Il segreto di Ciro

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A mio nipote Andrea, il re degli smanettoni.

Il segreto di Ciro di Antonio Ferrara illustrazioni di Lorenzo Manià © 2018 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Illustrazione di copertina: Lorenzo Manià Grafica di copertina PEPE nymi Prima edizione © 2012 Editrice Il Castoro Srl ISBN 978-88-6966-375-8


ANTONIO FERRARA

Il segreto di ciro Illustrazioni di lorenzo maniĂ



Il passato è un uovo rotto, il futuro è un uovo da covare. Paul Eluard



UNO

Era brutto come la fame. Almeno cosĂŹ dicevano tutti i suoi compagni di classe e, quel che era peggio, anche tutte le sue compagne. Lo sapeva bene di essere brutto, Ciro, con quei capelli neri sempre arruffati, la pelle bianchissima, il naso grosso e gli occhi piccoli. E non faceva niente di interessante, tipo giocare a basket o a pallavolo. Ed era pure imbranato. Niente a che vedere con gente come suo fratello Ferdinando, che aveva due anni piĂš di lui, era alto, andava a nuoto, giocava a calcio, suonava la chitarra e quando parlava o sorrideva le ragazze se ne restavano a guardarlo con la bocca aperta. Ciro non era cosĂŹ. Solo una cosa, gli riusciva bene: scrivere. Scrivere era la cosa che gli veniva meglio. Parlare no, parlare era diverso.

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Con la voce ti potevi inceppare in qualsiasi momento. Se ti guardavano fisso negli occhi, per esempio, o se ti facevano una domanda. Ma scrivere era tutta un’altra cosa. Non ti guardava nessuno. Te ne potevi stare lì col tuo pezzo di carta e la tua penna in mano e ti pensavi con calma le parole una per una, senza fretta, te le rigiravi in bocca come caramelle. La sua stanza era minuscola, ma quando si metteva a scrivere a quel tavolino gli sembrava di aprire un passaggio nel muro. Come una strada. Un posto per cui si poteva passare. Camminava, Ciro, scrivendo. E vedeva lontano. E pensava a Lia. Piaceva a tutti, Lia, questo era il guaio. La gente si innamorava di lei a destra e a manca. Forse piaceva tanto perché veniva da Torino, e aveva quello strano accento del Nord. Comunque fosse, Ciro sapeva di non avere nessuna speranza. Quello che avrebbe voluto fare era trovare le parole, quelle giuste. Questo sì. Almeno prima che lei se ne tornasse a Torino, prima che l’estate finisse. Avrebbe voluto dirle esattamente quello che gli frullava nel cuore. Mica facile trovare le parole giuste. Già parlare con Lia non era cosa semplice, figuriamoci dirle quelle cose che gli si agitavano dentro. Per dire certe cose bisogna trovare la voce giusta. Ti amo, avrebbe voluto dirle, solo questo. Gli sarebbe piaciuto avere le parole facili di suo fratello, uno che con le chiacchiere ci sapeva fare. Altroché, se ci sapeva fare.

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Ma Ciro non era come lui. Lui non parlava mai. Scriveva, lui. Scriveva e disegnava. Pagine e pagine, centinaia di pagine fitte fitte, quaderni interi. A scuola, quando c’era tema in classe, beccava sempre otto. E quando scriveva i suoi racconti, li faceva pieni di illustrazioni, coi personaggi che li potevi vedere. Anche adesso, per esempio, ecco, era lì che con i suoi occhi verdi appuntiti guardava fuori e scriveva. Fuori c’era vento forte, e lui se ne stava tranquillo seduto al tavolo accanto alla finestra, con la penna in mano. Là fuori soffiava un vento proprio freddo. Le foglie cadevano a manciate. Napoli si era trasformata, sembrava quasi una città del Nord. Erano quasi le cinque del pomeriggio, quando suonarono alla porta. Ferdinando andò ad aprire. Era lei, Lia. Aveva le guance rosse per il freddo. «Ciao. Posso entrare?» «Certo che puoi», fece Ferdinando. «Accomodati.» «Vi ho portato la torta della zia», annunciò Lia. «È buona.» «Grazie, ci voleva proprio», fece Ferdinando, mentre azzannava la torta di zia Anna. Il nonno si avventò di buon grado sulla seconda fetta, mentre Ciro invece bisognò andarlo a chiamare, perché si era rintanato in camera sua e non si faceva vivo. Ma siccome ci metteva un po’

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ad arrivare, il nonno si avventò con disinvoltura anche sulla terza fetta. Era un uomo anziano, certo, ma poteva ingerire una quantità di cibo incredibile. «Ti è piaciuta la torta, nonno? Ti è piaciuta?», gli chiese Lia. «L’appetito vien mangiando», bofonchiò il nonno con la bocca piena, e poi se ne tornò a guardare la tv. Ciro nella sua camera si era alzato di scatto, quando aveva sentito la voce di Lia, ma poi non aveva trovato il coraggio di andare di là.

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DUE

Ferdinando invece se ne stava lì, in piedi davanti al frigorifero. Le mani in tasca. Rilassato. Il peso del corpo appoggiato su tutte e due le gambe, solido come un albero centenario. Quando le aveva aperto la porta, Lia l’aveva osservato bene e subito il cuore aveva preso a batterle troppo forte, troppo veloce, tutto il sangue le era salito alle guance, alla testa. Era un bel tipo, niente da dire, ’sto Ferdinando. Solo un tantino pieno di sé, o almeno così sembrava. «Stai bene?», le chiese sorridendo. Lia fece sì con la testa, ma si stupì che si fosse accorto che in lei c’era qualcosa che non andava. Se ne stupì, perché lei stessa non riusciva a capire cosa fosse. Ferdinando e Lia passarono tutto il pomeriggio ad ascoltare musica, a mangiare patatine, a bere Coca e a

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chattare con gli amici che Lia aveva lasciato a Torino. Girovagarono su Facebook in lungo e in largo per l’intero pomeriggio. Dalla sua camera Ciro li sentiva ridere e scherzare. Poi, verso sera, sentì Lia che diceva che si era fatto tardi e che doveva andare, altrimenti la zia si sarebbe sicuramente arrabbiata. Qualche istante dopo la sentì che gli gridava un saluto, a cui lui non rispose, poi sentì la porta di casa che si apriva e Ferdinando che diceva: «Accompagno Lia a casa, nonno. Se arriva la mamma dille che torno presto. Ci metto un attimo». «Il tempo è denaro, ragazzo mio», commentò suo nonno, senza staccare mai gli occhi dalla tv. Il nonno di Ciro e Ferdinando era un signore alto e solido che fumava il sigaro e parlava solo per proverbi. Qualsiasi cosa gli chiedessi, lui ti rispondeva con un proverbio. E li sapeva tutti. Ferdinando quella sera tornò presto come aveva promesso, e tornò a casa contento. Sua madre era già rientrata dal lavoro e stava facendo da mangiare. Appena a casa Ferdinando se ne andò in camera sua, e accese la tv per farsi compagnia. Ciro lo sentì tornare, chiuse il suo quaderno e si mise alla finestra. La loro casa era piccola e vecchia. L’intonaco sui muri era scrostato e lunghe crepe correvano sulla sua superficie.

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C’era un sacco di gente, per strada. Era appena spuntata una luna lucida e fresca come l’avessero tolta da un secchio. Nessuno la guardava, chissà poi perché. Il mondo è strano. Per strada c’erano dei bambini che giocavano, si inseguivano e ridevano. Ciro li guardava. Anche lui aveva riso così, come loro, non adesso, ma quand’era piccolo. Ricordava d’aver riso quella volta che suo padre l’aveva sollevato da terra e tenuto su, in alto, e la sua testa aveva sfiorato il lampadario. Suo padre in quel momento aveva detto qualcosa che lui ora non ricordava più, e lui cercava di ricordarsela, perché era importante per lui quell’ultima cosa che gli aveva detto prima di uscire dalla porta e non tornare mai più.

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TRE

Il giorno dopo Ferdinando si alzò presto, prima ancora che sua madre uscisse per andare al lavoro, e così fecero colazione insieme, loro due soli, mentre Ciro e il nonno dormivano ancora. Sua madre aveva la faccia di chi ha dormito male, una faccia con gli occhi pieni di pensieri. Avrebbe voluto chiederle se era preoccupata per qualcosa, se aveva voglia di parlargliene. Era quello il tipo di cose di cui avrebbero dovuto parlare seduti al tavolo della cucina. Invece gli toccava rispondere a domande inutili: «Ferdinando, in frigo c’è il pranzo di oggi, devi solo scaldarlo. Ok?». «Va bene.» «Ricorda al nonno di prendere la pastiglia. Capito?» «Sì.»

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E poi solo silenzio. Certe volte stavano solo zitti, lui e sua madre. Certe volte il silenzio arrivava di colpo. Da quando suo padre non c’era più sua madre si era fatta taciturna. Come Ciro. Ma almeno Ciro scriveva. E disegnava. Rimasero tutti e due in silenzio, ognuno nei suoi pensieri. Anche Ferdinando aveva i suoi pensieri. La settimana dopo Lia sarebbe tornata a Torino e lui non l’avrebbe più rivista. Forse mai più. Doveva fare qualcosa, perché a lui Lia piaceva. Non poteva starsene con le mani in mano, doveva assolutamente fare qualcosa. Ma cosa? Improvvisamente sua madre guardò l’orologio appeso in alto sul muro, sopra le piastrelle azzurre, si asciugò le labbra col tovagliolo, si alzò di scatto, infilò la giacca e uscì di casa. «Mi raccomando», gli disse sulla porta. Poco dopo anche Ferdinando era per strada, chiuso nel suo giaccone. In quei giorni a Napoli il freddo continuava senza tregua, sembrava di essere a Bolzano. Che razza di fine estate. Ferdinando stava andando da Lia, che aveva voglia di conoscere Napoli e gli aveva chiesto di farle da guida. Era felice di potersene andare a spasso tutto il giorno da solo con lei, ma continuava a pensare che quel paradiso stava per finire. Tra un po’ la scuola ricominciava. Cercò di non pensare a queste cose, Ferdinando, e cercò di concentrarsi su quella giornata che stava comin-

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ciando e che sicuramente sarebbe stata bellissima perché sarebbe stato con lei. Si avviò verso piazza Dante, allora, dove si erano dati appuntamento. Si fermò un attimo, aspirò l’aria fredda con gli occhi chiusi e si immaginò loro due che passeggiavano sul lungomare mano nella mano. Pensò che l’avrebbe portata sul molo, dove il vento faceva venire voglia di abbracciarsi. In quel momento sentì che gli era arrivato un messaggio sul cellulare. Era lei, era Lia che gli scriveva Dove sei? Io sono davanti al bar. Alzò gli occhi e la vide da lontano, mentre lei ancora non poteva vederlo. Le guardò i capelli biondi mossi dal vento e se la studiò con calma, senza fretta, come aveva studiato la Venere di Botticelli quando erano andati in gita scolastica agli Uffizi.

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QUATTRO

La portò al molo. Camminavano in mezzo al vento uno accanto all’altra, senza dire niente. Il vento portava gli spruzzi delle onde fino ai loro visi. Lia sembrava avesse voglia di dire qualcosa, perché ogni tanto guardava Ferdinando in un modo strano senza spiccicare parola. Lui faceva finta di non accorgersene. Guardava il mare, gli scogli. Se lei si girava a guardarlo lui si metteva a fischiare con le mani in tasca, indifferente, oppure si chinava a legarsi una scarpa che era già legata, o faceva finta di salutare qualcuno tra i passanti. Il vento freddo agitava i capelli e i pensieri. Improvvisamente lei gli tagliò la strada, gli si mise proprio davanti e lo guardò dritto negli occhi. In quel momento arrivò uno spruzzo d’acqua molto più forte. «Praticamente stiamo facendo il bagno», disse Ferdi-

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