MARTA PALAZZESI
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Leggere per crescere liberi
Marta Palazzesi Nebbia © 2019 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano Copertina di Luigi Aimè
ISBN 978-88-6966-434-2
MARTA PALAZZESI
UNO
Londra, 1880 Per un ragazzino di tredici anni i modi per sopravvivere nei bassifondi della Londra di fine Ottocento non sono molti. Il primo, ovviamente, è rubare. Rubare ai ricchi, però, è estremamente rischioso. In quartieri come Belgravia o Kensington, con i loro bei viali alberati, i marciapiedi spazzati di fresco e le bambinaie in divisa al seguito di costose carrozzine, quelli come noi vengono guardati a vista dai poliziotti, in attesa di una scusa qualunque per arrestarci. Rubare ai poveri, d’altro canto, è ancora più pericoloso: venire inseguiti da un conciatore coperto di sangue o da un fabbro armato di martello è tutt’altro che piacevole. Credetemi, so di cosa parlo. Il secondo modo per sopravvivere nei bassifondi della Londra di fine Ottocento è farsi rinchiudere dalle Venerande Dame della Santissima Carità nelle Workhouse. Ma non
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fatevi ingannare dal loro nome: di “santissimo” e “caritatevole” quelle donne hanno ben poco. Immaginate per un attimo di affacciarvi da un ponte sul Tamigi. Il sole vi scalda la pelle, l’acqua vi culla dolcemente le orecchie e il vostro naso è solleticato dalla babele di odori provenienti dalle imbarcazioni che scivolano sul fiume: spezie dall’India, frutta e verdura dalla campagna, fiori di luppolo diretti ai birrifici, pane bianco destinato al palato di qualche ricco lord… E voi ve ne state lì, al centro di tutto, a godervi la vostra libertà nel cuore della città più grande e potente del mondo, quando un manipolo di donne vestite di nero vi accerchia, vi immobilizza e vi trascina dentro un gigantesco mostro di mattoni dove venite spogliati, strigliati come cavalli, infilati a forza in una squallida divisa e costretti a sgobbare dieci ore al giorno in cambio di tre miseri pasti. Roba da rimpiangere il famoso conciatore coperto di sangue, per come la vedo io. Il terzo modo per sopravvivere nei bassifondi della Londra di fine Ottocento, infine, è fare della nobilissima arte di arrangiarsi la propria filosofia. E questo è il mio modo. «Ehi, Nucky, perché non ci racconti della Grande Puzza del ’58?» Era una calda mattina di fine giugno. Io e i miei amici, al lavoro sulle rive fangose del Tamigi dalle prime ore dell’al-
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ba, avevamo già raccolto un discreto bottino: qualche chiodo di rame, una pipa di legno e uno stivale di cuoio – tutte cose che, una volta vendute, ci avrebbero garantito i penny sufficienti a mangiare per un paio di giorni. Mi raddrizzai con uno sbadiglio e mi sgranchii la schiena, guardandomi attorno. Le acque grigiastre del Tamigi brillavano sotto la luce del sole e, sull’altra sponda, la candida cupola della cattedrale di St Paul si stagliava contro il cielo azzurro come una montagna di zucchero. «Allora?», incalzai. Nucky mi rivolse un sorriso da talpa senza smettere di rovistare nel fango. Quella della Grande Puzza del 1858 era la sua storia preferita e, anche se ormai la conoscevamo a memoria, Nucky riusciva ad aggiungere qualche dettaglio raccapricciante o aneddoto colorito sempre diverso. Il suo entusiasmo per quella storia, però, non era condiviso da tutti. «Oh, Clay, no. Non di nuovo», borbottò Tod, in ginocchio accanto a me, con le braccia immerse nel fango fino ai gomiti. «Che vorresti dire, scusa?», saltò su Nucky. «Che non ne posso più di sentirti blaterare di cadaveri, letame e interiora di animali», rispose Tod. «Lo abbiamo capito: nel 1858 il Tamigi puzzava di carogna morta. Sai che grande storia.» «Nell’estate del 1858 il Tamigi non puzzava semplice-
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mente di “carogna morta”», ribatté Nucky oltraggiato, come se, in qualche modo, mantenere vivo il ricordo della Grande Puzza fosse una sua responsabilità. Non avevo mai capito da dove venisse il suo attaccamento a quella vicenda. Quando lo avevo conosciuto ne era già ossessionato. Nucky si schiarì la voce e alzò un pugno al cielo, pronto a lanciarsi in uno dei suoi dettagliati resoconti. «Non pioveva da settimane e il livello del fiume si era abbassato di metri e metri. Perfino la regina Vittoria e il principe Alberto, usciti per una gita in barca, erano stati costretti a tornare a palazzo, inorriditi da quel fetore nauseabondo. Le acque del Tamigi si erano infatti trasformate in una putrida pozza purulenta di viscere, escrementi e cadaveri coperti di larve…» «Non erano mosche?», lo punzecchiai io. «Ieri hai detto che i cadaveri erano coperti di mosche.» «Be’, fa lo stesso, no?», ribatté Nucky pulendosi la punta del naso con un lembo della camicia. «Prima delle mosche vengono le larve.» «Cielo, Nucky, ma la tua è una vera e propria fissazione!», esclamò Tod schifato. «E tu», si rivolse a me, «smettila di dargli corda, o prima o poi mi toccherà farlo star zitto una volta per…». SCIAF! Una palla di fango aveva appena sfiorato con un sibilo la testa di Tod, schiantandosi alle sue spalle. Paonazzo, Tod si alzò in piedi e puntò un dito contro
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Nucky, che stava cercando in tutti i modi di restare serio. «Adesso vengo lì e ti concio…» «Tod.» «Che c’è? Clay, non puoi sempre difenderlo solo perché è più piccolo!» Scossi la testa e indicai le sagome scure che stavano scivolando verso di noi come uno sciame di scarafaggi silenziosi. Tod seguì il mio sguardo e mise da parte i propositi di vendetta nei confronti di Nucky. «Maledetti. Ancora non hanno capito che questa zona è nostra?» «A quanto pare no», sospirai stancamente. Non avevo voglia di una zuffa quella mattina. Essere un mudlark – una “allodola del fango” – era già abbastanza faticoso senza doversi continuamente difendere dalle altre bande. Io, Nucky e Tod eravamo noti a tutti come i Terribili di Blackfriars Bridge e non era stato facile conquistarci quella sponda del Tamigi. Adesso che era nostra, però, non avevamo alcuna intenzione di condividerla con altri mudlark. Tutti sapevano che le zone migliori erano quelle a ridosso dei ponti: non era raro, infatti, che dalle carrozze di passaggio qualcuno gettasse qualche penny o un avanzo di cibo. Ed era proprio così che noi tre ci eravamo accaparrati quel punto anni prima, lottando con un’altra banda di mudlark per una mezza corona gettata da un ricco lord che era rimasto ad assistere a tutta la scena, fumando la sua pipa con aria divertita dall’alto del ponte.
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«Coraggio, ragazzi!», aveva gridato. «Regalatemi un bello spettacolo!» E lo aveva avuto, il suo spettacolo. Io, Tod e Nucky, lottando come terrier inferociti, avevamo messo in fuga quel gruppo di mudlark più grandi e numerosi di noi. «Sono troppo vecchio per queste cose», aggiunsi scuotendo la testa, mentre Nucky e Tod si affiancavano a me, pronti a dare battaglia. Lasciai che a parlare fosse Tod. Era il più grosso di noi tre e, con i suoi capelli neri arruffati, gli occhi scuri, le sopracciglia folte e il volto coperto di cicatrici, riusciva a incutere un discreto timore nei suoi avversari. Provocare Tod non era mai una buona idea: “riflettere prima di agire” o “mantenere la calma” erano espressioni del tutto estranee al suo vocabolario. Nucky, invece, biondo, pallido, dall’aria gracile e malaticcia, compensava la scarsa prestanza fisica con l’astuzia: era lui a trattare con i compratori degli oggetti che tiravamo fuori dal fango del fiume, spuntando sempre il prezzo migliore. E poi c’ero io: né troppo grosso né troppo esile, occhi e capelli castani, una faccia sufficientemente anonima da passare inosservata e un’apparente calma che portava gli avversari a sottovalutarmi – il che, spesso, poteva rivelarsi un vantaggio. I mudlark invasori erano sei ma, guardandoli più da vicino, non sembravano gente venuta per attaccare briga. Era-
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no più piccoli di noi e avevano l’aria smarrita di chi non ha ancora capito qual è il suo posto nel mondo. Per un attimo mi ricordarono me stesso a cinque anni, quando, rimasto orfano, mi ero ritrovato senza un posto in cui vivere né un adulto al quale rivolgermi. Avevo vagato per alcuni giorni lungo le sponde del fiume, nutrendomi degli avanzi trovati sul retro di pub e taverne, con la terribile consapevolezza che non sarei potuto andare avanti molto. Poi dal nulla era comparso il Vecchio Sal, con la sua barba lunga e il bastone a uncino, che mi aveva preso sotto la sua ala, insegnandomi tutto sulla vita da mudlark. I Terribili di Blackfriars Bridge avevano un territorio e un nome da difendere. Nonostante quel gruppo di bambini ispirasse pietà, per lo meno a me (il concetto di “compassione” non era familiare a Tod e Nucky pensava solo ai soldi e alla Grande Puzza del ’58), non potevamo mostrarci troppo teneri. «Questa zona è nostra», esordì Tod senza tanti preamboli. «Filate via.» Il capo degli altri mudlark, un ragazzetto emaciato dai capelli rossi, alzò le mani in segno di pace. «Non siamo in cerca di guai. Vogliamo solo passare.» «Per andare dove?», chiesi io. «Vauxhall Bridge», rispose lui. «Pessima idea. Quella zona è già presa.» Guardai Tod in cerca di conferma. «Dai Rognosi della Bionda, giusto?»
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Tod annuì e si toccò la cicatrice sotto l’orecchio destro, un gentile lascito della Bionda dovuto a un piccolo malinteso risalente a un paio di anni prima. Era un miracolo che ne fossimo usciti vivi, a dirla tutta. Ma questa è un’altra storia. «Non è gente con cui scherzare, quella», avvisai. «Fossi in voi punterei altrove.» Il gruppetto si scambiò occhiate preoccupate. «Non è che per caso avete qualcosa da mangiare?», domandò il rosso con aria speranzosa. «Certo, e magari ti offriamo anche una bella tazza di tè», ghignò Nucky. «Quello che non abbiamo è tempo da perdere», ringhiò Tod. «Smamma, moccioso.» «Posso pagare», si affrettò a dire lui. «Be’, non proprio», precisò davanti allo sguardo scettico di Nucky. Si infilò una mano nella tasca della giacca, frugando per qualche momento. «Ecco», disse poi, tirando fuori una scatolina di legno. «L’ho trovata questa mattina all’Isola dei Cani.» Me la porse e io, dopo un rapido sguardo a Nucky e Tod, la presi. Era grande quanto una mano e, sotto allo strato di fango secco, si intravedevano degli intarsi di discreta fattura. La sfregai contro i pantaloni per pulirla e poi la aprii, facendo scorrere il coperchio di legno lungo i binari: all’interno, perfettamente conservati, c’erano dei tarocchi dipinti a mano. Nucky si avvicinò per osservare meglio le carte.
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«Però», commentò. «È roba buona. Guarda i colori.» Chiusi la scatola e la lanciai al rosso, che la afferrò al volo. «Vendila. Ci ricaverai abbastanza da comprare un po’ di pane e un pezzo di formaggio.» Il rosso scosse la testa. «Non saprei da chi andare.» «Ragazzino, questo non è un lavoro per gente pigra», sbottò Tod. Per i suoi gusti quella conversazione era durata anche troppo. «Devi darti da fare, se vuoi sopravvivere. Ora filate via o ve le suono.» Con aria mesta, il rosso e il suo gruppetto si rimisero in marcia, sfilando davanti a noi a capo chino. «Roba da pazzi», commentò Tod rimboccandosi le maniche e riprendendo a scavare nel fango. «Già», concordò Nucky. «Fare l’elemosina a una banda di sfaticati… Ma per chi ci hanno preso?» «Già», concordò nuovamente Nucky. «Come se non avessimo già abbastanza problemi… Giusto, Clay? Clay?» «Uhm-uhm», mormorai distratto, mentre seguivo con lo sguardo la banda di mudlark che si allontanava. «Oh, ci risiamo», sbottò Tod sconsolato. «Stai per farlo, vero?» Risposi alla sua domanda con un sorriso. Poi gridai in direzione del rosso: «Ehi, tu! Fermati!». «Cielo, Clay», sospirò Tod. «Hai il cuore troppo tenero.»
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«Solo perché quelle carte valgono parecchio e quello è troppo stupido per rendersene conto», replicai. Tod snocciolò una mezza dozzina di parolacce della peggior specie, mentre Nucky si sforzava di non ridere. «Ha ragione Clay», disse. «Quei tarocchi sono sprecati in mano a quello là.» «Ma sì, certo, tu dagli pure ragione», borbottò Tod. «Tanto per cambiare.» Lasciai Nucky e Tod al loro ennesimo diverbio e raggiunsi il gruppetto di mudlark. «Tieni.» Tirai fuori dalla tasca della giacca un pacchetto di stoffa e lo porsi al ragazzino dai capelli rossi. «Una pagnotta. È fresca.» Lo era davvero. Me l’aveva data il Vecchio Sal quella mattina, quando ero passato dalla sua baracca a salutarlo. Lui, a sua volta e per uno strano giro di cui, come sempre, non avevo voluto sapere i dettagli, l’aveva ricevuta nientemeno che da una domestica di Kensington, la sua ultima conquista amorosa. «Guarda che quei tarocchi valgono di più, però», precisai. Il rosso non era dotato di uno spiccato senso per gli affari. Senza stare a pensarci due volte, mi lanciò la scatolina di legno e arraffò il pane con aria famelica. Poi, dopo essersi stretto l’involucro al petto, scappò via, seguito dai suoi compagni di sventura.
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«Faccio un salto alla Taverna della Regina. Magari Madama Lorna ha qualche cliente interessata a questi», comunicai a Tod e Nucky agitando i tarocchi. «Un cucchiaio!», esultò Nucky tirando fuori la posata dal fango. La pulì con un lembo della camicia e poi le diede un bel morso. «Peltro», dichiarò con aria esperta. «Peggio dell’argento, meglio del legno.» Si infilò il cucchiaio in tasca e mi guardò. «Buona idea, Clay. Madama Lorna saprà a chi venderli.» «Sempre che ci arrivino da Madama Lorna, quei tarocchi», brontolò Tod. «Per come ha iniziato la giornata, Clay finirà per regalarli alla prima chiromante sciancata che incontra, te lo dico io.» «Grazie per la fiducia», risi. «A più tardi.» Prima di risalire la banchina, percorsi qualche decina di metri in cerca di un punto del fiume un po’ meno torbido per sciacquarmi dal fango. Non che ci fosse davvero la possibilità che la regina Vittoria mettesse piede nel pub dedicato a lei, ma se c’era una cosa che Madama Lorna non tollerava nel suo locale erano i mudlark infangati e i tosher con il loro olezzo di fogna. E, a proposito di tosher, ne trovai un paio intenti a lavarsi proprio nel punto in cui mi fermai. «Ehilà», salutai cordiale iniziando a spogliarmi. «Ehilà», risposero loro in coro. Erano un po’ più grandi di me, sui sedici-diciassette anni, e avevano il tipico colorito
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malsano di chi trascorre gran parte della giornata a scavare sottoterra. Anche se le fogne di Londra erano piene di oggetti più interessanti di quelli che si trovavano lungo il fiume, preferivo di gran lunga lavorare all’aria aperta. L’oscurità, il fetore, le soffocanti pareti di mattoni… No, per come la vedevo io, una vita in gabbia non era una vita degna di essere vissuta. Afferrai una pietra porosa e la passai con vigore su braccia e gambe, prima di occuparmi di viso e capelli. Quando fui bello lustro – per quanto fosse possibile per un mudlark essere lustro, ovviamente – mi dedicai ai vestiti. Poi, fradicio dalla testa ai piedi, mi rivestii e mi incamminai verso Cheapside, la zona alle spalle della cattedrale di St Paul, un dedalo di viuzze strette e tortuose su cui si affacciavano le botteghe di artigiani e commercianti. Percorsi Bread Street cercando di trattenere l’acquolina davanti alle pagnotte dalla crosta bruna nelle vetrine e proseguii fino all’incrocio con Cheapside Road. Lì, all’angolo tra l’ampia strada trafficata invasa da carrozze e tram trainati da cavalli e l’angusta Milk Lane, si trovava la Taverna della Regina di Madama Lorna. Era il tipico pub con il piano terra rivestito di pannelli di legno nero, ampie finestre rettangolari a scacchi e l’insegna dorata illuminata da lanterne. Nonostante l’ora, il locale era già pieno. Oltre al consueto stuolo di perdigiorno, diversi lavoratori si concedevano una breve pausa, dando vita a una bizzarra miscela di for-
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me e colori: ai garzoni dei forni con i capelli imbiancati di farina si affiancavano gli arrotini ambulanti dal volto nero di limatura, alle robuste venditrici di patate dalle unghie sporche di terra, le fioraie dalle ceste multicolori. Mi feci largo tra la ressa e raggiunsi il bancone. Madama Lorna era lì, un donnone di quasi cento chili dalle guance rubizze, i capelli color pece e il grembiule immacolato a coprirle l’enorme ventre sporgente. In quel momento era concentrata in uno dei suoi passatempi preferiti (dopo bere e mangiare), ovvero vessare il marito, un omino dalla fronte bassa che sarà pesato sì e no una quarantina di chili, scarpe, cappello e bastone da passeggio inclusi. «Alfie, ti ho detto mille volte che dei ratti te ne devi occupare tu!», tuonò Madama Lorna battendo una mano sul bancone. «Non pretenderai mica che sia io a scendere in cantina, spero!» Il pover’uomo incassò la testa nelle spalle. «No, no. Certo che no, cara.» «No cosa?» «Non devi scendere tu in cantina.» «E quindi come ti proponi di risolvere il problema?» «F-formaggio?» «Formaggio?!», tuonò Madama Lorna. «E secondo te io dovrei sprecare dell’ottimo formaggio per rimpolpare quei sorci schifosi?» «No, no! Certo che no!»
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«Che ne dici di un gatto, invece, Alfie?» «V-vuoi dare da mangiare un g-gatto ai ratti? Si potrebbe fare, p-penso…» «Sì, magari con un bel contorno di patate», ribatté Madama Lorna esasperata. «Per l’amor del cielo, Alfie, va’ là fuori a cercare uno stramaledetto gatto e piazzalo in cantina! Vivo.» Il povero Alfie non aspettava altro che un’occasione per sfuggire dalle grinfie della moglie. Balbettò qualcosa di indistinto e poi sgattaiolò via dal bancone, puntando di gran carriera verso la porta con la stessa foga di un naufrago a poche bracciate dalla riva. «Oh, Clay», disse poi Madama Lorna con noncuranza. «Non ti avevo visto.» Bugiarda. Si era perfettamente accorta della mia presenza, non a caso si era accanita sul marito in quel modo. Amava esibirsi in pubblico. Madama Lorna si versò un bicchierino di Pimm’s, buttandolo giù tutto d’un sorso. Fece per offrirmene un goccio, ma io scossi la testa. «Lo sai quanti soldi ha fatto quel bastardo di James Pimm con questo intruglio?», sbottò poi. «Mia madre lo conosceva. Una nullità che ha iniziato vendendo ostriche per strada proprio qui dietro. Poi si è inventato questa roba», sollevò la bottiglia piena di liquido ambrato e la sbatté sul tavolo con violenza, «ed è diventato ricco!».
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«Però dev’essere buona», commentai io, quando Madama Lorna se ne versò un secondo bicchiere. Lei mi rivolse uno sguardo accigliato, scolandosi il liquore. «Dove hai lasciato quei delinquenti dei tuoi soci?» «Al lavoro», risposi sedendomi su uno sgabello. Tirai fuori la scatola dei tarocchi dalla tasca della giacca ancora umida. «Vorrei vendere questi. Pensate che qualcuna delle vostre clienti potrebbe essere interessata?» Ovviamente non mi riferivo alle clienti normali del pub, ma a quel manipolo di frivole signore a cui Madama Lorna, una volta alla settimana, impartiva “lezioni di sedute spiritiche”. Un refolo di vento, una tenda un po’ oscillante, la fiamma di una candela che si spegneva, e quelle iniziavano a ululare come ossesse, convinte che i cari estinti stessero cercando di comunicare con loro. «Tuba e bastone, ricco tardone; cappello e ombrellino, cervello piccino», amava ripetere il Vecchio Sal. E in base ai racconti di Madama Lorna, non c’era da dargli torto. Più eri ricco, più eri stupido. La donna prese la scatola di legno e la aprì, esaminando il contenuto con attenzione. «Roba di qualità», commentò. «Ma le mie clienti sono troppo perbene per portare in casa oggetti di questo tipo. I mariti potrebbero insospettirsi.» «Che idiota», mormorai. «Non ci avevo pensato. Si incontrano con voi in segreto, vero?»
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Madama Lorna annuì. «Sai che scandalo se si venisse a sapere che la Duchessa Vattelapesca o la Contessa di Trallalà frequentano una donna come me.» Mi alzai dallo sgabello, infilandomi i tarocchi in tasca. «Proverò dalle parti di Whitechapel. Lì magari…» PAPARARA! BO-BOM! BO-BOM! BO-BOM! «Ma cos’è questo baccano?», esclamò Madama Lorna guardando in direzione della strada. In quel momento la porta del locale si spalancò e un ragazzino entrò di corsa, fermandosi in mezzo al pub con il viso rosso e sudato. «La parata del circo!», gridò con voce strozzata. «Ci sono i cammelli! Gli elefanti! I pagliacci! E… e…» Sopraffatto dall’emozione, il ragazzino boccheggiò per qualche secondo alla ricerca delle parole adatte a rendere giustizia all’evento, prima di rinunciare e schizzare nuovamente in strada. In pochi istanti mi ritrovai a camminare insieme a gran parte del quartiere lungo Cheapside Road, in attesa del passaggio della parata. Era piuttosto comune assistere a scenografiche sfilate che annunciavano l’arrivo di un circo in città, guidate da un carro dai colori vivaci e da una gran quantità di animali e artisti. Questo circo non era da meno. La prima cosa che vidi fu l’enorme carrozza dipinta di oro e rosso trainata da un sestetto di cavalli bianchi con tanto di pennacchio. Le ruote erano alte quanto me, con volute e arabeschi tra i raggi. Sulle sponde erano scolpiti
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scenografici bassorilievi di leoni con la bocca spalancata ed elefanti dalle proboscidi arcuate. «Però», sentii commentare qualcuno alle mie spalle. «Hanno fatto le cose in grande, questi.» «Vengono dal nord», spiegò un altro. «Hanno portato il loro spettacolo ovunque, ma è la prima volta che scendono fino a Londra.» Quando la carrozza fu abbastanza vicina, riuscii a leggere il nome scolpito sulla fiancata: Mirabolante Circo Smith & Sparrow – Dal 1789. «Guardate! Gli elefanti!», esclamò una voce infantile. «Per la miseria…», mormorai. Avevo assistito a diverse parate, ma non avevo mai visto elefanti così grandi. Saranno stati alti almeno cinque o sei metri, con la pelle coriacea color fumo, le lunghe proboscidi oscillanti e una ricca bardatura scarlatta. Sulla schiena di ogni elefante – ne contai ben dodici – un giocoliere in costume teneva in bilico sulla punta del naso una palla colorata. Dopo gli elefanti fu il turno dei cammelli, bestie dall’aria stizzosa e la schiena gibbuta. Mi ricordarono vagamente i pomposi banchieri del centro, con le loro barbette da capra e le palpebre pesanti. «E quello cos’è?», chiese una donna accanto a me. A chiudere la pittoresca parata c’era un secondo carro, grande tanto quanto il primo, ma dipinto di blu e argento. Trasportava una gigantesca gabbia dalle sbarre scure, al cui
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interno un uomo avvolto da un lungo mantello scintillante emetteva versi spaventosi lanciando volantini sulla folla. Afferrai al volo uno di quei pezzi di carta colorati.
Martedì 29 giugno 1880 il
MIRABOLANTE CIRCO SMITH & SPARROW presenta
I Grandi Fratelli Trapezisti Rozkov Kyoto, la leggiadra Libellula d’Acciaio Musto, il mangiatore di spade Sabato 17 luglio 1880 per la prima volta davanti agli occhi del pubblico
Il selvaggio del nord L’ultimo lupo vivente del regno unito!
«Cosa dice? Cosa dice?», mi incalzò un bambino con il volto sporco di fuliggine tirandomi per la manica della giacca. «Non so leggere!» «Dice che al circo hanno un lupo», risposi. «L’ultimo lupo vivente del Regno Unito.»
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«Ma figuriamoci», sbottò una venditrice di patate lì accanto. «I lupi sono estinti da trecento anni!» «Questi vogliono solo fregarci», aggiunse un arrotino. «Sarà un cane in sovrappeso, date retta a me.» «Un lupo?» Il bambino mi guardò a bocca aperta. «Dice davvero così?» Annuii. «Già.» «E tu ci credi?», mi chiese il piccolo. Prima che potessi rispondergli, la mia attenzione fu catturata dalla figura che viaggiava in sella a un mulo subito dietro al carro blu e argento. Una vecchina esile, vestita di rosso dalla testa ai piedi, con numerosi cerchi dorati alle orecchie e ai polsi. Accanto a lei, una ragazza sui tredici anni dai capelli scuri e un vestito a balze dorate danzava a ritmo di un tamburello a sonagli. «Una didicoy», mormorò la venditrice di patate facendosi il segno della croce. «Non fissatela negli occhi: possono gettarti il malocchio con lo sguardo.» «Ma non dite sciocchezze», sbottò l’arrotino. «È solo una vecchia con un po’ troppa paccottiglia addosso.» Probabilmente l’uomo aveva ragione, riflettei mentre la parata scompariva all’altezza della cattedrale di St Paul. Probabilmente quella non era una vera didicoy, ma una donna qualunque mascherata da zingara. Be’, poco importava quali fossero le sue origini; per quanto mi riguardava, avevo appena trovato ciò che cercavo: l’acquirente per i miei tarocchi.
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E, al di là della possibilità di chiudere un buon affare, ammetto che la mia decisione di andare al circo fu dettata anche dalla curiosità. Gli unici lupi che avevo visto in vita mia erano quelli sulle stampe appese nelle vetrine delle tipografie. L’idea di vederne uno dal vivo mi affascinava. «L’ultimo lupo vivente del Regno Unito», mormorai dando un’altra occhiata al volantino colorato. «Chissà se è vero…» C’era un solo modo per scoprirlo.
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Il Mirabolante Circo Smith & Sparrow aveva montato il suo gigantesco tendone scarlatto dalle parti di Westminster Bridge, in un ampio spiazzo di terra battuta delimitato da una recinzione in legno. Carri colorati erano disposti attorno alla struttura a mo’ di anello e restai impressionato dalla brulicante quantità di persone che si muoveva all’interno di quell’area. Oltre agli artisti, facilmente riconoscibili per via di trucco e costumi, c’erano dozzine di garzoni e operai impegnati a trasportare attrezzi, spingere carriole, trascinare sacchi. Notai subito (e confesso che restai a guardarla per cinque minuti buoni con la bocca aperta) una donna bellissima, dalla pelle diafana e gli occhi a mandorla, con lucidi capelli neri raccolti in uno chignon, che camminava lungo una corda tesa tra due carri. Quella dev’essere la Libellula d’Acciaio di cui parlava il volantino, pensai riprendendo a muovermi senza toglierle gli occhi di dosso.
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Il lupo mi stava aspettando. Seduto al centro della gabbia, con i grandi occhi d’ambra che mi fissavano.