Vietato volare. Vietato sparire. Vietato ipnotizzare gli amici. Uffa! La vita nel mondo degli umani sembra molto noiosa per le Sorelle Vampiro. Oppure no? Tra voli notturni, spedizioni al cimitero, amici misteriosi e rapinatori senza scrupoli, Daka e Silvania scoprono che a volte i loro poteri tornano molto utili anche fra gli umani. E insieme alla loro nuova amica Helene vivranno un’indimenticabile avventura! Onu, zoi, trosch... Siete pronti a decollare con le Sorelle Vampiro?
â‚Ź 13,50 ISBN 978-88-8033-685-3
9 788880 336853
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Sorelle Vampiro. Un’avventura al dente di Franziska Gehm © 2013 Editrice Il Castoro Srl viale Abruzzi 72, 20131 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Traduzione di Alessandra Valtieri In copertina progetto grafico e illustrazione di Iacopo Bruno/theWorldofDOT Titolo originale: Die Vampirschwestern - Ein bissfestes Abenteuer © 2008 Loewe Verlag GmbH, Bindlach
Capitolo 1
A ogni sedere la sua tavoletta
e
lvira Tepes prese cinque tavolette del water e se le mise sotto il braccio. Poi si sistemò la tracolla della borsa sulla spalla e salutò il marito con un bacio. I baffi corvini dell’uomo, simili a due lumaconi di liquirizia, le fecero il solletico. «Ciao Mihai. Dormi bene!» Dai gradini della scala che scendeva in cantina, il sorriso di Mihai Tepes accompagnò la signora Tepes fino alla porta. Ma non appena la serratura si chiuse alle sue spalle, il sorriso si trasformò in un sonoro sbadiglio. Erano già le dieci di mattina. Piuttosto tardi, rispetto all’ora in cui il signor Tepes si ritirava abitualmente nel suo sarcofago. Scese lentamente le scale. Ancora stentava a credere di averci messo così poco tempo per abituarsi alla nuova casa. La nostalgia per la sua terra, però, quella, rimaneva. Gli mancavano i boschi lussureggianti della Transilvania, gli amici di sempre, i parenti. Gli mancava, insomma, la sua vita da vampiro. Era ormai trascorso quasi un mese da quando il camion dei traslochi partito dalla Transilvania aveva imboccato Via dei Tigli. Mihai ed Elvira Tepes si erano trasferiti con le figlie Silvania e Daka nella villetta a schiera al numero 23. Mihai 5
un’avventura al dente Tepes, secondogenito di un’illustre famiglia di vampiri di Bistrien, alloggiava ora con tanto di sarcofago, organo e zecche da corsa, in una cantina. Ma non certo per sua volontà. Al piano superiore, Elvira Tepes aveva allestito non solo una confortevole camera matrimoniale, ma anche quella che in origine avrebbe dovuto essere la cameretta di Silvania, e che, invece, si era trasformata nel deposito di duecentocinquanta tavolette per il water acquistate in Romania a un prezzo stracciato. Qualche giorno prima aveva inaugurato il suo primo negozio nel centro storico di Bindburg: “La Tavoletta”. Era la prima boutique di tavolette per il water della città. Forse anche di tutta la Germania. O dell’intero universo. Silvania e Daka avevano dato il loro contributo all’allestimento affiggendo alla vetrina lo slogan ideato dalla signora Tepes: Tavolette decorate come le avete sempre sognate. Un tocco di classe per il vostro sedere. La signora Tepes aveva decorato con particolare estro alcune tavolette per l’esposizione. Ora facevano bella mostra di sé sulle pareti del piccolo negozio, come opere d’arte in un museo. L’inaugurazione era stata un successo. All’inizio c’erano solo la famiglia Tepes al completo più nonna Rose, nonno Gustav e il dottor Peter Steinbrück – proprietario del negozio – con la figlia Helene. Ma nell’arco della giornata, la minuscola boutique si era riempita di gente, incuriosita dalla peculiarità degli oggetti esposti. E all’ora di chiusura la signora Tepes aveva messo insieme i primi ordini: un signore voleva una tavoletta ricoperta di peluche celeste che si intonasse ai tappetini del bagno, mentre una signora ne aveva chiesta 6
A ogni sedere la sua tavoletta una con tanti orsetti di gelatina dipinti sopra per aiutare il figlio a passare dal vasino al WC. La signora Tepes era al settimo cielo. Era felice per il negozio, felice di essere tornata a vivere nella sua città natale e felice per il marito, che era invece tornato a rinnovare le sue più profonde scuse al dottor Steinbrück per quella notte in cui, roso dalla gelosia, aveva cercato di morderlo sul collo. C’erano volute molte tazze di tè, bidoni di caffè e un numero esorbitante di bottiglie di acqua minerale prima che la signora Tepes riuscisse a convincere il proprietario del negozio dell’assoluta innocuità del marito. Poco importava, dunque, se ora lui credeva che Mihai Tepes soffrisse di un raro disturbo psichico non ancora riconosciuto dalla medicina ufficiale: gelosia perniciosa con tendenza compulsiva al morso. Per Mihai Tepes, invece, sarebbe stato molto più semplice dire come stavano effettivamente le cose: era un vampiro! E ne andava fiero. Odiava i sotterfugi, ma aveva promesso a Elvira di mantenere il segreto. Lei credeva ai cacciatori di vampiri ed era convinta che se gli altri avessero saputo che suo marito era un vampiro e le loro due figlie mezze vampiro, sarebbero fuggiti a gambe levate o, quanto meno, si sarebbero tenuti alla larga da tutta la famiglia. In Transilvania, invece, era diverso: là vampiri, mezzi vampiri e umani vivevano tranquillamente insieme. Certo, ogni tanto poteva capitare che qualche umano particolarmente imprudente sparisse nel nulla. Ma in fondo nessuno poteva farsi carico dell’avventatezza altrui! Mihai Tepes chiuse la porta della cantina, si sdraiò nel 7
un’avventura al dente sarcofago cosparso di terra di Transilvania e fece un respiro profondo. Chiuse gli occhi e immaginò di volare insieme al fratello Vlad sui verdi boschi della Transilvania, sui ruscelli impetuosi, nelle profonde gole rocciose, gustando le succulente mosche che di tanto in tanto finivano nelle loro bocche. Il vento scompigliava i capelli neri come la pece di Mihai mentre loro risalivano in cielo, veloci, sempre più veloci, puntando dritti verso la luna piena... «Papa?» Qualcuno bussò energicamente sul coperchio del sarcofago. Mihai Tepes si congedò dal suo sogno, da Vlad, dalla luna e dai boschi della Transilvania. Aprì gli occhi e sollevò il coperchio. «Cosa c’è?» Sua figlia Daka, di sette minuti più giovane della sorella gemella Silvania, gli porse il telefono. «Zio Vlad.» Il signor Tepes si passò una mano tra i capelli. «Ancora?» Daka annuì. «A quest’ora del giorno?» Daka annuì di nuovo. Rassegnato, il signor Tepes prese il telefono. «Grazie», disse accarezzando i capelli della figlia, dritti come aculei di porcospino. Mihai e suo fratello avevano chattato a lungo la sera precedente. E la sera prima si erano messaggiati per più di cinque minuti. Il signor Tepes aveva ancora i pollici indolenziti. Evidentemente, in Transilvania, a Vlad mancava il fratello minore tanto quanto, in Germania, al signor Tepes mancava il fratello maggiore. «Hoi, Vlad», disse Mihai. La conversazione ebbe luogo in 8
A ogni sedere la sua tavoletta vampirese, una delle lingue più complesse e antiche del mondo. Vlad chiese come andavano le cose in famiglia, si lamentò, imbestialito, del solito vicino di casa che suonava l’organo tutto il giorno (e da schifo, per di più) per poi puntare dritto al suo argomento preferito: la rivoluzione universale dei vampiri. Era da un po’ che Mihai Tepes si sorbiva le accalorate dissertazioni del fratello sulla rivoluzione, per questo ora lo ascoltava piuttosto distrattamente. Si era sdraiato di nuovo nel suo sarcofago e di tanto in tanto mugugnava qualche «hm, hm». Il signor Tepes aveva un disperato bisogno di dormire. I turni di notte all’istituto di medicina legale dove lavorava si erano rivelati molto più stressanti di quanto avesse immaginato. Soprattutto quando si trattava di portare a casa, oltre al lavoro da finire, anche qualche busta di sangue ben nascosta nella borsa frigorifero. Tornata di sopra, Daka andò a sedersi sul divano rosso sangue in salotto e infilò i piedi nudi nella cassetta della lettiera del gatto. La cassetta, in realtà, apparteneva al signor Tepes e sul fondo c’era uno spesso strato di terra di Transilvania. Accanto a lei, Silvania era assorta nella lettura della sua nuova rivista per ragazze. «Fumpfs!», gridò a un tratto. «Il viola è out. Va di moda il rosso ciliegia, ora!» Si guardò inorridita le unghie laccate. «Perché non ti spunti le dita, così non ci pensi più», commentò Daka alzando gli occhi al cielo. «Ah-ah! Guarda che anche il punk è morto e sepolto», sentenziò Silvania accennando alla capigliatura ispida della sorella. «Per gli umani, forse.» 9
un’avventura al dente Silvania sospirò. «Pronto? Buongiorno! Non so se ti sei resa conto che ora viviamo in mezzo agli umani.» «E allora? Io sono sempre per metà vampiro.» Daka passò la punta della lingua sui canini acuminati. Era arrivato il momento di occuparsi dei denti. Balzò in piedi e corse a prendere la lima in bagno. Poi tornò a sedersi sul divano e cominciò a lavorare di buona lena su un canino. Il rumore della lima contro i denti faceva accapponare la pelle. Silvania la guardò scocciata. «E ora cosa fai?» Daka tirò fuori la lima dalla bocca. «Cura dei denti settimanale. Regola fondamentale numero sette.» La signora Tepes aveva posto sette regole fondamentali che le figlie non dovevano per nessun motivo trasgredire. Non potevano volare durante il giorno, non potevano scomparire, non potevano mangiare cibi vivi, non potevano saltare la cura dentale e dovevano sempre indossare occhiali da sole. Di solito Daka non si atteneva con particolare zelo alle regole imposte dalla mamma, tranne quando si annoiava e voleva far arrabbiare la sorella. «E devi farlo proprio qui, in salotto? Dove possono vederti tutti?», disse Silvania indicando la porta che si apriva sul giardino. «Tutti chi? Quel... Kompost, per esempio?» Daka scosse il capo. «Nooo. È da un po’ che non si vede più in giro.» Dirk van Kombast, il vicino che abitava nella villetta confinante con quella dei Tepes, era sparito dalla circolazione, quasi che la terra se lo fosse inghiottito. Erano giorni, ormai, che non lo si vedeva più sfrecciare per Via dei Tigli nella sua 10
A ogni sedere la sua tavoletta auto sportiva color argento, perfettamente abbronzato e con i capelli fonati. «Forse è fuori per lavoro. Uno di quei giri lunghissimi che fanno i rappresentanti quando vanno dai clienti», ragionò Silvania ad alta voce. «Di’ la verità, ti manca!» Silvania lanciò un’occhiata compassionevole alla sorella. Era incredibile quanta differenza potessero fare sette minuti, in termini di maturità! Daka non ne capiva proprio niente di uomini, d’amore e di un mucchio di altre cose fondamentali. «Solo perché ho detto che lo trovo carinissimo, non vuol dire che mi manchi.» «Forse dopo la storia di Rattatoi ha avuto paura che il papà lo denunciasse davvero e si è dileguato», disse Daka. Il signor van Kombast aveva trovato un topo morto nel giardino dei Tepes. Con gli inconfondibili segni di un morso. Il signor Tepes (che aveva, appunto, dimenticato in giardino i resti dello spuntino di mezzanotte) era riuscito a convincerlo che si trattava del povero Rattatoi, l’adorato topo di famiglia. Palesemente strappato alla vita da una tragica morte. E, altrettanto palesemente, per causa di Dirk van Kombast. Così, alla minaccia del signor Tepes di trascinarlo in tribunale, il vicino se l’era data a gambe. E da allora era sempre stato ben attento a tenersi alla larga. In realtà Dirk van Kombast non era fuori per lavoro e non si era neppure dileguato per la paura di una denuncia. No, Dirk van Kombast negli ultimi giorni era stato comple11
un’avventura al dente tamente assorbito dall’organizzazione di un viaggio. Aveva ritirato in lavanderia il suo abito migliore, aveva acquistato un biglietto aereo, prenotato un hotel, si era fatto fare una pulizia dei denti extra, aveva preparato la valigia e il computer portatile. Il computer portatile era la sua memoria, la sua banca dati segreta. E due giorni prima, Dirk van Kombast si era imbarcato su un volo per New York. Ma non era la città che non dorme mai ad attirare il suo interesse. Non era un turista qualunque, lui. Era ospite della Sesta Conferenza Internazionale di Vampirologia dove, finalmente, avrebbe potuto incontrare i suoi pari. Prima di partire per il congresso, Dirk van Kombast era passato a salutare la madre alla clinica psichiatrica. Tranne lei, sospettava, in tutta la Germania non c’era nessuno di cui avrebbe sentito la mancanza. Silvania ripensò a Rattatoi e sorrise. Ma il sorriso si mutò presto in un sonoro sbadiglio, a cui si unì anche Daka. Le gemelle guardarono verso la finestra, oltre la quale splendeva il sole. «Mi chiedo come facciano gli umani a rimanere svegli con questa luce. Io non riesco a tenere gli occhi aperti», si lamentò Daka. Silvania sbadigliò di nuovo e annuì. Poi si portò la mano davanti alla bocca. «Odio dormire di notte e stare sveglia di giorno. È stressante.» «Al papà è andata bene, con il lavoro. Dubito però che a scuola faranno mai lezione la notte per venirci incontro», disse Silvania. 12
A ogni sedere la sua tavoletta «Già, ma almeno la scorsa settimana ci siamo fatte una bella dormita a storia e a geografia.» Questo non dipendeva dal fatto che la lezione fosse stata particolarmente noiosa o che l’insegnante avesse fatto un esperimento di pennichella estemporanea. No. Il signor Martin Graup, l’insegnante di storia e geografia della II B, aveva preso un’intera settimana di permesso per malattia. Anzi, a rigore di cronaca, perché un melone caduto dal cielo gli si era spappolato sul cranio. Così, al posto di storia e geografia, la II B aveva avuto qualche ora di esercitazione libera e Daka e Silvania, interpretando scrupolosamente alla lettera quel libera, si erano liberamente esercitate nella loro materia preferita: dormire. Di tanto in tanto dai loro banchi si levava un leggero russare. Se Helene non si fosse presa la briga di svegliarle, avrebbero tirato dritto fino al tramonto. Helene Steinbrück era la nuova, unica migliore amica di Daka e Silvania. Beh, non ancora del tutto. Helene aveva confessato alle gemelle il suo segreto: era sorda e portava un apparecchio che nascondeva sotto i lunghi capelli biondi. Nessuno dei loro compagni lo sapeva. E Daka e Silvania avevano promesso solennemente di non andare a spifferarlo in giro. Ma avevano anche promesso a Helene che anche lei, un giorno, avrebbe conosciuto il loro segreto. Helene aveva osservato attentamente le due sorelle fin dal primo istante che avevano messo piede in classe e non ci aveva impiegato molto a convincersi che qualcosa non quadrava. Una volta, per esempio, Daka si era addormentata a testa in giù sulla spalliera svedese mentre Silvania, in crisi d’astinenza da terra 13
un’avventura al dente di Transilvania, era svenuta e stramazzata a terra dall’asse d’equilibrio. Cosucce del tutto normali, per dei mezzi vampiri. Fin quando però le gemelle non avessero confessato a Helene il loro segreto, non potevano considerarsi vere amiche, perché i veri amici si fidano ciecamente gli uni degli altri. Ma era troppo rischioso affrontare l’argomento a scuola. Da una parte c’erano i professori, che pensavano solo a interrogare, interrogare e interrogare, dall’altra c’erano l’armadio e la stampella, ovvero: Lucas Glöcker il mostro e Rafael Siegelmann, il leccapiedi dei professori. Ma chi le preoccupava di più in assoluto era Ludo Schwarzer. Ludo si muoveva silenzioso come una pantera per i corridoi della scuola e all’improvviso te lo vedevi apparire davanti e ti fissava con quegli occhi misteriosi color ocra che ti facevano accapponare la pelle. Se Daka e Silvania non erano del tutto normali, Ludo Schwarzer non lo era neanche un po’.
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Capitolo 2
I topi
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lvira Tepes, in piedi davanti allo specchio della camera da letto, si stava mettendo i suoi orecchini preferiti. Erano due grandi lacrime di pietra preziosa e avevano lo stesso colore blu notte dei suoi occhi. Mihai glieli aveva portati da un viaggio a Damasco, dove era andato a far visita a certi parenti. Senza farsi sentire, Mihai Tepes scivolò accanto alla moglie. «Ti morderei tutta!» Elvira sobbalzò. Non aveva né sentito né visto arrivare il marito. Anche ora che era lì, accanto a lei, lo specchio non rifletteva la sua immagine. La donna si voltò di scatto. «MIHAI!» Mihai Tepes sorrise. I baffi color liquirizia si arricciarono agli angoli della bocca, scoprendo i lunghi, scintillanti canini. Adorava spaventare sua moglie, visto che morderla era assolutamente fuori questione. «Che te ne pare? Sono abbastanza elegante?», le chiese sistemandosi il papillon rosso sangue, unica nota di colore sulla camicia, panciotto e frac neri. I colori sono roba da donne, sosteneva il signor Tepes. Elvira si levò in punta di piedi e baciò il marito. Da quan15
un’avventura al dente do gli aveva perdonato l’incidente del tentato morso accecato dalla gelosia, erano tornati a tubare come due colombi. Cosa, questa, che faceva sospirare languidamente Silvania e sbuffare come un mantice Daka. Il signor Tepes aveva regalato alla moglie i biglietti per il teatro. Elvira Tepes aveva optato per I topi di Gerhart Hauptmann, che andava in scena quel sabato sera. Mihai Tepes pensava che il titolo promettesse piuttosto bene. Quando i due genitori si presentarono sulla porta del salotto per salutare le figlie, Daka alzò il pollice in segno di approvazione. «Boi!», gridò. «Siete bellissimi», concordò Silvania. Elvira Tepes era raggiante e Mihai Tepes, con un enfatico gesto del capo, ricacciò all’indietro una lunga ciocca di capelli corvini, come farebbe un grande attore entrando in scena. «Allora, mi raccomando...», iniziò la signora Tepes. «Sì, sì, tutto chiaro», la interruppe Daka. «Non dobbiamo volare da sole in città, non dobbiamo mordere nessuno e non dobbiamo sbronzarci di sangue.» Elvira e Mihai Tepes annuirono. «E se invece decidessimo di farlo, dovremmo prima avvertirvi», disse Silvania che, visto lo sguardo allibito della madre, si affrettò a precisare: «Scherzavo». Mihai accompagnò la moglie davanti al primo grande amore della sua vita: la vecchia Dacia verde bottiglia. Aprì lo sportello e fece accomodare Elvira. Poi richiuse lo sportello con uno schianto che risuonò per tutto il quartiere. Ormai funzionava solo così. La Dacia aveva solo una manciata di anni in meno 16
I topi del signor Tepes. Mentre Mihai si metteva alla guida, la signora Tepes abbassò il finestrino, che, come al solito, s’inceppò. «Divertitevi con i topi!», li salutò Silvania. «E dopo il teatro andate pure al ristorante o a bere qualcosa», suggerì Daka. «Non state in pensiero per noi.» Elvira Tepes fece cenno di sì con il capo, ma i suoi occhi tradivano una certa apprensione. Era stata davvero una buona idea lasciare le gemelle da sole in casa? In fondo avevano solo dodici anni. Erano poco più che due bambine. E poi abitavano da poco in Germania. Ed erano mezze vampire. In un mondo pieno di umani! «Forse avremmo fatto meglio a chiamare nonno Gustav e nonna Rose», disse Elvira mentre la Dacia percorreva con qualche scossone Via dei Tigli. «Per fare da baby sitter a due mezze vampire adolescenti?», il signor Tepes scosse il capo. «E poi lo sai che stasera i tuoi avevano già degli impegni.» Nonno Gustav doveva andare allo stadio. Giocava la sua squadra del cuore, il FC Bindburg. La scorsa stagione aveva mancato per un soffio lo scudetto. Come l’anno precedente. Ma il nonno era sicuro che quest’anno sarebbe stato quello buono. Su di lui, quindi, non si poteva contare. Per nessun motivo al mondo avrebbe rinunciato a una partita del FC Bindburg e al tifo scatenato. Nonna Rose invece faceva gli straordinari al museo. Quella settimana c’era stata l’inaugurazione di una grande mostra: l’arte giapponese del periodo Edo, uno degli eventi più ricchi e importanti mai organizzati al Palazzo delle Esposizioni. E nonna Rose era la responsabile delle visite guidate. «Dopotutto», disse il signor Tepes imboccando la strada principale, «cosa vuoi mai che possano combinare le ragazze?». 17