Quello che non sai di me

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€ 15,50

ISBN 978-88-6966-112-9

paura di cambiare. Altrimenti ci perderemo tutto.”

meg wolitzer

“ Non possiamo avere

quello che non sai di me

foto © Nina Subin

Meg Wolitzer, autrice di numerosi romanzi, vive a New York con la sua famiglia. Quello che non sai di me è il suo debutto nella narrativa per giovani adulti. Accolto con entusiasmo dalla critica, è stato bestseller del «New York Times».

Meg Wolitzer

quello che non sai di me

J

am ha sedici anni, è distrutta dalla scomparsa del suo fidanzato e fatica ad andare avanti con la sua vita. Dopo più di un anno i genitori decidono di mandarla alla Wooden Barn School, un college in campagna specializzato in ragazzi “fragili”, incapaci di superare eventi tragici che hanno segnato le loro vite. All’inizio niente sembra aiutarla, poi Jam viene assegnata, insieme a pochi altri alunni, al misterioso e ambitissimo Corso Speciale d’Inglese della signora Quenell. Un unico libro da leggere e condividere, La campana di vetro di Sylvia Plath, e un diario da scrivere, in cui raccontare le proprie esperienze. La scrittura dei diari apre l’accesso a un mondo apparentemente idilliaco, un luogo in cui tutti possono continuare a vivere come se la tragedia che ha cambiato le loro vite non fosse mai avvenuta. E Jam può sentire di nuovo le parole di Reeve, la sua pelle, il tocco delle sue mani. Ma non ci vuole molto perché quel luogo incantato riveli che tutti i compagni nascondono un segreto nel loro passato. Quale sarà il segreto di Jam?

Le storie dei ragazzi in questo libro tolgono il fiato. A ciascuno di loro è successo qualcosa di irreparabile, e serve troppo coraggio e voglia di vita per andare avanti. Li seguiamo passo dopo passo, e cerchiamo insieme a loro di trovare una via di uscita. La storia di Jam è la più misteriosa: che cosa è accaduto al ragazzo dei suoi sogni? La rivelazione è tra le più inaspettate e sconcertanti che ci è capitato di leggere. Questo libro di Meg Wolitzer sa indagare le nostre paure, le risorse che nemmeno sappiamo di avere e la forza incontenibile e irragionevole dell’innamoramento.

Immagine di copertina © Rieko Honma / Getty Images


Ai miei figli, Gabriel e Charlie

Meg Wolitzer Quello che non sai di me Traduzione di Francesca Capelli Hotspot è un marchio di Editrice Il Castoro www.hotspotlibri.it © 2016 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano Per le citazioni di Sylvia Plath: p. 97, Sylvia Plath, Daddy, da Lady Lazarus e altre poesie (traduzione di Giovanni Giudici, 1998, Milano, Mondadori); p. 146, Sylvia Plath, Opere (traduzione di Anna Ravano, 2002, Milano, Mondadori, collana “I meridiani”) Pubblicato per la prima volta con il titolo Belzhar da Dutton Books for Young Readers, un imprint di Penguin Random House LLC, New York Copyright © 2014 Meg Wolitzer ISBN 978-88-6966-112-9


MEG WOLITZER

QUELLO CHE NON SAI DI ME Traduzione di Francesca Capelli



PROLOGO

Mi hanno mandato qui per via di un ragazzo. Si chiamava Reeve Maxfield e io lo amavo, ma poi lui è morto e dopo quasi un anno nessuno sapeva più cosa fare con me. Alla fine hanno deciso che la cosa migliore fosse mandarmi qui. Se chiedete a qualcuno del personale, dirà che mi trovo qui a causa di «persistenti sintomi post traumatici». Sono queste le esatte parole che i miei genitori hanno scritto sul modulo di iscrizione alla Wooden Barn, descritta – nel pieghevole – come un college per adolescenti «emotivamente fragili e con un alto quoziente intellettivo». D’altronde alla voce «Motivi per cui lo studente presenta domanda di iscrizione alla Wooden Barn» non è che si possa scrivere «Per via di un ragazzo». Anche se la verità è questa. Quando ero piccola, volevo bene a mia mamma, a mio papà e a mio fratello Leo, che mi seguiva ovunque e mi diceva: «Jammy, ’spetta». Quando sono stata più grande, mi sono affezionata al mio prof di matematica, il signor Mancardi, anche se le mie capacità logiche erano ampiamente sotto la media. «Ah, Jam Gallahue, benvenuta», diceva, quando entravo tardi alla prima ora, con i capelli ancora bagnati dopo la doccia e a volte, in inverno, con le punte gelate come rametti appena 5


germogliati. «Sono lusingato che tu abbia deciso di unirti a noi.» Non l’ha mai detto con cattiveria. Credo che fosse lusingato sul serio. Di Reeve mi sono innamorata in modo selvaggio, come non mi era mai successo nei miei quindici anni di vita. Dopo averlo conosciuto, l’amore che avevo provato per altre persone – quel tipo d’amore – all’improvviso mi è sembrato primitivo e debole. Mi sono resa conto che esistono diversi livelli d’amore, proprio come per la matematica. Per esempio, nella mia vecchia scuola, i geni del corso di Matematica Avanzata si scambiavano pettegolezzi e novità sui parallelogrammi. Noi di Matematica per Negati, invece, ce ne stavamo con il signor Mancardi, perduti nella nebbia dei numeri, con la bocca semiaperta a fissare confusi quella che veniva ironicamente chiamata la Lavagna Intelligente. Proprio come con la matematica, ero rimasta a lungo a brancolare nella nebbia dell’Amore per Negati senza neanche accorgermene. Poi, un giorno, ho scoperto che esisteva l’Amore Avanzato. Reeve Maxfield era uno dei tre studenti venuti per uno scambio scolastico. Era partito da Londra, una delle città più emozionanti del mondo, per passare un semestre nella periferia di Crampton, New Jersey, ospitato dalla famiglia dell’atletico, allegro e noiosissimo Matt Kesman. Reeve era diverso da tutti gli altri ragazzi che conoscevo, da tutti gli Alex, i Josh e i Matt. Non era solo per il suo nome. Il suo aspetto era unico: elegante, magro e dinoccolato, con i jeans aderenti neri che fasciavano morbidamente il bacino ossuto. Sembrava un componente di quei gruppi punk degli anni Ottanta di cui mio padre va ancora pazzo, tanto che ne conserva gli album in speciali buste di plastica, sicuro che un 6


giorno varranno una fortuna. Ho cercato su eBay il titolo di uno dei suoi album più preziosi e quando ho visto che una persona aveva offerto sedici centesimi mi sarei messa a piangere. Sulle copertine degli album di mio padre sono raffigurati alcuni ragazzi che se ne stanno in piedi all’angolo di una strada, con aria ironica, come se si stessero raccontando una barzelletta in segreto. Reeve sarebbe stato perfetto per una scena del genere. I suoi capelli scuri vorticavano intorno alla faccia pallidissima, perché a quanto pare in Inghilterra non c’è mai il sole. «Giura! Mai? È sempre buio?», gli chiesi una volta, perché lui insisteva che era proprio così. «Quasi sempre», rispose. «L’intero paese è come una grande casa piena di umidità, dove è stata staccata l’elettricità. E tutti soffrono di carenza di vitamina D. Persino la Regina.» Diceva cose del genere con un’espressione del tutto seria. C’era una specie di ruvidezza nella sua voce. Non ho idea di cosa pensasse la gente di lui a Londra, dove quell’inflessione doveva essere comune, ma a me la sua voce faceva l’effetto del crepitio di un fiammifero acceso avvicinato a un foglio di carta velina: un’esplosione silenziosa. Quando parlava, desideravo solo ascoltarlo. E volevo guardarlo senza smettere mai: il viso pallido, gli occhi castani, i capelli fluttuanti. Era come una di quelle provette dell’ora di chimica, che in superficie ribollono sempre perché sotto sta accadendo qualcosa di interessante. Ho appena paragonato Reeve Maxfield alla matematica e alla chimica. Ma alla fine l’unica materia che ha avuto un ruolo in tutto quello che racconterò è inglese. Non parlo delle lezioni di inglese alla Crampton Regional School, ma quelle che ho seguito molto tempo dopo, alla Wooden Barn nel Vermont, quando Reeve non c’era più e io sopravvivevo a malapena. 7


Per motivi a me ignoti, sono finita con altre quattro persone nel Corso Speciale d’Inglese. Nessuno di noi ha mai parlato ad altro essere umano di quello che accadde durante quel corso. Ma ci pensiamo sempre, e immagino che continueremo a pensarci per il resto della nostra vita. E il dettaglio che mi stupisce di più, che continua a ossessionarmi, è questo: se non avessi perso Reeve, se non fossi stata mandata in quella scuola, se non fossi stata una di quegli adolescenti «emotivamente fragili e con un alto quoziente intellettivo» del Corso Speciale d’Inglese, le cui vite erano state distrutte in vari modi, non avrei mai saputo di Beljhar.

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CAPITOLO 1

«Oddio, Jam, è il caso che ti alzi subito», dice la mia compagna di stanza, DJ Kawabata, una emo di Coral Gables, in Florida, con «alcuni problemi alimentari», come dice lei restando sul vago. È china sul mio letto, i suoi capelli neri penzolano sulla mia faccia. Grazie a DJ, la nostra stanza potrebbe essere usata per una caccia al tesoro a tema gastronomico: sono nascosti dappertutto Twizzler, barrette di cereali, confezioni di uva passa, persino una bottiglia mezza schiacciata di ketchup, di una marca che si chiama “Hind”, o giù di lì, forse un tentativo dell’azienda produttrice di far sì che la gente la confonda con la “Heinz” e la compri. Per DJ sono risorse strategiche per affrontare le cosiddette emergenze. Sto alla Wooden Barn da un giorno solo e non ho ancora avuto l’occasione di assistere a una delle emergenze della mia compagna di stanza, ma lei mi assicura che arriveranno. «Arrivano sempre», mi ha detto con una scrollata di spalle, mentre cercava di spiegarmi come sarebbe stato dividere la camera da letto con lei. «Vedrai parecchia merda, cose che non avresti mai voluto vedere. Ma non ti preoccupare, parlo di merda in senso figurato. Non sono una matta vera.» I “matti veri” non sono ammessi alla Wooden Barn. Qui non siamo in un ospedale e anzi la scuola sottolinea di esse9


re contraria alla somministrazione di psicofarmaci. Secondo loro, è l’esperienza in sé che serve a far avvicinare le persone tra loro e le aiuta a guarire. Non ci credo. Qui non ti lasciano nemmeno usare Internet. È vietato, una vera crudeltà. Ti requisiscono addirittura il cellulare. C’è solo un vecchio telefono a pagamento negli alloggi delle ragazze e uno uguale dai ragazzi. Non c’è nessun accesso alla Rete, quindi puoi usare il computer per scrivere, ma non per fare ricerche con Google. È permesso ascoltare musica, ma scordati di scaricare nuove canzoni. Sei tagliato fuori da tutto, che non ha senso, perché ognuno, in questa scuola, si è già tagliato fuori da solo, in un modo o nell’altro. Anche se nessuno lo dice chiaramente, la Wooden Barn è una via di mezzo tra un ospedale e una scuola regolare. È come un bozzolo dove rifugiarsi prima di fare il grande salto e tornare alla vita normale. DJ mi ha detto che prima di venire qui è stata in una clinica per disturbi alimentari. Erano tutte ragazze e venivano costantemente pesate da infermiere che indossavano camici da reparto pediatrico con stucchevoli figure di cuccioli e panda. Quando una ragazza scendeva troppo di peso, veniva alimentata a forza con un sondino nello stomaco. «Una volta l’hanno fatto anche a me», mi ha detto DJ. «Una delle infermiere mi teneva giù, avevo le sue tette schiacciate sulla faccia e se alzavo gli occhi non vedevo altro che una miriade di piccoli golden retriever.» DJ studia qui già da due anni. E stamattina che iniziano i corsi incombe su di me e mi fa penzolare i capelli in faccia. Io vorrei solo che se ne andasse. Ma lei niente. «Jam, hai già saltato la colazione», dice, manco fosse mia madre. «Le lezioni stanno per iniziare. Che cos’hai alla prima ora?» 10


«Cavolo ne so.» «Non hai guardato il tuo programma?» «Quale programma? Se intendi l’orario delle lezioni, no.» Sono arrivata ieri, dopo un viaggio in auto di sei ore con i miei genitori e Leo. Mia madre ha pianto più o meno per tutto il tempo, facendo finta di avere un attacco allergico. Mio padre ascoltava la radio con un’insolita concentrazione. «La puntata di oggi», diceva la conduttrice, «è interamente dedicata alle voci dei dissidenti soffocate dai talebani». A quel punto mio padre ha alzato il volume e si è messo ad annuire con aria pensosa, come se fosse la cosa più affascinante del mondo, mentre mamma ha chiuso gli occhi e si è rimessa a piangere, ma non per le voci dei dissidenti soffocate dai talebani. Piangeva per me. Mio fratello Leo interpretava se stesso, seduto accanto a me mentre premeva i pulsanti della lurida tastiera che teneva in grembo. «Ehi.» Ha incrociato il mio sguardo, dopo aver superato un nuovo livello del suo videogame. «Ehi.» «Sarà uno schifo a casa senza di te.» «Faresti bene ad abituartici», gli ho risposto. «La nostra infanzia comune è praticamente finita.» «Sei cattiva», ha detto lui. «Onesta», ho ribattuto. «Prima o poi, uno di noi morirà. E l’altro dovrà andare al funerale e fare un discorso.» «Jam, smettila.» Mi sono subito pentita di averlo detto, non sapevo nemmeno perché l’avessi fatto. Ero sempre di cattivo umore. Leo non meritava di essere trattato così. Ha solo dodici anni e ne dimostra anche meno. Certi suoi compagni di scuola sembrano già adulti e pronti a mettere su famiglia. Leo potrebbe 11


essere loro figlio. Qualche volta a scuola gli fanno lo sgambetto, ma niente di davvero sconvolgente perché ha trovato un suo modo di fregarsene. Da quando aveva dieci anni è fissato con il mondo alternativo di un videogioco chiamato Dream Wanderers, che ha a che fare con cubi magici, apprendisti e personaggi chiamati driftlord. Non ho la più pallida idea di cosa sia un driftlord. Ma all’epoca non avevo nemmeno capito cosa fosse un mondo alternativo, mentre ora lo so. E ho capito quello che mio fratello aveva già chiaro da tempo: a volte un mondo alternativo è molto meglio di quello reale. «Non volevo essere cattiva», ho detto a Leo. «Mi esce così e basta.» «Mamma e papà dicono che quando fai così devo solo lasciar perdere, perché…» «Perché cosa?» La mia voce si è fatta più acuta. «Per quello che hai passato», ha detto imbarazzato. Non ne abbiamo quasi mai parlato, lui e io. Era ancora piccolo e non poteva sapere cos’avevo vissuto e provato. La conversazione era arrivata a un punto morto, così ci siamo messi a guardare fuori dal finestrino, ognuno per conto proprio, finché Leo non ha chiuso gli occhi e si è addormentato con la bocca aperta. L’auto era invasa dall’odore delle patatine gusto barbecue che aveva mangiato. Mi dispiaceva per lui, che era diventato figlio unico. Nel senso che non aveva più una sorella maggiore normale, ma una messa così male da dover andare a vivere in un istituto speciale, in un altro stato, a sei ore di macchina da casa. La mia consegna alla Wooden Barn non è stata priva di momenti di tensione. Mia madre insisteva a voler sistemare la stanza. DJ, stesa sul letto, si godeva la scena. 12


«Ricordati di dare un paio di colpi al tuo compagno di studio una volta al giorno, così l’imbottitura resta ben distribuita», mi ha detto la mamma mentre io infilavo le mie cose nei cassetti. Ho preso dalla valigia il vasetto di Tiptree Little Scarlet Strawberry Jam, la marmellata di fragole che Reeve mi aveva regalato la sera in cui ci siamo baciati per la prima volta. Ho tenuto in mano per qualche secondo il freddo cilindro di vetro. Sapevo che non l’avrei mai aperto. Ormai era come un’urna che conservava le ceneri di Reeve. Il sigillo sarebbe rimasto intatto per sempre. Quel vasetto per me era sacro. L’ho infilato in fondo al primo cassetto del comò e l’ho coperto accuratamente con un groviglio di reggiseni e mutande e con una vecchia maglietta di Titti che uso per dormire. «Ricordati di dargli un bel pugno, ok, Jam?», ha ripetuto mia madre imperterrita. «Colpiscilo come faresti se qualcuno ti saltasse addosso in un vicolo.» «Mamma», ho esclamato, mentre DJ continuava a guardare, senza nemmeno fingere il contrario. Era insopportabile e non riuscivo a credere che avrei dovuto dividere la stanza con lei. «Voglio dire, basta una bella botta alla base e ai lati», insisteva mamma, dando una dimostrazione pratica di come avrei dovuto attaccare il cosiddetto “compagno di studi”, nient’altro che un grosso cuscino con i braccioli che lei aveva voluto a tutti i costi comprare per la mia stanza da Price Cruncher, a Crampton. La cassiera aveva sorriso vedendoci caricarlo sul nastro e aveva chiesto con voce squillante: «Per caso qui c’è qualcuno che va alla Fenster Academy?». La Fenster Academy è un collegio spocchioso non lontano da casa nostra in New Jersey, dove le ragazze vanno a cavallo, 13


indossano un’uniforme azzurra e cantano canzoni stupide con rime mal costruite, come «Oh Fenster, dear Fenster, non dimenticheremo mai i nostri semester…». Mamma e io abbiamo fatto no con la testa, all’unisono, imbarazzate. Il “compagno di studi” era enorme, in velluto arancione a coste. L’ho odiato dal primo momento in cui l’abbiamo comprato al negozio e l’ho odiato ancora di più quando l’ho appoggiato sul mio letto alla Wooden Barn, con i braccioli aperti. Odiavo anche l’idea di chiamarlo “compagno di studi” anche perché tutti sapevano che non ero certo in condizione di studiare. Eppure, tutti dicevano che era arrivato il momento di «darci dentro» e «rimettermi in pari con il programma». E siccome non ero in grado di farlo, mi è toccato iscrivermi alla Wooden Barn, dove una benefica combinazione di aria del Vermont, sciroppo d’acero e divieto di Internet mi cureranno. Senza il contributo di alcuno psicofarmaco, per giunta. Peccato che io non sia curabile. L’altra ragione che mi rende intollerabile il nome “compagno di studi” è che io compagni non ne ho più. Prima di conoscere Reeve – e desiderare di stare con lui tutto il tempo – le mie migliori amiche erano due ragazze tranquille, graziose e con lunghi capelli lisci, proprio come me. A scuola ci impegnavamo molto, ma non eravamo delle secchione. Ogni tanto ci facevamo una canna, ma non eravamo drogate. La maggior parte della gente ci considerava carine, dolci e un po’ timide. A dire il vero, non credo che fossimo tanto spesso nei pensieri di qualcuno. Eravamo il tipo di ragazze che da piccole si facevano le trecce a vicenda, inventavano coreografie e poi si esercitavano a ballarle e dormivano a casa dell’una o dell’al14


tra tutti i sacrosanti weekend. In queste nottate parlavamo di molte cose, compreso l’argomento «ragazzi», ovvio, anche se tra noi solo Hannah Petroski stava davvero con un ragazzo da tempo, Ryan Brown. Facevano sul serio ed erano andati molto vicini ad avere un rapporto sessuale. «Ci è mancato pochissimo», ci aveva confidato Hannah un fine settimana. E anche se non sapevo esattamente in cosa consistesse quel pochissimo, avevo annuito e finto di aver capito tutto. Hannah e Ryan erano innamorati dai tempi dell’asilo. Si erano baciati per la prima volta su uno scampolo di tappeto nell’angolo del pisolino. Dopo che avevo perso Reeve, le mie amiche venivano a trovarmi spesso, almeno all’inizio. Si presentavano tutte serie a casa mia. Le sentivo dal mio letto, quando si presentavano all’ingresso e parlavano con i miei genitori. «Buongiorno signor Gallahue», diceva una delle due. «Jam sta meglio? No? Nemmeno un po’? Uh, davvero non so cosa dire. Be’, le ho preparato un po’ di biscotti…» Ma quando bussavano alla porta della mia stanza non riuscivo a parlare con loro a lungo. «Vorrei solo che superassi tutto questo», aveva detto un giorno Hannah, seduta sul bordo del mio letto. «In fondo non vi conoscevate da molto tempo. Quanto, un mese?» «Quarantuno giorni», l’avevo subito corretta. «Be’, lo capisco che per te è stata dura», aveva ribattuto lei. «Voglio dire, Ryan è la mia vita, quindi non è che non mi rendo conto, almeno in parte. Però…», aveva aggiunto a voce man mano più bassa. «Però cosa, Hannah?» «Non lo so», aveva ammesso, aggiungendo poi, mesta: «Devo andare, Jam». 15


Se Reeve fosse stato con me, gli avrei detto: «Ma tu non odi il modo in cui la gente dice: “Però puntini-puntini-puntini”, a voce sempre più bassa, come se davvero avesse concluso la frase? “Però” non vuol dire niente, no? Significa solo che non sai spiegare cosa provi». «È una cosa che detesto», avrebbe detto Reeve. «Quelli che dicono “Però” sono posseduti da Satana in persona.» Vedevamo il mondo nella stessa maniera, lui e io. Dopo averlo perso, restavo in camera mia tutto il giorno a sonnecchiare. Sono arrivata a tenermi addosso la maglietta di Titti per cinque giorni di seguito. Le mie amiche a un certo punto hanno smesso di venire a trovarmi. Niente più visite, niente più biscotti. I miei genitori hanno provato a farmi tornare a scuola, ma tutti mi fissavano, perché sapevano quanto amassi Reeve. Stavo seduta in classe, a occhi chiusi, senza quasi ascoltare quello che veniva detto a lezione. «Jam», mi faceva ogni tanto un prof. «Ci sei?» Capitava che mi ritrovassi a calpestare il riflesso rosso della freccia luminosa che indicava l’uscita vicino alla palestra o mi sedessi sul pouf in un angolo della biblioteca. E all’improvviso mi veniva in mente che era uno dei posti dov’ero stata con Reeve e andavo nel panico totale. Mi mancava l’aria, correvo per tutto il corridoio, uscivo dalle porte antincendio e continuavo a correre. All’inizio c’era sempre un insegnante o un bidello che mi inseguiva, ma dopo un po’ tutti si erano stancati di correre. «Sono troppo vecchia per fare queste cose», mi urlò dietro una volta l’infermiera della scuola, dal margine del campo sportivo. «Se Jamaica non ce la fa a stare a scuola», aveva detto il preside ai miei genitori, «forse dovreste prendere in considerazione qualche altra soluzione per lei». 16


Così hanno provato a farmi fare lezione a casa, assumendo un ex insegnante di storia che – si diceva – era stato licenziato perché si presentava in classe ubriaco di vodka. Era un tipo gentile, con la faccia triste e rugosa come quella di uno shar pei. E anche se non si è mai presentato ubriaco da noi, io non riuscivo proprio a stare attenta. Mi appisolavo. «Jam», mi disse una volta, «mi spiace, ma così proprio non va». Ieri mamma, papà e Leo mi hanno salutato e sono usciti dalla mia stanza – loro sconvolti, io al tempo stesso svuotata e con un macigno dentro. Sono scesa in mensa, me ne sono stata davanti al pollo al forno con fagiolini e quinoa, sopraffatta dalla grande quantità di facce e voci nuove, per conto mio, evitando di parlare con chiunque. E dopo una notte quasi insonne me ne sto qui, raggomitolata nel letto, in quello che dovrebbe essere il mio primo giorno di scuola alla Wooden Barn. Ed ecco DJ, già vestita e con i capelli sulla mia faccia, che chiede di vedere il mio orario. Mi alzo e vado barcollando alla scrivania, dove sono ammucchiate alcune delle mie cose, quelle non catalogabili come capi di abbigliamento. DJ ci fruga dentro e ne estrae un foglio ripiegato. E appena lo legge cambia faccia. «Che c’è?», chiedo. DJ mi guarda in modo strano. È per metà asiatica e per metà ebrea, con capelli neri, lisci e lucidi e le lentiggini in ordine sparso sulla faccia. «Ti hanno messo nel Corso Speciale d’Inglese?», chiede, con la voce resa acuta dall’incredulità. «Non so.» Non ho nemmeno controllato le materie. Non mi interessa proprio. «Sì, sì, è così», conferma lei. «È la tua prima lezione di oggi. Hai una vaga idea di quanto sia strano?» «No, perché?» 17


DJ si siede ai piedi del mio letto. «Primo, questa materia ha qualcosa di leggendario. La prof, la signora Quenell, fa lezione solo quando vuole lei. L’anno scorso ha deciso che non avrebbe tenuto il corso. Diceva che mancava la giusta “miscela” di studenti, qualsiasi cosa voglia dire. E anche quando il corso parte, quasi nessuno viene ammesso. Tu fai tutto lo sforzo di presentare la domanda, ma alla fine ti assegnano a un’altra classe. «Quest’estate ho scritto tutta una ruffianata dove spiegavo quanto fosse importante per me poter seguire quel corso a partire dall’autunno. Ho spiegato che al college volevo fare Inglese come materia principale e ho aggiunto che “avere la fortuna di essere accettata nel Corso Speciale, mi aiuterebbe sicuramente a trovare la mia strada”. Ti giuro, ho usato proprio queste esatte parole da leccaculo. Ma non ha funzionato. Mi hanno messo a Inglese normale, come quasi tutti. Una totale presa per i fondelli.» «Dai», le dico, «forse alla fine ti è andata meglio così». «È stato il commento degli altri», risponde DJ, irritata. «E mi ha fatto venire ancora più voglia di seguire la materia. A proposito, dura solo un semestre. Finisce prima delle vacanze di Natale. E durante il corso si legge un solo autore.» «Un unico autore per tutto il semestre?» «Sì, e cambia ogni volta. La signora Quenell è molto anziana», continua DJ. «Una delle poche insegnanti, qui alla Wooden Barn, che viene chiamata “signora”. Il primo giorno, tutti gli altri professori ti dicono di chiamarli solo per nome, tipo Heather o Ishmael, con quel classico tono qui-siamo-i-tuoi-migliori-amici-e-possiamo-parlare-di-tutto. La signora Quenell no. E qui arriva la seconda cosa strana. Certi studenti entrano nella sua classe senza nemmeno fare doman18


da. Tipo te, a quanto pare. Di solito sono cinque o sei persone, non di più. È il corso più esclusivo di tutta la scuola.» «Ti cedo volentieri il mio posto», butto lì. «Magari. Finché dura il corso, tutti i suoi studenti fanno finta che non sia niente di che. Ma quando finisce, dicono che gli ha cambiato la vita. Muoio dalla curiosità di sapere come. Ma non saprei a chi chiedere, perché nessuno di loro è ancora qui. Erano tutti di età diverse, ma anche gli ultimi rimasti si sono diplomati o se ne sono proprio andati. Sembra una di quelle società segrete.» DJ studia la mia reazione con un’espressione a metà tra l’ammirazione e l’ostilità. «E adesso dimmi. Che cos’hai di speciale?» Ci penso un secondo. «Niente», dico. Reeve era la cosa più speciale che mi fosse mai accaduta. Ora sono soltanto una ragazza apatica con i capelli lunghi e non me ne frega di niente e di nessuno, a parte il mio dolore. Non ho idea del perché sia stata scelta per la classe della signora Quenell. Non ho nemmeno voglia di stare in un corso avanzato, dove ovviamente dovrò studiare di più per andare bene. Il mio obiettivo è perdere tempo in fondo all’aula tutto l’anno e farmi qualche dormita mentre il prof di turno fa si eccita di brutto e quasi si fa venire un ictus per stabilire se Huckleberry Finn sia un romanzo razzista o no. E invece, con ogni probabilità, mi toccherà “partecipare”. Ma io non voglio partecipare a niente di niente. Il mondo può cavarsela senza di me e lasciarmi riposare a occhi chiusi per tutta la durata delle lezioni. Ma, a quanto pare, la Wooden Barn non ha recepito il messaggio. Nemmeno DJ sembra aver recepito il messaggio che me ne voglio stare per i cavoli miei, così mi obbliga ad alzarmi e vestirmi. «Forza», dice, gesticolando. Noto che sulle unghie ha uno smalto grigio-verde. 19


«Chi sei, mia madre?», le chiedo. «No, la tua compagna di stanza.» «Non sapevo che farmi alzare fosse compito tuo», ribatto, gelida. «Bene, ora lo sai», risponde DJ. Malgrado il suo aspetto e il suo comportamento ostile quando i miei erano qui, ora sembra molto coinvolta nella parte. Riesce a farmi scendere dal letto e insiste perché mangi qualcosa prima di iniziare il corso. «Vorrai essere lì con la testa», dice. «Ma anche no.» «Credimi, lo vorrai. Ecco qui. Mangia.» È una situazione paradossale – la ragazza che soffre di disturbi alimentari spinge la sua compagna senza disturbi alimentari a mangiare – ma DJ sembra non notarlo. Fruga sotto il materasso e tira fuori una barretta di cereali e cioccolato tutta spiaccicata al gusto marshmallow. La prendo e la divoro, anche se è granulosa e ha un sapore schifoso. Non le chiedo perché mai dovrei darle retta, visto che non la conosco per niente, anche se è sicuramente una delle tante sciroccate doc approdate alla Wooden Barn. D’altronde, in fondo anch’io faccio parte del club. «È per il tuo bene», mi ha detto papà qualche giorno fa, mentre riempivo il borsone con cui una volta partivo per il campeggio estivo di Swayng Spruce. E mia madre, che ha il vizio di farsi scappare la verità quando è sotto stress, ha aggiunto: «Piccola, sul serio non sappiamo più cosa fare con te». Ora, esiliata alla Wooden Barn, con una barretta insapore nello stomaco, vengo spintonata fuori dalla stanza dalla mia compagna DJ. Il campus con i colori dell’autunno è incantevole, ma non me ne potrebbe importare di meno. 20


Ricapitolando. Anziché vivere nella villetta di Gooseberry Lane 11 a Crampton, nel New Jersey, ora la parte di me che non è morta con Reeve vive in uno strambo collegio del New England fatto per sembrare il più possibile un posto normale. Ci sono tantissimi alberi, sentieri e ragazzi con lo zaino. «Vedi questo edificio?», dice DJ, indicando una grande costruzione di legno rosso. «Era un granaio – da cui il nome della Wooden Barn, “granaio di legno” – mentre ora qui si tengono quasi tutte le lezioni. Tra i vari edifici è il più bello. Naturalmente, il Corso Speciale si svolge qui.» Mi porta dentro e mi guida lungo un corridoio. Il legno del pavimento, antico e lucidato, scricchiola sotto i nostri passi. C’è gente che cammina avanti e indietro, per far passare il tempo prima delle lezioni.» «Ehi, DJ, sei nella A con Perrino per fisica?», le grida un ragazzo. «Sì», risponde lei sospettosa. «Perché?» «Anch’io.» «Che straordinaria coincidenza», fa lei. DJ qui sembra molto popolare, cosa che non avrebbe potuto verificarsi a Crampton. Anche per me fu una sorpresa diventarlo, popolare dico, dopo anni passati a essere una di quelle ragazze carine con i capelli lunghi, del tipo che una vale l’altra. Ma quando cominciai a uscire con Reeve, qualcuno del gruppo che decideva chi contava e chi no decise di prendermi in considerazione. Quella volta che Reeve si era seduto accanto a me nell’ora di arte e io gli avevo fatto il ritratto se n’erano accorti tutti. Quel giorno stavamo vicinissimi e iniziò a circolare la voce che tra noi ci fosse qualcosa. Questo spiega perché Dana Sapol, la ragazza più popolare di tutta Crampton, che non mi aveva mai rivolto la parola, 21


avesse sollevato lo sguardo dall’armadietto per dirmi: «I miei e quella mocciosa di Courtney se ne vanno dai nonni sabato, e io faccio una superfesta. Sei invitata. Ci sarà anche il tipo figo che fa lo scambio scolastico». Ho fatto finta di non pensare che fosse appena accaduta una cosa straordinaria. Ma era così. Dana ce l’aveva con me dal giorno in cui, in seconda, si era dimenticata di mettersi le mutande per venire a scuola. Me n’ero accorta solo perché si dondolava a testa in giù sul castello, quindi per sua fortuna io ero stata l’unica a vederla. «Dana, ti sei scordata le mutande», le ho sussurrato, mettendomi davanti a lei perché nessun altro se ne accorgesse. Detta così, uno si immagina che Dana mi sia stata grata per sempre. L’ho vista io prima di tutti e ho evitato che la vedessero gli altri. Invece è stato come se avessi scoperto qualcosa di scandaloso su di lei, con il quale tenerla in pugno per sempre. Non che l’avrei fatto, ma lei deve averlo pensato. Gli anni passarono e l’incidente delle mutande di Dana avrebbe dovuto diventare un aneddoto divertente sul quale scherzare, ma non accadde mai. Lei mi faceva delle cattiverie, oppure mi ignorava. Almeno fino al giorno in cui mi invitò alla sua festa. Composi la combinazione del mio armadietto e la guardai con un’espressione di moderato interesse. Come se di quell’invito e della presenza di Reeve non mi fosse potuto importare di meno. Come se avessi avuto qualcos’altro da fare il sabato sera, a parte andare a dormire come al solito da Hannah o Jenna, andare al centro commerciale per provare un paio di jeans aderenti o fare un gioco da tavolo con i miei genitori e Leo. Non che mi dispiacesse passare così il sabato sera – anzi, mi piaceva proprio – ma all’improvviso mi sembrava impossibile non aver fatto altro per così tanto tempo. 22


Adesso volevo stare con Reeve. Non riuscivo a pensare ad altro. Aveva detto che i Kesman, la famiglia che lo ospitava, erano molto preoccupati che facesse le amicizie “giuste”. Una cosa tutto sommato comprensibile. L’anno prima i Kesman avevano ospitato una ragazza danese che portava sempre gli zoccoli e non faceva altro che fumare marijuana. Così quando Reeve arrivò da loro, ispezionarono il suo bagaglio alla ricerca di sostanze illegali. «O forse zoccoli», diceva lui. Ma Reeve non usava sostanze illegali e io nemmeno. «Per andare fuori di testa e strafogarmi di cioccolato e patatine, non ho bisogno di nessuna sostanza erbacea», disse una volta, facendomi ridere. Quanto mi piaceva quel suo modo tutto inglese di pronunciare certe parole e fare battute. Ed eccomi qui, davanti alla mia classe, perduta nel ricordo di Reeve – la sua voce, la sua faccia – ma DJ mi riporta indietro. «Concentrati. La lezione sta per cominciare. E dopo devi raccontarmi tutto», dice. E mi spinge dentro.

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www.hotspotlibri.it

€ 15,50

ISBN 978-88-6966-112-9

paura di cambiare. Altrimenti ci perderemo tutto.”

meg wolitzer

“ Non possiamo avere

quello che non sai di me

foto © Nina Subin

Meg Wolitzer, autrice di numerosi romanzi, vive a New York con la sua famiglia. Quello che non sai di me è il suo debutto nella narrativa per giovani adulti. Accolto con entusiasmo dalla critica, è stato bestseller del «New York Times».

Meg Wolitzer

quello che non sai di me

J

am ha sedici anni, è distrutta dalla scomparsa del suo fidanzato e fatica ad andare avanti con la sua vita. Dopo più di un anno i genitori decidono di mandarla alla Wooden Barn School, un college in campagna specializzato in ragazzi “fragili”, incapaci di superare eventi tragici che hanno segnato le loro vite. All’inizio niente sembra aiutarla, poi Jam viene assegnata, insieme a pochi altri alunni, al misterioso e ambitissimo Corso Speciale d’Inglese della signora Quenell. Un unico libro da leggere e condividere, La campana di vetro di Sylvia Plath, e un diario da scrivere, in cui raccontare le proprie esperienze. La scrittura dei diari apre l’accesso a un mondo apparentemente idilliaco, un luogo in cui tutti possono continuare a vivere come se la tragedia che ha cambiato le loro vite non fosse mai avvenuta. E Jam può sentire di nuovo le parole di Reeve, la sua pelle, il tocco delle sue mani. Ma non ci vuole molto perché quel luogo incantato riveli che tutti i compagni nascondono un segreto nel loro passato. Quale sarà il segreto di Jam?

Le storie dei ragazzi in questo libro tolgono il fiato. A ciascuno di loro è successo qualcosa di irreparabile, e serve troppo coraggio e voglia di vita per andare avanti. Li seguiamo passo dopo passo, e cerchiamo insieme a loro di trovare una via di uscita. La storia di Jam è la più misteriosa: che cosa è accaduto al ragazzo dei suoi sogni? La rivelazione è tra le più inaspettate e sconcertanti che ci è capitato di leggere. Questo libro di Meg Wolitzer sa indagare le nostre paure, le risorse che nemmeno sappiamo di avere e la forza incontenibile e irragionevole dell’innamoramento.

Immagine di copertina © Rieko Honma / Getty Images


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