Tim Federle La vita nonostante tutto Traduzione di Claudia Valentini © 2018 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Grafica di copertina: Dario Migneco Pubblicato per la prima volta nel 2016 con il titolo The Great American Whatever da Simon & Schuster BFYR, un marchio di Simon & Schuster Children’s Publishing Division Copyright testo © 2016 Tim Federle ISBN 978-88-6966-320-8
A Ellie Batz, impossibile da dimenticare, e Cheri Steinkellner, impossibile da ignorare.
Non mi considero un tipo particolarmente pretenzioso, ma toglietemi l’aria condizionata e mi condannate a morte. C’è, forse, un’unica cosa al mondo peggiore dell’inverno nel Midwest: l’estate nel Midwest, soprattutto se vi si è rotto il condizionatore. Stiamo affrontando la seconda settimana di fila con picchi di caldo altissimi, oltre ogni limite. È il modo scelto dall’universo per dimostrarmi che ha senso dell’umorismo, perché invece io, personalmente, sto affrontando il sesto mese di fila di picchi bassissimi, oltre ogni limite. «Devo assolutamente comprare un condizionatore nuovo.» E me lo dico forte, giusto per sentire la mia voce. A dir la verità, giusto per sentire una voce qualsiasi, di questi tempi. «Sul serio, devo assolutamente», mi ripeto rotolando verso il bordo del letto e cercando di convincere il mio corpo a mettersi in posizione verticale, «comprare un condizionatore nuovo». E poi, ancora un po’ più forte: «Esigo un condizionatore nuovo dall’universo». Come se ripetere questa frase più e più volte avesse il potere 1
di far comparire dal nulla la fatina dei condizionatori. (Oh, non si sa mai.) Le concedo venti secondi. Nessuna fatina, purtroppo. Beh, tranne me, naturalmente. Lancio alle mie gambe la sfida di portarmi fino in bagno per fare due gocce, poi torno con un paio di grandi falcate nella mia stanza, e tutto questo movimento mi rende così accaldato da costringermi a prendere formalmente in considerazione “opzioni di raffreddamento” che non implichino uscire dalla camera. Mi toglierei i vestiti, se non indossassi già soltanto i boxer, e ogni volta che me li tolgo, ultimamente, mi ritrovo a pensare a cose tipo: Ma cosa c’è di sbagliato in me, che ho quasi finito le superiori e non mi sono ancora mai spogliato vicino a un’altra persona? Fantastico. Non vi pare? E ora mi sento ribollire anche più di prima. Tengo i boxer e valuto un’altra opzione. Il mini frigo che mamma mi ha regalato due compleanni fa non è abbastanza grande da poterci infilare dentro la testa, ci ho già provato, credetemi; e se togliessi il condizionatore rotto e aprissi la finestra, poi dovrei fare i conti con quello che potrei sentire, tipo il cinguettio degli uccelli, o peggio ancora: le urla festanti dei bambini del quartiere. E chi ce l’ha lo stomaco per sopportare tutta quella gioia improvvisa a quest’ora? Così scelgo la via meno tecnologica, crollo sul pouf e comincio a farmi aria con il menu di un ristorante che fa consegne a domicilio. È a questo punto che due gocce di sudore mi scendono lungo il gomito e cadono a terra. Ma non è tanto 2
questo (anzi, questo di per sé non sarebbe nulla), è che il sudore finisce su una delle pagine della domanda di iscrizione a quel cavolo di concorso per giovani cineasti. Lo scorso autunno non ce l’ho fatta a completarla, né tantomeno a spedirla. A quanto pare, non mi riesce di finire niente ultimamente. Beh, a parte i dessert. Spingo con un piede il modulo sotto la scrivania e decido di strisciare di sotto per infilare la faccia nel freezer almeno per un po’. Magari mi si chiudono anche i pori dilatati. La mia tutor, a scuola, ha un nome per questo genere di attività: multitasking, ma secondo lei si tratta di un mito pericoloso. Giuro. Cito testualmente: “Il multitasking è un mito pericoloso, signor Roberts”. Mi chiama sempre «signor Roberts», probabilmente perché si vergogna quanto me di dire il mio nome. E come biasimarla? “Numerosi studi dimostrano che gli esseri umani sono in grado di prestare attenzione a una sola cosa alla volta, signor Roberts, mi sta ascoltando? E io gradirei che lei prestasse più attenzione ai libri di scuola e meno ai suoi film.” Ma la mia tutor si sbaglia di brutto, perché mentre lei continuava a blaterare che il multitasking non esiste, io annuivo e facevo la faccia seria e intanto pensavo a quanto sarebbe stato bello se una cometa impazzita avesse centrato la scuola. Converrete con me che questo è multitasking. Ovviamente, l’episodio si riferisce a prima che smettessi di andare a scuola. Mamma è di sotto, sul divano di vimini in veranda, che russa come sempre. Mi muovo in punta di piedi e apro il free3
zer sperando che là dentro si siano materializzati dei ghiaccioli (la fatina dei ghiaccioli?), e invece mi ritrovo davanti una caterva di surgelati Healthy Choice: la scelta salutare. DOMANDA: rimane salutare anche la scelta di mangiarsene tre di fila? Perché è questo il numero delle confezioni disseminate ai piedi di mia madre. Si è proprio lasciata andare. Vedete, mamma mangia per gestire le emozioni che prova, e quest’anno di emozioni ce n’è stato un flusso continuo. La differenza tra lei e me è che io sono addirittura in grado di perdere qualche chilo mentre mi faccio fuori una pizza gigante in meno di un quarto d’ora, se masticando mi faccio prendere dalle preoccupazioni per il futuro. Sul piano della cucina giace abbandonato un mucchio di posta mai aperta, sul quale troneggia un volantino che offre il «50% sui nuovi tagli BOMBA dell’estate». «Magari oggi mi taglio i capelli da solo», borbotto tra me e me attento a non svegliare la mamma. È davvero bella quando dorme. A parte tutto, mi ci vorrebbe proprio un «nuovo taglio BOMBA dell’estate», o una qualsiasi altra cosa nuova dell’estate. Porto lo stesso taglio di capelli da quando ero bambino, uno stile che si potrebbe definire: «castani e lunghetti». Magari è la volta buona che provo qualcosa di diverso. Così, per dare un po’ di colore a questa giornata. Non lo so. La mia terapeuta mi spinge sempre «verso l’ottimismo». Richiudo il freezer e arranco fino al piano di sopra per rovistare tra le cose di mio padre nel mobiletto del bagno, in cerca del suo rasoio elettrico. Quando se n’è andato, se n’è andato e basta. Ovvero: tutte la sua roba è ancora qui. Se conosce4
te qualcuno interessato a comprare un paio di pantaloncini a pieghe lunghi fino al ginocchio, fatemelo sapere. AGGIORNAMENTO: sono tornato nel bagno di camera mia con il vecchio rasoio arrugginito di mio padre. Si accende, e il fatto che l’elettricità non ce l’abbiano ancora staccata mi sembra un piccolo trionfo finanziario. Magari la compagnia elettrica cittadina ha deciso, in via ufficiosa, di lasciare in pace mia madre almeno per qualche mese. La nostra piccola comunità ci ha praticamente firmato un assegno in bianco di sguardi preoccupati e false premure: è quello che succede quando tua sorella maggiore rimane uccisa in un incidente d’auto proprio davanti a scuola il giorno prima dell’inizio delle vacanze di Natale. Oh. Spoiler alert. Dunque, avvicino il rasoio di mio padre alle basette, o meglio ci provo, ma perdo il controllo, distratto da un toc toc alla porta della camera. Cacchio, non ho sentito mia madre salire le scale. Strano. Toc. Toc. Toc. Il rumore stavolta è molto più forte, e non solo perché mi sono tolto i tappi dalle orecchie. (Li porto da un po’, ormai. Ovattano i rumori del mondo in modo davvero piacevole.) «Mamma, per favore. Lo sai che ho bisogno di un po’ di “tempo per me”.» Il “tempo per me” è iniziato quasi sei mesi fa, ormai. «Non sono tua madre», dice qualcuno che non è mia madre. «Sono il tuo Geoff.» Ottimo. Doveva succedere prima o poi. I vecchi amici trovano sempre il modo di piombarti alle spalle. 5
«Sto entrando.» «Sono nudo», mento. «Non mi importa, Quinn.» Ah, sì, è Quinn. Il mio nome, intendo. Che cosa darei per essere un John o un Mike o anche un Evan. Chiamare un figlio Evan vuol dire garantirgli una vita senza drammi fin dall’inizio. Che tipo di padre è quello che chiama il figlio Quinn? (Il tipo che se ne va di casa senza portarsi via né il rasoio arrugginito né i pantaloncini con le pieghe lunghi fino al ginocchio, ecco quale.) Geoff apre la porta con un calcio. Un peliiino troppo teatrale. La serratura è rotta da, tipo, sempre. «Mammamia!», esclama tappandosi il naso e scoppiando a ridere con la mano sulla bocca. Dev’esserci un odore in camera mia come se non mi lavassi da mesi e mesi, il che non è esattamente vero. «La tua stanza fa vergognare perfino me di essere un adolescente», mi dice Geoff entrando. «E questo è tutto dire, se pensi che io do i nomi alle mie scorregge.» «Ehi.» «Ehi», dice Geoff. «Che ti è successo alla testa?» Guardo verso il pavimento del bagno. C’è un piccolo cumulo di capelli ai piedi del lavandino, sembra quasi che gli abbiano sparato mentre cercavano di evadere dalla prigione della mia testa. (Se non avete visto Fuga da Alcatraz, comunque, mettetelo nella lista. Gran film.) Torniamo a noi: «Mi hai spaventato», dico a Geoff, «proprio nel bel mezzo di un elettrizzante taglio autobiografico». Ma non sono davvero scocciato. Anzi, dove manca il ciuffo di capelli sento addirittura una leggera sensazione di fresco, 6
forse. Il mio primo traguardo da settimane. Ma che dico, da mesi. «Fortuna che non sei brutto», mi dice Geoff, e poi: «Non ti sta nemmeno tanto male», aggiunge stringendo gli occhi, come per mitigare l’esagerazione che ha appena detto. «Non mi pare di averti chiesto un parere», gli rispondo. «Ma grazie lo stesso.» Lo considero un po’ un insulto che Geoff giudichi il mio “look”, chiamiamolo così. Non che io abbia una passione sfrenata per la moda (datemi dei jeans e una maglietta e sono a posto), ma Geoff non becca un abbinamento giusto nemmeno per sbaglio. I vestiti che porta sembrano voler schizzare via dal suo corpo, come se avessero paura di farsi vedere in giro con lui. Oggi indossa una maglietta degli Steelers, bermuda militari con tasconi laterali, vagamente orrendi, e un paio di infradito giallo fosforescente. Per non parlare dei baffetti che sta cercando di farsi crescere. Questa è nuova. O almeno, nuova per me. È un po’ che non ci vediamo. «È ora di farti uscire da questa casa, forza», mi dice. «Andiamo al cinema o a mangiare qualcosa. Quello che ti pare. È ora.» Sento un tuffo al cuore. Devo rimettere insieme i pezzi e cominciare a chiudere a chiave la porta di casa. I ragazzi delle consegne a domicilio entrano ormai senza suonare il campanello e si spingono su fino in camera mia. E adesso questo. Non sono pronto per questo. «Scordatelo», rispondo. «È sabato. Non voglio incontrare nessuno di scuola là fuori.» E gesticolo con le mani in direzione della finestra, come se ci fosse un’apocalisse zombie in 7
atto nel mio quartiere. Un’apocalisse zombie, mica soltanto la Pennsylvania occidentale. «È mercoledì», mi fa Geoff ridendo. «Ed è estate. Quindi saranno tutti in piscina. Basta che tieni la testa bassa mentre siamo in macchina.» L’idea di un tuffo in piscina mi sembra meravigliosa in questo momento. Uno di quei tuffi che ti congela. A testa avanti. Nel punto dove l’acqua è meno profonda. «Mammamia!», mi dice Geoff notando una pila di cartoni per la pizza in un angolo della stanza che, a parer mio, ha cominciato ad assumere un aspetto artistico tipo natura morta. «E buttiamo via anche questi. Oggi.» Ma poi mi guarda e continua: «Allora?», mi fa, come se l’avessi invitato io! «Qual è il piano?» Quasi non me ne accorgo, ma inizio a parlare: «Beh, avrei bisogno di comprare un condizionatore nuovo». Geoff si passa il braccio sulla fronte. «Noo, dici?» Va a prendere un righello sulla mia scrivania, coperta da uno strato di polvere che vorrei definire leggero, ma che in realtà è bello spesso. Tendente al “trapunta invernale”. «Che vuoi fare?», gli chiedo. «Delle tende nuove, per caso?» Santo cielo, sono secoli che non ho qualcuno che mi faccia da spalla. I miei dialoghi sono arrugginiti. «Misuro la finestra.» Alzo la testa di scatto. «Ah, abbiamo deciso di farla finita e saltare giù?» Geoff mi scocca la versione etero di un’occhiata in cagnesco che vorrebbe trafiggermi come una lama, ma che colpisce più come un proiettile. Inevitabile: un etero non potrebbe uccide8
re qualcuno con una coltellata, la cosa richiede un certo grado di vicinanza fisica di cui non credo siano capaci. «Battute sulla morte, Quinn? Proprio tu?» «Sono fuori tempo, che ci vuoi fare? Vuoi darmele?» Preferisce ignorarmi, invece: mi sento l’equivalente in carne e ossa di una chiamata rifiutata. Non che abbia usato molto il telefono ultimamente. Anzi, proprio per nulla. «Prendo solo un paio di misure», dice Geoff, «e poi andiamo a comprare il condizionatore». Ma lo ascolto appena, perché il mio sguardo non è più su di lui, è andato oltre, al di là della finestra, verso il vialetto in pietra dove io, lui e Annabeth allestivamo il nostro banchetto di limonate quando eravamo piccoli. Bah! La odio questa parola: Eravamo. L’unica parola che odio più di eravamo è era. Annabeth non è una persona da tempo passato. No davvero, mia sorella sapeva talmente bene come essere al presente che metteva in soggezione. Batto le palpebre con forza, sperando quasi che un’apocalisse zombie scoppi davvero: una Notte dei morti viventi (ottimo film da popcorn) live, però di giorno e nel nostro giardino. “Mordetemi, vi prego!”, urlerei dalla finestra. E invece no. Niente zombie. C’è solo quel vialetto in pietra, là fuori, senza banchetti di limonate in vista. «Bene», dice Geoff. «Ho tutto.» Il pavimento scricchiola, il che significa che si sta muovendo in direzione della porta. Io sono in pausa, bloccato a guardare fuori. Poi: «Aspetta», gli dico. «Quanto potrà costare un condizionatore?» Sono un po’ a corto di soldi ultimamente. Ieri sera per cena 9
ho mangiato un mezzo sofficino accompagnato da una bustina di paracetamolo per dessert. Non è stato poi così male. Quella roba ti stende. Geoff sta scrivendo qualcosa al telefono. «Non lo so. Ma usiamo la carta di mia madre, se serve.» I suoi hanno una casa più bella della nostra. Che dico, tutti hanno una casa più bella della nostra. Ora Geoff è nel mio bagno, e la cosa non promette bene. Ma quando sto per dirgli “No” e “Usa quello al piano di sotto”, la doccia si mette in funzione con un pigolio. Colpo di scena. «Merda!», lo sento borbottare. Si è ustionato una mano, ci scommetto. L’unico lusso di cui disponiamo da queste parti è l’acqua calda istantanea, oltre al tacito accordo di non guardarsi in faccia mentre si mangia seduti allo stesso tavolo. Che è una cosa anche piuttosto comoda, devo dire. «Vieni qui», mi urla Geoff. «Non mi faccio la doccia con te», gli rispondo scherzando, è ovvio. «Ti piacerebbe!», ribatte, ma non con cattiveria. Non ne abbiamo mai davvero parlato, ma credo lo sappia che non mi piacerebbe. Onestamente, ci sono stati un bel po’ di bocconcini migliori con cui mi sarebbe piaciuto perdere la verginità. Geoff non è il mio tipo. (Sto ancora cercando di capire qual è il mio tipo.) Ci scambiamo di posto, e mentre lui ritorna in camera, io entro nella stanza delle muffe conosciuta anche come la mia doccia. «Ti do due minuti», mi dice da dietro la porta. 10
«Rilassati», gli rispondo. «Pittsburgh non è ancora stata colpita dalla siccità.» Geoff riapre la porta e mi guarda scuotendo la testa. «Quinn, è la tua cacchio di vita a essere stata colpita dalla siccità. E quest’estate, io e te faremo piovere.» Mammamia! L’avete notato anche voi, eh? Lo so, è da tutta la vita che vorrei riscrivere le battute di Geoff. «Molto poetico», gli dico coprendomi. «Ti farei anche un applauso, se potessi, ma non voglio mostrare il mio gingillo.» Lui alza gli occhi al cielo e richiude la porta. Continuo a cercare la scusa perfetta per farlo andare via, così da potermi sdraiare nella vasca e magari tornare a dormire. Ma è passato un bel po’ di tempo dall’ultima volta in cui mi sono trovato coinvolto in uno scambio dialogico che andasse oltre il «con (o senza) salame piccante», e il mio cervello è in panne. «Un minuto è passato, ti avverto!», mi urla. Lascio che l’acqua mi entri in bocca, chiudo gli occhi e mi tappo le orecchie con le dita, e nell’insistenza del tip-tip-tip sul tetto di latta della mia testa decido di decidere che far scendere un po’ di pioggia metaforica su quest’estate non è l’idea peggiore del mondo. Ehi, ma guardatemi. Tentativi di ottimismo. Devo ricordarmi di dirlo alla mia terapeuta durante la prossima seduta. Mi guadagnerò un bel po’ di complimenti. È buffo vedere come cerco di mandare su tutte le furie la mia tutor a scuola, e come invece cerchi di impressionare la mia terapeuta. Basta la parola “dottore” davanti al nome di una persona che di colpo voglio piacerle. «Quindici secondi!» 11
Ma chi voglio prendere in giro? Io voglio piacere a tutti. «Ok, aspettami fuori», dico a Geoff. Mi asciugo in camera e mi vesto con un paio di pantaloncini più o meno puliti e una maglietta decisamente sporca, mi infilo le Vans e metto fuori la testa per vedere se lui è ancora lì o se mi sono inventato tutto. Se sono tornato alle mie vecchie care abitudini: immaginare ingenuamente che andrà tutto bene, come succede sempre nei film. «Sei pronto a far decollare questo giugno?», si lancia Geoff. Se ne sta lì tranquillo, seduto con la schiena appoggiata al muro, a giocare con il telefono. Non alza neppure lo sguardo. Dio, è vestito in modo ridicolo. Dio, quant’è bello vederlo. «Non ci resta che scoprirlo», gli dico. Lui salta in piedi e infila il telefono in tasca. «Fai piano mentre scendi le scale. Mamma dorme.» Osservo i suoi occhi saettare verso la zolla di capelli mancanti, e proprio mentre penso che stia per dirmi “Mettiti un cappello”, perché sembro la vittima di un tagliaerba impazzito, lui mi dice soltanto: «Ti aspetto in macchina», e mi sorride. Gli amici sono così: non badano al look. O almeno, non i veri amici. Scende le scale con un tonfo dopo l’altro. Non riesce proprio a fare piano. Ah, i ragazzi etero! Do un’ultima occhiata alla mia stanza e mi chiedo come sarà tornare in questo caos di panni sporchi e scatole di sofficini vuote più tardi. «Ti muovi?», mi urla sottovoce Geoff da giù. 12
Devo uscire di qui. Non si parla mai del fatto che la migliore amica del dolore è la noia. Perché? Perché non si mettono in guardia le persone da questo pericolo? «Arrivo!», rispondo.
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La vita non è un film. Non c’è un copione già scritto. Ma il protagonista sei tu, vivila più che puoi.