La mia idea geniale (e come mi ha rovinato la vita) di Stuart David Traduzione di Francesca Capelli Š 2017 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Copyright Š Stuart David 2015 Pubblicato per la prima volta in inglese con il titolo Jackdaw and the Randoms da Hot Key Books Limited, London The moral rights of the author have been asserted ISBN 978-88-6966-196-9
STUART DAVID
traduzione di Francesca capelli
1 Eccomi qui, seduto in classe nell’ora di scienze di Baine-il-Pelato, a fissare fuori dalla finestra un piccione sfigatissimo che attacca un vecchio panino abbandonato, quando all’improvviso il Pelato esplode. «Ehi tu!», urla. Mi giro per vedere con chi dà di matto questa volta. Purtroppo sono io. «Sveglia!», dice. «Secondo te, come devo procedere in questa specifica situazione?» Giuro che do al problema l’importanza che merita. “Dovrebbe infilare la barba in un becco di Bunsen”, mi viene da dire, ma mi trattengo. Solo che è la terza domanda che mi fa dall’inizio della lezione ed è la terza volta che non so rispondere, perché non sono stato abbastanza attento da capire di cosa stia parlando. Mi guardo in giro, nel caso qualcuno mi lanciasse un’imbeccata, ma se ne stanno tutti seduti, eccitatissimi all’idea che sia io quello sotto torchio e non loro. Baine mi guarda fisso, con gli occhi che scintillano, ma tutto ciò che riesco a dire è: «Può ripetere la domanda, per favore?». E questa sembra proprio essere la goccia che fa traboccare il vaso. «Fuori!», urla. «Resta nel corridoio per il resto della lezio-
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ne. E se anche il preside non dovesse vederti, faremo i conti direttamente noi due più tardi.» Fuori di testa proprio. Guardo per l’ultima volta il piccione, ancora impegnato nella sua lotta contro il panino, ed esco. Beccato. Alle mie spalle, brusii e qualche risata, tanto che Baine dà ancora di matto, ma ormai sono già nel corridoio e questa volta io non c’entro. Ed è in quel momento che la mia vita cambia. Sono appoggiato al muro e sulla parete di fronte guardo un poster che spiega come non rimanere incinta o qualcosa del genere, quando di colpo eccola: la mia Idea Geniale. L’onda cerebrale che stavo aspettando. L’ispirazione per un’app così brillante che dovrà per forza rendermi ricco. Cosa dico, straricco! Tiro fuori il cellulare e vado su Internet, per essere sicuro che l’app non esista già. Mentre navigo online penso già a come chiamarla: Il Guardiano, iOtivedo, Il Capoclasse? Il mio cervello gira al massimo e all’improvviso non mi importa più niente di niente. Non mi importa di essere stato sbattuto fuori dalla classe ancora una volta, né che manchino solo un paio di mesi agli esami. Nemmeno del fatto che, di tutto ciò che ci hanno spiegato nel quadrimestre, non ho assorbito nemmeno un nanobyte, in nessuna materia. Niente di tutto questo, ora, è in grado di turbarmi. Questa idea mi sistemerà per anni. Per decenni. Per secoli.
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È una genialata. E proprio mentre sto elaborando il mio piano nei minimi dettagli, i miei ragionamenti sono brutalmente interrotti dal suono della campanella. Una massa di studenti si riversa in corridoio dalla porta alle mie spalle. Qualcuno, passando, fa commenti arguti come: «Ehi tu!» o «Torna tra noi!». Da morire dal ridere, proprio. Tengo gli occhi fissi sul poster sulla gravidanza, per non soccombere alla massa in uscita, in attesa di capire cosa abbia in serbo per me Baine questa volta. Ma ecco il problema del Pelatone. Non metto in dubbio che sia una specie di genio quando si tratta di reazioni chimiche e cose simili, ma poi si perde. Ha il cervello strapieno di nozioni scientifiche e non c’è posto per nient’altro, cioè per le questioni di vita quotidiana, come ricordare di togliere briciole e avanzi di cibo dalla sua barba o punire lo studente che ha sbattuto fuori dall’aula perché fissava un piccione. Insomma, si è proprio dimenticato di me. Aspetto che tutti se ne siano andati e, un paio di minuti più tardi, il mio solito compare, Sandy Hammil, scivola fuori dall’aula e mi dà il segnale di scampato pericolo. «Si è scordato?», gli chiedo e lui annuisce. «L’ho distratto verso la fine dell’ora, parlandogli di protoni», dice Sandy. «Poi se n’è andato in sala professori.» Mi stacco dal muro e seguo Sandy giù per le scale, con un senso di sollievo. «Si può sapere dove avevi la testa?», mi chiede. «Devi cominciare a concentrarti sul serio. Mancano due mesi. Non abbiamo molto tempo.»
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«Lo so», rispondo. «Ma ormai non è più importante. A questo punto ho svoltato, Sandy. Ho avuto Quella Grossa.» Mi guarda senza capire. «Quella Grossa cosa?», dice. «Quella Quella Grossa. L’Idea Geniale che cambierà la mia vita. L’idea che stavo aspettando. Mi è piombata addosso come un tir mentre ero nel corridoio. Grazie a Baine diventerò ricco.» Sandy brontola. «Non ricominciare, ti prego», dice. «Questa volta non riuscirai a coinvolgermi in un’altra delle tue follie.» Scuoto il capo. «Stavolta è tutto vero», ribatto. «Questa idea non può fallire in nessun modo.» «Come quella volta della bicicletta? Come il disastro in cui mi hai trascinato con i vassoi della mensa? Anche quelle idee geniali, se non ricordo male, non potevano fallire.» «Rilassati», gli dico. «Questa è diversa. Tra l’altro non avrò nemmeno bisogno del tuo aiuto. Sta’ tranquillo, l’hai scampata. Si tratta di un’app. Devo solo trovare un programmatore che lavori gratis.» Mi lancia un’occhiata carica di rimprovero. «Forse, se fossi stato attento durante le lezioni di informatica, saresti in grado di programmare tu stesso.» «Forse», ammetto. «Ma se fossi stato attento in classe, non mi sarebbe mai venuta l’idea. Perché la mia app fa esattamente questo: ti evita di finire nei guai quando ti addormenti durante una lezione.» A questo punto Sandy dice qualcosa che mi provoca un mezzo infarto. «Guarda che esiste già un modo per evitarlo.»
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Non riesco a crederci. Eppure in Rete non ho trovato niente. Mi cedono le ginocchia, devo aggrapparmi al corrimano e respirare a fondo. Poi gli chiedo di cosa si tratta. «Basta restare attento mentre il prof spiega», ride e nel mio cuore torna il sereno. Colpisco Sandy con un amichevole pugno sulla spalla e gli scombino i capelli. «Ci siamo», insisto. «L’ho aspettata per tutta la vita. Questa è la Volta Buona, Sandy.» A proposito, mi chiamo Jack. Jack Dawson. Ma tutti mi chiamano Jackdaw, che vuol dire taccola, uno di quegli uccelli simili ai piccioni. E se non lo fanno da soli, sono io a dirglielo. Assomiglio proprio a una taccola. Ho gli occhi grigi e i capelli nerissimi, a parte i punti dove sono diventati bianchi. Forse per lo shock, quando mi sono reso conto della vita che mi tocca fare tra la scuola, gli esami e tutto il resto. Comunque sia, i miei capelli sono parecchio strani, ma me piacciono. Li curo molto. A volte mi faccio un taglio sfilato, a volte li pettino all’indietro. Li porto sia lunghi, sia corti. L’importante è che siano in ordine. Almeno, io la penso così. Non c’è motivo di assomigliare a un piccione sfigato, no? Io non ne vedo nessuno. «Che lezione hai adesso?», chiede Sandy mentre attraversiamo il cortile. Gli dico che mi aspettano due ore di storia con il Sergente Monahan. «Che sfortuna», commenta. In un’altra circostanza gli avrei dato ragione. Monahan è pazzo. Ma oggi è diverso,
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perché mi siedo vicino a Mark Walker, che è un nerd straordinario. Quando non riesco a risolvere qualcosa durante la lezione di informatica, cioè quasi sempre, chiedo a Mark. Lui non mi delude mai. «Ci vediamo all’ora di pranzo», mi saluta Sandy. «Io adesso ho due ore facili: economia domestica.» E si dirige verso le scale dell’ala nuova della scuola, mentre io attraverso il cortile nella direzione opposta e mi sembra di volare.
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2 Anche se non me lo ricordo, dev’esserci stato un momento, una mattina o un pomeriggio, in cui ho scelto storia tra le materie da seguire. Cosa avevo in mente? Non ne ho idea e, se potessi tornare indietro, non ho dubbi che sceglierei qualcos’altro. Soprattutto se avessi saputo fin dall’inizio che mi sarei beccato Monahan. Si dice che prima di mettersi a insegnare fosse nell’esercito. Non so se sia vero. Non so nemmeno se l’esercito l’avrebbe mai arruolato. Secondo me è troppo pazzo anche per loro. Ha i capelli bianchi cortissimi, che lo fanno assomigliare a uno spazzolino da denti usurato; una facciona tonda quasi sempre rossa, di solito per la rabbia. I suoi baffi assomigliano alle vibrisse di un gatto, più che a qualsiasi altro tipo di pelo presente sulla faccia di un umanoide, e il più delle volte porta una cravatta a farfallino che sembra strangolarlo. Magari. Oggi, dopo appena dieci minuti di lezione, Fritter Mackenzie è già in piedi davanti alla classe, in un angolo, con in mano un pesante libro di storia, che deve reggere con un solo braccio, aperto all’altezza della spalla. E tutto
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questo perché si è messo a fischiettare mentre lavorava al suo progetto. Sono quasi sicuro che sia contrario ai Diritti Umani di Fritter e di chiunque altro, come tutte le cose che fa il Sergente Monahan. Fritter ha gli occhi rossi per lo sforzo. Deve stare lì in piedi e, ogni volta che abbassa le braccia anche di un solo millimetro, il Sergente gli si avvicina e gliele fa risollevare di nuovo, finché non sono a novanta gradi con il torso. «Ricomincia da capo», gli dice Monahan. «Dieci minuti senza muoverti. Guarda che stai rendendo tutto più difficile.» A Fritter tremano le braccia e il libro oscilla su e giù. Nessuno ce la fa mai per dieci minuti consecutivi, il che significa restare lì per tutta l’ora. «Devo parlarti», sussurro a Mark Walker, appena si presenta l’occasione giusta. Monahan ci dà le spalle e scrive qualcosa sulla lavagna a fogli mobili per un’altra lezione, ma Mark non si gira nemmeno verso di me. Scuote la testa, tutto rigido, e guarda fisso davanti a sé. «Finiremo anche noi lì davanti», mormora con voce tremante. «Basta che parli a bassa voce», insisto, ma lui fa di nuovo no con la testa e tace. Lo guardo e sospiro, poi strappo una pagina dal mio quaderno e scrivo: «Ho bisogno che tu mi faccia un programma. In Objective-C», e gli passo il biglietto. Si volta a guardarmi come se pensasse che io sia un perfetto idiota – e magari lo pensa sul serio – poi gira il foglietto e scrive sul retro.
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«Ma almeno hai idea di cosa sia Objective-C?», dice il messaggio. Me l’ha lanciato sul banco e io per un po’ lo guardo fisso. Poi strappo un altro foglio. «So che è un linguaggio di programmazione per le app», scrivo. «E so che ho bisogno del tuo aiuto.» «Ma io non so usare Objective-C», risponde. «Come no? Facciamo insieme informatica», scrivo. Gli passo il biglietto e lui mi risponde con l’eloquente occhiata di prima e alza le spalle come per dire: “E con questo?”. «Abbiamo studiato Objective-C», sussurro e lui aggrotta le sopracciglia, poi gira di nuovo il mio biglietto. «No, invece, cretino», scrive e in quel preciso istante il Sergente si gira, con il volto in fiamme. «Silenzio!», grida. «Chi è che parla? Chi osa interrompere la mia lezione?» Mark diventa pallido come un fantasma e io abbasso lo sguardo e mi metto a fissare il banco, sicuro che la sua paura ci tradirà. Mi viene in mente di guardare qualcun altro nella stanza, sperando che Mark mi imiti e quel pazzoide di Monahan si convinca che sia lui il colpevole. Concentro i miei sforzi su Amanda Gray, ma subito mi rendo conto che quasi tutti sono sbiancati e a questo punto è ovvio che Mark non potrà più tradirsi. Guardo il Sergente, i cui occhi passano da una faccia all’altra. Poi si accorge che Fritter ha di nuovo perso il controllo del libro, va da lui e glielo toglie di mano. «Siediti», dice e rimette il libro sullo scaffale. «Come vedete il volume è di nuovo disponibile per chiunque voglia farsi avanti», dice, mentre guarda di nuovo, una dopo l’al-
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tra, le nostre facce da zombie. «Nessuno? Bene. Continuate così. Tornate a concentrarvi sui vostri progetti.» Gira un altro foglio della sua lavagna e riprende a scriverci sopra. Mark si volta a guardarmi con gli occhi a fessura e io ne approfitto per scrivergli un altro biglietto: «Sono sicuro di aver sentito Bronson parlare di Objective-C». Ma lui nemmeno lo guarda. Devo ricorrere alla minaccia di fargli il solletico, cosa che lo farebbe ridere e finire in punizione, prima di riuscire a ottenere una risposta. Le sue labbra si assottigliano e si mette a scrivere. «Certo che ne ha parlato», scrive furioso. «Ma non vuol dire che ce lo abbia insegnato. Sei sicuro di aver seguito lo stesso corso, per tutto quest’anno?» Lascia il foglietto sul banco, senza nemmeno spingerlo dalla mia parte, tanto che per leggerlo devo sporgermi verso di lui. Quando riesco a decifrare il contenuto, sono piuttosto sorpreso. Bronson ce l’ha menata così tanto con le app scritte in Objective-C, che ero sicuro che avesse cercato di insegnarcelo. Devo essere stato ancora meno attento di quanto pensassi. So che a volte ho la testa altrove, ma qui ho superato me stesso. Credo dipenda dal fatto di essere una macchina-spara-idee: è difficile, per uno come me, capire qual è il senso di passare gran parte delle giornate ad ascoltare un insegnante che mi parla delle idee altrui. Il punto, semmai, è riuscire a star dietro alle mie, di onde cerebrali. Le due ore di storia sembrano interminabili. Nessun altro si becca la punizione del libro, anche se qualcuno la sfio-
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ra. Emma Wilkinson ci va più vicino di tutti, quando per sbaglio fa cadere una matita, che rotola dalla parte opposta dell’aula. L’incauta decide di andare a raccoglierla senza chiedere il permesso al Sergente, che va fuori di testa. Emma si incasina con le scuse, addirittura si mette a piangere, tanto che il Sergente si limita a rimproverarla. La calma scende di nuovo su di noi. Quando suona la campanella e il calvario delle scuse si conclude, afferro Mark per un braccio, raduno le mie cose e cammino con lui per il corridoio. «E che mi dici di quella gang di nerd che frequenti?», chiedo. «Ce ne sarà pure uno che sa usare Objective-C.» Scuote energicamente la testa, come se fossi entrato nel suo club di scacchi per organizzare un torneo di dama. Non mi lascio scoraggiare e torno alla carica. Qualsiasi informazione è preziosa. «C’è solo una persona in tutta la scuola che conosce Objective-C», dice. «Tra gli insegnanti non so, ma tra gli alunni c’è una sola persona.» «Me ne serve una sola», rispondo. «Nient’altro.» «Non questa», dice. «Faresti meglio a scordarti dell’intera faccenda.» «Ma chi è?», chiedo. Scuote di nuovo la testa. «Non vuoi saperlo, fidati», mi fa. «Meglio che ti inventi qualcosa di diverso.» Mi fermo e lo afferro per un braccio. Impallidisce di nuovo stile fantasma, ma non come prima durante la lezione di Monahan. «Dimmi solo chi è», insisto. «Lascia che sia io a giudicare se voglio saperlo.» Tira via il braccio e fa il gesto di spazzolarsi la manica
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della giacca. Resto in attesa e alla fine mi dice una sola parola: il nome che gli ho chiesto. ÂŤGreensleeves.Âť Annuisco appena e lascio che si allontani. Greensleeves. E in quel momento so che non si riferisce alla canzone tradizionale inglese, Maniche verdi. Ma a Elsie Green. Porca porcaccia.
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3 La mensa è nell’ala nuova, così Sandy parte avvantaggiato nella corsa a ostacoli del pranzo. Quando riesco a trascinarmi fino al tavolo con il mio orripilante piatto di würstel con cipolle, lui è già a arrivato a metà della sua prova di sopravvivenza. «Tutto bene?», mi fa. Annuisco e mi siedo. Lui punta la sua forchetta contro il mio triste pan di Spagna, mentre combatte la sua personale battaglia contro uno boccone di cibo squallido. Appena riesce a deglutirne una parte, mi dice che posso evitare il dolce della mensa, per oggi. «Perché?», gli chiedo. Lui apre un contenitore appoggiato sul tavolo: «I muffin del corso di economia domestica». Hanno un aspetto invitante. Così invitante che prendo in considerazione la possibilità di lasciare lì i würstel con cipolle a favore di un intero pranzo a base di muffin. Tuttavia l’intensa attività cerebrale della mattinata mi ha fatto venire una fame bestiale, così mi tappo il naso e affronto il piatto principale del giorno. «Com’è andata con Monahan?», chiede Sandy. «A chi è toccato il libro?»
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«All’inizio non ci faccio caso. Inizia piano, ma poi il formicolio si fa più intenso, sento un ronzio nella testa e all’improvviso capisco cosa sta succedendo. Idea in arrivo. Resto seduto in attesa, concentrandomi, ed ecco il colpo. Una pernacchia encefalica. Un prurito cerebrale cosmico. Questa è la grande Idea Geniale.»