Five nights

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Scott Cawthon e Kira Breed-Wrisley Five Nights at Freddy’s - The Silver Eyes Traduzione di Maria Bastanzetti © 2017 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Copyright © 2016 Scott Cawthon. All rights reserved. Published by arrangement with Scholastic Inc., 557 Broadway, New York, NY 10012, USA. Photo of TV static: © Klikk/Dreamstime

ISBN 978-88-6966-179-2


scott cawthon - kira breed-wrisley

Traduzione di Maria Bastanzetti





Capitolo uno

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i vede. Charlie si buttò carponi. Era in sala giochi, rannicchiata nello spazio angusto dietro una fila di videogame, tra il muro e le console, con un groviglio di cavi elettrici e spine inutilizzate sotto i piedi. Era in trappola. L’unico modo per uscire da lì era passare davanti alla cosa, e lei non era abbastanza veloce per farcela. Lo vedeva andare avanti e indietro, coglieva guizzi dei suoi movimenti nelle fessure tra un gioco e l’altro. Lo spazio era pochissimo, ma Charlie tentò di arretrare il più possibile. Le si impigliò un piede in un cavo. Si fermò e si contorse per liberarlo senza fare rumore. Sentì un frastuono di metallo contro metallo e vide il videogioco più lontano dondolare verso la parete. Con il secondo colpo lui sfondò il monitor, poi passò oltre, scagliandosi sui dispositivi uno dopo l’altro, quasi ritmicamente, fracassando tutto e facendosi sempre più vicino. 1


Devo uscire da qui, devo! Quel pensiero dettato dal panico era inutile: non c’era via d’uscita. Le faceva male il braccio e aveva una gran voglia di singhiozzare forte. Il sangue aveva già impregnato la fasciatura sbrindellata e lei aveva la sensazione di sentirlo sgorgare dal corpo. Un altro videogame fu sbattuto contro il muro e Charlie sobbalzò. Si stava avvicinando. Sentiva il cigolio degli ingranaggi e, ancora più forte, il ticchettio delle parti a comando elettronico. Se chiudeva gli occhi riusciva ancora a vedere il modo in cui l’aveva guardata, e la pelliccia opaca, con il metallo esposto sotto i tessuti sintetici. All’improvviso il videogioco che la nascondeva fu scaraventato via e finì capovolto sul pavimento, come un giocattolo abbandonato. I cavi di alimentazione che aveva sotto le mani e sotto le ginocchia furono strappati di colpo e Charlie perse l’equilibrio, rischiando di finire a terra. Riuscì a evitarlo e alzò lo sguardo giusto in tempo per vedere il movimento fulmineo di un uncino che si abbassava…

benvenuti a hurricane, utah. Charlie rivolse un sorrisetto ironico al cartello e continuò a guidare. Il mondo non sembrava minimamente diverso dall’altra parte, ma nel superarlo lei provò un senso di attesa e agitazione. Non riconosceva niente. Ma in realtà non se l’era neppure aspettato, non lì, ai margini della città, dove non c’erano che autostrada e spazi aperti. Si domandò che aspetto avessero gli altri, chi fossero diventati. Dieci anni prima erano un gruppo di amici per la 2


pelle. Poi era successo, e tutto era finito, almeno per lei. Non aveva più visto nessuno di loro, e all’epoca aveva sette anni. Si erano scritti spessissimo, da ragazzini, soprattutto con Marla, che scriveva come parlava: troppo in fretta e senza coerenza. Ma crescendo si erano allontanati, le lettere si erano diradate sempre di più e le conversazioni che avevano portato a quel viaggio erano state svogliate e piene di pause imbarazzate. Charlie ripeté fra sé i loro nomi, come per confermarsi di ricordarli ancora: Marla, Jessica, Lamar, Carlton, John. E Michael… Michael era il motivo di quel viaggio, in fondo. Erano passati dieci anni dalla sua morte, dieci anni da quando quello era successo, e ora i suoi genitori volevano riunirli tutti per la cerimonia. Volevano che tutti i suoi amici fossero presenti quando avrebbero annunciato la borsa di studio in sua memoria. Charlie sapeva che era una bella cosa, eppure quella riunione le sembrava comunque un tantino macabra. Rabbrividì e abbassò l’aria condizionata, anche se sapeva che non era colpa del freddo. Quando raggiunse il centro, Charlie cominciò a riconoscere vari posti: alcuni negozi e il cinema, con la locandina del film dell’estate. Per un attimo rimase sbalordita, poi sorrise fra sé. Cosa ti aspettavi, che non fosse cambiato niente? Che fosse rimasto tutto identico al luglio 1985, in ricordo del momento della tua partenza? Be’, sì, era esattamente questo che si aspettava. Guardò l’orologio. Aveva ancora un po’ di tempo libero prima dell’appuntamento con gli altri. Pensò di andare al cinema, ma sapeva cosa voleva fare davvero. Svoltò a sinistra e si diresse fuori città. 3


Dieci minuti dopo, accostò e scese dall’auto. La casa si stagliava davanti a lei, la sagoma nera una ferita nel cielo turchese. Charlie si appoggiò alla macchina, colta da un leggero capogiro. Fece qualche respiro profondo e si concesse un momento per riprendersi. Sapeva benissimo che era ancora lì. Un’occhiata di nascosto fra i documenti bancari di sua zia, qualche anno prima, le aveva detto che il mutuo era stato estinto e che zia Jen aveva continuato a pagare le tasse di proprietà. Erano passati soltanto dieci anni, non c’era ragione per cui dovesse essere cambiato qualcosa. Charlie salì lentamente i gradini, notando la vernice che si scrostava. Il terzo scalino aveva ancora un’asse sconnessa e le rose rampicanti avevano preso possesso di un lato della veranda, le spine che mordevano fameliche il legno. La porta era chiusa, ma Charlie aveva ancora la sua chiave. In realtà non l’aveva mai usata. Mentre si sfilava la catenina e inseriva la chiave nella serratura, le tornò in mente quando suo padre gliel’aveva messa intorno al collo. In caso dovesse servirti. Ecco, ora le serviva. La porta si aprì facilmente e Charlie si guardò intorno. Non aveva grandi ricordi dei primi due anni trascorsi lì. Aveva solo tre anni quando vi si erano trasferiti, e ogni memoria si era mescolata al dolore e al senso di perdita della bambina che era, che non capiva perché la sua mamma fosse dovuta andar via e si aggrappava al padre in ogni momento, non si fidava più di nessuno se non c’era lui, se non gli stava saldamente attaccata, sprofondando nelle sue camicie di flanella e nell’odore di grasso, di metallo caldo e di papà che si portava addosso. 4


Le scale erano proprio lì, davanti a lei, ma non salì direttamente. Andò in soggiorno, dove tutto il mobilio era ancora al suo posto. Da bambina non ci aveva dato tanto peso, ma quella casa era un po’ troppo grande per i loro mobili. Il tavolino era troppo lontano dal divano per poterci appoggiare i piedi, la poltroncina troppo distante per poter condurre una conversazione da una parte all’altra della stanza. Più o meno al centro del locale c’era una macchia scura sul legno del pavimento. Charlie la aggirò rapidamente ed entrò in cucina, dove i pensili contenevano solo poche pentole e stoviglie. Da bambina Charlie non aveva mai sentito la mancanza di niente, ma in quel momento aveva l’impressione che l’inutile ampiezza di quella casa fosse un tentativo di scusarsi da parte di un uomo che aveva perso moltissimo e voleva dare alla figlia tutto il possibile. Suo padre aveva sempre avuto una certa tendenza all’esagerazione in qualunque cosa facesse. L’ultima volta che era stata lì era buio e andava tutto male. Era stata portata al piano di sopra in braccio, benché avesse sette anni e fosse perfettamente in grado di camminare. Ma zia Jen l’aveva aspettata nella veranda davanti a casa, l’aveva presa tra le braccia e l’aveva portata su coprendole gli occhi con la mano, come se fosse una neonata in pieno sole. Una volta in camera, la zia l’aveva rimessa giù e si era chiusa la porta alle spalle. Le aveva detto di fare la valigia e Charlie aveva pianto, perché lì dentro non ci sarebbero mai entrate tutte le sue cose. «Verremo a recuperare il resto più tardi», le aveva detto la zia, chiaramente impaziente, mentre Charlie temporeggiava 5


davanti al cassetto aperto, cercando di decidere quali magliette portare con sé. Non erano più tornate a prendere il resto delle sue cose. Charlie salì le scale, diretta alla sua vecchia camera. La porta era socchiusa e aprendola lei ebbe un frastornante senso di dislocazione, come se la bambina di un tempo potesse essere lì, seduta per terra in mezzo ai giocattoli, pronta ad alzare lo sguardo e a chiederle: Chi sei tu? Charlie entrò. Come il resto della casa, la camera era rimasta intatta. Le pareti erano rosa pallido e il soffitto, che da una parte era inclinato perché seguiva la linea del tetto, riprendeva lo stesso colore. Il suo vecchio letto era ancora contro la parete sotto la grande finestra. C’era anche il materasso, ma mancavano le lenzuola. La finestra era socchiusa e le tendine di pizzo, ormai ridotte a brandelli, fluttuavano nella brezza gentile che filtrava da fuori. A tradire il fatto che la casa fosse abbandonata, c’era una macchia di umido sulla parete sotto la finestra, causata dalle intemperie che negli anni avevano infierito. Charlie salì sul letto e chiuse i vetri. La finestra ubbidì alla richiesta con uno scricchiolio, e la ragazza tornò con i piedi a terra e rivolse la propria attenzione al resto della stanza e alle creazioni del padre. Quando avevano traslocato in quella casa, la prima notte Charlie aveva avuto paura a dormire da sola. Lei non si ricordava di quella notte, ma suo padre gliel’aveva raccontata spesso, e a poco a poco la storia era diventata memoria. Si era messa seduta sul letto e aveva pianto finché il papà non 6


era andato da lei, l’aveva presa in braccio, l’aveva stretta a sé e le aveva promesso che non sarebbe mai più stata sola, che ci avrebbe pensato lui. Il mattino dopo l’aveva presa per mano e l’aveva portata con sé al garage, dove si era messo al lavoro, mantenendo così la promessa. La prima delle sue invenzioni era stato un coniglio viola, ormai diventato grigio dopo tutti quegli anni passati al sole. Il papà l’aveva chiamato Theodore. Aveva le dimensioni di un bambino di tre anni – quindi era grande come lei all’epoca – e aveva una morbida pelliccia di peluche, occhi luminosi e un’elegante cravatta rossa. Non faceva grandi cose, salutava con la mano, piegava la testa di lato e diceva con la voce di suo padre: «Ti voglio bene, Charlie». Ma a lei bastava, perché sentiva di avere un amico notturno a tenerle compagnia quando non riusciva a dormire. Ora Theodore se ne stava seduto su una sedia di vimini bianca in un angolo della stanza. Charlie gli fece ciao con la mano, ma lui, immobile, non rispose al saluto. Dopo Theodore, i giocattoli si erano fatti più complicati. Alcuni funzionavano e altri no. Alcuni sembravano avere dei difetti di costruzione, mentre altri semplicemente non piacevano all’immaginazione infantile di Charlie. Sapeva che suo padre quelli li riportava in officina e ne riciclava i pezzi, anche se non le piaceva assistere allo smantellamento. Ma quelli che aveva tenuto, quelli che aveva amato, erano ancora tutti lì, e la guardavano pieni d’aspettativa. Con un sorriso, Charlie spinse un bottone sotto il suo letto. Il pulsante si mosse a fatica, ma non accadde nulla. Riprovò, tenendolo premuto più a lungo, e stavolta, dall’altra parte della 7


camera e con un debole cigolio metallico, l’unicorno cominciò a muoversi. Stanley (Charlie l’aveva chiamato così per una qualche misteriosa ragione che ormai non ricordava più) era fatto di metallo ed era dipinto di un bel bianco lucido. Fece il giro della camera su un binario circolare, dondolando rigidamente la testa su e giù. Il binario stridette quando l’unicorno Stanley fece l’ultima curva e andò a fermarsi accanto al letto. Charlie si inginocchiò accanto a lui e gli carezzò il fianco. La vernice bianca era graffiata e scrostata, e la faccia era piena di ruggine. Ma gli occhi erano vivaci, e guardavano ancora attenti nonostante il deterioramento. «Tu hai bisogno di una bella pitturata, caro Stanley», disse Charlie, ma l’unicorno continuò a guardare fisso davanti a sé senza reagire. Ai piedi del letto c’era una ruota fatta con piastre di metallo saldate. Charlie aveva sempre pensato che potesse appartenere a un sottomarino. La fece girare. La ruota fece resistenza per un attimo, poi cedette, girò come aveva sempre fatto e dalla parte opposta della stanza si aprì la piccolissima anta di un armadio a muro. Ne uscì Ella, una bambola delle dimensioni di una bambina vera, che correva su un binario e portava piattino e tazza da tè come un’offerta. Il vestitino a scacchi di Ella era ancora inamidato e le scarpette in vernice erano lucide come una volta. Forse l’armadio l’aveva protetta dai danni dell’umidità. Charlie aveva un completino identico a quello della bambola, quando lei e Ella erano alte uguali. «Ciao, Ella», mormorò. La ruota cominciò a girare al con8


trario e la bambola tornò nel suo armadietto. Charlie la seguì. Gli armadi erano stati costruiti per seguire l’inclinazione del soffitto. Ella viveva in quello più piccolo, alto all’incirca un metro e venti. Quello centrale era più o meno un metro e mezzo e il terzo, il più vicino alla porta della camera, era alto come il resto della stanza. Charlie sorrise, ricordando. «Perché hai tre armadi?», le aveva chiesto John la prima volta che era stato a casa sua. Lei l’aveva guardato un po’ perplessa, confusa da quella domanda. «Perché ce ne sono tre», aveva risposto alla fine. Aveva indicato il più piccolo, un po’ sulla difensiva. «E comunque quello è di Ella», aveva aggiunto. John aveva annuito, soddisfatto. Charlie scosse la testa e aprì l’anta dell’armadio centrale… o almeno, ci provò. Il pomello si bloccò: era chiuso a chiave. Lo scosse due o tre volte, ma rinunciò senza grande convinzione. Rimase accovacciata sul pavimento e alzò lo sguardo verso l’armadio più alto, quello per la bambina grande che prima o poi sarebbe diventata. «Non ne avrai bisogno finché non sarai più grande», le diceva suo padre, ma quel giorno non era mai venuto. Ora l’anta era leggermente scostata, ma Charlie non la volle disturbare. Non si era aperta per lei, si era soltanto arresa al tempo. Fece per alzarsi e notò qualcosa di scintillante, seminascosto sotto il bordo dello sportello chiuso a chiave. Si chinò a raccoglierlo. Sembrava il frammento di un circuito stampato. Quell’oggetto le strappò un piccolo sorriso. Dadi, bulloni, rottami di ogni genere e parti di ricambio una volta si trovavano dappertutto, in quella casa. Suo padre ne aveva sempre 9


le tasche piene. Si spostava da una stanza all’altra con ciò a cui stava lavorando, lo appoggiava e si scordava dove l’aveva messo, o peggio, metteva qualcosa da parte per tenerlo “al sicuro”, e non lo rivedeva mai più. Su quel frammento c’era anche un suo capello. Lo svolse con cautela dalla sottilissima linguetta metallica intorno a cui si era impigliato. Solo a quel punto, come se avesse voluto rimandare il più possibile, Charlie attraversò la camera e prese Theodore. Il dorso del coniglio non si era sbiadito al sole come la parte anteriore del corpo, ed era ancora dello stesso viola intenso che lei ricordava. Premette il bottone alla base del collo, ma il coniglio rimase senza vita. La pelliccia era logora, un orecchio si era quasi staccato e pendeva da un unico filo molto consumato. Attraverso il foro si intravedeva la plastica verde del circuito. Trattenne il respiro, intimorita, in attesa di sentire qualcosa. «… i vo…o be… lie», disse il coniglio con un suono esitante, a malapena udibile. Charlie lo rimise giù, la faccia improvvisamente calda e il petto come chiuso in una morsa. Non si aspettava di risentire davvero la voce di suo padre. Ti voglio bene anch’io. Charlie si guardò intorno. Quando era bambina quello era stato il suo mondo magico e ne era molto gelosa. Solo pochi amici selezionati avevano avuto il permesso di entrarci. Si avvicinò al letto e fece muovere di nuovo Stanley sul suo binario. Poi lasciò la stanza, chiudendosi la porta alle spalle prima che il piccolo unicorno si fermasse. Uscì dalla porta di servizio, percorse il vialetto e si fermò di fronte al garage che era stato l’officina di suo padre. Semi10


sepolto nella ghiaia, qualche metro più in là, c’era un pezzo di metallo e Charlie andò a raccoglierlo. Aveva uno snodo al centro e lei lo tenne fra le mani, sorridendo appena mentre lo piegava avanti e indietro. Un giunto a snodo, ideale per un gomito, pensò. Chissà di chi doveva essere? Si era trovata mille altre volte in quel punto esatto. Chiuse gli occhi e i ricordi la travolsero. Era di nuovo una bambina, seduta sul pavimento dell’officina di papà a giocare con rottami di metallo e scarti di legno come se fossero mattoncini, e cercava di costruire una torre con tutti quei pezzi irregolari. Faceva caldo, là dentro, e lei era tutta sudata e lo sporco le si appiccicava alle gambe, visto che era in calzoncini corti. Riusciva quasi a sentire l’odore acre e metallico del saldatore in funzione. Suo padre era lì vicino, sempre in vista, che lavorava a Stanley. La faccia dell’unicorno non era stata ancora completata: un lato era bianco, lucido e amichevole, con uno scintillante occhio castano che sembrava quasi vivo. Il lato opposto, invece, era ancora aperto, con circuiti elettrici e parti metalliche in esposizione. Il padre di Charlie la guardò e le sorrise e lei ricambiò il sorriso, dolcissima. In un angolo buio alle spalle di suo padre, a malapena visibile, era appeso un groviglio di arti metallici, uno scheletro contorto dai brucianti occhi argentei. Di tanto in tanto mostrava una misteriosa contrazione convulsa. Charlie si sforzava di non guardarlo mai, ma mentre suo padre lavorava e lei giocava con quei giocattoli improvvisati, i suoi occhi passavano e ripassavano in quell’angolo, come attirati da una calamita. Gli arti contorti sembravano quasi beffardi nei loro spasmi, e quell’affare ricordava uno spettrale 11


giullare, ma allo stesso tempo qualcosa, in quel viluppo, suggeriva anche un insormontabile dolore. «Papà…?», disse Charlie, ma suo padre non alzò gli occhi dal proprio lavoro. «Papà?», ripeté lei, più pressante, e stavolta lui si girò a guardarla lentamente, come se non fosse davvero presente nel mondo. «Di cos’hai bisogno, tesoro?» Lei gli indicò lo scheletro di metallo. Gli fa male?, avrebbe voluto chiedergli, ma quando guardò suo padre negli occhi capì di non potergli fare quella domanda e scosse la testa. «No, di niente.» Lui le fece un cenno con il mento, un sorriso assente sulle labbra, e riprese a lavorare. Dietro di lui, l’essere ebbe l’ennesimo, orribile sobbalzo. Gli occhi continuavano a bruciare. Charlie rabbrividì e tornò di colpo al presente. Si guardò alle spalle, sentendosi indifesa. Abbassò gli occhi e notò qualcosa: tre solchi, distanti fra loro. Si inginocchiò pensierosa, e fece scorrere un dito su quello più vicino. La ghiaia era schizzata via e i segni erano profondamente incisi nel terreno. Un treppiedi per macchine fotografiche, forse? Quello era il primo dettaglio insolito che le saltava all’occhio. La porta dell’officina era appena socchiusa, invitante, ma lei non provò il desiderio di entrarci. Anzi, si diresse rapidamente alla macchina, ma si bloccò subito dopo essersi sistemata sul sedile di guida. Non aveva più le chiavi. Dovevano esserle cadute dalla tasca chissà dove, in casa. Tornò sui propri passi, dando solo una rapida occhiata in cucina e in soggiorno prima di salire nella sua stanza. Le chiavi 12


erano sulla sedia di vimini, accanto a Theodore, il coniglio. Le prese e le fece tintinnare per un momento. Non era ancora pronta a lasciarsi dietro quella cameretta. Si sedette sul letto. L’unicorno Stanley si era fermato lì accanto, come sempre, e lei lo carezzò distrattamente sulla testa. Mentre gironzolava intorno alla casa si era fatto buio e ora la stanza era immersa nell’ombra. In qualche modo, senza la luce viva del sole le imperfezioni e i danni causati dal tempo ai giocattoli sembravano ancora più evidenti. Gli occhi di Theodore non brillavano più, la pelliccia rada e l’orecchio penzolante gli davano l’aria di un vagabondo malmesso. Quando guardò Stanley, la ruggine intorno agli occhi dell’unicorno li fece apparire come cavità vuote, e i denti scoperti, che lei aveva sempre considerato un sorriso, di colpo le sembrarono il ghigno malefico e astuto di un teschio. Charlie si alzò di scatto, facendo attenzione a non toccarlo, e si precipitò verso la porta, ma inciampò con un piede nella ruota vicino al letto. Incespicò nel binario e cadde sul pavimento. Si sentì un fruscio di metallo in movimento e alzando la testa Charlie si vide apparire sotto il naso un piccolo paio di piedi infilati in due eleganti scarpette di vernice. Alzò gli occhi. Ella incombeva sopra di lei, silenziosa e inattesa, gli occhi vitrei che sembravano quasi vedere. Piattino e tazza le venivano offerti con militare rigidità. Charlie si alzò con una certa cautela, per non disturbare la bambola. Uscì dalla camera, attenta a dove metteva i piedi, per evitare di attivare senza volerlo qualche altro giocattolo. Mentre lei si allontanava, Ella si ritirò nel suo armadietto, quasi di pari passo. Charlie scese di 13


corsa la scala, come spinta da una necessità impellente di andarsene da quella casa. Una volta in macchina, dovette provare tre volte prima di riuscire a infilare la chiave nell’accensione. Percorse il vialetto in retromarcia, a tutta velocità, noncurante delle gomme che schiacciavano l’erba del prato, e schizzò via. Dopo quasi due chilometri, Charlie accostò, spense il motore e rimase a fissare il parabrezza, con lo sguardo perso nel vuoto. Si costrinse a respirare più lentamente. Allungò una mano e sistemò lo specchietto retrovisore in modo da potersi guardare. Ogni volta che lo faceva si aspettava sempre di vedersi dipinti sul volto dispiacere, rabbia e dolore, ma non li trovava mai. Aveva le guance rosee e il viso rotondo appariva quasi allegro, come al solito. Durante le prime settimane di convivenza con la zia Jen se l’era sentito ripetere di continuo, ogni volta che veniva fatta una presentazione. Oh, che bella bambina! Ha proprio l’aria di un cuor contento! Charlie dava sempre la sensazione di sorridere, con i grandi occhi castani, luminosi, e la boccuccia sempre pronta a incurvarsi all’insù, perfino quando era sul punto di piangere. Quell’incongruenza interiore era quasi un tradimento. La ragazza si passò le dita fra i capelli castano chiaro, come se quel gesto potesse appianare per magia il lieve crespo naturale, e rimise in posizione lo specchietto. Riavviò l’auto e cominciò a cercare una stazione radiofonica, nella speranza che la musica la riportasse definitivamente alla realtà. Saltò da una all’altra, senza ascoltare davvero ciò che trasmettevano, e finì per fermarsi su una radio AM con un conduttore che sbraitava qualcosa nel microfono. Non aveva la più pallida idea di ciò di cui stava parlando, ma i toni chias14


sosi e ripetitivi riuscirono a riportarla nel presente. L’orologio della macchina non funzionava, quindi controllò il proprio. Era quasi l’ora dell’appuntamento con i vecchi amici. Dovevano trovarsi in una tavola calda quasi in centro. Charlie ripartì, e guidò lasciando che le parole vivaci dello speaker spegnessero il turbine di pensieri che le girava in testa. Quando raggiunse il ristorante si fermò, ma non parcheggiò. La facciata della tavola calda aveva una grande vetrina, da cui si vedeva l’interno. Benché non li vedesse da anni, a Charlie servì solo un secondo per riconoscere tutti gli amici. Jessica fu la più facile da distinguere in mezzo alla folla. Allegava sempre qualche fotografia alle sue lettere e aveva lo stesso aspetto dell’ultima che le aveva spedito. Anche da seduta era chiaramente più alta di tutti i ragazzi, ed era molto magra. Charlie non vedeva per intero com’era vestita, ma Jessica indossava una camicia bianca, morbida, sopra una canotta ricamata, e portava un cappello a tesa larga sui lucidi capelli castani, lunghi fino alle spalle, decorato con un enorme fiore finto che minacciava di farglielo cadere dalla testa. Stava parlando e gesticolava animatamente. I due ragazzi erano seduti uno vicino all’altro, di fronte a lei. Carlton sembrava proprio una versione più grande del bambino dai capelli rossi che era stato un tempo. Il viso era ancora un po’ infantile, ma le fattezze si erano affinate e i capelli erano accuratamente scompigliati e tenuti in posizione da un qualche misterioso prodotto alchemico. Era quasi troppo curato, per essere un ragazzo, e indossava una maglietta nera, sportiva, anche se Charlie dubitava che avesse mai prati15


cato uno sport in vita sua. Era stravaccato sul tavolo, il mento appoggiato sulle mani chiuse a pugno. Accanto a lui, John era seduto più vicino alla vetrina. Da bambino era il tipo che si sporcava già prima di uscire di casa. Si ritrovava la maglietta macchiata di colori prima ancora che la maestra distribuisse gli acquerelli, aveva le ginocchia sporche d’erba prima di arrivare in giardino e le unghie regolarmente orlate di nero anche subito dopo essersi lavato le mani. Charlie sapeva che era lui perché doveva esserlo per forza, ma sembrava del tutto diverso. Il disordine e la sporcizia dell’infanzia erano stati sostituiti da ordine e pulizia. John portava una camicia button-down verde chiaro, con le maniche ben arrotolate e il colletto aperto, che evitavano di farlo sembrare troppo formale. Era appoggiato con disinvoltura allo schienale del divanetto e annuiva con entusiasmo, all’apparenza concentrato su ciò che diceva Jessica. L’unica concessione al John di un tempo erano i capelli, tutti dritti in testa, e la ricrescita pomeridiana della barba, versione adulta e compiaciuta della patina di sporcizia di cui era perennemente coperto da bambino. Charlie sorrise fra sé. John era stato la sua “cotta”, da bambini, prima che entrambi potessero capire davvero il concetto. Lui le regalava i biscotti che aveva nel cestino per il pranzo dei Transformers, e una volta, alla scuola materna, si era preso la colpa per lei, quando aveva rotto il barattolo di vetro con le perline colorate dell’ora di arti decorative. Charlie ricordava ancora il momento esatto in cui le era sfuggito di mano e l’aveva visto cadere. Non avrebbe potuto 16


reagire abbastanza in fretta da riuscire a prenderlo, ma non ci aveva nemmeno provato. Voleva vederlo rompersi. Il barattolo si era fracassato sul pavimento di legno, era finito in mille pezzi, e le perline multicolori si erano sparse ovunque, mescolate alle schegge di vetro. Charlie l’aveva trovato stupendo, poi si era messa a piangere. John era stato punito con una nota a casa per i genitori e quando lei gli aveva detto «Grazie», si era limitato a strizzarle un occhio con un’ironia che andava ben oltre la sua età e aveva ribattuto: «Per cosa?». Dopo quell’episodio, John era stato ammesso nella sua magica cameretta. Charlie l’aveva lasciato giocare con Stanley e Theodore, osservandolo con ansia, la prima volta che aveva scoperto i bottoni da premere per metterli in movimento. Ci sarebbe rimasta malissimo se non gli fossero piaciuti, perché sentiva, d’istinto, che una reazione negativa l’avrebbe sminuito, ai suoi occhi. Il coniglio e l’unicorno e tutti gli altri giocattoli erano la sua famiglia. Ma John ne era rimasto subito affascinato. Adorava i giocattoli meccanici e per questo lei adorava lui. Due anni dopo, dietro un albero che cresceva accanto all’officina di suo padre, Charlie gli aveva quasi permesso di baciarla. Poi era successo quello, ed era finito tutto, almeno per lei. Charlie si riscosse, costringendosi a tornare al presente. Osservò di nuovo l’aria raffinata di Jessica, poi si guardò. Maglietta viola, giubbino in denim, jeans neri e anfibi. Quel mattino le era sembrato un look adatto, ma con il senno di poi avrebbe preferito aver scelto qualcos’altro. Ti vesti sempre così, ricordò 17


a se stessa. Parcheggiò, scese e chiuse la macchina, anche se a Hurricane non lo faceva mai nessuno. Dopodiché entrò nella tavola calda per raggiungere gli amici che non vedeva da dieci anni. Appena dentro fu travolta da un’ondata di caldo, luci e rumore. Per un attimo ne rimase frastornata, ma Jessica la vide ferma sulla porta e gridò il suo nome. Charlie sorrise e raggiunse il gruppetto. «Ciao», disse, un po’ a disagio, facendo scorrere lo sguardo su ciascuno di loro, ma senza entrare davvero in contatto. Jessica scivolò sul rivestimento in similpelle rossa della panca e le fece spazio, poi batté la mano sul posto accanto a sé. «Dai, siediti», la invitò. «Stavo giusto raccontando a John e Carlton della mia vita fantastica.» E nel dirlo alzò gli occhi al cielo, riuscendo a comunicare al tempo stesso un senso di falsa modestia e il fatto che la sua vita fosse davvero favolosa. «Sai che Jessica vive a New York?», le chiese Carlton. Parlò con prudenza, come se stesse pesando ogni parola prima di pronunciarla. John non aprì bocca, ma sorrise a Charlie con aria ansiosa. Jessica alzò di nuovo gli occhi al cielo, e con un lampo di déjà vu di colpo Charlie ricordò che lo faceva per abitudine anche quando erano piccoli. «A New York vivono otto milioni di persone, Carlton. Non è esattamente un’impresa…», sottolineò Jessica, e Carlton alzò le spalle. «Be’, io non sono mai stato da nessuna parte», obiettò lui. «Non sapevo che abitassi ancora qui», intervenne Charlie. 18


«E dove avrei potuto andare, scusa? La mia famiglia vive qui dal 1896», ribatté lui, parlando con voce profonda per imitare suo padre. «Sul serio?», chiese Charlie. «Boh, non lo so», rispose Carlton, tornando se stesso. «Può darsi. Mio padre si è candidato sindaco, due anni fa. Certo, ha perso, ma cavolo, chi è che si candida per fare il sindaco di questo posto?» Fece una smorfia. «Guarda, il giorno che compio diciott’anni io me ne vado, giuro.» «E dove avresti intenzione di andartene?», gli chiese John, facendosi di colpo serio. Carlton, altrettanto serio, lo guardò negli occhi per un attimo. Poi, con un gesto brusco, distolse lo sguardo e lo puntò fuori, oltre la vetrina, chiudendo un occhio, come se stesse prendendo la mira. John inarcò un sopracciglio e seguì il movimento, cercando di capire a cosa mirasse. Lo fece anche Charlie. Carlton però non mirava a niente. John aprì la bocca per dire qualcosa, ma l’amico lo precedette. «Oppure…», disse, puntando lentamente lo sguardo nella direzione opposta. «Okay.» John si grattò la testa, con aria imbarazzata. «In pratica ovunque, giusto?», aggiunse con una risata. «Gli altri dove sono?», si informò Charlie, sbirciando oltre la vetrina e scandagliando il parcheggio in cerca di nuovi arrivi. «Domani», rispose John. «Arrivano tutti domani mattina», spiegò Jessica. «Marla si porta il fratellino, ma ci pensi?» 19


«Jason?», Charlie sorrise. Lo ricordava come un fagottino di coperte con un faccino rosso che spuntava da una parte. «Voglio dire, ma chi lo vuole un poppante fra i piedi?» Jessica si sistemò il cappello con gesti affettati. «Sono abbastanza certa che non sia più un poppante», precisò Charlie, cercando di non riderle in faccia. «C’è poca differenza, in ogni caso», concluse Jessica. «Comunque, per noi ho prenotato una stanza al motel all’imbocco dell’autostrada. Non ho trovato altro. I ragazzi invece stanno tutti da Carlton.» «Okay», disse Charlie. Era vagamente colpita dall’organizzazione di Jessica, ma l’idea non le piaceva. Non aveva nessuna voglia di dividere la stanza con lei, che le sembrava un’estranea. Era diventata il tipo di ragazza capace di intimidirla, così elegante, impeccabile, una che parlava come se avesse già capito tutto della vita. Per un attimo prese in considerazione l’idea di andare a dormire nella sua vecchia casa, ma respinse il pensiero appena le si presentò alla mente. Quella casa, di notte, non era più territorio dei vivi. Non fare la tragica, si rimproverò da sola, ma John aveva ripreso a parlare. E aveva la capacità di richiamare l’attenzione con la sua voce… forse perché parlava meno spesso di chiunque altro. Per la maggior parte del tempo lui ascoltava, ma non per reticenza. Raccoglieva informazioni, e parlava soltanto quando aveva saggezza o sarcasmo da dispensare. Di frequente entrambi in contemporanea. «Scusate, qualcuno sa cosa succederà domani?» Per un attimo nessuno rispose, e la cameriera approfittò 20


di quel momento di silenzio per presentarsi a raccogliere la comanda. Charlie sfogliò rapida il menu, senza che gli occhi mettessero davvero a fuoco le parole. Il suo turno per ordinare giunse molto prima di quanto si aspettasse e fu colta di sorpresa. «Ehm… io… uova», disse alla fine. L’espressione dura della donna restò fissa su di lei, che si rese conto di non avere terminato. «Strapazzate. Con pane tostato integrale, grazie», aggiunse, e la donna se ne andò. Charlie riabbassò lo sguardo sul menu. Odiava questa cosa di sé. Quando veniva colta impreparata sembrava perdere ogni capacità di agire o ragionare su ciò che le stava succedendo intorno. La gente era incomprensibile e le loro domande aliene. Ordinare la cena non dovrebbe essere così complicato, pensò. Gli altri intanto avevano ripreso la conversazione e Charlie si mise ad ascoltare, come una che fosse rimasta indietro. «Cosa possiamo anche solo dire ai suoi genitori?», stava domandando Jessica. «Carlton, tu non li vedi mai?», chiese Charlie. «No, sì…», rispose lui. «Cioè, in giro, magari. Qualche volta.» «Mi sorprende che siano rimasti qui a Hurricane», osservò Jessica, con una nota di smaliziata disapprovazione nella voce. Charlie non commentò, ma si chiese: Come potevano fare altrimenti? Il suo corpo non era stato mai trovato. Come potevano i suoi non avere segretamente sperato che potesse tornare a casa, per quanto sapessero che era impossibile? Come avrebbe21


ro potuto lasciare l’unica casa che Michael conosceva? Sarebbe stato come rinunciare veramente e definitivamente a lui. E forse quella borsa di studio significava proprio questo: l’ammissione che non sarebbe mai tornato a casa. Charlie era fortemente consapevole di trovarsi in un locale pubblico, dove parlare di Michael pareva inappropriato. Loro quattro erano, in un certo senso, di casa ed estranei al tempo stesso. Erano stati vicinissimi a Michael, probabilmente più di chiunque altro in quel ristorante ma, a parte Carlton, non erano più di Hurricane. Non appartenevano alla città. Vide le lacrime cadere sulla tovaglietta di carta prima di sentirle scendere, e si affrettò ad asciugarsi gli occhi con la mano, tenendoli bassi e sperando che nessuno se ne fosse accorto. Quando alzò lo sguardo, John sembrava concentrato sulle posate, ma lei capì che aveva visto tutto. E gli fu grata di non aver provato a consolarla. «John, tu scrivi ancora?», chiese Charlie. John aveva dichiarato di essere “uno scrittore” quando avevano più o meno sei anni, dopo aver imparato a leggere e scrivere quando ne aveva quattro, un anno prima degli altri. A sette anni aveva completato il primo “romanzo” e aveva stampato la sua creazione – piuttosto sgrammaticata e con illustrazioni imperscrutabili – distribuendone copie a parenti e amici, e sollecitando le loro recensioni. Charlie ricordava di avergli dato solo due stelline. John rise a quella domanda. «Non posso credere che te ne ricordi ancora. Comunque sì, scrivo.» Si interruppe, ma era chiaro che avrebbe voluto aggiungere qualcosa. 22


«Cosa scrivi?», si sentì in dovere di chiedergli Carlton, e John guardò la tovaglietta di carta e parlò rivolgendosi per lo più al tavolo. «Ehm… racconti, soprattutto. L’hanno scorso me ne hanno anche pubblicato uno. Certo, era solo una rivista, niente di che.» Tutti emisero piccole esclamazioni d’entusiasmo e lui alzò lo sguardo, in imbarazzo ma contento. «E di cosa parlava il racconto?», volle sapere Charlie. John esitò, ma prima che potesse dire qualcosa o decidere di astenersi, la cameriera tornò con le loro portate. Avevano tutti ordinato piatti del menu della colazione: caffè, uova e pancetta; pancake ai mirtilli per Carlton. Il cibo dai colori vivaci prometteva bene, come un buon inizio di giornata. Charlie diede un morso al pane tostato, e tutti masticarono in silenzio per qualche istante. «Oh, Carlton, a proposito…», disse all’improvviso John. «Che fine ha fatto poi Freddy’s?» Ci fu una breve pausa di silenzio. Carlton guardò Charlie, innervosito, e Jessica alzò gli occhi al soffitto. John arrossì e Charlie si affrettò a dire qualcosa. «Tutto okay, Carlton, vorrei saperlo anch’io.» Lui alzò le spalle, pugnalando i pancake con la forchetta. «Ci hanno costruito», rispose. «Cos’hanno costruito?», chiese Jessica. «Nel senso che adesso lì c’è qualcos’altro? Hanno proprio costruito o l’hanno solo demolito?», volle sapere John. Carlton alzò di nuovo le spalle, con un movimento rapido, simile a un tic nervoso. 23


«Be’, ragazzi, di preciso non lo so. È troppo all’interno perché si possa vedere dalla strada e non è che io abbia indagato più di tanto … Può darsi che sia stato affittato a qualcuno, ma non so poi cosa ci abbiano fatto. Sono anni che è tutto recintato, un cantiere, ma da fuori non si capisce nemmeno se l’edificio ci sia ancora.» «Quindi potrebbe essere ancora in piedi?», domandò Jessica, con un lampo d’emozione. «Ripeto, non lo so», rispose Carlton. Charlie percepì le luci al neon della tavola calda che le sfolgoravano in faccia. Di colpo erano abbaglianti. Si sentiva troppo esposta. Aveva mangiucchiato a malapena qualche boccone, ma si ritrovò ad alzarsi di scatto. Prese dalla tasca una manciata di banconote stropicciate e le buttò sul tavolo. «Io esco un attimo», disse agli altri. «Pausa sigaretta», aggiunse frettolosamente. Tu non fumi. Si rimproverò da sola per quella goffa bugia avviandosi verso la porta. Spintonò una famiglia di quattro persone senza neppure scusarsi e uscì nel freddo della sera. Raggiunse la macchina e si sedette sul cofano. Il metallo si incurvò leggermente sotto il suo peso. Inspirò profonde boccate d’aria frizzante, come se fosse acqua, e chiuse gli occhi. Lo sapevi che sarebbe venuto fuori. Lo sapevi che ne avresti dovuto parlare, rammentò a se stessa. Aveva fatto esercizio durante il viaggio verso Hurricane, si era costretta a ripensare a ricordi felici, a sorridere e a dire: Ti ricordi quella volta che…? Pensava di essere preparata. Ma ovviamente si sbagliava di grosso. Altrimenti perché se la sarebbe data a gambe dal ristorante come una bambina spaventata? 24


«Charlie?» Aprì gli occhi e vide John accanto alla macchina, che le porgeva il giubbino come un’offerta. «Te lo sei dimenticata», le disse, e lei si costrinse a sorridergli. «Grazie.» Lo prese e se lo mise sulle spalle, poi scivolò sul cofano per fargli spazio. «Scusami», disse. Benché il parcheggio fosse male illuminato, vide John arrossire fino alle orecchie. Lui la raggiunse, ma lasciò deliberatamente una certa distanza fra loro. «Non ho ancora imparato a pensare prima di parlare, mi spiace.» John seguì con lo sguardo un aereo che attraversava il cielo. Charlie sorrise, e stavolta non dovette sforzarsi. «Tranquillo. Sapevo che sarebbe saltato fuori, era inevitabile. È solo che io… sì, lo so, sembra stupido, ma non ci penso mai. Mi impedisco di farlo. Nessuno sa cosa sia successo, a parte mia zia, e io e lei non ne parliamo assolutamente. Poi arrivo qui e di colpo è ovunque. Ero solo sorpresa, ecco.» «Oh-oh.» John richiamò la sua attenzione e Charlie vide Jessica e Carlton sulla porta della tavola calda, esitanti. Li chiamò con un gesto della mano e i due si avvicinarono. «Vi ricordate di quella volta da Freddy’s, quando la giostra si inceppò e Marla e quel ragazzino cattivo, Billy, furono costretti a starci sopra e a girare, girare, girare finché i genitori non riuscirono a tirarli giù?», disse Charlie. John rise e quella risata le strappò un sorriso. «Erano tutti rossi e quanto piangevano…!» Charlie si coprì 25


la faccia con le mani, vergognandosi un po’ di trovare così divertente la scena. Ci fu un breve silenzio stupito, poi anche Carlton scoppiò a ridere. «E mentre giravano Marla vomitò addosso a Billy!» «Perché una giustizia esiste!», esclamò Charlie. «Mi pare che fossero nachos», aggiunse John. Jessica arricciò il naso, disgustata. «Che schifo! Non ci sono più salita, dopo quella volta.» «Ma dai, Jessica, poi l’avevano pulita», le disse Carlton. «E comunque secondo me là sopra ci vomitavano tutti. Le macchie umide sul pavimento non erano lì per niente. Giusto, Charlie?» «Non guardare me. Io non ci ho mai vomitato.» «Quanto tempo ci abbiamo passato, eh, ragazzi? Il privilegio di conoscere la figlia del proprietario…», disse Jessica, guardando Charlie con uno scherzoso sguardo d’accusa. «Non era mica colpa mia se mio padre era mio padre!», ribatté Charlie, sghignazzando. Jessica rimase pensierosa per qualche attimo, prima di riprendere: «No, ma voglio dire… non poteva esserci infanzia migliore di chi poteva passare tutto il giorno da Freddy Fazbear’s Pizza, vi pare?». «Boh», disse Carlton, «so che quella musica mi è rimasta in testa negli anni». Accennò qualche nota della melodia che era familiare a tutti e Charlie si mise a muovere la testa a ritmo. «Adoravo tutti quegli animali», saltò su Jessica. «Ma com’è che si chiamano, di preciso? Animali meccanici, animatroni, mascotte?» 26


«Sono tutte definizioni corrette.» Charlie si appoggiò sui gomiti. «Be’, comunque io andavo sempre a parlare con il coniglio… com’è che si chiamava?» «Bonnie», rispose Charlie. «Giusto», disse Jessica. «Ci parlavo e mi lamentavo dei miei genitori. Ho sempre pensato che avesse uno sguardo comprensivo, quel coniglio.» Carlton rise. «Terapia animatronica! Raccomandata da bambini fuori di testa di sei e sette anni!» «Ma sta’ zitto!», replicò Jessica. «Sapevo benissimo che non era vero. Però mi piaceva parlarci.» Charlie sorrise. «Me lo ricordo.» Jessica con i suoi graziosi vestitini e i capelli castani legati in due treccine sottili… sembrava una bambina saltata fuori da un vecchio libro illustrato, e saliva sul palco alla fine dello show per andare a bisbigliare al coniglio animatronico. E se qualcuno le si avvicinava, si zittiva all’istante e restava muta e immobile finché quelli si allontanavano e lei poteva riprendere le sue conversazioni a senso unico. Charlie non aveva mai parlato con gli animali della pizzeria di suo padre, né si era sentita legata a loro come sembrava succedere ad altri bambini. Benché le piacessero, quei pupazzi animati appartenevano al pubblico. Lei aveva i suoi amici meccanici personali che l’aspettavano a casa, ed erano solo suoi. «A me piaceva Freddy», disse John. «Mi ha sempre ispirato simpatia.» «Io ho dimenticato un sacco di roba di quando ero picco27


lo», intervenne Carlton, «ma vi giuro che se chiudo gli occhi rivedo ogni singolo particolare di quel posto. Perfino i chewing gum masticati che appiccicavo sotto i tavoli». «Ah, li chiami chewing gum, adesso? Come no! Quelle erano caccole!» E Jessica si allontanò di un passo. Carlton sorrise. «Oh, avevo sette anni, cosa vuoi da me? Allora mi sfottevate tutti di continuo. Ve lo ricordate quando Marla scrisse Carlton puzza di piedi sul muro della pizzeria?» «Tu puzzavi di piedi, in effetti.» Jessica non trattenne uno scoppio di risa. Lui alzò le spalle, imperturbabile. «Provavo sempre a nascondermi, quand’era ora di tornare a casa. Volevo restare chiuso nella pizzeria di notte, per poter avere il posto tutto per me.» «Sì, me lo ricordo, ci facevi sempre aspettare», confermò John, «e ti nascondevi sempre sotto lo stesso tavolo». Charlie parlò lentamente, e quando lo fece gli altri tre si girarono a guardarla, insieme, come se avessero aspettato quel momento. «A volte ho anch’io la sensazione di ricordarmi ogni centimetro del locale, come te, Carlton», disse. «Ma a volte è come se non ricordassi più niente. È tutto frammentario, nella mia mente. Per dire, mi ricordo la giostra, e quella volta che il meccanismo si è inceppato e non si fermava più. Ricordo quando disegnavo sulle tovagliette di carta. Ricordo tanti piccoli dettagli: quando mangiavo la pizza tutta unta, quando d’estate abbracciavo Freddy e la sua pelliccia gialla mi copriva i vestiti 28


di pelucchi… Ma molte sono tipo fotografie, come se fossero cose successe a qualcun altro.» La fissavano tutti un po’ straniti. «Freddy era marrone, vero?» Jessica guardò gli altri in cerca di una conferma. «Secondo me non te lo ricordi poi così bene» disse Carlton a Charlie, ironico, e lei fece una risatina. «Sì, giusto. Volevo dire marrone», precisò. Marrone, Freddy era marrone. Certo che lo era. Lo rivedeva alla perfezione, ora. Ma da qualche parte, rintanato nel profondo della sua mente, c’era un barlume di qualcos’altro. Carlton si lanciò a raccontare un’altra storia e Charlie si sforzò di prestargli attenzione, ma c’era qualcosa di fastidioso, di inquietante, in quel vuoto di memoria. È successo dieci anni fa, non sei affetta da demenza senile precoce a diciassette anni, si disse, ma quello era un dettaglio troppo basilare per ricordarselo male. Con la coda dell’occhio vide che John la guardava con aria pensierosa, come se avesse appena detto qualcosa d’importante. «Davvero non sai che fine ha fatto?», chiese a Carlton con più insistenza nel tono di quanta intendesse. Lui smise di parlare, sorpreso. «Scusami», aggiunse allora, «non volevo interromperti». «Non c’è problema», disse lui. «Comunque sì… o forse no. Insomma, davvero non so che ne sia stato della pizzeria.» «Ma come fai a non saperlo? Tu vivi qui.» «Dai, Charlie…», intervenne John. «Non è che io bazzichi più da quelle parti. Ora è diverso, 29


la città si è ingrandita», rispose Carlton, mite, senza scomporsi per quella sua pretesa, almeno in apparenza. «E a dire il vero neanche cerco di trovare occasioni per andarci, hai presente? Perché dovrei? Non ne ho motivo, non più.» «Potremmo andarci adesso», propose John all’improvviso, e Charlie ebbe un tuffo al cuore. Carlton le rivolse un’occhiata nervosa. «Cosa? No, dai, sul serio, è un casino. Non so neanche se riuscireste ad arrivarci.» Charlie si trovò ad annuire. Era come se avesse trascorso l’intera giornata oppressa dal peso della memoria, vedendo tutto attraverso il filtro degli anni, e avesse ritrovato di colpo la consapevolezza, come se a un tratto la sua mente fosse di nuovo pienamente presente. Voleva andarci. «Facciamolo», disse. «Anche se non è rimasto più niente. Voglio andare a vedere.» Nessuno parlò. Poi John sorrise con sconsiderata fiducia. «Sì. Facciamolo.»

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Capitolo due

c

harlie frenò e si fermò, sentendo la presa del terreno morbido sotto le gomme. Spense l’auto e si guardò intorno. Il cielo era di un denso blu scuro, lambito, a ovest, dalle ultime striature rosse del tramonto. Il parcheggio era sterrato, e davanti a loro si ergeva una costruzione mostruosa, un ammasso di vetro e cemento che si sviluppava in orizzontale per centinaia di metri. Il parcheggio non era mai stato usato da nessuno e i lampioni erano tutti spenti. Anche l’edificio appariva come una cattedrale nel deserto, intrappolato fra gli alberi neri e circondato dal lontano fragore della civiltà. Charlie guardò Jessica, che dal sedile del passeggero allungava il collo fuori dal finestrino. «È questo il posto?», chiese. Charlie scosse lentamente la testa, per nulla sicura di ciò che vedeva. «Non ne ho idea», mormorò. Poi scese dalla macchina e rimase in silenzio, mentre Carlton e John parcheggiavano lì accanto. 31


ÂŤAppena farA` buio, loro si sveglieranno. Gli spiriti dei bambini morti si leveranno. E vi uccideranno tutti.Âť


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