Insieme a mezzanotte

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Jennifer Castle


A Kathleen Spring, che l’ha fatto sembrare semplice

Jennifer Castle Insieme a mezzanotte Traduzione di Laura Bortoluzzi © 2018 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Pubblicato per la prima volta con il titolo Together at Midnight da HarperTeen, imprint di HarperCollins Publishers. Copyright © 2018 Jennifer Castle ISBN 978-88-6966-361-1


Jennifer Castle

Traduzione di Laura Bortoluzzi



26 DICEMBRE

N



Kendall

E ORA, UNA LISTA:

COSE DA FARE PER RENDERE IL PROSSIMO ANNO PERFETTO Ok, troppa pressione. Cancello perfetto e lo sostituisco con passabile, ben sapendo che anche passabile potrebbe essere chiedere troppo. 1) Completare la preparazione per il mio ritorno alla Fitzpatrick. Non so bene come “completare la preparazione per il mio ritorno”, ma scrivendolo mi sembra di aver già fatto un primo passo. Ho trascorso l’ultimo semestre all’estero e ora sono tornata a casa. Il mio liceo è lì dove l’ho lasciato. Per dire, non è che è esploso in una gloriosa fiammata al calor bianco mentre ero via. Alla fine delle vacanze di Natale, fra sette giorni, dovrò tornare a esistere in quella scuola. 3


2) Cominciare il libro. Poi, per amor di quel che c’è di più sacro al mondo, FINIRLO. Il mio romanzo parla della fine del mondo, e finora gli ho trovato un titolo, Insieme a mezzanotte, ho abbozzato il ritratto e scritto la biografia di tutti i personaggi principali. Adesso devo solo cominciare la stesura vera e propria. È la parte meno divertente, il che spiega perché non lo faccio mai, il che a sua volta spiega perché lo devo mettere in una stramaledetta lista. 3) Ritagliarsi del tempo da trascorrere con Ari. La mia migliore amica. Non siamo mai state lontano così a lungo. Ci siamo scambiate qualche email di tanto in tanto mentre ero via, ma ho bisogno di sapere che si sente ancora a casa nel posto che ha nella mia vita. Soprattutto perché adesso, in quel posto, ci deve stare anche il suo ragazzo (sigh). 4) Farsi viva con Jamie. Fisso queste quattro semplici parole. Poi aggiungo: Fargli sapere che sono tornata. Dargli un appuntamento. Non mi sembra ancora abbastanza, così rincaro la dose: Mettersi insieme. Passare una primavera da favola. Andare al ballo di fine anno. INNAMORARSI. Non ci siamo. Fa’ marcia indietro, ragazza. Cancello l’ultima parte. Ho conosciuto Jamie l’estate scorsa, quando Ari e Camden, un amico di Jamie, hanno cominciato a uscire insieme. Fra noi è scattato subito qualcosa e a me lui piaceva tanto, finché non ha detto che non mi vedeva in quel modo. Poi, dopo essere partita per l’Europa, mi ha mandato via email 4


una sua foto. Io ho fatto altrettanto. Negli ultimi mesi abbiamo avuto quel genere di corrispondenza che ti fa controllare spasmodicamente la casella della posta, e tu la detesti questa cosa, oh se la detesti, ma al tempo stesso ti piace da morire. Ecco qui. Una lista che o mi spronerà a scendere dal letto o mi spingerà a rintanarmi sotto le coperte. Staremo a vedere. Se non altro, ha fatto quello che tutte le mie liste hanno lo scopo di fare: convincere i Bachi del Pensiero che ho nella testa a uscire dal loro nascondiglio sussurrandogli Smettetela di dare fastidio a Kendall! Venite a giocare su questa bella pagina bianca! Poso quaderno e matita e mi guardo intorno nella stanza. Durante il programma scolastico itinerante sono andata a Parigi, Roma, Londra, a Saint-Tropez e a Monaco, sulle verdi colline d’Irlanda e sulle bianche scogliere di Dover. Ora sono tornata fra queste pareti rosa e viola, e mi ritrovo a fissare un poster di gattini che mangiano una torta (i gattini sono teneri come quando avevo undici anni, ma sempre un poster di gattini rimane). Questa camera fa ancora per me? C’è qualcun altro in casa che conosce questa sensazione e potrebbe dirmi cosa fare, così mi alzo e vado a cercarlo. Uscendo dalla stanza, do una pacca affettuosa alla mia enorme valigia rossa. È appena al di qua della porta, la cerniera semiaperta. Per tre giorni, da quando sono tornata dall’Europa, mi ha sfidato a disfarla, e per tre giorni mi sono sottratta alla sfida. Mio fratello Emerson è stravaccato sul letto come se qualcuno l’avesse buttato giù da tre metri d’altezza e quel5


la fosse la posizione in cui è atterrato. All’inizio non riesco a capire a cosa corrispondono i bozzi delle lenzuola. Di sicuro, non voglio toccargli la testa per poi scoprire che non era la testa. L’ho già fatto questo errore. Resto a guardarlo per un attimo, alcune parti del suo corpo penzolano giù dal materasso perché è lo stesso da quando aveva dodici anni. Un bozzo si muove. La testa, non c’è dubbio. Allungo una mano e la scuoto da sopra le lenzuola. «Ciao», sussurro. Mio fratello mugugna come una bestia sofferente. Un mammut peloso che sprofonda in una pozza di catrame. «Sono Kendall», aggiungo. «Lo so», dice Emerson. «Shampoo alla fragola.» «Devo chiederti una cosa.» «Ken, è troppo presto per una delle tue domande strampalate.» «Come fai a resistere quando torni a casa?» Em fa una risata-grugnito. «Benvenuta nel resto della tua vita, ragazzina.» «Fa’ il serio», gli dico, strattonandolo di nuovo. «Devo saperlo prima che tu te ne vada.» Lui si gira e abbassa le coperte, lasciandosi vedere in faccia. Guardarlo è come guardare me stessa, in una linea temporale parallela in cui sono nata maschio. Stessi capelli ramati, stesso naso sgraziato. Sul suo viso, naturalmente, sta bene. Sul mio, non tanto. «A volte faccio finta di uscire dal mio corpo», dice Emerson, «come se quella parte di me fatta di pensieri e senti6


menti fluttuasse vicino al soffitto e osservasse tutto ciò che accade di sotto». «Una specie di esperienza di quasi-morte?» «Provaci, qualche volta.» «A che ora è salito Andrew?», chiedo. Andrew è il ragazzo di Emerson. Anche se hanno entrambi ventidue anni e vivono insieme a Manhattan, e anche se i miei sanno che Em è gay da quando aveva tredici anni e probabilmente già da molto prima, mio padre impone la regola del “le coppie non sposate non dormono insieme sotto il mio tetto”. Dice che era così anche quando gli altri miei due fratelli portavano a casa le loro fidanzate. Secondo lui cambiare la regola perché Andrew ed Emerson sono due maschi sarebbe discriminazione al contrario, una giusta osservazione che nessuno di noi voleva riconoscere ad alta voce. Emerson mi rivolge la sua miglior espressione da finto innocente, con tanto di occhi sbarrati, una cosa che io non riesco a fare, pur avendo praticamente la stessa faccia. «Oh, fammi il piacere», gli dico. «È venuto su appena mamma e papà sono andati a letto, giusto?» Emerson si mette a ridere. «Che ti devo dire? Dormo meglio con lui. È tornato sul divano stamattina presto. Che ore sono adesso?» Do un’occhiata all’orologio sopra il letto. «Le 8.45.» «Porca miseria!», esclama tirando via le coperte. «Alle nove viene il taxi per portarci in stazione. Puoi andare a vedere se Andrew si è alzato?» Mentre Emerson comincia a vestirsi in fretta e furia, 7


io corro di sotto. Passo davanti alla stanza di mio fratello Walker, che probabilmente rimarrà a dormire per buona parte della giornata. Ogni volta sento una breve zaffata di marijuana, e ho l’impressione che il legno della porta ne sia ormai impregnato per sempre. Poi tocca alla camera del più grande di noi, Sullivan: la porta è chiusa e inviolata da così tanto tempo che continuo a dimenticarmi che non è un ripostiglio. Sullivan non è qui perché lui e sua moglie stanno in hotel, questo Natale, il che è uno dei tanti motivi per cui avere ventisei anni ha tutta l’aria di essere una figata. Ed eccoci qui: Sullivan, Walker, Emerson e Kendall. La gente dice a mo’ di battuta che l’obiettivo di mio padre era mettere in piedi uno studio legale, ma in realtà i miei fratelli portano il nome di artisti e scrittori che i miei genitori ammirano. Io sono stata la figlia inattesa, della serie “non posso credere che mamma e papà facciano ancora sesso”. Verrebbe da pensare che dopo tre maschi mia madre avrebbe fatto i salti di gioia all’idea di poter scegliere un nome da femmina, uno che finisce con una Y o una A, oppure con delle I sopra cui mettere dei cuori al posto dei puntini. E invece no. Kendall era il cognome dell’insegnante per cui ha deciso di diventare una prof di storia. Grazie tante, tizio-che-sei-morto-appena-prima-che-nascessi. La porta della stanza dei miei è sempre socchiusa per permettere al gatto di entrare e uscire quando vuole. Vedo mio padre a letto che dorme, ma non mia madre. Di sotto, in cucina, Andrew sta già preparando il caffè. Per la cronaca, adoro Andrew. 8


«Ciao, scimmietta», mi dice (adoro anche che mi chiami così). «Si è alzato?» «Proprio adesso», rispondo. «Dov’è la mamma?» «È andata a correre, ma ha detto che tornerà prima che arrivi il nostro taxi.» Annuisco. Ovvio. Janet Parisi non permette alle calorie del giorno di Natale di starsene lì dentro il suo corpo, a non far niente. All’improvviso, il rumore di un clacson ci fa sobbalzare entrambi. Andrew guarda fuori dalla finestra. «Che palle! Il taxi è in anticipo.» «Maledizione!», strilla Emerson dal piano di sopra. «È in anticipo!» Andrew sospira. «Vado a chiedergli di aspettare.» Si infila stivali e cappotto, poi afferra il suo ordinatissimo trolley ed esce dalla porta. L’aria dolorosamente gelida del mondo esterno si riversa in casa. Osservo Andrew mentre trasporta il trolley sul vialetto ghiacciato fino alla strada. Il tassista scende dall’auto e apre il bagagliaio, poi gli toglie la valigia di mano. Mi vedo correre verso il taxi, spalancare la portiera e saltare su. No, un attimo. È solo nella mia testa. Premo la mano contro la finestra e mi costringo a tenere il palmo contro il vetro freddissimo. In realtà, questo dovrebbe farmi rimanere dove sono. Emerson si lancia giù per le scale, una grossa borsa di pelle a tracolla e un sacchetto pieno di regali di Natale scar9


tati in mano. I suoi capelli, che non sono mai in disordine, sono in disordine. «Perché devi tornare a Manhattan anche tu?», gli chiedo. «È Andrew che deve lavorare. Tu sei in vacanza per tutta la settimana.» Andrew scrive per una rivista online. Emerson insegna scienze in prima media in una scuola privata. Stanno insieme dal secondo anno di college e sono insopportabilmente adorabili. Emerson scuote la testa. «Mi piacerebbe restare, ma un’altra notte qui va oltre i limiti del mio meccanismo di tolleranza extra-corporea.» Andrew rientra. «Pronto?» Emerson prende il caffè dalla piastra riscaldante, ne tracanna un po’ direttamente dal bricco, poi lo posa e si asciuga la bocca. «Pronto.» «Tua mamma non è ancora tornata dalla corsa», dice Andrew. «Si arrabbierà perché non è riuscita a salutarci.» «Oh, rivedremo sia lei che Kendall fra qualche giorno, quando verranno a vedere Wicked.» Andrew toglie il sacchetto dalle mani di Emerson e gli porge il cappotto. Mio fratello si gira verso di me. «Sono contento che tu sia tornata, Ken. E che te la sia spassata in Europa.» Chissà perché, questo mi fa venire voglia di piangere. «È stato un bel Natale», dico annuendo, la mano ancora sul vetro. «A mercoledì.» Mi allontano dalla finestra, così io ed Emerson possiamo 10


abbracciarci. Poi abbraccio Andrew, dopodiché se ne vanno. Quando la porta si apre, l’aria mi sferza il viso, ed è una sensazione orrenda ma in fondo non mi dispiace, perché ho di nuovo quell’apparizione fugace. Stavolta mi vedo seduta fra Emerson e Andrew sul sedile posteriore del taxi. Prima di rendermi conto di cosa sto facendo, esco sulla veranda e grido: «Aspettate!». Cazzarola, che freddo ai piedi... sono uscita solo con le calze. Andrew, Emerson e il tassista si girano e immagino si aspettino da me qualche spiegazione. Così urlo: «Posso venire con voi?». Si limitano entrambi a fissarmi, i loro sguardi una pagina bianca come la neve che ci separa, finché Emerson mi chiede: «Che significa?». «Posso venire con voi? In città? Per qualche giorno?» Emerson ripercorre il vialetto con cautela, senza staccarmi gli occhi dal viso. Si vede così tanto? Quanto ho bisogno di andare con lui? «Dobbiamo partire subito o perdiamo il treno», dice. «Dammi due minuti.» «La mamma andrà su tutte le furie. E non capirà.» «Ci penso io.» «Adesso ce l’abbiamo, una stanza per gli ospiti», aggiunge Andrew, rivolto a Emerson. «Cominciare a usarla sarebbe un’ottima idea.» Mio fratello sospira. Guarda me, poi Andrew, poi di nuovo me e poi di nuovo Andrew. «E va bene», dice alla fine, abbozzando un sorriso. 11


Mi fiondo in casa, salgo le scale, vado in camera mia. Mi infilo il telefono nella tasca della giacca del pigiama. Quando afferro la maniglia della valigia, la sento quasi bisbigliare Sì! Per non fare rumore, la sollevo. Pesa in un modo assurdo. Potrei morire. Arrivo alla porta, mi infilo il mio lungo cappotto di lana e gli stivali invernali, poi trascino fuori la valigia. «Oh, per l’amor di Dio», dice Emerson quando la vede. Nel giro di qualche istante, il bagagliaio è pieno e viene richiuso, ed è proprio come me lo sono immaginato: sono schiacciata fra Emerson e Andrew mentre ci dirigiamo verso la stazione di Poughkeepsie. Nella lista questo non c’era. Proprio per niente.

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Max

«LASCIA SULLA CNN O TI TOLGO DAL TESTAMENTO!»

La voce di mio nonno rimbomba per tutta la casa. Mi sveglia. All’inizio ho pensato fosse la voce di Dio e, lasciatemelo dire, è un modo del cavolo di svegliarsi. Adesso sono sdraiato a letto, ad ascoltare Dio che fa lo stronzo. «Questa minaccia non funziona più», sento dire a mio padre. «Puoi inventartene una meno ridicola?» «Per favore, Big E», aggiunge una voce stridula e ansiosa. Mia zia. La sorella di papà. «I bambini non dovrebbero vedere tutte queste immagini di rifugiati. Avranno gli incubi per giorni. Solo mezz’ora di Nickelodeon, ok? Mentre finiamo di fare le valigie.» C’è un rumore come di qualcosa che scivola di mano. O che viene lanciato. Quel povero telecomando. Ormai è completamente fasciato nel nastro adesivo, stile mummia. 13


Mio nonno, Ezra Levine, detto anche Big E da chi di noi è costretto a sopportarlo, è in gran forma. Soffre di cuore, ha la pressione alta e due anche malandate, ma il suo disturbo più grave è la stronzaggine cronica. Lo è sempre stata, ma è peggiorata da quando a marzo è morta la nonna. È in suo onore, in onore della nostra cara nonna, che ci siamo riuniti nell’enorme appartamento di Big E a Park Avenue per Natale. Lei era la ragazza irlandese cattolica che rendeva le cose magiche per tutti. Specialmente per il suo scorbutico marito ebreo. Con tutti, intendo i miei genitori, mia sorella, mia zia e mio zio, i loro due figli e me. Mi hanno piazzato nella vecchia stanza di mio padre con i miei cugini gemelli, Theo ed Ezra. Io ho diciotto anni. Loro quattro. Sembra il campeggio più piccolo e più strano del mondo. Non vedo l’ora di tornarmene a casa. Al lavoro. Lontano dagli sguardi della mia famiglia allargata. Persino i due quattrenni mi guardano come a dire Ripetimi un po’ perché non sei al college a quest’ora? Bussano alla porta. «Max, sono papà. Sei sveglio?» «Sì.» Mio padre entra e si guarda attorno. C’è ancora la carta da parati con gli aeroplanini di quando era piccolo, insieme a un unico poster sbiadito di Freddie Mercury, microfono stretto in mano, torso nudo e pantaloni bianchi aderenti. Quindi sì, c’è una strana atmosfera. Papà tira fuori una piccola sedia da sotto una scrivania di legno ancora più piccola. È lì che avrà passato ore e ore 14


a fare i compiti della sua scuola privata d’élite. Poi fa un respiro profondo e mi fissa. Non promette niente di buono. «È stato un bel Natale», dico. «Sì. Tutto considerato.» «Big E fa lo stronzo con tutti, eh?» «Non essere irrispettoso», mi ammonisce papà, ma poi si mette a ridere. «Però sì, stronzo rende l’idea.» «Zia Suze dice che la badante se n’è andata.» «Sì. È di questo che volevamo parlarti.» Mi guardo attorno. Volevamo? Noi chi? L’espressione di papà la dice lunga: il seguito non mi piacerà. «Maxie», continua. «Abbiamo bisogno che tu ci faccia un favore. È un grosso favore, ma so che ne sei all’altezza.» Merda. Sta per chiedermi di aiutare mio nonno a entrare nella vasca da bagno. «Io e Suze assumeremo un’altra badante», dice papà, «ma ci vorrà qualche giorno per trovarla. Io devo tornare al lavoro domani. La zia deve riportare i bambini in New Jersey». Ecco che il quadro si completa. Prevede molto, ma molto di più di un vecchio nudo in un bagno. «Maxie, sei l’unico di noi che non ha impegni questa settimana...» Fai pure, metti il dito nella piaga. Sono quell’idiota che era pronto a cominciare la Brown e poi all’ultimo, una settimana prima dell’orientamento delle matricole, ha detto: Ehi, scusate, possiamo fare un’altra volta? Una delle mie motivazioni era giusta. L’altra sbagliata. Così sbagliata da oscurare quella giusta. Da farmi rimpiangere ogni giorno di non essere a Providence, nel Rhode 15


Island. Mi tengono il posto fino all’anno prossimo, ma dovrei esserci adesso a occuparlo. A riempirne ogni angolo. A farmi riempire a mia volta. «Abbiamo bisogno che tu...», continua papà. «Cioè, ti chiediamo... di restare qui finché la nuova badante non potrà iniziare. Si tratta di due giorni al massimo. Qualcuno deve stare qui in casa, o almeno nei paraggi, casomai gli servisse qualcosa.» «Io e Big E...», faccio per dire, ma non riesco a pronunciare il resto della frase. Non abbiamo niente di cui parlare. Per lui fare il nonno significa mandarmi articoli che vuole farmi leggere. Non sono nemmeno sicuro di piacergli. «Lo so», dice papà, e forse è vero. «Senti, non sarai rinchiuso qui con lui. Puoi uscire, fare le tue cose. Andare al cinema. Al museo. Solo rimani in zona, casomai ti chiamasse.» La verità è che non ho niente di meglio da fare a casa. Lavoro in un’azienda di telemarketing, per mettere da parte più soldi possibile in vista del college, ma hanno dato a tutti una settimana di vacanza. E poi, se sto qui, non posso uscire con i miei compagni di liceo né vedere Eliza, la mia ex. Il che non guasta. «Va bene, papà», dico infine. «Hai ragione. È meglio che lo faccia io.» Mio padre mi dà una pacca sulla spalla. «Sei un bravo ragazzo, Maxie. Si può sempre contare su di te quando c’è bisogno.» Quanto è vero. Se qualcuno ha bisogno, io ci sono. Ma dove sono quando nessuno ha bisogno di niente? 16


Chi sono quando nessuno ha bisogno di niente? È questa, cari miei, la vera domanda. *** Un’ora dopo, le due famiglie sono pronte a mettersi in strada. Tranne me, naturalmente. Sono seduto in cucina, con in mano una tazza gigante di caffè. Allie, mia sorella, si avvicina e ne beve un sorso. Ha quindici anni. «Vaya con Dios, hermano», dice. «Grazie.» Mamma e zia Suze mi abbracciano in rapida successione. I cuginetti mi abbracciano perché gliel’ha ordinato zia Suze. Mio padre mi dà un’altra pacca sulla spalla. Big E si è addormentato in poltrona e non so cosa faccia più rumore, se la Tv o lui che russa. Zia Suze mi prende da parte e scorre l’elenco di tutte le medicine che assume il nonno. «Lui lo sa cosa deve prendere, e quando. Ma controllalo un paio di volte al giorno per essere sicuro.» La zia ha tolto dal frigo tutto quello che non deve mangiare. E ora eccola che mi porge una pila di menù di ristoranti vicini, con alcuni piatti cerchiati. Posso ordinargli pranzo e cena scegliendo fra questi. Poi mi dà la lista dei numeri di telefono della miriade di medici che lo hanno in cura. «Ma se non è un’emergenza, chiama me prima», dice Suze. «Posso essere qui nel giro di un’ora.» Guardo la ruga che ha fra le sopracciglia e mi rendo con17


to, per la prima volta, di quanta energia riversi sul nonno. Per lei dev’essere come avere tre figli, non due. Provo una stima e un’empatia enormi per lei. E poi sollievo. Perché posso rendermi utile. E così, le due famiglie se ne sono andate. Nessuno voleva svegliare Big E, quindi non lo hanno salutato. Chissà, magari andrà in bestia per questo, oppure se ne infischierà alla grande. Resto a guardarlo per qualche istante, il petto che si alza e si abbassa. Il movimento è molto appesantito. Lo so che è solo un essere umano. Mi conosce da sempre. Abbiamo lo stesso sangue e lo stesso secondo nome. Me la faccio sotto.

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Kendall

ABBIAMO CORSO PER PRENDERE LA METROPOLITANA DI-

retta a nord, verso casa di Emerson e Andrew, e non sto a dirvi quanto è stato faticoso trascinarmi dietro la valigia per la Grand Central Station. Adesso tiro il fiato su un sedile addossato alla parete del vagone. Il tizio seduto accanto a me porta dei Ray-Ban da sole, guanti neri senza dita e una giacca di pelle. Legge un libro in francese e non sembra curarsi della ragazza ansimante e della valigia mastodontica che invadono il suo spazio vitale. Se fosse un personaggio del mio romanzo, sarebbe come Judd Nelson in Breakfast Club, ma anche lo studente che pronuncia il discorso di chiusura dell’anno scolastico. Taciturno e pieno di segreti. A scuola, tutte le ragazze lo prendono in giro, ma di nascosto gli sbavano dietro. Una in particolare è ossessionata dalle unghie che 19


A volte basta un passo,

a volte ci vuole un salto, ma in un caso o nell’altro, l’importante è non stare fermi.


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