per augurarmi buona fortuna, poi si avviò verso casa, scuotendo la testa. 12


Potete immaginarvi l’espressione di mia madre quando entrai con il piccione. Io avevo iniziato a immaginarla mentre salivo i due piani di scale dopo la porta dei Dong. I Dong sono una coppia di vecchi cinesi, proprietari della palazzina a due piani dove vivo. Ci hanno affittato il secondo piano. Sono buoni vicini, silenziosi al massimo, se non fosse che Mrs. Dong cucina i piatti più puzzolenti a cui un naso umano sia mai stato sottoposto. Il sapore non è male – almeno a quanto dice mia sorella Amelia, che ha cinque anni più di me. Io non mi ci avvicinerei mai. Ma Amelia una volta ha mangiato con loro ravioli al vapore e spaghetti di riso ed è sopravvissuta per poterlo raccontare. Ciononostante, quando il fornello di Mrs. Dong è in funzione, il mio consiglio è di trattenere il respiro e salire di corsa le scale. Ero stato fortunato, perché Mrs. Dong non stava cucinando quando rientrai con il piccione. Ma temevo lo sguardo di mia mamma. Era in cucina, mi sentì entrare e mi accolse con la frase di sempre: «La cena è quasi pronta, lavati le mani». Avrei potuto infilarmi direttamente in camera mia. Ma per togliermi il pensiero entrai in cucina e le dissi cosa tenevo avvolto nella maglietta. Fu allora che arrivò lo sguardo. Strinse gli occhi fino a ridurli a due fessure e sulla sua faccia piombò un’espressione di stanchezza e afflizione, tipo: “Oh, mio Dio!”. Ma quando iniziai a raccontarle cos’era successo, si ammorbidì. Diede un’occhiata veloce al piccione e mi chiese se ero sicuro che non riuscisse a volare. Le risposi che sì, ero sicuro e allora lei annuì, andò a frugare nel ripostiglio e tornò con una valigia di tela piuttosto malconcia. Non la 13


usava da anni. Mi disse che potevo tenerci il piccione finché non fosse guarito e poi l’avremmo buttata. «L’unica cosa, fa in modo che questo uccello non si metta a svolazzare per casa» mi disse, poi tornò in cucina. A volte, ti prepari a una tempesta e ti ritrovi con una brezza delicata. La tempesta, invece, arriva quando non ti sei preparato a niente. Chiamai Amelia, che era nella sua stanza, in fondo all’appartamento. Ero certo che mi avrebbe dato una mano, perché ama gli animali. Magari non sarebbe stata particolarmente interessata ad aiutare me, ma il piccione sì. Ci avevo azzeccato. Trascinò la valigia nella mia stanza, poi andò a prendere alcuni vecchi giornali che mio padre aveva accumulato vicino al divano. Stracciò la carta e ci tappezzò l’interno della valigia così il piccione sarebbe stato a contatto con una superficie morbida come le sue piume. Allora aprii la maglietta e il piccione saltò giù e ci mise un po’ per riprendersi – come chiunque, peraltro, fosse stato prima colpito da un sasso e poi arrotolato in una maglietta. Ma un minuto dopo iniziò a guardarsi intorno e sembrò rendersi conto che era tutto okay. Malgrado non sapessi se era un lui o una lei, decisi di chiamarlo George Sauer in onore del mio giocatore di football preferito, lo split end dei New York Jets. Amelia non era d’accordo. «Se gli dai un nome, poi ti ci affezioni» disse. «E non vorrai più lasciarlo libero.» Le risposi che si sbagliava. L’avrei tenuto solo per il tempo necessario a guarire. Punto. «Quando sarà in grado di volare di nuovo, uscirà dalla finestra.» Naturalmente aveva ragione su tutta la linea. Non avrei 14


mai dovuto dargli un nome. Non avrei mai dovuto cominciare a considerarlo una persona. Un uccello senza nome resta un uccello, mentre con nome e cognome diventa altro. Voglio dire che nel momento stesso in cui chiamai il piccione George Sauer, mi resi conto che il nome gli stava a pennello e che la forma della sua testa ricordava quella di un casco da football. Avrete già capito come andò a finire, quindi non starò a farla lunga. George Sauer non uscì mai dalla sua valigia. Cominciai a dargli da mangiare briciole di pane, ma dopo poco smise di mangiarle e allora andai a comprargli cibo per uccelli, ma rifiutava anche quello. Non si reggeva in piedi. Mi tenne sveglio per due notti con il suo prrriiilllrrrp, ma la terza mattina era già messo male. Lo capii dal fatto che quando allungai la mano nella valigia non si prese nemmeno la briga di beccarmi. Lo presi e lo tenni stretto per un minuto. Lo guardavo negli occhi, come se potesse perdonarmi per quello che gli avevo fatto. Ma non ho sentito niente. Niente di niente. Solo un’occhiata, che sembrava dire: “Sono un piccione, per la miseria. Non faccio cose tipo perdonare la gente!”. Quando George Sauer morì, quello stesso pomeriggio, piansi tutte le mie lacrime.

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“A volte, ti prepari a una tempesta e ti ritrovi con una brezza delicata. La tempesta, invece, arriva quando non ti sei preparato a niente.”

Io non volevo mica che Danley si facesse male . . . Julian Twerski non è un bullo. Ha solo commesso un grosso errore. Per questo, quando torna a scuola dopo una settimana di sospensione, il suo prof di lettere gli fa una proposta: se terrà un diario e racconterà del terribile “incidente” a causa del quale lui e i suoi compagni sono stati puniti, potrà in cambio evitare di scrivere una relazione sul Giulio Cesare di Shakespeare. Julian detesta Shakespeare, e non si lascia sfuggire l’occasione. Inizia così l’accurato resoconto sulla sua vita quotidiana, tra i fuochi d’artificio fatti in casa, le imprevedibili conseguenze di una lettera d’amore scritta per fare un favore a un amico, e la preoccupazione di non essere il più veloce corridore della scuola pubblica 23. Ma fra le righe di ogni racconto resta in sospeso l’unica storia che il suo prof vorrebbe sentir raccontare. Ispirato all’infanzia dell’autore nella New York degli anni Sessanta, Fesso è un libro pieno di umorismo e sentimenti, buoni e cattivi. È una storia forte, che farà ridere e piangere i lettori, insieme ai personaggi, decisamente scombinati, ma indimenticabili. Design sovraccoperta Laurent Linn

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