Il mio più grande desiderio

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Barbara O’Connor


Un ringraziamento speciale a Barbara e Harvey Markowitz per essere sempre presenti… E a Kirby Larson, Sue Hill Long e Augusta Scattergood. Lunga vita alla sorellanza.

Barbara O’Connor Il mio più grande desiderio Traduzione di Chiara Codecà © 2018 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Pubblicato per la prima volta con il titolo Wish Copyright © 2016 by Barbara O’Connor Published by arrangement with Farrar Straus Giroux Books for Young Readers, an imprint of Macmillan Publishing Group, LLC, and The Italian Literary Agency. All rights reserved. Illustrazione di copertina © 2016 Jen Bricking ISBN 978-88-6966-359-8


Barbara O’Connor

Traduzione di Chiara Codecà



Per Monika, vera amica.



Uno

Ho guardato il questionario appoggiato sulla mia scrivania. Il questionario Conosciamoci meglio. In alto, la signora Willibey aveva scritto “Charlemagne Reese”. Ho fatto una grossa X su “Charlemagne” e ho scritto “Charlie”. Io mi chiamo Charlie. Charlemagne è un nome stupido per una ragazza, come ho già detto un trilione di volte alla mamma. Ho lanciato uno sguardo attorno, osservando gli altri ragazzi impegnati negli esercizi di matematica. La mia migliore amica, Alvina, mi aveva avvertito che sarebbero stati tutti rozzi montanari. «Odierai Colby», aveva detto. «Non ci sono che strade piene di polvere e montanari.» Poi si era lanciata i capelli setosi dietro le spalle, aggiungendo: «Scommetto che mangiano gli scoiattoli». Ho guardato i cestini per il pranzo sotto i banchi, chiedendomi se qualcuno nascondeva panini allo scoiattolo. Poi ho riportato gli occhi sul foglio che avevo davanti. 1


Dovevo compilarlo tutto, o almeno questa era l’idea, così che la mia nuova insegnante potesse iniziare a conoscermi. Sulla riga accanto a Descrivi la tua famiglia ho scritto: “Pessima”. Qual è la tua materia preferita a scuola? “Nessuna.” Elenca tre delle attività che ami di più: “Il calcio, il balletto e fare a botte”. Due erano bugie, una era la verità. Mi piace fare a botte. Mia sorella Jackie ha ereditato da papà i capelli neri come l’inchiostro, ma io ho preso il suo carattere. Sarei ricca, se avessi ricevuto un centesimo per ogni volta che ho sentito la frase: “La mela non cade mai lontano dall’albero”. Papà partecipa così spesso a risse e scontri che tutti lo chiamano Risso. In questo momento il vecchio Risso è di nuovo nella prigione della contea, a Raleigh, grazie alla sua passione per la lotta. E non mi serve una sfera di cristallo per sapere che in questo momento, in pieno giorno, mamma è a letto nella nostra casa di Raleigh, con le tende chiuse e il comodino ricoperto di lattine vuote. Ci resterà fino a sera. Se fossi là con lei, non le importerebbe nulla se andassi a scuola o se restassi sul divano a guardare la Tv, mangiando biscotti per pranzo. «E non è che la punta dell’iceberg», aveva detto l’assistente sociale, elencando tutte le ragioni per cui mi stava 2


spedendo a vivere in questo squallido paesino con due persone che non conoscevo. «È meglio restare in famiglia», aveva detto. «Gus e Bertha sono tuoi parenti.» «Che genere di parenti?», avevo chiesto io. A quel punto mi aveva spiegato che Bertha è la sorella di mamma e Gus suo marito. Non avevano figli ed erano felici di avermi con loro. «E allora perché Jackie può stare da Carol Lee?» Lo avevo già chiesto un milione di volte. Carol Lee è la migliore amica di Jackie. Vive in una bella casa con la piscina, sua mamma non passa ogni giorno a letto e suo padre non è soprannominato Risso. E l’assistente sociale mi aveva ribadito per l’ennesima volta che Jackie era praticamente un’adulta e che si sarebbe diplomata entro un paio di mesi. Ha sospirato quando le ho fatto notare che non ero esattamente una poppante, visto che l’anno prossimo sarei andata alle medie. Poi, con un sorriso falso, ha risposto: «Charlie, per un po’ dovrai vivere con Gus e Bertha». Non li avevo mai visti in vita mia e ora dovevo vivere con loro? Quando ho chiesto per quanto tempo, la risposta è stata: «Per un po’», finché le cose non si fossero calmate e mamma si fosse rimessa in piedi. Ma quanto può essere difficile rimettersi in piedi?, era quello che pensavo sull’argomento. «Hai bisogno di un ambiente familiare stabile», ha detto 3


l’assistente sociale, ma sapevo che quello che intendeva era: “Hai bisogno di una famiglia che non sia a pezzi come la tua”. Ho insistito e puntato i piedi ma niente da fare, eccomi qui a Colby, nella Carolina del Nord, a fissare un questionario con su scritto Conosciamoci meglio. «Hai finito, Charlemagne?» La signora Willibey era comparsa accanto a me. «Il mio nome è Charlie», ho risposto, e un ragazzino dai capelli unti seduto in prima fila è scoppiato a ridere. L’ho fissato con uno dei miei famosi sguardi raggelanti finché si è zittito, arrossendo. Ho restituito il foglio alla signora Willibey e osservato il suo sguardo scorrere avanti e indietro sulla pagina mentre leggeva. Il suo collo è sembrato arrossire e la sua bocca ha fatto una smorfia strana. È marciata verso la scrivania senza neppure guardarmi, mollando il foglio come se fosse una patata bollente. Mi sono abbandonata sulla sedia, asciugandomi le mani sudate sui pantaloncini corti. Era solo aprile ma faceva già un caldo pazzesco. «Vuoi una mano con quello?» Il ragazzino di fronte a me ha indicato il compito di matematica sul mio banco. Aveva i capelli rossi e indossava brutti occhiali dalla montatura nera. «No», ho risposto. Lui ha sollevato le spalle, poi ha preso una matita dal banco e si è diretto verso il temperamatite della classe. 4


Su. Giù. Su. Giù. Camminava così. Come se avesse una gamba più corta dell’altra. E trascinava un piede sul pavimento, e la sua scarpa da ginnastica faceva come uno squittio. Ho guardato l’orologio. Cavolo! Avevo mancato per un pelo le 11:11. Ho una lista di tutti i modi in cui si può esprimere un desiderio, per esempio quando si vede un cavallo bianco o quando si fanno volare via i semi di un soffione di tarassaco. Sulla mia lista c’è anche guardare l’orologio esattamente alle 11:11. Lo avevo imparato dal vecchio signore che aveva il negozio di pesca vicino al lago dove andavo a pescare con Risso. Ora che avevo mancato le 11:11 dovevo trovare un altro modo per esprimere il mio desiderio della giornata. Non avevo saltato un giorno dalla fine dell’anno precedente, e di sicuro non volevo iniziare ora. La signora Willibey ha fatto un cenno verso il ragazzo con i capelli rossi, ancora impegnato a temperare la matita, dicendogli: «Howard, ti va di essere l’Amico di Zaino di Charlie per un po’?». L’insegnante aveva spiegato che l’Amico di Zaino è uno studente che aiuta un nuovo arrivato ad ambientarsi a scuola, spiegando come funzionano le cose e quali sono le regole. 5


Howard ha sorriso e ha risposto: «Sissignora». Ecco fatto: che lo volessi o meno, avevo un Amico di Zaino. Il resto del pomeriggio è passato con una lentezza insopportabile. Mentre gli altri si vantavano dei loro progetti scolastici io fissavo fuori dalla finestra; aveva iniziato a cadere una pioggia sottile, e sulle cime delle montagne pesavano grandi nuvole nere. Quando finalmente è suonata la campanella sono scappata verso l’autobus, fiondandomi lungo il corridoio e buttandomi sull’ultima fila di sedili. Fissavo un pezzo di gomma da masticare attaccato al sedile di fronte mentre sparavo i miei pensieri per l’autobus come raggi laser: Non vi sedete vicino a me. Non vi sedete vicino a me. Non vi sedete vicino a me. Se ero obbligata a sedermi su un autobus pieno di sconosciuti, volevo almeno restarmene da sola. I miei laser sembravano funzionare, così ho staccato gli occhi dalla gomma e ho guardato fuori dal finestrino. Il ragazzino dai capelli rossi si stava affrettando verso l’autobus, lo zaino che rimbalzava sulla schiena a ogni passo. Quando è salito mi sono messa a fissare ancora la gomma, lanciando di nuovo il pensiero laser che nessuno si sedesse vicino a me. Ma lui non ha perso un minuto e ha percorso rapidamente il corridoio, per lasciarsi cadere sul sedile di fianco al mio. A quel punto mi ha teso la mano 6


dicendo: «Ehi, io sono Howard Odom». Si è sistemato gli occhiali sul naso. «Il tuo Amico di Zaino.» Ora, chi si presenterebbe mai così? Nessuno che io abbia mai conosciuto. Ha tenuto la mano immobile e ha continuato a fissarmi finché non ho potuto evitarlo: gliel’ho stretta anch’io. «Charlie Reese», ho detto. «Da dove vieni?» «Raleigh.» «Perché sei qui?» Faceva un sacco di domande. Forse dicendogli la cruda verità lo avrei zittito, e magari non avrebbe più avuto voglia di essere il mio Amico di Zaino. «Mio papà è in prigione e mia mamma non vuole alzarsi dal letto», ho risposto. Lui non ha fatto una piega. «Perché è in prigione?» «Risse.» «Perché?» «Cosa vuoi dire?» Lui si è pulito gli occhiali appannati con l’orlo della maglietta. Nel caldo umido dell’autobus la sua faccia aveva preso un colore rosa brillante. «Perché è finito in una rissa?», ha specificato. Io ho fatto spallucce. Non avevo idea di cosa spingeva Risso a picchiare qualcuno. E poi probabilmente era in prigione per un sacco di altri motivi, ma tanto a me nessuno diceva mai nulla. 7


«Gus e Bertha avevano detto a mia mamma che saresti arrivata. Vengono in chiesa anche loro. Una volta gli ho regalato un gatto», ha continuato Howard, «un gatto grigio e secco che viveva sotto la mia veranda». Poi ha continuato a raccontare di come Gus gli abbia insegnato a costruire una fionda e di come in estate a volte Bertha venda lungo la strada barattoli di verdure sott’olio fatte in casa. Di come sua mamma sia caduta con la macchina nel fosso accanto al viale d’ingresso di Gus e lui l’abbia tirata fuori con il trattore per poi fare un barbecue in giardino. «Ti piacerà vivere con loro», ha detto. «Non vivo con loro», ho risposto io. «Tornerò a Raleigh.» «Oh.» Lui ha abbassato lo sguardo sulle mani lentigginose che teneva in grembo. «Quando?» «Quando mia mamma si rimetterà in piedi.» «E quanto ci vorrà?» Mi sono stretta nelle spalle. «Non tanto.» Ma il nodo che avevo allo stomaco mi diceva che era una bugia. E la morsa che mi stringeva il cuore diceva che forse mamma non si sarebbe mai rimessa in piedi. Mentre l’autobus lasciava il parcheggio, Howard ha iniziato a recitare una lista di regole della scuola: non si poteva tenere il posto per un compagno, niente gomme da masticare, non si scriveva sui sedili, niente parolacce. Un sacco di cose a cui ero sicura che nessuno faceva attenzione, a parte Howard. 8


Ho guardato fuori, osservando il triste spettacolo di Colby. Una stazione di servizio. Un’area di sosta per camper. Una lavanderia automatica. Ben misera come città, se posso dire la mia. Niente centri commerciali, niente cinema. Neanche un ristorante cinese. Nel giro di poco l’autobus ha cominciato a salire lungo la montagna. Non pioveva più e dall’asfalto si alzavano nuvole di vapore. Una curva dopo l’altra, la strada stretta continuava a salire. Ogni tanto l’autobus si fermava per far scendere i ragazzi davanti a case dall’aria fatiscente di fronte alle quali si aprivano cortili rossi di polvere. Eravamo quasi arrivati da Gus e Bertha quando ci siamo fermati e Howard ha detto: «Ci vediamo». È sceso insieme a un altro ragazzino più piccolo, anche lui rosso di capelli. Li ho osservati attraversare l’aia invasa dalle erbacce, diretti a casa. Ovunque era pieno di biciclette, skateboard, palloni da calcio e scarpe da ginnastica. Un tubo dell’acqua si snodava da un rubinetto gocciolante fino a un buco nel terreno. Un bambino piccolo dalla faccia sporca stava lasciando cadere pietre nel buco, facendo schizzare ovunque l’acqua fangosa. Howard mi ha fatto ciao con la mano mentre l’autobus si allontanava, ma io mi sono rimessa a fissare la gomma appiccicata al sedile. Quando finalmente siamo arrivati al viale ghiaioso di Gus e Bertha sono scesa, restando a guardare il bus che si allontanava, facendo ondeggiare i fiorellini bianchi che 9


orlavano il ciglio della strada. Mi stavo incamminando lungo il viale quando ho notato qualcosa luccicare a terra. Era un centesimo! Sono corsa a prenderlo, poi l’ho lanciato il piÚ lontano possibile, esprimendo il mio desiderio prima che rimbalzasse e si perdesse nel verde dei boschi. Fatto! Ero riuscita a esprimere il desiderio della giornata. Magari questa volta si sarebbe avverato.

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Due

Mi sono trascinata su per il lungo viale, saltando tra le pozzanghere fangose. Mi chiedevo cosa stesse facendo Jackie in quel momento. Probabilmente era nel parcheggio di Piggly Wiggly, di fronte alla scuola, a fumare una sigaretta in compagnia di qualche ragazzo. Sono tutti convinti che mia sorella sia un angelo caduto dal cielo, ma io la conosco bene. Quando la casa di Gus e Bertha mi è apparsa in fondo alla strada, mi sono fermata a osservarla. Ero arrivata già da quattro giorni e ancora non riuscivo a capire come facesse a restare aggrappata in quel modo al crinale della montagna. La facciata era piantata nel terreno come tutte le case normali, con cespugli fioriti davanti all’ingresso. Ma il retro poggiava su pali che spuntavano dalla montagna. In cima ai pali c’era una piccola veranda con due sedie a dondolo, chiusa da una balaustra su cui erano appesi dei vasi di fiori. Dopocena, la prima sera in cui sono stata a Colby, Gus ha preso una sedia della cucina e l’ha portata sulla veran11


C

harlie ha undici anni e un unico grande desiderio, che esprime segretamente ogni giorno. Ma quando viene

data in affido agli zii, che conosce a malapena, sembra impossibile che il suo sogno si avveri. La vita, però, sa riservare svolte inaspettate e incontri speciali. Come Howard, compagno di classe e vicino di casa, che si rivela ogni giorno più sorprendente. O come Buonastella, un randagio pelle e ossa che cattura subito il suo cuore. Charlie imparerà che un amico sincero può farti capire molte cose, persino che quel che desideravi non è affatto ciò di cui hai bisogno. E che la famiglia può essere dove meno te lo aspetti.

€ 13,50

ISBN 978-88-6966-359-8

www.castoro-on-line.it


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