Susin Nielsen Gli ottimisti muoiono prima Traduzione di Claudia Valentini Š 2017 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Copertina di Rita Petruccioli Titolo originale: Optimists Die First Testo Š 2017 Susin Nielsen Published by arrangement with Tundra Books, a division of Penguin Random House Canada Limited. ISBN 978-88-6966-204-1
SUSIN NIELSEN
TRADUZIONE DI CLAUDIA VALENTINI
A tutte le altre gattare fuori di testa. Voi sapete chi siete.
Un pessimista l’azzecca più spesso di un ottimista, ma un ottimista si diverte di più. E nessuno dei due può cambiare la marcia degli eventi. Robert A. Heinlein
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a prima volta che ho visto l’Uomo Bionico ero ricoperta di brillantini. Era un classico venerdì pomeriggio al consueto Meeting Ricreativo Di Arteterapia. MERDA, per gli amici. Avevo cercato di dare una mano a Ivan il Terribile con l’ennesimo lavoretto del cavolo. Come al solito, però, lui non ne voleva sapere di stare concentrato. Gli era parso molto più divertente rovesciarmi un intero tubetto di brillantini in testa, sul cappello a forma di gatto e su tutto il corpo. Alonzo si era limitato a un commento condiscendente. Koula era scoppiata a ridere. Un’altra bellissima giornata di sole, qui in paradiso! Eravamo nello spazio comune sul quale affacciano gli uffici degli psicologi della scuola. Era sempre così lì: o c’era 1
un freddo da Antartide oppure un caldo da Arabia Saudita. Anche se erano i primi di gennaio, mi ero spogliata fino a restare soltanto in canottiera, che avevo decorato in stile batik con la tintura a nodo. Ivan si era messo a darmi dei colpetti sul braccio nudo con quelle stesse dita che poco prima si era infilato nel naso. Io stavo frugando nella mia borsa di tela per prendere il flaconcino di disinfettante per le mani, quando la porta dell’ufficio della psicologa si è aperta. Ivan ha alzato lo sguardo. «Petula, guarda», mi ha detto. «Un gigante!» L’Uomo Bionico non era un gigante. Ma superava di certo il metro e ottanta. Tutto in lui era extra large. Teneva sotto braccio un giaccone imbottito di un arancione sfavillante, un tantino eccessivo per l’inverno di Vancouver. Dimostrava più o meno la mia età, aveva un cespuglio di capelli castani e ricci in testa e due enormi occhi marroni arrossati dal pianto. L’Uomo Bionico era appena uscito dall’ufficio di Carol Polachuk. Quante volte c’ero stata anch’io, in quel posto senz’anima, costretta a parlare con quella tizia dagli occhi allampanati, l’atteggiamento paternalistico e quelle magliette con la scritta su con la vita! Se c’era una cosa che a Carol riusciva benissimo, era farti sentire ancora peggio di quando eri entrato. Per questo non mi è parso affatto strano che l’Uomo Bionico avesse lo sguardo confuso. E furioso. E terribilmente, profondamente triste. Conoscevo bene quel genere di espressioni. L’Uomo Bionico non era andato là dentro a parlare dei progetti per il futuro. Non si va da Carol Polachuk per questioni così triviali. 2
Lui era uno di noi. Per un breve istante, i nostri occhi si sono incrociati. Poi lui si è precipitato verso la porta. Ed è uscito completamente dai miei pensieri, mentre io cominciavo a spalmarmi ovunque il disinfettante per le mani. Fine. E invece… quella non fu affatto la fine.
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l lunedì pomeriggio l’ho rivisto di nuovo. Ero in piedi di fronte a tutta la classe durante l’ora di storia, in completo da presentazione: camicetta bianca, gilet viola fatto all’uncinetto, la mia gonna lunga preferita e gli stivali di gomma, sempre viola, che nascondevano i calzini a righe portafortuna. Ero arrivata più o meno a metà del discorso. Questa la consegna: discutere di un evento storico che avesse delle ripercussioni anche sul presente. Io avevo scelto l’11 settembre 2001. Nine-eleven, il giorno in cui due aeroplani, dirottati da un gruppo di terroristi, si sono schiantati contro la torre nord e la torre sud del World Trade Center di New York. Avrei parlato delle conseguenze politiche e dei tanti modi in cui da quel giorno è cambiato il nostro concetto di sicurezza personale. 4
Ma non ci sono mai arrivata. Molte delle persone che si trovavano nei piani inferiori rispetto al punto di impatto sono riuscite a scappare per le scale prima che le torri crollassero. Ma quelle che si trovavano più sopra hanno avuto tutto il tempo di rendersi conto che erano spacciate, che nessuno sarebbe venuto a salvarle, perché, be’, come avrebbero potuto? Quelle torri sono praticamente esplose nella stratosfera. Ho pensato molto a quelle persone. Al fatto che, per loro, quel giorno dev’essere iniziato in modo normale, come tutti gli altri. Al fatto che si trattava di persone comuni, ordinarie, proprio come me, mia madre e mio padre, come tutti. Mi sono immaginata un tizio domandarsi se fosse troppo presto per il pranzo, perché pur essendo appena le nove aveva già fame. E poi una donna che non riusciva a smettere di pensare al figlio, perché quando l’aveva lasciato all’asilo, quella mattina, lui si era messo a piangere. Pensavano di avere davanti una giornata come tutte le altre. Questa parte della mia presentazione sarebbe dovuta essere molto breve, avrei dovuto raccontare i fatti per poi procedere ad analizzarne gli effetti a catena. Ma non riuscivo a togliermi dalla testa il pensiero di tutte quelle vittime innocenti. O di tutte le persone che hanno lasciato: bambini, coniugi, genitori e amici che non hanno visto i loro cari tornare a casa dal lavoro, né quel giorno né mai. Da quel momento in poi, le loro vite non sono state più le stesse. Il cuore ha preso a battermi forte. Il respiro mi si è fatto corto e ho iniziato ad ansimare. Ho aperto la bocca, ma non 5
ne è uscita parola. I miei compagni di classe sembravano preoccupati. Ed è stato lì che l’ho notato, seduto nel banco d’angolo in fondo alla classe. L’ultimo pensiero che ho avuto è stato: Oddio, porto dei mutandoni da vecchia, fa’ che non mi si alzi la gonna… Poi tutti i miei centottanta centimetri di stazza sono crollati a terra.
Un’ora dopo ero di fronte al preside Watley, accomodata nella mia sedia preferita, quella con il tessuto ruvido e multicolore. L’avevo usata così tante volte, in quegli ultimi due anni, che la seduta si era perfettamente adattata alla forma del mio sedere. Era la mia preferita perché la più lontana dalla libreria, che non era in alcun modo assicurata alla parete. Credetemi, avevo controllato. Quindi, se io fossi stata seduta lì vicino e ci fosse stato un terremoto – e a Vancouver dicono non sia tanto una questione di se, bensì di quando – avrei riportato diverse ferite dovute al crollo di tutti quei libroni. (Evitavo di pensare al fatto che, nel caso di un terremoto di intensità superiore al quinto grado della scala Richter, tutto l’edificio sarebbe collassato al suolo come una pila di mattoncini Jenga. Se ci avessi pensato, avrei dovuto lasciare la scuola e Vancouver e andare a vivere da sola in una grotta chissà dove, cosa che avrebbe distrutto i miei genitori. Senza contare che sarei diventata un bersaglio facile per tutti gli psicopatici che si fossero trovati a passare da quelle parti. E/o avrei potuto 6
contrarre una malattia respiratoria per via dell’umidità e sarei morta di una morte lenta e dolorosa. Quantomeno, in caso di terremoto è più probabile che si muoia sul colpo.) Libreria a parte, mi piaceva stare nell’ufficio del preside. Era un luogo stranamente caldo e accogliente, illuminato da lampade a stelo al posto dei soliti neon fluorescenti appesi al soffitto. E il preside Watley teneva ancora sulla scrivania la palla di vetro con la neve che avevo fatto per lui in prima superiore riutilizzando un barattolo di vetro. L’ho presa in mano, agitata per bene, e una cascata di neve si è riversata su un edificio di mattoncini Lego con su scritto princess margaret secondary school. Il preside Watley, intanto, mi osservava con quei suoi occhioni grandi e acquosi. Sembrava un San Bernardo smarrito. «Ti senti meglio, Petula?» «Molto meglio. In infermeria mi hanno dato una bella controllata. E poi hanno detto che potevo andare.» «Avevi fatto molti progressi. Pensavo ci fossimo ormai lasciati alle spalle episodi del genere.» «Anch’io.» L’ultimo attacco di panico in piena regola l’avevo avuto tre mesi prima, durante l’ora di biologia. L’argomento quella volta erano le malattie infettive. Stavo parlando del virus dell’ebola, che si trasmette attraverso i liquidi corporei e causa una morte davvero orribile. Mi ero accasciata a terra dopo aver sottolineato quanto siano alte le probabilità di un’epidemia su scala mondiale. «Almeno avvengono in numero inferiore e con minore frequenza», mi ha detto il preside. E si è sistemato i capelli. Dentro di me ho sperato che sua moglie si decidesse a dirgli 7
che quel riporto non ingannava proprio nessuno. Poi, ho studiato di nuovo la foto di famiglia da tanto tempo accanto alla mia palla con la neve. Ritraeva il preside e la moglie sorridenti assieme al loro carlino. Il cane era senza alcun dubbio il più attraente dei tre. La mia teoria era che quei due avessero un accordo reciproco: la signora Watley ignorava il riporto del preside, e lui il neo gigante sul mento della moglie. «In ogni caso però, Petula, ci eravamo detti che avresti cercato di stare alla larga dagli argomenti sensibili.» «Sì.» «Non c’era alcun bisogno di parlare delle vittime.» Ho seguito con gli occhi la pioggia che scendeva a catinelle al di là della finestra. «Era solo una piccola parte. Se fossi arrivata alla fine, poi avrei avuto un sacco di cose interessanti da dire.» Lui ha appoggiato il mento alla punta delle dita. «Per esempio?» «Per esempio che l’undici settembre ha cambiato le regole del gioco. E che, ormai, viviamo in un mondo in cui gli attacchi terroristici rappresentano una minaccia costante.» «Pensavo avessimo deciso di evitare questo genere di pensieri negativi.» «Mi scusi, preside, ma questo non è un pensiero negativo. È oggettivo. Avrei detto che l’undici settembre ci ha insegnato che dobbiamo essere più vigili. Uomo avvisato, mezzo salvato.» «Capisco che talvolta il mondo possa sembrare un posto poco sicuro, ma noi viviamo a Vancouver. In Canada. Qui siamo…» 8
«No, non lo dica, preside. Non si è al sicuro da nessuna parte.» «Okay, ma se anche non ci troviamo d’accordo su quest’ultimo punto, non pensi che dovremmo comunque continuare a vivere la nostra vita? Non si può vivere costantemente nel terrore. Non possiamo alzare gli occhi su ogni aereo che passa e temere che sia stato dirottato. Non possiamo tenere d’occhio ogni persona che ci cammina accanto per strada e pensare che abbia una bomba in tasca.» Come no? Io posso eccome, ho pensato. Io posso restare sempre all’erta per tutti voi incoscienti. «No, certo, ma questo non vuol dire che dovremmo nascondere la testa nella sabbia. Metaforicamente parlando, intendo, è ovvio. Se lo facessimo sul serio moriremmo soffocati.» Il preside Watley si è fermato un momento a riflettere. Poi ha indicato la tazza che aveva sulla scrivania. «Osservala e dimmi cosa vedi.» «Una tazza di caffè mezza vuota.» «Io vedo una tazza di caffè mezza piena.» E mi ha sorriso trionfante, come se avesse appena espresso un pensiero profondo. «E questo è il motivo per cui lei morirà prima di me.» Il preside ha reagito sbattendo le palpebre diverse volte. «Be’, lo spero. Ho cinquantadue anni, dopotutto, e tu solo quindici…» «Sedici dalla settimana scorsa. Età a parte, comunque, gli studi dimostrano che in generale gli ottimisti muoiono prima rispetto ai pessimisti.» «Faccio un po’ fatica a crederci.» 9
«E certo, perché lei è un ottimista. E ha questa malsana convinzione che le cose andranno proprio come pensa lei. Non vede il pericolo se non quando ormai è troppo tardi. I pessimisti sono più realistici. Prendono molte più precauzioni.» «Mi sembra un modo molto triste di vivere la vita.» «È un modo sicuro di vivere la vita.» Qui Watley si è lasciato andare a un sospiro. E si è stropicciato gli occhi acquosi. «E questo è il modo più sicuro per prendersi la congiuntivite.» Lui ha abbassato la mano e mi ha rivolto uno sguardo pieno di compassione, che da una parte mi ha infastidito ma dall’altra, invece, mi ha fatto piacere. «Come va con l’arteterapia?» «Lo sa come la penso.» «Sì, ma continuo a sperare che cambi idea.» E ha dato uno sguardo all’orologio. «Okay, torna pure in classe.» Dato che mancavano soltanto dieci minuti alla fine dell’ora, non avevo alcuna intenzione di tornare in classe. «Certo.» Mi sono alzata e in sostituzione della classica stretta di mano scambia-germi ho fatto un piccolo inchino. Uscita dall’ufficio del preside Watley ho svoltato a sinistra… E sono andata a schiantarmi dritta contro l’Uomo Bionico.
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ibri e quaderni, miei e suoi, sono volati da tutte le parti. Ci siamo accovacciati a terra entrambi per raccogliere le cose sparse ovunque, e le nostre teste si sono scontrate con un sonoro crack. Io mi sono rialzata in piedi massaggiandomi la tempia. «Ahi! Cretino!» «Ehm, ti sei accorta, sì, che sei stata tu a venirmi addosso?» Ho guadato in su. Enfasi sulla parola su. Perché, se sei una ragazza dalle misure simili a quelle di un’amazzone, dover guardare in su verso qualcuno è una cosa che ti capita piuttosto di raro. Ma l’Uomo Bionico era più alto di me di dieci centimetri buoni. 11
Sono rimasta lì a fissargli la faccia un po’ troppo a lungo. I lineamenti erano un tantino strani. Del tipo che se qualcuno gli avesse spostato naso e occhi un millimetro un po’ più in qua e un millimetro un po’ più in là, sarebbe stato quasi carino. E invece sembrava un Picasso, di quelli del periodo subito prima che Pablo si votasse all’astrattismo totale. «Come ti senti?», mi ha chiesto. Non sapevo se si riferisse al nostro incidente con tanto di capocciata oppure allo svenimento durante l’ora di storia, e non mi importava. Sono sgusciata via passandogli accanto, diretta verso l’armadietto. Scambiare quattro semplici chiacchiere era diventato un compito troppo difficile per la me post-Maxine. E poi, mi rimanevano soltanto cinque minuti per sparire prima che il corridoio fosse invaso dagli studenti. L’anno prima, quando stavo peggio, avevo seriamente preso in considerazione l’idea di venire a scuola con una di quelle mascherine che portano tutti in Cina, quando l’inquinamento si fa pesante. Ora, invece, mi limitavo al minimo indispensabile, tipo non toccare persone o superfici e lavarmi le mani per la durata minima di almeno due giri di Tanti auguri a te. Ed evitare di trattenermi oltre il necessario in quella fucina di germi. L’Uomo Bionico mi ha seguita ed è rimasto lì fermo, mentre io facevo andare la rotella del lucchetto prima a destra e poi a sinistra. «Non dovresti seguire la gente», gli ho fatto notare. «Specialmente le ragazze. È inquietante.» Il suo maglione a trecce color avorio puzzava di naftalina. «Sul serio. Stai bene? Sei cascata giù come un sacco di patate.» 12
Come se ci fosse bisogno di ricordarmelo. Quando avevo ripreso conoscenza mi ero ritrovata con il cardigan della professoressa Cassan sotto la testa e la Ragazza Un Tempo Conosciuta Come la Mia Migliore Amica che guardava in basso, verso di me, piuttosto preoccupata. «Si è visto quello che porto sotto la gonna?», mi è uscito poi di colpo. Lui è rimasto interdetto. «No. Perché? Volevi che si vedesse?» «No.» Ho spalancato l’armadietto, ho afferrato la giacca: ero a tanto così dalla libertà e ne sentivo il profumo. Ma proprio mentre tentavo di aggirarlo, l’Uomo Bionico ha allungato la mano destra. «È il caso che mi presenti. Sono Jacob Cohen.» Non ce l’ho fatta. Sono rimasta a bocca aperta. Perché non era una mano vera, quella. Era nera, lucida e assolutamente artificiale. Lui si è accorto che mi ero imbambolata a fissarla. «Niente male, eh? Non sembra uscita da Io, robot?». «O da Il gigante di ferro.» «Ah! È vero. Ottimo film.» «Meglio il libro.» Uno dei miei preferiti da piccola. «Ah, era un libro?» Lascio correre. La mano robotica è ancora tesa verso di me. «Dai, stringila», ha insistito lui. «Può fare dodici prese diverse.» Mi ha colta alla sprovvista. Se gli avessi detto la verità – e cioè che non stringo mai la mano a nessuno – avrebbe pensato che il suo arto robotico mi aveva mandato fuori di testa. Che era anche vero. Tuttavia, anche se le mie capacità 13
relazionali fossero state “sotto la media”, come avevo sentito definirle da alcune ragazze in palestra, non ero certo una persona senza cuore. Così ho allungato il braccio. Si è sentito un ronzio meccanico, e poi le sue dita nere e lucide si sono chiuse sopra le mie. Dopo un tempo che mi è sembrato eterno, si è sentito un altro ronzio e la mia mano è tornata libera. Poi è suonata la campanella. L’ansia ha cominciato a crescermi in gola. «Devo andare, davvero.» Ho buttato svelta tutta la mia roba dentro la borsa di tela. «Ho come l’impressione di averti già visto da qualche parte. Prima di oggi, dico. Ma mi sono trasferito qua soltanto da una settimana.» Ho bloccato di nuovo il lucchetto e gli sono sgusciata accanto, incamminandomi lungo il corridoio. Non avevo certo intenzione di dirgli dove mi aveva già vista, per il suo bene e per il mio. Quello che succede dalla psicologa rimane dalla psicologa. Ho aperto la porta con il gomito e sono uscita dall’edificio. Ho preso una boccata d’aria e mi sono goduta un momento di temporaneo sollievo. Ero sopravvissuta a un altro giorno di scuola. Ora dovevo solo sopravvivere al tragitto fino a casa.
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l tragitto a piedi durava quindici minuti. Otto più del solito, perché a dicembre avevano demolito un edificio tra la scuola e il nostro appartamento, e adesso al suo posto c’era un cantiere edile che occupava praticamente un intero isolato. Sicché mi toccava fare tutta una deviazione per evitarlo. Poco più avanti di me, intanto, la Ragazza Un Tempo Conosciuta Come la Mia Migliore Amica passava tranquilla accanto al cantiere insieme alle sue nuove amiche. Per un pelo non mi sono messa a urlare che stesse attenta. Ma sapevo che mi avrebbe risposto con uno sguardo esasperato, pieno di pietà, e così non ho detto nulla. Invece di proseguire dritta, ho svoltato a sinistra ripassando mentalmente la classica lista delle precauzioni. 15
UNA STORIA D ,AMORE PER CINICI.