La solitudine delle stelle lontane

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Kate Ling La solitudine delle stelle lontane Traduzione di Anna Carbone Hotspot è un marchio di Editrice Il Castoro www.hotspotlibri.it © 2016 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano Pubblicato per la prima volta con il titolo The Loneliness of Distant Beings da Hodder and Stoughton Copyright © 2016 Kate Ling ISBN 978-88-6966-123-5


KATE LING

LA SOLITUDINE DELLE STELLE LONTANE Traduzione di Anna Carbone

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CAPITOLO UNO So che sono uccelli, ma solo perché me l’hanno detto. Sono tantissimi, appollaiati in fila, e aspettano, e non so che cosa sia che alla fine li spinge ad alzarsi in volo, però lo fanno, tutti quanti, tutti insieme, guizzano nel cielo portati da migliaia di minuscole ali. E il cielo di cui ho sempre vissuto solo all’esterno è azzurro, tanto azzurro, spazzato di nuvole come pennellate. Sul grosso schermo, ai funerali, mostrano sempre questo stesso spezzone di film. Presumo che tutti comprendiamo la metafora o quello che è. E poi fanno scorrere qualche foto del defuntio, solo un paio, in genere gli scatti ufficiali alla fine di Istruzione o ai balli di Natale o di loro in uniforme o qualcosa del genere. Ma questa volta è diverso, proprio all’inizio c’è un’immagine della mia bisnonna sul pianeta che ha lasciato, con le guance di pesca, abbronzata, che socchiude gli occhi al sole, la sabbia che le aderisce alle gambe. E quando appare, tutti trattengono rumorosamente il fiato. La bisnonna Bea aveva un mucchio di foto, alcune stampate su carta per cui le potevi tenere fra le mani. Le potevi tenere e guardarci dentro come fossero finestre. E quando ci guardavi dentro, lei era lì che guardava fuori. Più giovane. Adesso è lì che guarda fuori, viva, mentre in realtà è morta. Il funerale è come tutti gli altri. Dopo avere deposto i fiori 5


mandati da Produzione, restiamo in piedi a guardare, a fissare una scatola, e poi il nonno fa un discorso. Non accenna neppure al fatto che Bea è stata l’ultima persona in questo posto ad avere mai vissuto sulla Terra, ma so che è a questo che pensiamo tutti. So che la ragione per cui oggi sono venuti così in tanti è questa: in un certo senso, ora siamo davvero tutti soli. E poi usciamo dalla camera di equilibrio, la lasciamo là e ce ne andiamo. Il nonno è l’ultimo ad andare e sembra che si ricordi di muoversi solo perché lo prendo per un braccio. Immagino che questa parte non diventi mai più facile, per quante volte la si ripeta. Le porte ermetiche si chiudono e attraverso gli spessi oblò guardiamo il portellone esterno che si apre, su entrambi i lati contemporaneamente, come mascelle giganti, e poi non c’è più. È là fuori, vola nello spazio verso chissà dove. Proprio come faceva prima, in realtà, solo che ora lo fa da sola. Sento a malapena l’annuncio del primo turno di corsa. Ho lasciato la veglia presto solo per precipitare in un orrendo e profondo sonno da zombie, ed è per questo che sto ancora sognando mentre mi infilo tuta e scarpe da ginnastica e mi dirigo al Ponte principale, dove aspetto sbadigliando talmente che quando i corridori mi sfilano davanti tremo tutta e ho gli occhi umidi, e mi unisco a loro come se mi tuffassi nell’acqua corrente. Ho della musica nel pod, ma probabilmente non l’ascolto neppure, e neppure penso davvero mentre imbocchiamo il Ponte, prendendo irresistibilmente lo stesso ritmo finché non battiamo i piedi all’unisono come un tamburo. Quelli di ritorno a casa dal terzo turno camminano da un lato, in fila indiana, con gli occhi fissi a terra. Alcuni dei tipi più esaltati e rumorosi sul davanti si allungano per sfiorare le canalette sopra di loro, come fanno sempre, e mi viene quasi voglia di 6


mettermi a urlare per l’abisso di noia che è diventata questa cosa. Lo ha prescritto il dottor Maddox. È l’unica ragione per cui lo faccio, devo, se voglio stare fuori da Correzionale. Il dottor Mad non crede nelle terapie farmacologiche a lungo termine per i “bambini”, lui preferisce i rimedi naturali, per esempio raccontargli tutte le cose orribili che ti passano per la testa e correre in tondo inutilmente, che secondo lui stimola la produzione di endorfine. Io però non ne sono ancora del tutto convinta. Rimugino per un mucchio di tempo sul fatto che i farmaci sarebbero la soluzione migliore, anche se in effetti ti danno la sensazione che ti abbiano strappato via il cervello e ci abbiano messo al suo posto una spugna intrisa d’acqua. Ma in ogni modo, ecco perché mi ritrovo a correre in cerchio con tutti questi piloti di Ingegneria e con quelli che non si sa come sono riusciti a ingrassare con le misere razioni che ci scodellano nelle mense. Ormai lo faccio tutte le mattine da più di un anno, da quando sono riuscita a sgusciare via dalle grinfie del dottor Mad a Correzionale, dove sono stata trattenuta per cinque settimane perché avevo più o meno deciso di smettere di parlare per un po’ e poi – una notte più brutta delle altre – avevo cercato di scavarmi a mani nude una via di uscita da questo posto attraverso le pareti di metallo, strappandomi tutte le unghie, e allora tutti avevano deciso che era perché ero pazza. Però, cioè, non è una cosa di cui mi piaccia parlare troppo perché, insomma, è piuttosto imbarazzante, e tutta la faccenda ha creato un mucchio di ricordi tristi di cui preferirei non assumermi la proprietà, checché ne dica il dottor Mad. E così faccio i miei giri di corsa e torno normale. Torno non matta. Tranne che immagino che se sei andata fuori di testa una volta, non avrai mai la sensazione che non si ripeterà. Ti guardi sempre alle spalle. Scappi. 7


Per la maggior parte della gente, il momento migliore è quando si arriva a Panorama. Panorama di Ponte Ovest è lungo un centinaio di passi. Ha una fila di sedili sfalsati da una parte e un po’ di spazio davanti per camminare (o nel nostro caso per correre) e sulla nostra destra c’è un vetro quadruplo sigillato ermeticamente che va dal pavimento al soffitto e un’infinità di galassia che ti prende a pugni in piena faccia. Immagino che non si possa fare a meno di guardarla, ma a me non fa lo stesso effetto che fa agli altri. O comunque, non lo faceva fino a poco tempo fa. In queste ultime settimane ci stiamo avvicinando al sistema stellare Huxley, e vedere un vero sole mi ha fatto apprezzare di più questa vista. Non c’è stato un sole per moltissimo tempo, e in un certo senso ti riporta in vita, indipendentemente dal fatto che, essendo una nana arancione di mezza età, Huxley è piuttosto piccolo e buio. Ma comunque ti sveglia, ti sveglia a un livello cellulare che immagino non riusciamo neppure a capire, ma del resto non dobbiamo farlo. Huxley è forse il primo sistema abitabile che incontriamo da ottantaquattro anni. E d’accordo, ha un’importanza limitata perché noi siamo un’astronave di Primo Contatto e non una Pioniera, però noi qui siamo i primi, siamo i primi a passare di qui, e non abbiamo idea di quello che ci si può trovare; e in questo momento questa è l’unica cosa che mi fa venire voglia di essere viva; questa è l’unica cosa che mi fa venire voglia di vivere nella mia pelle. Dopo la corsa non ho per niente voglia di tornare nel mio alloggio, perciò invece vado a trovare Emme. Ultimamente lei e io non andiamo troppo d’accordo, e so perfettamente che è per via del fatto che sono matta. È questo il problema quando si sbrocca: una volta che ti succede, nessuno ti guarda più allo stesso modo. Ma quando suono alla sua porta, lei mi fa entrare subito e 8


rimaniamo lì, nello stretto spazio grigio della cambusa della sua famiglia, che è una baraonda, ma per fortuna deserta. «Dove sono i tuoi?», le chiedo prima di distrarmi senza volere e perdermi la sua risposta. Poi la seguo nella sua stanza dove ci sediamo sulla sua brandina e io mi chino in avanti sulle ginocchia guardando il pavimento. «Hai voglia di giocare a scacchi?», mi chiede. Annuisco e mi spingo all’indietro sul letto fino ad appoggiarmi contro la paratia, tanto che sento freddo sulla schiena. Mentre carichiamo la partita sui nostri pod, nessuna delle due parla, però la guardo di sottecchi e vedo che mi osserva. «Mi dispiace per la tua bisnonna Bea», mi dice. «Sì, be’, è normale, era vecchia.» Mi stringo nelle spalle, non mi confido. «Mah...», dice lei. «Però, con il diploma e il resto.» «Sì, be’, in realtà non mi importa molto neanche di quello.» «Già, neanche a me.» Dai pod esce un bip e facciamo un paio di mosse. Poi mette in pausa. «D’accordo, ho detto una bugia, invece a me importa», ammette. La guardo e aspetto. «Non sono pronta», confessa, e lascia un silenzio che non riempio. «Perché, tu invece lo sei?» «È solo che... insomma, mi sembra completamente inutile stare a pensarci quando non c’è niente che possa fare per cambiare le cose.» «Ma l’ingresso in Servizio? E l’Unione? Non ti preoccupa per niente?» «Perché stare a preoccuparsi quando tanto succederà comunque, che lo voglia o no?» Mi guarda da sotto le sopracciglia, con le labbra rigide, poi 9


sblocca la partita per un po’, fa un’altra mossa e la rimette in pausa. «E allora, chi credi che ti capiterà? Per l’Unione?» Faccio spallucce. «Tutta questa storia è una farsa, perciò che differenza fa?» Mi osserva con la stessa espressione negli occhi graziosi e ben distanziati. «Quand’è che sei diventata così?» mi chiede. «Così come?» «Come se non ti importasse niente di niente.» Ed è a questo punto che mi rendo conto perché ultimamente Emme e io non ci intendiamo più: perché lei pensa ancora che sia possibile dare un senso a questa nostra esistenza vana, mentre io so già che non si può.

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CAPITOLO DUE Mia sorella Pandora ha sposato Cain quasi un anno fa e adesso, a diciannove anni, è incinta di sette mesi. E, accidenti a lei, è un pozzo di felicità. Non fa altro che ridere e cucire vestitini e invitare in casa tutte le giovani mamme perché le regalino cose e le accarezzino la pancia. E anche Cain lo trova fantastico. Pensare che un tempo lo consideravo in gamba. A vederlo adesso, completamente istupidito e sempre a vezzeggiare lei e il suo pancione, non lo riconosco quasi. Una volta ero gelosissima di mia sorella, che aveva trovato un compagno davvero a posto, e adesso lo trovo un tale sfigato che non riesco quasi a guardarlo. Pandora non mi ha deluso troppo perché ho sempre pensato che non valesse granché, ma qualche volta sono davvero stupita di quanto poco abbiamo in comune. Tutti questi anni vissuti insieme e ora lei non sa fare altro che lavorare scarpine a maglia. A questo punto una persona normale si sarebbe già trasferita nel suo nuovo alloggio, ma mia sorella non è normale e ha fatto domanda soltanto adesso per averne uno. E questo perché è erroneamente convinta che a me e a mio padre faccia piacere averla con noi. Lo so perché Cain mi ha detto quanto era preoccupata di come ce la saremmo cavata senza di lei, tanto che aveva pensato di rimanere con noi anche dopo la nascita del bambino, ma io gli ho risposto che ero molto più 11


preoccupata di come ce la saremmo cavata con lei che non senza. Cioè, tutta la situazione è disfunzionale al massimo. Quando non lavora, sembra che mio padre non sappia neppure più come fare a stare seduto in mezzo a noi. Era ormai talmente abituato a vederci litigare senza badare a lui che non diceva una parola, magari qualche volta rideva soltanto per qualcosa che avevamo detto oppure se ne usciva con un: «Su, avanti, ragazze», ma noi abbiamo sempre saputo che in fondo si divertiva, soprattutto perché poi tutte e due gli davamo un bacio sulla testa prima di andare a dormire. Ma adesso, non lo so, è come se Cain e Pandora fossero diventati muti e parlassero solo fra di loro mentre papà e io guardiamo gli schermi, ma per lo più penso solo a quanto è idiota Pan per essere così felice alla prospettiva della misera esistenza che l’aspetta. Così forse il giorno in cui mi sveglio ed è il mio ultimo giorno a Istruzione, spero solo di non diventare mai come lei; forse spero solo di arrivare alla fine di questa giornata senza che il cervello mi sgoccioli fuori dall’orecchio. Alla prima ora abbiamo padre Seth, che sostanzialmente ha trascorso gli ultimi dieci anni a raccontarci storie della Bibbia ed è passato il nostro ultimo giorno in quest’auletta grigia per spiegarci il senso della vita, o comunque il senso della vita come lo vede lui. Ovviamente l’unico a stare attento è Jonah, il solo che si interessa di queste cose. Cioè, Emme prende tutti gli appunti del mondo perché lo fa sempre, ma si vede benissimo che ha inserito il pilota automatico. «E adesso, Generazione 84, è venuto il vostro momento.» Ecco, questo è proprio il genere di boiate che padre Seth tira sempre fuori. In questa classe siamo in trentacinque, dai quindici ai diciassette anni; siamo l’ultimissima infornata di operai sputata da quella che è sostanzialmente una catena di montaggio. Istruzione ha tre classi soltanto, perciò si passano tre 12


anni in Istruzione A, tre in Istruzione B e tre in Istruzione C, e poi si è fuori, e allora si mettono a rovinare la vita a un nuovo gruppo di bambini dai sei agli otto anni che presto cominciano a desiderare di non essere mai nati. Quando torno ad ascoltarlo, padre Seth si sta accalorando sull’argomento, sorride in mezzo alla barba che a quanto pare è d’obbligo per chi è dedicato a Dio. «Questo è il vostro momento, Generazione 84. Il sentiero della vita sta per snodarsi davanti a voi, la vita che Dio ha scelto per voi.» Che, ovviamente, è solo un altro cumulo di cavolate che dice lui, perché Dio non ha proprio un bel niente a che fare con quello che succede quaggiù, e lui lo sa benissimo. «E domani scoprirete chi fra i vostri compagni di classe vi accompagnerà nell’età adulta e nella maternità e paternità, per realizzare il grande obiettivo della vostra vita, qui su Ventura.» Al che Ezra Lomax commenta: «Ehi, ragazze, è inutile che facciate a botte per me. Purtroppo una sola di voi sarà la fortunata», che è proprio da lui, e quasi tutti si mettono a ridere, anche se dal modo in cui alcune delle ragazze (fra cui Emme) ridacchiano, si capisce benissimo che pregano che tocchi a loro. Idiote. Cioè, sarà anche il figlio del Capitano, ed è talmente convinto di essere sexy che riesce quasi a farlo credere anche agli altri, ma questo è tutto quello che si può dire a suo favore. Dopo padre Seth abbiamo il tenente Maria Fernanda per l’ultimissima volta in vita nostra, e anche se non riusciamo a pensare ad altro oltre al fatto che lunedì entreremo in Servizio e chissà quali incarichi ci affideranno, lei decide di mostrarci un video su come si è evoluta la vita sulla Terra. È piuttosto datato, si vede che risale a un’epoca in cui non avevano neppure pensato a tutto questo, non avevano neppure immaginato che un giorno avrebbero caricato ottocentoottantotto persone 13


in una grossa scatola di latta e le avrebbero sparate nell’universo e non le avrebbero mai più riviste. E poi lo sfrutta come trampolino di lancio per spiegarci quanto sia bello che non dobbiamo più vivere come animali; quanto è fantastico che le famiglie siano progettate e regolate senza le complicazioni di legami emotivi e sessuali erratici che provocano il caos; quanto siamo fortunati che entri in gioco la Scienza, che risucchia i nostri ovuli per produrre i nostri bambini per noi su una capsula di Petri, un numero strettamente controllato a cicli di cinque anni, per metà maschi e per metà femmine, come una qualche specie di allevamento interstellare di bestiame. E come se non bastasse, non dobbiamo più preoccuparci di tutte quelle imprevedibili sgradevolezze, malattie e imperfezioni che ci affliggevano un tempo, quando eravamo esseri umani veri. Davvero fortunati, perché adesso abbiamo solo le malattie che ci siamo creati da soli. E poi arriva l’ultimo della nostra empia trinità, il dottor Pen, che ci fa vedere il video pubblicitario della Ventura Communications Incorporated che (ormai) abbiamo visto un milione di volte, in cui ci fanno sentire il suono pulsante, in crescendo, del Segnale, quello che un’intera squadra di gente ha già passato oltre cento anni a cercare (invano) di decodificare e che stiamo seguendo fino a Epsilon Eridani anche se da una parte all’altra ci impiegheremo trecentocinquant’anni, solo per vedere che cosa loro abbiano da dire, ammesso che ci sia un loro e che non sia solo una scoreggia di risposta cosmica. Cioè, è strano, ma anche se immagino che dovrei odiarlo, quel segnale, quello stupido segnale che in realtà è l’unica ragione per cui esiste tutto questo, me compresa, in un certo senso mi è sempre piaciuto. È così ostinato. Continua a ripetersi. E per più di cent’anni nessuno è riuscito a decifrarne il codice (ammesso che ne abbia uno) ed è solo un pasticcio, un rumore 14


confuso, eppure c’è stata abbastanza gente pronta a crederci, a credere che ci chiamasse, tanto da fare accadere tutto questo. Immagino che tutto ciò in realtà dimostri quanto sia disperata la nostra voglia di non essere soli. E tutto questo precede la festa incredibilmente squallida che danno in nostro onore fra le due e le tre, un po’ di karaoke – è così che ci si diverte da queste parti – e tutti noi in piedi imbarazzatissimi mentre i professori fingono di essere commossi e fanno discorsi scemi su ognuno di noi e su quanto saremo felici. A questo punto non parlo granché con nessuno perché è tutto veramente troppo assurdo. Ci sono alcuni dei ragazzi che ho frequentato di più negli ultimi tempi, più che altro perché mi piacciono i videogiochi e invece a Emme non tanto, però giuro che ora che su di noi incombe la possibilità di scoprire che stiamo per diventare marito e moglie non riesco a sopportarli. Invece tengo la testa bassa e me ne sto rincantucciata in un angolo con Emme. «Su, allora, dai, chi credi che ti capiterà?», mi chiede. Mi appoggio il mento sul palmo e la guardo, sorpresa di quanto pesi la mia testa. «Te l’ho detto, non...» Mi blocca con un gesto della mano. «D’accordo, d’accordo, lo so, non ti interessa. Allora, chi credi che capiterà a me?» «So che tu speri che ti capiti Ezra.» Sorride. «Be’, e chi non lo spera, giusto? Figlio del Capitano, sexy da morire.» Faccio una smorfia. «Emme, ma non ti sei mai accorta di quanto è innamorato di se stesso?» Fa spallucce. «Lo so, ma credo che potrei sopportarlo.» Ed è in questo momento che Brandon si ritrova al karaoke e chiama Emme per il suo turno, e mentre sta lì ad aspettare di passarle il microfono, lei mi tende la mano. 15


«Vieni, Seren, facciamo un duetto insieme in ricordo dei vecchi tempi», e giuro che sento un vero e proprio brivido. «Credo che per questa volta passerò.» «Avanti!», insiste saltellando su e giù, poi mi prende per mano, ma io mi ritraggo furiosa. «No, Em, dico sul serio.» E allora lei scrolla le spalle e il suo sorriso vacilla appena un attimo prima che salga sul palco, dove arriva letteralmente al momento giusto per attaccare. Emme non è la migliore cantante del mondo, però centra le note in maniera molto precisa ed è così sicura di sé che fa bella figura. Ho sempre desiderato poter fare come lei, ma anche nelle rare occasioni in cui mi lascio convincere, decido sempre che l’unico modo per darmi un tono è calarmi in una versione ancora più cupa e assorta di me stessa. Non è che non abbia voglia di godermi le cose, è solo che non mi sembra qualcosa che sono in grado di fare. Qualcosa con cui sono nata. Mi scopro a guardarmi intorno nella stanza, a osservare tutti quelli con cui ho passato ogni tristissimo giorno per troppo, troppo tempo, seduti ai banchi e pallidi sotto le luci troppo forti, e i miei occhi si posano su Jonah, che sta leggendo nell’angolo opposto al mio, probabilmente la Bibbia, conoscendolo, come se non stesse succedendo niente di tutto questo. È davvero strano come Ezra e lui possano essere così simili nell’aspetto – sono gemelli identici – eppure così diversi. E poi ci scriviamo tutti dei messaggi stupidi sulle t-shirt come se tutto il tempo sprecato in quest’auletta fosse stato davvero importante, e poi partono i bip del secondo turno e grazie al cielo abbiamo finito.

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CAPITOLO TRE Giorno di diploma. Dobbiamo metterci in uniforme e questa è la prima volta che devo farlo, per cui indosso una camicia con cravatta nuovissima, appena tirata fuori dalla confezione, e un blazer grigio abbottonato fino al collo e questo strano cappello rotondo con lo stesso piccolo simbolo di Ventura sul davanti come i nostri vestiti soliti, però questa volta è d’argento e di metallo e freddo, non è soltanto cucito sopra. Mi guardo allo specchio per un po’, a ripensare a tutto, a cercare di metabolizzarlo. Per la fine della giornata non sarò più in Istruzione. Per la fine della giornata sarò in Servizio, due anni obbligatori prima della specializzazione. Lavorerò in turni di otto ore, cinque giorni la settimana. Per la fine della giornata saprò con chi devo passare la vita, con chi avrò figli progettati geneticamente, chi dovrò fingere di amare. Il Capitano Katerina Lomax, alias Capitano Kat, alias il capo di tutta la baracca e quella che dirige lo spettacolo ora che il vecchio Capitano, il Capitano Lee, è morto da quattro anni circa, sale sul palco con l’alta uniforme blu da Comandante. Nonostante abbia solo sui trentacinque anni e due figli strani e un marito morto, ha passato la vita ad arrampicarsi su per ogni grado finché sembra essere arrivata esattamente dove voleva, vale a dire in cima. È bionda, altissima e follemente sexy, perciò non c’è da perdere troppo tempo a chiedersi come 17


le si siano spalancate tutte queste porte, però in ogni caso si è decisamente prefissata di sfruttare al massimo ogni opportunità che le si presentava. Mia sorella, per dirne una, crede che sia praticamente Nostro Signore Onnipotente, ma non è mai stata capace di giustificare questa opinione o di farmi recedere dalla mia, e cioè che mi fa un po’ paura e che forse non è del tutto a posto con la testa. In ogni modo, qui vicino a me c’è papà, e Pan al suo fianco con Cain, e papà mi prende la mano mentre sediamo nel gelo assoluto del salone e osserviamo il Capitano avvicinarsi al podio. «Come sapete, questo è l’ottantaquattresimo anno da quando Ventura ha lasciato la Terra, e ne sono previsti ancora duecentosessantadue prima che arriviamo a destinazione. Noi rappresentiamo il sacrificio che la popolazione della Terra è stata disposta a compiere per scoprire che cosa può o non può esistere su Epsilon Eridani. Sì, mi avete capita bene, ho detto sacrificio. Non nego, e mai lo farò, che in nome di questa missione abbiamo dovuto fare sacrifici enormi. «La prima volta che la Ventura Communications Incorporated ha sponsorizzato il programma congiunto Seti della Nasa e dell’Agenzia Spaziale Europea, non aveva idea di dove l’avrebbe portata. Il messaggio in codice da loro scoperto, originario della regione del sistema stellare Epsilon Eridani, è stato solo l’inizio. Quando la nostra missione è stata ideata, si sono presentati diversi problemi che è stato necessario risolvere. Prima di tutto le astronavi, che dovevano essere potenti, alimentate a fusione nucleare, autosufficienti. La possibilità di generare una gravità artificiale. La capacità di sintetizzare virtualmente qualsiasi cibo da una base di proteine derivate dal pesce e dalle uova e di filtrare aria e acqua all’infinito significava che l’unico anello debole della catena rimanevamo noi, con la nostra mortalità. Quando è apparso chiaro che non sarebbe 18


mai stato possibile coprire il viaggio nell’arco di una vita, è nata l’idea di un equipaggio multigenerazionale. «Noi siamo una delle generazioni interstellari. Noi non abbiamo mai visto la Terra, non vedremo mai dove stiamo andando. Questa nave, dopo ottantaquattro anni di un viaggio di settecento, sarà tutto ciò che mai conosceremo. Tutto ciò che mai conosceranno i nostri figli. È stato tutto ciò che i nostri genitori hanno mai conosciuto. Saranno i nostri discendenti a raggiungere la destinazione, e un giorno i loro discendenti torneranno sulla Terra portando con sé la notizia più esaltante che l’umanità abbia mai ricevuto. Ma nel frattempo è importante che ricordiamo chi siamo, che portiamo con noi la cultura, i costumi, gli ideali di casa nostra. Che noi siamo della Terra, anche se non l’abbiamo mai vista. «Per questa ragione l’Istruzione che state portando a termine è assolutamente vitale per questa missione, e so che ognuno di voi ha fatto del suo meglio e ne ha apprezzato ogni istante. Ora è il vostro turno di prendere posto nell’equipaggio, di restituire, di contribuire alla vostra società e di diventarne membri il più produttivi possibile, e il primo passo per farlo è il Servizio. Due anni in cui lavorerete in Manutenzione, in Produzione, in Domestica e in altre divisioni e durante i quali vi dimostrerete affidabili, adattabili e laboriosi, e speriamo troverete la vostra vocazione. «Non meno importante è la vostra Unione. Oggi scoprirete chi fra i vostri compagni di classe sarà il vostro compagno di vita. Il programma di Riproduzione è una delle pietre miliari della nostra missione, e sappiamo che adempirete il vostro ruolo con gioia e orgoglio, come i vostri genitori e i loro genitori hanno fatto prima di voi. «Perciò, senza ulteriore indugio, è con grande onore che annuncio la classe diplomata dell’Anno 84 della Missione.» 19


Tutti applaudono e io ho solo voglia di vomitare. Pan si allunga davanti a papà per stringermi la mano mentre lui mi stritola le scapole e sorride – sorride, per amor di Dio! – come se tutta questa cosa possa essere altro che orribile. Cioè, davvero, lui non ne ha proprio idea. Nel momento in cui torno ad ascoltarla, scopro che effettivamente per una volta il Capitano Kat ha da dire qualcosa di relativamente interessante: «Prima che riveliamo le nuove Unioni, abbiamo un annuncio speciale da fare. Uno dei diplomati di quest’anno è stato scelto per una strada molto speciale, e sono più che felice di dirvi che si tratta del mio stesso figlio, Jonah Lomax, che è stato chiamato a una vita sacerdotale, e ovviamente noi siamo tutti molto contenti per lui». Mentre applaude ha quelle lacrime scintillanti posizionate alla perfezione negli occhi e lui si alza per raggiungere il palco e tutti lo osserviamo, praticamente a bocca aperta, e chi se ne frega. Cioè, non c’è limite alle idiozie che questa donna può dire. Non è che sia una cosa così inaspettata o niente del genere, considerato che è sempre stato appassionato di quella roba, però è un modo un po’ troppo comodo per risolvere l’imprevista scissione di quell’uovo, diciassette anni fa. E non so neppure se mi sento triste per Jonah, quando lo vedo salire sul palco e starsene lì con uno sguardo intontito mentre padre Seth gli mette la stola viola attorno al collo, o se invece non sono incredibilmente invidiosa perché ha appena trovato il biglietto gratis per uscire da questo pasticcio. Comunque, non c’è tempo di pensarci: il Capitano Kat è nel suo elemento mentre le luci si abbassano e iniziano gli annunci delle Unioni con le foto che appaiono sul grande schermo fra applausi e grida. D’accordo, la buona notizia è che perlomeno non mi appioppano Arthur (tocca a Phoebe), mentre Erica si becca Nico (cavoli, quello è il peggio del peggio). Emme sa che 20


subito dopo tocca a lei, e anch’io, e ci scambiamo un’occhiata anche se lei è dall’altra parte della sala con mamma e papà e nonna che stanno dando i numeri anche loro per l’aspettativa e poi appare la sua foto, davvero carina, in realtà, anche se lei sapeva benissimo a che cosa sarebbe servita, perciò sulla faccia ha anche quell’aria non troppo mascherata di terrore. E non riesco quasi a guardare la foto che appare accanto alla sua... ed è Leon Witney, il che, insomma, in realtà non è così male. Cioè, sì, è un tipo un po’ strano e silenzioso e balbetta ed è noioso, però guardo verso di lei con i pollici su, perché insomma, poteva essere Ezra, che in realtà è la peggiore delle possibilità, anche se lei invece credeva di volere proprio lui. E così sì, immagino che ci siate arrivati prima di me e che indoviniate già quale foto affiancherà la mia. Prima di me ci sono ancora un paio di ragazze ma... già. Indovinato. Quella sono io, con un’aria completamente scocciata e bianca come la carne di pesce, e lì accanto c’è Ezra. Ezra Lomax. Il mio compagno di vita. Il padre dei miei bambini non ancora nati. E ad annunciarlo è sua madre, che nel vederlo ha il coraggio di inarcare leggermente un sopracciglio. E poi lo guarda, il suo figliolo, di lato in prima fila, i capelli chiari che gli cadono sulla faccia mentre si volta a lanciarmi un’occhiata al rallentatore. I nostri sguardi si incrociano appena e poi dobbiamo salire lassù. Cioè, dobbiamo proprio alzarci e mettere in moto le gambe e salire per ritirare i diplomi e sta succedendo tutto a me, ma è come se succedesse a qualcun altro e poi sono là, in piedi vicino a lui, lui, il calore del suo braccio che intercetta quello del mio finché non mi scosto appena e anche oltre il clamore della folla (che fra parentesi non vedo neppure, tanto sono spaventata) riesco a sentirlo e sta – che cosa? – mugolando. Mugolando. Non una canzone o qualcosa del genere, solo un verso, un verso lungo e piatto, come un’ape stizzita. 21


Ecco qua Ezra Lomax in poche parole: arrogante, prepotente, completamente innamorato di se stesso. E insomma, sono lì e a poco a poco capisco che lo avevo sempre saputo. Non in senso positivo, più nel senso che sapevo che la vita non avrebbe mai avuto in serbo niente di buono per me. E dopo rimaniamo lì e succede questo: Lui: Be’... Io: Be’... Lui: Ecco, è... Io: Già. Lui: Cioè, ecco... Io: Che cosa? Lui (ficcandosi le mani in tasca perché sembra che non sappia che cos’altro farci): Non so, credo che... Io: Che cosa? Lui (ridendo): Cioè, cavoli, non lo so proprio. E per tutto il tempo gli altri se ne vanno in giro. Cioè, hanno fatto la loro bella maratona di applausi e c’è un mucchio di gente che si asciuga gli occhi e immagino che dovrei sentire che questo momento è un vero e proprio spartiacque, ma in realtà ho soltanto la bocca secca e la nausea, sono tutta sudata e mi sembra che gli occhi non mi funzionino più. Forse come mi sentirei se avessi un tumore al cervello o qualcosa del genere. E dal momento che adesso tutte le famiglie si stanno riunendo in goffi abbracci, spunta fuori anche la mia, e mi guardano con l’aria terrorizzata per quello che potrei fare, tanto che alla fine mi sento davvero in pena per loro e costringo la faccia a fare qualcosa che assomigli a un sorriso. Come se fosse il segnale che aspettavano, a quel punto tutti riprendono vita, papà mi stringe la testa in un abbraccio e mi bacia un occhio, Cain mi cinge con un braccio e si allunga per stringere la mano di Ezra con l’altro, Pan mi stritola le mani e mi strilla 22


in faccia quanto è eccitata. Il nonno incrocia il mio sguardo da dietro, ancora seduto con la sua alta uniforme nera di Sicurezza, alto e impenetrabile, tiene tutto sotto controllo e mi fa uno di quei suoi occhiolini quasi invisibili. Guardo papà stringere la mano a Ezra e contemporaneamente dargli una pacca sulla spalla con tanta forza da farlo barcollare. «Bravo ragazzo», dice, probabilmente più che altro per convincere se stesso. So per certo che non va matto per lui o per la sua famiglia, ma ho già capito che tutti pensano che il fatto che sia il figlio del Capitano è importante e che, insomma, la cosa avrà i suoi vantaggi, anche se Dio solo sa quali. Non sono del tutto sicura di avere voglia di scoprirlo. E così, finora il Capitano Kat era rimasta con Jonah, a fare la sua parte da madre deliziata (lo sanno tutti che lui è il suo preferito, anche se a dirla tutta non è che abbia proprio un granché tra cui scegliere, visto che tutti e due hanno i loro bei problemi), ma adesso sta venendo da noi e poi eccola qui, a espirare musicalmente. Prima guarda me con quelle piccole lacrime a forma di diamante negli occhi azzurri. «Che gioia! Che momento davvero prezioso, stare qui e guardarvi e immaginare una vita di felicità», esclama, e penso a quanto ha ragione mio padre quando dice che è piena di sé. Lei è una di quelle persone che si dovrebbero vedere solo sugli schermi, è troppo per la vita vera: troppo alta, troppo bionda, troppo tutto. Non abbraccia né Ezra né me, invece mette una mano sulla guancia di ognuno e sposta lo sguardo dall’uno all’altra fingendo di essere sul punto di versare una lacrima. E subito dopo prende la mano di papà fra le sue, poi quella di Pan e quella di Cain, anche se sembra che non abbia neppure il tempo di rendersene conto perché in realtà sta già andando dal nonno. «Oh, Joshua», dice quando lo raggiunge, e gli appoggia la 23


mano sul braccio nel punto in cui preme il cappello contro il fianco. «È davvero perfetto! Non avremmo neppure potuto sperarlo! Le nostre famiglie sono state così spezzate, così messe alla prova, e adesso possiamo ricomporci e proseguire assieme. Sono davvero sopraffatta dalla grazia di Dio.» Allora guardo il nonno, il modo in cui osserva Ezra, che è rimasto al suo posto con il suo solito cipiglio continuando a giochicchiare con i capelli, una cosa che chiunque trova ridicola ma soprattutto il nonno, e si vede benissimo che si sta chiedendo come si è arrivati a questo punto. Più che altro perché era così amico del vecchio Capitano, il Capitano Lee, quando erano insieme in Istruzione, e il Capitano Lee faceva le cose in un certo modo e da quando c’è in giro il Capitano Kat si sente un’aria nuova, ma non in senso buono, non so se mi spiego. In ogni modo, va avanti così e poi dovremmo bere il vino frizzante (il nostro primo alcol ufficiale) e mangiare quei dolci orrendi del colore della carne cruda che hanno portato in tavola e, non so, socializzare o quello che è, e invece non lo facciamo. O meglio, io non lo faccio. Me ne resto lì con la gente attorno che parla e ogni volta che qualcuno mi rivolge la parola, l’unica cosa che dico è: «Come?», perché giuro che non riesco a sentire niente e nessuno. E a un certo punto tremendo, questo tizio di Cultura comincia ad andare in giro a fare foto a tutti e quando arriva mi rendo conto, anche se ancora non riesco a distinguere una sola parola di quello che dicono gli altri, che vuole che ci mettiamo vicini, i futuri signori Lomax. E così stiamo lì, ed Ezra mi cinge con il braccio e sento il suo odore, l’orribile deodorante che usa, dolce con una sfumatura che sembra urina, quasi, e l’unica cosa cui riesco a pensare è quella volta, durante una gita scolastica a Ingegneria, quando abbiamo fatto in modo di “perderci” e solo perché lui 24


giurava e spergiurava di avere la sua navicella e di sapere come si pilotava e alla fine era solo che ci stava provando come un povero idiota. E adesso eccoci qui, e lui tiene la mano sul mio fondoschiena e lo picchietta: tap tap tap. Probabilmente vuol dire qualcosa in codice Morse, ma di sicuro non è una cosa che vorrei mai sapere.

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