Onora il padre

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Viene dal sud della California dove ha una grande famiglia composta da nove fratelli e due genitori. Vive a Londra, in cui ha trascorso sette anni con «l’uomo più straordinario del pianeta», suo marito Alan Wass del gruppo Alan Wass and the Tourniquet, deceduto nel 2015. www.elizawass.com @lovefaithandmagic

Ci sono cose “ che non si possono dire ad alta voce, perché nel momento in cui le dici cambia tutto.

www.hotspotlibri.it

€ 14,90

ISBN 978-88-6966-092-4

Onor a il padre

Eliza Wass è autrice, editor e giornalista.

C

astley Cresswell e i suoi cinque fratelli, Hannan, Caspar, Mortimer, Delvive, e Jerusalem, sanno di essere diversi dagli altri ragazzi. Il loro mondo è in una casa in fondo a un bosco, la loro legge è quella di Dio, che parla per bocca del padre, un vero fanatico. Ma Castley ha ora sedici anni e il suo cuore comincia a battere per un compagno di scuola, George, così spiazzante nella sua normalità. D’improvviso vede davanti a sé la possibilità di una vita fatta di libertà e di scelte. I vestiti antiquati a cui Castley e i fratelli sono costretti, l’isolamento dei compagni che li considerano strani, possono essere superati. Mortimer bacia una compagna, persino l’irreprensibile Caspar disubbidisce per la prima volta. A poco a poco la ribellione comincia e i fratelli capiscono che se vogliono avere un futuro devono trovare il coraggio di sottrarsi alle leggi del padre.

Abbiamo scelto di pubblicare Onora il padre perché è un romanzo avvincente, che ci porta a esplorare i segreti di un’esistenza segnata da un lato dal fanatismo e dall’altro dal desiderio di indipendenza. Il libro è l’esordio di un’autrice che sa capire la dinamica dei comportamenti integralisti, le relazioni tra fratelli e le collisioni tra conflitti esterni e interiori. Siamo ammirati dalla capacità di Eliza di portarci in un mondo fitto di emozioni, di paure e di coraggio. Un mondo dove le stelle esistono ancora e brillano nel buio, che siano in cielo o che siano intagliate nel tronco degli alberi. Art Director: Stefano Rossetti Graphic Designer: Riccardo Gola / PEPE nymi Immagini © Shutterstock / Peter Gudella; bestv; Nataliia Dvukhimenna


Eliza Wass Onora il padre Traduzione di Mara Pace Hotspot è un marchio di Editrice Il Castoro www.hotspotlibri.it © 2016 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano Pubblicato per la prima volta con il titolo The Cresswell Plot da Hyperion, una divisione di Disney Book Group Copyright © 2016 Eliza Wass. All Rights Reserved ISBN 978-88-6966-092-4


ELIZA WASS

ONORA IL PADRE

Traduzione di Mara Pace



Questo libro è dedicato ad Alan Wass You made a blind man see, You made a man out of me, And if you go away on your own, Please don’t be too long, I will be waiting here patiently, From the moment you’re gone. — “From the Moment You’re Gone” Alan Wass and the Tourniquet



Intagliai la mia prima stella quando avevo sei anni, e quando ne compii sedici il bosco era già tutto punteggiato di stelle. Alcune non ricordavo nemmeno di averle intagliate. A volte mi chiedevo se non fosse stato qualcun altro: Hannan, Delvive, Caspar, Mortimer o Jerusalem. Oppure l’altro mio fratello, quello morto. Ma ho sempre saputo di essere stata io. Ho sempre saputo di essere l’unica a intagliare stelle.



UNO

A

lle tre di domenica mattina me ne stavo in equilibrio in cima al tetto di Ms. Sturbridge a guardare mio fratello che rivoltava mucchi di foglie bagnate con un rametto. Ms. Sturbridge era in ospedale, quindi nessuno poteva sentirci pulire la grondaia, ma Caspar faceva piano lo stesso. Lavoravamo di notte perché non ci vedesse nessuno. Doveva essere una sorpresa, diceva Caspar, ma la verità è che non voleva farsi beccare da nostro Padre. Rovesciai indietro la testa e socchiusi gli occhi verso le stelle. «Vuoi sentire una cosa davvero inquietante che ho scoperto oggi a scuola?» Sapevo che l’avrebbe evitato volentieri, perché le notizie inquietanti non facevano per lui. Ma Caspar era uno che ti ascoltava sempre, perciò rispose «Dimmi», senza interrompere il lavoro. «Ti ricordi che Cassiopea dovrebbe essere la mia costellazione?» Nostro Padre ci aveva assegnato una costellazione a testa, come se le stelle fossero di sua proprietà. Da Caspar nessun cenno di risposta: non era affatto contento di quello che stavo per dire. «Be’, la faccio breve: secondo la mitologia greca Cassiopea è stata punita perché era vanitosa. L’hanno legata a una sedia in cielo. Così adesso è lassù, in cielo, legata. Ed è la mia costellazione.» 9


Da sotto sentii arrivare gli schiamazzi di Mortimer, un altro dei miei fratelli. In teoria doveva stare di guardia. «Lo sai, vero, che non c’è nessuna regina d’Etiopia lassù?», disse. «È soltanto una cacchiata che si sono inventati i Greci.» «Sì, certo, ma anche nostro Padre la chiama Cassiopea», dissi. «Quindi deve saperlo per forza.» «Hai ragione… cos’è che ripete sempre nostro Padre? La Parola di Dio ha tanti significati. Secondo me vuole dirci qualcosa. Secondo me vuole che ti leghiamo a una sedia.» «Sai cosa cambia», dissi sottovoce, in modo che mi sentisse solo Caspar. Lui sgranò gli occhi. Ecco una cosa che mi ha sempre disorientato di Caspar: ogni volta che percepiva negli altri un senso di frustrazione, reagiva con stupore. Uno stupore totale, come se a lui non fosse mai capitato niente del genere nella vita. «Castley, questo è solo un periodo di attesa. In Paradiso sarà tutto più bello», disse in tono gentile. Il giorno in cui Dio aveva scelto la voce di Caspar doveva essere in vena di scherzi. Mio fratello aveva l’aria di un santo, ed era di gran lunga il più carino della famiglia, ragazze incluse, ma quando parlava sembrava un muratore che si fuma due pacchetti al giorno. Le ragazze ne andavano matte. Non che lui se ne accorgesse. «Non voglio aspettare. Voglio che sia tutto più bello ora.» Sentii Mortimer che risaliva in fretta il pluviale per raggiungerci. Piccolo ratto. Mortimer era quasi albino, quindi con gli altri se la passava peggio di tutti noi. Come spesso succede, era anche quello che si comportava peggio. «Non so perché sei convinta che al resto del mondo vada meglio che a noi», disse Mortimer, issandosi sul tetto. «La vita fa schifo per tutti.» 10


«Be’, farei a cambio volentieri con chiunque. Essere “benedetta dalla verità” è un po’ come avere una pulce nel sedere.» Caspar scattò in allerta. Forse avevo esagerato. Si lasciò cadere in ginocchio, facendoci vibrare il tetto sotto i piedi. «Caspar? Che c’è?» Pensai che si stesse preparando per una preghiera d’emergenza, o qualcosa del genere. «C’è qualcuno lì sotto», mormorò. Il mio primo istinto fu di non credergli, il che fa capire quante volte ci ero cascata, ma poi una luce saettò lungo il tetto e su in alto, sopra le nostre teste. Mortimer si abbassò all’istante, appiattendosi sul tetto. L’erba secca scricchiolò sotto i passi pesanti di qualcuno, facendomi esitare. «Castley, sta’ giù!», disse Mortimer. Probabilmente si vergognava di essersi abbassato così velocemente. La luce raggiunse il camino, allargandosi in un cerchio giallastro. Rimbalzò piano, serpeggiò lungo la cima del tetto e puntò dritta verso di me. Potrebbero vedermi, pensai, e come una stupida sperai che ci riuscissero. Lo desideravo così tanto che forse non m’importava di come sarebbe successo. Sentii una mano che mi afferrava il polso, e Caspar che mi tirava giù accanto a sé. «C’è qualcuno?» La voce era quella di un vecchio e mi scosse dal torpore. Non era arrivato a salvarmi nessun cavaliere bianco, né un principe e nemmeno un ragazzo della mia età. Mi aggrappai a Caspar, ora spaventata, e sentii il suo cuore che martellava sotto i vestiti di seconda mano. «Ehi, voi? C’è qualcuno là sopra, sì o no?», chiese l’uomo, quasi indispettito dall’assenza di risposte. Un cane ululò, lontano nei campi, e il vecchio se ne andò strascicando i piedi: «Saranno stati dei ratti», borbottò. Rimanemmo immobili per un tempo lunghissimo, Morti11


mer sdraiato a gambe e braccia spalancate, come un pupazzo, e Caspar steso accanto a me a guardare il cielo. Fu Mortimer il primo a mettersi seduto. Arricciò le grosse labbra e si leccò i denti, con una piccola smorfia: «Ottimo tentativo, Castley. Ancora un istante e ti avrebbe visto». «Mi sa che invece ha visto te.» Mi liberai dalla stretta di Caspar. «L’hai sentito, no? Ha detto “sarà stato un ratto”.» «Ha detto “ratti”.» «Fareste meglio a tornarvene a casa», disse Caspar di punto in bianco. Ci voltammo tutti e due, allibiti: non riuscivamo a credere che ci stesse mandando via. Non eravamo stati di alcun aiuto. Ci eravamo offerti di fare la guardia ma non eravamo stati capaci nemmeno di quello. «Caspar…», cominciai a dire. Lui raccolse il rametto e riprese a trascinarlo lungo la grondaia, facendo cadere a terra la poltiglia in tanti mucchietti. Penseranno che sono stati i ratti. I ratti, o magari Dio. Forse è proprio quello che vuole Caspar. «Su, Castley. Andiamo.» Mortimer scese dal tetto scivolando lungo il pluviale. Anche se Caspar era il suo esatto opposto, Mortimer nutriva per lui una strana forma di rispetto. Guardai Caspar. Se avessi provato sul serio a rendermi utile, forse mi avrebbe lasciato restare. Potevo cercare un rametto, o magari spazzar via le foglie con le mani. Le buone azioni erano l’ossessione di Caspar. In città ci detestavano tutti, ci prendevano in giro e dicevano di noi cose orribili e disgustose. Eppure a mio fratello piaceva spazzare i loro portici, strappare le erbacce o pulire le finestre. Io non ero così innamorata di quella gente. «Bene», dissi. «Noi ce ne andiamo.» Seguii Mortimer giù per il pluviale. Ci incamminammo in silenzio lungo la palizzata che separava la tenuta degli Stur12


bridge da quella degli Higgins. Quando entrammo nel bosco, cominciammo a parlare in coro. «Non dovresti mettere Caspar così alla prova.» «Dici che domani farà abbastanza caldo per andare a nuotare? Aspetta… di quale prova stai parlando?» «Stringerti a lui in quel modo», disse Mortimer, scostando un ramo. «Ma che cosa stai dicendo? Ero spaventata!» «Sto solo cercando di farti un favore. Non comportarti come se non sapessi di cosa sto parlando.» Avrei voluto ribattere, invece non aprii bocca, come al solito. Non ero mai sicura di come la pensassero davvero i miei fratelli. Nessuno di loro. Non capivo fino a che punto ci credevano, nelle follie di nostro Padre; non ero nemmeno sicura di quanto ci credevo io. Ci aveva raccontato che eravamo le uniche persone pure rimaste sulla Terra, le uniche degne, e che quindi avremmo dovuto sposarci tra di noi. Non con una cerimonia civile, che sarebbe stata illegale, ma con una cerimonia celeste. Io dovevo sposare Caspar. Delvive era in coppia con Hannan e alla povera, dolce Jerusalem era toccato Mortimer. Quando ero piccola, pensavo di aver fatto un bel colpo aggiudicandomi Caspar. Beata me! Mi è capitato il fratello più carino e simpatico! Poi ci fu l’incidente della Mamma e fummo costretti a frequentare una scuola vera, e a quel punto scoprii che sposarsi tra fratelli non solo è illegale, ma anche disgustoso. I sei fratelli Cresswell, insieme per l’eternità. Sarebbe stato perfetto, se non fosse che un tempo avevo un fratello più grande. Anche lui si chiamava Caspar. Era nato prima di noi gemelli (Delvive, Hannan e io), ma poi era morto. Il nuovo 13


Caspar, il fratello che un giorno avrei dovuto sposare, era la reincarnazione del primo. Rabbrividii per il freddo. «Domani riprende la scuola.» Non aggiunsi altro. Avevo imparato a non mostrarmi troppo entusiasta della scuola. «Già», disse Mortimer, passandosi la lingua sui denti. «Hai qualcosa che non va in bocca?» Mortimer si affrettò tra gli alberi, stizzito. «No.» «Continui a tormentarla. Spingi con la lingua contro i denti come se ci fosse incastrato qualcosa.» «E che cosa potrebbe mai essere, cara sorella? Una valigia? Un ombrello molto piccolo?» Mio malgrado scoppiai a ridere e mi affrettai a raggiungerlo. «Non lo so, magari ti sei tagliato la lingua.» Lui mi scrutò il volto in cerca di indizi. «Puoi dirmelo, sai», aggiunsi. «Non lo dirò ad anima viva.» Fino a poco tempo prima, nessuno mi avrebbe creduto. Da bambina ero una terribile spiona; lo eravamo tutti. C’era troppa competizione. Meno il Padre ama gli altri fratelli, più amore resta per te. Mortimer contrasse le labbra e trasalì per il male. «Lo giuro sulla vita della Mamma: non mi lascerò scappare nulla», dissi. Era un giuramento piuttosto serio perché la Mamma, anche se era viva, sembrava da sempre in punto di morte. Mortimer, forse colpito da quelle parole, si fermò e appoggiò la schiena al tronco di un albero, con la spalla appena sotto una delle mie stelle. Aveva due labbra enormi; erano l’unica cosa bella che aveva: corpose, imbronciate e rosse come bacche. Prese il labbro superiore tra le dita e lo sollevò come una tenda, svelando un gonfiore rosso dall’aspetto infiammato, caldo e dolente. «Oh mio Dio. Che cos’è successo? È stato nostro Padre…» 14


Mortimer lasciò andare il labbro. «No, non è stato nostro Padre, idiota. Ma ho una paura fottuta che lo scopra.» «Che cos’è… tipo un herpes?», chiesi. Lui abbandonò l’albero e proseguì nel bosco. «Oh mio Dio. Come l’hai preso?» Quando mi accorsi che stava ringhiando, cercai di darmi una calmata. Tra tutti i miei fratelli, lui era l’ultimo dal quale mi sarei aspettata che baciasse qualcuno. Non solo per il suo aspetto, ma perché odiava quasi tutti con ferocia. «Oh mio Dio! Chi hai baciato?» «Smettila di dire oh mio tu-sai-cosa!» Ecco un classico comportamento dei miei fratelli che mi lasciava spiazzata. Trasgredivano alcune regole e si aggrappavano ad altre con ostinazione. Mortimer aveva appena confessato di aver baciato qualcuno, ed era già pronto a prendersela con me perché avevo pronunciato il nome di Dio invano. «Caspita. Se lo scopre nostro Padre, sei nei guai fino al collo. Non riesco nemmeno a immaginare quanto.» Lui sfrecciò via tra gli alberi. Eravamo quasi a casa. Allungai un braccio per fermarlo. «Aspetta! Mi dispiace! Forse posso aiutarti.» «E come?», disse con rabbia, ma si fermò lo stesso, cominciando a giocherellare con la cerniera della felpa. «Potresti comprare una crema. Ti farebbe passare il dolore, e si sgonfierebbe più in fretta.» Nostro Padre non credeva nella medicina moderna. E comunque non avrebbe mai dato un unguento lenitivo a un giovane baciatore peccaminoso. Cercavo di mostrarmi gentile, ma ero così curiosa di sapere con chi si era baciato che non stavo più nella pelle. «Davvero? Andresti a comprarla per me?» «No. Ma posso rubarla.» Il nero delle pupille gli si allargò nel grigio opaco degli occhi. «Castley.» 15


«Qual è il problema? Non mi prenderanno. Tu ti fai sempre beccare, ma io sono in gamba, e starò attenta. La ruberò per te. Oggi stesso.» «È domenica. La farmacia è chiusa.» «Ce l’hanno al Great American. Al Great American hanno tutto.» Mortimer fece passare la lingua sul punto infiammato. «E come pensi di fare? Sanno chi siamo; lo sanno in tutti i negozi. Abbiamo una pessima fama per i furti.» «Già, per colpa tua.» «Non ti sei lamentata, però, quando ti ho portato il cioccolato, o quella bistecca che abbiamo cucinato nel bosco», disse, in tono di scherno. «In effetti è stato bello.» Sorrisi. «Vedi? Te lo devo. Voglio almeno provarci. Non ho paura di loro.» «Non è di loro che mi preoccupo.» Proprio in quel momento apparve la casa. Ci aspettava avvolta dalle ombre, rivestita di legno marcio. Odiavo casa nostra più di qualsiasi altro posto al mondo. Ogni corridoio, ogni nicchia, ogni angolo era legato a un ricordo. Se fissavo un punto troppo a lungo, rischiavo di precipitare nel passato e di annegare dentro un ricordo, riemergendone con un grido. Esitai sul limitare del bosco, rimuginando i soliti pensieri. Potresti andare via. Potresti andare via e non tornare più. Ma subito mi piombarono addosso milioni di dubbi, come batuffoli di polvere che si attaccano a una scopa. Non sei abbastanza grande. Per essere libera devi poterti mantenere, e non hai amici né parenti. Se vai ai servizi sociali e lo denunci, avrai contro tutta la famiglia. Comunque gli vuoi ancora bene. Poi il dubbio peggiore: E se avesse ragione lui? Questi pensieri non mi lasciavano mai. Li tenevo a bada, 16


cercavo di soffocarli e ogni volta che venivano a galla li ricacciavo giù. Ci sono cose che non si possono dire ad alta voce, perché nel momento in cui le dici cambia tutto. Mi dondolai sui calcagni. «Che ore sono?» «Mmm… non lo so. Le cinque?» «Perché non andiamo adesso, prima delle preghiere?» Ci riunivamo a pregare ogni mattina alle sei e mezzo. Non capivo il senso di tornare subito a casa. Tanto non saremmo andati a dormire. Soffrivamo d’insonnia, tutti eccetto Hannan, che si sforzava di riposare per il bene del football. Noi invece dormivamo a spizzichi e bocconi, girandoci e rigirandoci nel letto. Era il pensiero di ciò che stavamo perdendo a tenerci svegli la notte. Credo che avessimo paura di tutto quello che ancora potevamo perdere. Mortimer scosse la testa. «Non facciamo in tempo.» «È a tre chilometri da qui. Sono venti minuti al massimo. È perfetto. Non ci sarà tanta gente.» «In realtà sarebbe meglio che ci fosse, se vuoi passare inosservata.» «Passo sempre inosservata. In pratica non esisto.» Mortimer fece una smorfia, ma quando mi incamminai, lui mi seguì. Accelerai il passo, cercando di non pensare a quello che poteva succedere, e soprattutto di non fare piani. Avere un piano vuol dire rimanere delusi. Se provi a cambiare il futuro, non andrà mai come avevi progettato tu. Me l’ha insegnato nostro Padre. Me l’ha insegnato pianificando ogni cosa, sempre. Volevo che la mia vita, un giorno, fosse libera. Volevo vivere senza mappe. Volevo che tutto, anche la strada su cui stavo camminando, sparisse nel nulla, così per una volta non avrei saputo dove stavo andando. 17


Mi focalizzai su questo: la possibilità. Non avevo paura. Quando apparve il Great American, pensai di essere pronta. «Non ti muovere», dissi a Mortimer. Invece di fare l’ennesima smorfia o lamentarsi, si accucciò dietro un albero e mi guardò andare via.

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DUE

I

l Great American era il minimarket di un distributore di benzina, lungo la statale che portava ad Almsrand. Il cielo sopra di me stava rischiarando, ma il parcheggio era deserto. Seduto alla cassa c’era Lupe, con la testa reclinata all’indietro a fissare un punto nel vuoto, quasi in trance. Ero certa di riuscire a entrare senza che neppure mi vedesse. Perché era così che mi sentivo in quella città. La maggior parte delle persone, le cosiddette persone-per-bene, si voltavano dall’altra parte quando io e i miei fratelli attraversavamo la strada. Lo stesso a scuola: gli insegnanti non mi guardavano negli occhi quando si accorgevano che avevo i polsi coperti di lividi, e i ragazzi che mi urtavano in corridoio guardavano da qualche parte sopra la mia testa, infastiditi, e poi si dileguavano. Delvive e io frequentavamo Teatro, e giuro che quando recitavamo una delle nostre scene, anche quando eravamo sole sul palco, i nostri compagni di classe riuscivano a non vederci. Ecco perché ero convinta di poter entrare da Great American nella più totale invisibilità. Attraversai il parcheggio e salii sul marciapiede, cercando di evitare il mio riflesso nelle vetrine: carnagione pallida e grigia19


stra, un abito di cotone informe e capelli crespi raccolti in una treccia elaborata. M’immaginavo tanto diversa da come ero nella realtà che a volte, quando mi vedevo, restavo scioccata. Proseguii verso la porta, a testa bassa. La spinsi facendo tintinnare il campanello (o almeno credo che abbia tintinnato), ma Lupe non sollevò neppure lo sguardo. Mi abbassai dietro gli scaffali di una corsia e raggiunsi l’espositore nella piccola area con i prodotti sanitari. Mi accovacciai, piegando le ginocchia sotto il vestito. Feci correre il dito sulle confezioni di preservativi, tamponi e antidolorifici. Crema antivirale. La afferrai mentre la porta del negozio tintinnava di nuovo: una volta, due volte e poi altre quattro. La prima cosa che vidi furono i loro piedi, una sfilza di stivaletti Ugg variopinti, e capii subito che erano ragazze della mia età. Quando hai una vita che detesti, non c’è niente di più insopportabile delle persone che hanno la vita che vorresti. Eppure non riuscivo a distogliere lo sguardo. Cauta ma curiosa, mi sporsi all’indietro fino a cogliere il sorriso malizioso di Riva. Indossava una tuta intera. Non solo lei, ma il gruppetto al completo: Riva, Lisa, Darla, Emily Higgins e una ragazza nera che non avevo mai visto. Le tute avevano colori brillanti e vistosi, con fantasie buffe, come se fosse normale comprarsi vestiti che facevano ridere. Avevano tutte delle ciocche rosa tra i capelli; probabilmente se le erano colorate insieme. Quasi di sicuro erano reduci da un pigiama party. «Lupe!», squittì Riva. Anche se non era una tipa popolare, Riva si comportava sempre come se lo fosse. Forse pensava che gli altri, prima o poi, avrebbero ceduto e si sarebbero finalmente messi ad adorarla. «Vogliamo preparare i pancake! Ce li hai gli ingredienti per i pancake?!» Tutte le sue frasi, con tutte intendo proprio tutte, finivano con un punto esclamativo. 20


Lupe sfoderò un sorrisone a trentadue denti e le accompagnò in giro per il negozio, beandosi dei loro gridolini, come se non ne avesse mai abbastanza. «Lupe? Qual è la marca migliore?! Questa non è la marca giusta! Ci serve quella del cavallo! Ti ricordi?! Mi piace quella! Lupe, è il mio compleanno! Indovina quanti anni ho! No, non sono abbastanza vecchia per te!» Anche le altre parlavano, ma non c’era modo di capire che cosa stavano dicendo con Riva lì attorno. Avrei dovuto approfittarne per correre via. Era il momento perfetto. Caspar l’avrebbe definito una “benedizione”; lo diceva sempre quando le cose andavano per il verso giusto (quando però succedeva qualcosa di brutto, se ne stava zitto). Lupe aveva lasciato la cassa incustodita. Tra me e la porta non c’erano ostacoli. Ma le forze mi abbandonarono. Con la crema stretta fra le mani, mi sentii scivolare a terra, come se potessi semplicemente sprofondare nel pavimento del negozio. Non mi accorsi nemmeno di averle alle spalle. «Ehi!», disse Lisa. Indietreggiò inciampando nella ragazza nuova, ferma dietro di lei. La guardai. Aveva i capelli raccolti in una treccia a corona. Qualcosa nel suo portamento mi spinse a farmi ancora più piccola. «Ti conosco», disse. Eppure ero sicura di non averla mai vista in vita mia. Quando mi accorsi che Lisa fissava la crema antivirale che stringevo nella mano sudata, arrossii fino alle punte dei capelli. Lei mi guardò perplessa. «Ma non eravate contrari alla medicina moderna?», chiese, facendomi sentire un esperimento sociologico. 21


«Ehi! Lisa! Amity! Con chi state parlando?!» Riva apparve dalla parte opposta della corsia (sono in trappola!) con il suo piccolo esercito al seguito. «Oh mio Dio! Volete scherzare?!» La mia mente si svuotò. Panico puro, ecco cosa provai. Dovevo uscire di lì, ma non potevo correre sotto il naso di Riva con la crema antivirale. Avrebbe pensato che avevo un herpes o qualche altra malattia schifosa. Peraltro non avevo intenzione di pagare. Mollai la crema sullo scaffale, sparpagliando preservativi, tamponi e antidolorifici sul pavimento. Poi scattai verso la porta, più veloce che potevo. Spinsi via Riva, che imprecò e tese le braccia nel tentativo di bloccarmi. Sfrecciai nel parcheggio, oltre la Range Rover di sua madre, che stava lì ad aspettare. Sentii le ragazze ridere. Ridacchiavano come matte per ogni punto esclamativo che usciva dalla bocca di Riva. Mortimer tentò di afferrarmi mentre gli passavo accanto. «L’hai presa?» Continuai a correre. Sentii i suoi passi che pestavano il terreno dietro di me. «Castley! L’hai presa? Ti hanno beccato? Ci stanno seguendo?» I suoi passi rallentarono, ma io non mi fermai. Anzi, corsi più veloce. «Castley!», gridò, ma alla fine mi lasciò andare. Corsi senza sosta finché non fui sola e al sicuro. Un aspetto positivo di casa nostra era che, essendo così grande, ci lasciava liberi di sgattaiolare dentro e fuori. Raggiunsi il giardino e controllai che la via fosse sgombra. Poi esitai, guardando verso il bosco che circondava la casa. Non erano ancora le sei e non volevo salire in camera mia; sapevo già che Delvive, la mia sorella gemella, mi avrebbe sottoposto a un terzo grado per sapere dov’ero stata. Mi domandai 22


se Caspar fosse tornato. Pensai che magari potevo aspettarlo, così mi sedetti a terra e mi abbracciai le ginocchia. A volte quando ero nel bosco, se chiudevo gli occhi e mi concentravo, riuscivo a cancellare tutto. All’inizio tremavo, come quando lasci andare uno zaino pesante. Poi sentivo una luce che mi squarciava la pelle rosa delle palpebre. Quando aprivo di nuovo gli occhi, la luce era ancora lì, almeno per un po’. Pensavo che quella luce fosse Dio. Riprovai anche in quel momento, ma non riuscii a catturare nessuna luce: solo un’oscurità opaca che mi fece sentire spaventata e infreddolita. Udii dei passi. Avevano un ritmo scomposto, irregolare, disperato. Era Mortimer che si precipitava verso di me. Tra le mani aveva una confezione bianca dall’aria familiare. La sua felpa con il cappuccio era strappata, e pendeva tutta floscia da un lato. Mortimer inchiodò davanti a me, e cadde in ginocchio. «Mi hai appena cacciato in un mare di fottutissimi guai!» Si strinse la confezione al petto. «Di che cosa stai parlando? Non ho fatto niente.» Mortimer mi afferrò il polso con occhi allucinati. «Lupe ha chiamato la polizia. L’agente Hardy mi ha preso per il fottuto braccio.» Sollevò la manica. Il tessuto strappato penzolava nel vuoto. Sentii il cuore che mi batteva forte contro il ghiaccio che lo cingeva. «Non farà nulla», dissi. «Non verrà qui. Non dopo quello che è successo l’ultima volta. Ti ricordi che cosa hanno detto? Hanno bisogno di prove.» «Questo non c’entra con nostro Padre, questa volta sono io. Castley, ho rubato dal negozio. Lupe mi ha visto. Ne sono abbastanza sicuro… quando sono entrato c’era anche un gruppetto di ragazze della nostra scuola.» 23


«Sono solo delle stupide.» Con un lamento, mi schiacciai le tempie con i palmi delle mani. «Accidenti, te l’avevo detto. Perché ti fai beccare tutte le volte?» Lui barcollò. «Così non sei d’aiuto.» Si mise a camminare avanti e dietro, passandosi le dita tra i capelli per l’agitazione. «Non riesco a credere che stia succedendo.» «Mortimer, la polizia non muoverà un dito. Prima dovrebbero ammettere che esistiamo, e sai bene che non succederà.» «Non è la polizia che mi preoccupa.» Sentivo il cuore che mi tamburellava nel petto. Se nostro Padre lo scopre… «Non lo scoprirà. Chi potrebbe dirglielo? In città non rivolge mai la parola a nessuno.» «Dov’è Caspar?», chiese Mortimer. «Ho bisogno di parlargli.» Scrutai tra gli alberi. «Non so dove sia. In casa non l’ho visto entrare.» Mortimer cercò di ricomporre i lembi della manica strappata, forse sperando che potesse ripararsi per magia. «Potrei tornare indietro passando dalla tenuta degli Sturbridge e vedere se riesco a intercettarlo.» «Mortimer, non penso che la polizia farà nulla. Sul serio. Andrà tutto bene.» Lui se ne andò a passo incerto. «Come no. Figurati. Grazie lo stesso.» «Non ho capito perché dovrebbe essere colpa mia! Sei stato tu», gli gridai mentre batteva in ritirata. «Sei una persona autonoma. Le decisioni che prendi sono tue, punto e basta!» Non mi degnò nemmeno di un cenno di risposta. Che idiota. Ma come gli era venuto in mente di entrare al Great American subito dopo che avevo combinato quel casino? Gli stava bene, ma se nostro Padre lo scopriva… 24


Mi appoggiai al tronco di un albero per riprendere il controllo. La casa si ergeva davanti a me, scura e piena di segreti. Non volevo tornare lì dentro. No. Non era ancora il momento. Mi voltai e partii di corsa verso la tenuta degli Sturbridge. La luce delle prime ore del mattino trapelava dagli alberi mentre mi affrettavo nel bosco. Lo amavo, il bosco, non potevo farne a meno. Era libero, selvatico e bellissimo: tutto ciò che io non potevo essere. Quando sognavo, ero il bosco. Invece nella vita reale ero… non riuscivo nemmeno a immaginare cosa. Per qualche istante mi soffermai a contare le stelle, ricordando i giorni in cui le avevo incise. Udii qualcuno muoversi davanti a me. «Morty?», chiamai, sentendo una fitta al petto. Ero sicura che Mortimer, il mio caro fratellino, avrebbe continuato a prendersela con me per quello che era successo. Ma che colpa ne avevo io se lui era un perfetto imbecille? «Cass? Sei tu?» Caspar apparve all’improvviso tra gli alberi, etereo e angelico come sempre. Abele e Caino, il mio fratello buono e il mio fratello malvagio. «Che cosa ci fai qui?» Si avvicinò e mi tolse un rametto di spine dai capelli. «Hai visto Mortimer? Ti cercava», dissi, camminandogli accanto. «No, non l’ho visto.» «Si è cacciato nei guai, credo.» «In che senso?» Caspar storse le labbra. Non erano grandi come quelle di Mortimer, ma erano abbastanza corpose da dargli un’aria stupida e sensuale allo stesso tempo. Gli raccontai che cosa era successo, saltando la parte in cui ero io a entrare per prima nel negozio. In buona sostanza gli 25


raccontai una bugia, ma questo non gli impedì di cogliere il nocciolo della questione. Arrivammo sul limitare del bosco. Sapevo che era l’ora delle preghiere perché Caspar in quelle cose era puntuale come un orologio. Restai indietro, esitando tra gli alberi. Il bosco per noi era una zona franca, un posto dove potevamo essere sinceri, un posto dove essere noi stessi. Una volta attraversata l’ultima fila di alberi per andare a casa o a scuola, cambiavano tutte le regole del gioco. «Che cosa facciamo?» Caspar sollevò un sopracciglio. Aveva uno sguardo strano, come gli capitava a volte, quando sembrava che stesse parlando con il suo angelo personale. «Vai dentro prima che sia troppo tardi», mi disse. Il che non era esattamente una risposta. Poi si voltò e tornò nel bosco. Se volevo rientrare, dovevo fare attenzione. A quell’ora probabilmente erano già tutti svegli. Se la Mamma aveva avuto una notte difficile, nostro Padre poteva essere in cucina a prepararle una delle sue pozioni “medicinali”. Avanzai lentamente nel giardino sul retro della casa, nascondendomi dietro il gabinetto esterno e dietro il capanno degli attrezzi. C’era un secchio rovesciato sotto la finestra della cucina, ma non si notava perché lì attorno – come in gran parte della casa – dominava il disordine. Nostro Padre era ossessionato dagli sprechi, e dal momento che noi non ci compravamo mai nulla, combatteva gli sprechi altrui. Andava in giro con il pick-up a raccogliere oggetti abbandonati ai margini della strada come un robivecchi, convinto così di salvare il mondo. Il capanno sul retro, il portico e il giardino erano pieni di cianfrusaglie. Le riparavamo per venderle e guadagnarci qualcosa. Nostro Padre frequentava tutti i mercatini del fine set26


timana, di solito portandosi dietro Caspar perché era di bella presenza e non si lamentava, e a volte anche la Piccola J perché, quando si metteva seduta da qualche parte a disegnare, alla gente piaceva guardarla. Tutti amavano la Piccola J. Amavano il suo vero nome, Jerusalem. Amavano che fosse così piccina e serena. Amavano il fatto che non parlasse mai; pensavano che fosse favoloso. «Che meraviglia», dicevano. «Guardate come riesce a comunicare con i disegni.» Quello che nessuno capiva è che la Piccola J sapeva parlare, proprio come loro o chiunque altro di noi fratelli. Anche a scuola nessuno sembrava ricordare che aveva parlato fino ai sei anni, quando Morty si era rotto la clavicola e la polizia aveva fatto irruzione in casa nostra. La finestra della cucina non era mai del tutto chiusa; c’era sempre uno spiraglio aperto, così potevamo passare di lì per rientrare in casa. Trattenendo il fiato, sbirciai oltre il vetro per assicurarmi che non ci fosse nessuno. Poi mi mossi in fretta. Infilai il mignolo nella fessura e spinsi verso l’alto finché non riuscii a far passare tutta la mano. Sollevai piano il vetro della finestra, in modo che non s’inceppasse nel telaio. Saltai sul secchio e lo sentii che si piegava sotto il mio peso. Un giorno o l’altro si sarebbe rotto, pensai, mentre scivolavo nel lavello della cucina. Atterrai sul pavimento con un balzo. Dovevo stare attenta perché c’erano secchi d’acqua sparsi ovunque, come i pezzi della scacchiera più bagnata del mondo. Quella era un’altra fissazione di nostro Padre: dovevamo essere sempre pronti. Faceva scorta di acqua del rubinetto finché non cominciava a puzzare e bisognava buttarla. Forse a casa nostra aveva senso, visto che l’impianto idraulico si guastava spesso senza preavviso e visto che c’era un unico 27


bagno funzionante, che potevamo usare solo di notte e, anche in quel caso, solo per “emergenze” (altrimenti bisognava andare fino al gabinetto esterno). Nostro Padre non credeva negli idraulici. Era convinto che quando qualcosa non funzionava nelle tubature, Dio ci stava mettendo alla prova e che quindi dovevamo resistere. Mi stavo ancora destreggiando tra i secchi, quando la porta della cucina si spalancò. Mi gelai, travolta da un’ondata di paura, impalpabile e strana. Cominciai a passare in rassegna tutte le possibili scuse. Potevo dire che ero uscita per andare in bagno, ma questo avrebbe implicato l’uso della finestra. Potevo dire che avevo sete. Meglio. Se mi avesse chiesto perché non avevo usato il lavandino al piano di sopra, avrei detto che l’acqua aveva un sapore orribile, cosa peraltro vera. Solo che alla fine non era nostro Padre. Era Hannan, quello tra noi che gli somigliava di più. Mi spaventai lo stesso. «Accidenti! Che cosa stai facendo?», disse lui, strofinandosi gli occhi. «Sono scesa a prendere un bicchiere d’acqua», dissi, troppo in fretta per accorgermi che con mio fratello potevo anche risparmiarmela, quella risposta. Mi passò accanto, scartando con abilità i secchi di acqua fino alla credenza. Io andai verso la porta. «Ehi!», disse. Mi voltai. Aveva in mano un bicchiere. «Oh», dissi, sentendomi una stupida. Andò verso il lavandino e me lo riempì. Hannan, Delvive e io eravamo gemelli, ma tra tutti i miei fratelli, Jerusalem compresa, Hannan era il più difficile da inquadrare. Era il quarterback della scuola – un vero mago del football – e non faceva altro che mangiare, dormire e allenarsi. Che cosa pensava di nostro Padre, della scuola o della vita in 28


generale per me restava un mistero. L’unica cosa interessante che avesse mai fatto era stata accompagnare a casa Claire, la capogruppo delle cheerleader. Quando nostro Padre l’aveva scoperto, Hannan si era guadagnato un’intera settimana nella Tomba. La Tomba era un antro nascosto sotto l’anfiteatro di pietra nel bosco. Una sorta di fogna, costruita per drenare l’acqua quando pioveva o nevicava, ma secondo nostro Padre era stata collocata lì da Dio come luogo di riflessione. Peccato che la riflessione, di solito, venisse imposta dall’alto. Hannan era stato nella Tomba una volta sola, Mortimer parecchie. Caspar ci andava di sua spontanea volontà ogni volta che sospettava di aver fatto o pensato qualcosa di sbagliato, anticipando la punizione. Capitava che ci restasse per giorni, senza cibo, e la cosa rallegrava molto nostro Padre. Forse perché lo faceva sentire nel giusto. Era la prova che non doveva essere poi così terribile venire chiusi in una fogna, senza cibo né acqua, nel folto del bosco e con la sola compagnia di Dio (sempre che Dio pensasse che il recluso meritasse una visita). Non poteva essere così terribile se uno di noi ci andava di sua spontanea volontà. Noi ragazze non eravamo mai state nella Tomba. Non perché nostro Padre pensasse che fossimo troppo fragili o delicate, ma perché non ci aveva mai colto in fallo. Eravamo sveglie. Ed eravamo troppo sveglie per offrirci come volontarie. Ringraziai Hannan per l’acqua, senza smettere di chiedermi se aveva capito che ero stata fuori o se pensava che fossi così stupida da scendere a prendere un po’ d’acqua per poi andarmene senza bicchiere. Non glielo domandai, perché era così che s’interagiva dentro la casa. Recitavamo sempre, perché c’era sempre qualcuno a fare da spettatore. 29


Tenni stretto il bicchiere mentre correvo su per le scale. Non volevo essere la prima a scendere di sotto rischiando una chiacchierata a quattr’occhi con nostro Padre. Delvive, la Piccola J e io dormivamo nella stessa camera. La casa era abbastanza grande perché ciascuno di noi avesse la sua stanza, e anche di più, ma non avevamo il riscaldamento. Così noi tre dormivamo insieme e lo stesso facevano i ragazzi. Nella nostra stanza, appesi a fili intrecciati come in una decorazione nuziale, c’erano dei fiori morti. Quando entrai, Delvive e la Piccola J erano sedute a gambe incrociate sul pavimento: la Piccola J davanti e Delvive alle sue spalle che le acconciava i capelli in una treccia. «’Giorno», dissi. La Piccola J si voltò con un sorriso, ma Del le raddrizzò bruscamente il capo. Appoggiai il bicchiere d’acqua e mi sedetti accanto a Del, cominciando a mia volta a raccoglierle i capelli, tutti increspati dal sonno. Una volta che i suoi capelli fossero stati a posto, la Piccola J avrebbe sistemato i miei. Eravamo rivolte verso la finestra, e di tanto in tanto un albero tremava; mi chiesi se Caspar e Morty stessero tornando a casa o se fossero scappati lontano.

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TRE

S

cendemmo insieme al piano di sotto. Io e le mie sorelle cercavamo sempre di stare insieme, non solo in casa, ma anche a scuola. Era più sicuro muoversi in gruppo. Quando arrivammo, nostro Padre era in soggiorno a leggere il suo libro, seduto composto come sempre, quasi ci fosse qualcuno a guardarlo, pronto a scattargli una bella fotografia. La Mamma era nell’angolo. Mi bastò darle un’occhiata per capire che era una brutta giornata. Era pallida e aveva le braccia strette attorno al corpo. Un tempo era stata la donna più bella del mondo, e non sto esagerando. Sembrava una bambola: capelli biondo chiaro come Morty, occhi azzurri come Caspar, e un aspetto etereo come Delvive. Ma era anche invecchiata come una bambola. Aveva lineamenti slabbrati e consumati. Ma la cosa peggiore era la sua gamba destra, piegata di sbieco. Se l’era rotta cadendo dalle scale. Non era andata in ospedale. Si era rifiutata di andarci. Quando era successo, si era limitata a guardare nostro Padre e a ripetere: «Il Signore mi guarirà, il Signore mi guarirà», mentre i suoi occhi sembravano dire So che ti dispiace. Ma Dio non si era rivelato un bravo medico, nemmeno con l’aiuto di nostro Padre: una steccatura rudimen31


e liz a wa ss

Viene dal sud della California dove ha una grande famiglia composta da nove fratelli e due genitori. Vive a Londra, in cui ha trascorso sette anni con «l’uomo più straordinario del pianeta», suo marito Alan Wass del gruppo Alan Wass and the Tourniquet, deceduto nel 2015. www.elizawass.com @lovefaithandmagic

Ci sono cose “ che non si possono dire ad alta voce, perché nel momento in cui le dici cambia tutto.

www.hotspotlibri.it

€ 14,90

ISBN 978-88-6966-092-4

Onor a il padre

Eliza Wass è autrice, editor e giornalista.

C

astley Cresswell e i suoi cinque fratelli, Hannan, Caspar, Mortimer, Delvive, e Jerusalem, sanno di essere diversi dagli altri ragazzi. Il loro mondo è in una casa in fondo a un bosco, la loro legge è quella di Dio, che parla per bocca del padre, un vero fanatico. Ma Castley ha ora sedici anni e il suo cuore comincia a battere per un compagno di scuola, George, così spiazzante nella sua normalità. D’improvviso vede davanti a sé la possibilità di una vita fatta di libertà e di scelte. I vestiti antiquati a cui Castley e i fratelli sono costretti, l’isolamento dei compagni che li considerano strani, possono essere superati. Mortimer bacia una compagna, persino l’irreprensibile Caspar disubbidisce per la prima volta. A poco a poco la ribellione comincia e i fratelli capiscono che se vogliono avere un futuro devono trovare il coraggio di sottrarsi alle leggi del padre.

Abbiamo scelto di pubblicare Onora il padre perché è un romanzo avvincente, che ci porta a esplorare i segreti di un’esistenza segnata da un lato dal fanatismo e dall’altro dal desiderio di indipendenza. Il libro è l’esordio di un’autrice che sa capire la dinamica dei comportamenti integralisti, le relazioni tra fratelli e le collisioni tra conflitti esterni e interiori. Siamo ammirati dalla capacità di Eliza di portarci in un mondo fitto di emozioni, di paure e di coraggio. Un mondo dove le stelle esistono ancora e brillano nel buio, che siano in cielo o che siano intagliate nel tronco degli alberi. Art Director: Stefano Rossetti Graphic Designer: Riccardo Gola / PEPE nymi Immagini © Shutterstock / Peter Gudella; bestv; Nataliia Dvukhimenna


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