The Cruelty

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A Jana, la senza paura

The Cruelty. Ora combatti da sola di Scott Bergstrom Traduzione di Anna Rusconi © 2018 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Pubblicato per la prima volta da Feiwel and Friends, un marchio di Macmillan Publishing Group, LLC Copyright © 2017 by Scott Bergstrom. Tutti i diritti riservati. La citazione a pagina 1 è tratta da Albert Camus, Lo straniero, Bompiani, Milano, 2015, traduzione di Sergio Claudio Perroni

ISBN 978-88-6966-279-9


SCOTT BERGSTROM

The Cruelty ORA COMBATTI DA SOLA

TRADUZIONE DI ANNA RUSCONI



Parte del motivo della bruttezza degli adulti agli occhi di un bambino è che il bambino di solito guarda in su, e poche facce appaiono al loro meglio se viste dal basso. George Orwell



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I ragazzi aspettano la decapitazione. Siedono rapiti come sciacalli impazienti e aspettano che cali la lama. Se solo si fossero presi la briga di leggere fino in fondo, saprebbero che invece non succederà. In pratica il libro si conclude lì. Come un film spento prima dell’ultima scena. O forse più come la vita. Perché la lama che cala, quella che decapiterà te, non la vedi arrivare quasi mai. Lawrence, il nostro prof, legge adagio, passeggiando avanti e indietro e accarezzandosi quell’orribile schizzetto di barba sotto il labbro inferiore. I colpi ritmati e leggeri delle sue scarpe sul pavimento di linoleum, tacco-punta, tacco-punta, danno la sensazione che voglia cogliere le parole alle spalle. «Quasi che quella grande rabbia mi avesse purgato dal male, svuotato della speranza, di fronte a quella notte carica di segni e di stelle mi aprivo per la prima volta alla tenera indifferenza del mondo.» I passi si fermano all’altezza del banco di Luke Bontemp, sulla cui zucca Lawrence picchietta la costola del libro. Luke 1


sta messaggiando qualcuno sul cellulare, che immediatamente cerca di nascondere sotto il giubbotto. «Mettilo via o te lo sequestro io», gli fa Lawrence. Il telefonino scompare dentro la tasca. «Secondo te di che cosa sta parlando Camus, qui?» Luke gli rivolge il sorriso con cui da una vita la sfanga da tutti i casini. Poveretto, penso io: bello, incapace e stupido. Ho sentito dire che durante la Prima guerra mondiale il suo trisnonno fece fortuna vendendo petrolio ai tedeschi e acciaio agli inglesi, e da allora nella sua famiglia nessuno ha più avuto bisogno di lavorare. Non ne avrà bisogno neanche lui, quindi a che pro leggere Camus? «“Tenera indifferenza del mondo”», ripete Lawrence. «Di che si tratta?» Luke sospira in cerca di illuminazione. Mi sembra quasi di sentirgli girare le rotelle sotto la magnifica chioma. «Tenera», dice, «mi fa venire in mente la carne. Forse Camus sta dicendo, che so, che il mondo è come una grossa bistecca». In classe scoppiano a ridere in ventotto su ventinove, Luke compreso. L’unica che non ride sono io. Questo libro, Lo straniero, l’ho letto a quattordici anni. Ma l’ho letto in lingua originale, cioè in francese, e quando Lawrence ce l’ha assegnato in traduzione per il corso di letteratura straniera non ho avuto nessuna voglia di riprenderlo in mano. Parla di un tizio che si chiama Meursault a cui muore la madre. Poi uccide un arabo e lo condannano alla decapitazione sulla pubblica piazza. Poi finisce. Camus non la scrive mica la scena dove gli tagliano la testa. Mi giro verso la finestra, dove la pioggia continua a picchiettare con un ritmo che sprofonda tutti in una specie di trance soporosa. Oltre i vetri si vedono i profili dei palazzi 2


della Sessantatreesima, i bordi irregolari e confusi nei rigagnoli d’acqua, più un ricordo di palazzi che palazzi veri e propri. Anche se adesso stiamo parlando della parte conclusiva dello Straniero, a me è sempre rimasto in testa l’incipit. Aujourd’hui, maman est morte. Ou peut-être hier, je ne sais pas. Significa: Oggi è morta la mamma. O forse ieri, non so. Io invece so. So esattamente quando è morta mia mamma. Dieci anni fa oggi. All’epoca io ne avevo solo sette, ma quando successe ero lì. Mi torna in mente tutto, poi il ricordo si divide in piccoli schizzi e vignette, in singoli momenti. Raramente rivedo tutto per intero, dall’inizio alla fine. Lo psicologo da cui andavo diceva che era normale e che col tempo sarebbe stato più facile. Non è così. «Qualche idea, Gwendolyn?», chiede Lawrence. Sento la sua voce. Capisco la domanda, anche, ma i miei pensieri sono troppo lontani perché io riesca a rispondere. Siedo sul sedile posteriore della vecchia Honda, gli occhi socchiusi, la testa appoggiata al vetro freddo del finestrino. Il ritmico sussultare della macchina sulla strada sterrata alla periferia di Algeri mi concilia il sonno. Poi lo sballottamento rallenta e sento come un rantolo venire da mia madre. Apro gli occhi, guardo il parabrezza e vedo il fuoco. «Gwendolyn Bloom! Base chiama Gwendolyn Bloom!» Di colpo torno al presente e mi volto verso il professore. Lawrence tiene le mani a coppa intorno alla bocca, stile megafono. «Base chiama Gwendolyn Bloom!», ripete. «Ti spiacerebbe dirci che cosa intende Camus con “la tenera indifferenza del mondo”?» Parte della mia testa è ancora nella Honda, ma attacco meccanicamente a parlare. La mia è una risposta lunga e buona, mi pare, ma Lawrence mi fissa sogghignando. Solo dopo una ventina di secondi mi accorgo che intorno a me tutti ridono. 3


«In inglese, per favore», mi fa lui, inarcando un sopracciglio e guardando il resto della classe. «Mi scusi», dico piano, giocherellando nervosamente con la gonna dell’uniforme e passandomi una ciocca di capelli rosso ciliegia dietro l’orecchio. «Cos’ho fatto?» «Stavi parlando in francese, Gwendolyn.» «Non volevo. Stavo… stavo pensando ad altro, credo.» «Ragazzi, che snob pretenziosa!», commenta dietro di me una compagna. Lo dice con enfasi e levando gli occhi al cielo, per fare più scena. È Astrid Foogle. Anche lei ha diciassette anni, ma ne dimostra almeno ventuno. Suo padre è proprietario di una compagnia aerea. «Astrid, per favore», la riprende Lawrence. Io però ormai la sto trapassando con lo sguardo. Astrid Foogle, i cui orecchini valgono più di tutti i mobili di casa mia messi insieme, mi dà della snob pretenziosa? E ha anche il coraggio di insistere. «Che cavolo, all’inizio dell’anno spunta da chissà dove credendosi superiore a tutti e adesso si mette pure a parlare in francese, mica come noi poveri imbecilli americani. Se la tira, fa la sofisticata. Lei, che praticamente vive in una casa mobile!» «Adesso basta, Astrid. Mettici un punto», la interrompe Lawrence. Qualcuno annuisce, d’accordo con lei; qualcun altro si limita a ridere. Mi sento tremare, ho la faccia che scotta. Tutte le sinapsi cercano di soffocare la mia reazione emotiva, ma non ci riescono. Perché la rabbia deve assomigliare così tanto all’umiliazione? Nel banco di fianco ad Astrid, Connor Monroe si appoggia sorridendo allo schienale. «Ehi, ora si mette a piangere.» Non è vero, ma nella testa degli altri compagni la sua usci4


ta si è già trasformata in realtà. Hahaha gwenny bloom se l’è fatta sotto e frigna a lett stran #snobpretenziosa #212giustizia In corridoio suona la campanella e con un riflesso condizionato tutti balzano in piedi e si lanciano verso la porta. Nel patetico tentativo di mantenere l’ordine, Lawrence solleva il libro in aria e grida: «Domani riprendiamo da dove siamo arrivati». Poi si gira dalla mia parte. «E tu sarai la prima, Bloom. Hai tutta la notte per riflettere sulla tenera indifferenza del mondo, perciò vedi di tirare fuori qualcosa di convincente. E in inglese, por favor.» Faccio di sì con la testa e raccolgo la mia roba. In corridoio Astrid Foogle è davanti al suo armadietto, circondata come al solito da uno stuolo di accoliti. Si sta esibendo in un’imitazione della sottoscritta, un monologo in francese maccheronico, le spalle ingobbite, il naso schiacciato col dito indice. Tenendo gli occhi bassi in segno di deferenza, come si conviene a un bravo esemplare beta, supero lei e gli altri dirigendomi al mio armadietto. Ma anche Astrid mi ha vista; lo capisco perché si ammutoliscono tutti e sento i tacchi delle sue scarpe ­– décolleté Prada, stronzetta – muoversi verso di me, gli adoratori che la seguono a distanza di un passo. «Ehi, Gwenny», esordisce, «come si dice in francese “suicidarsi è inutile”?». La ignoro e continuo per la mia strada, confidando in un infarto improvviso, suo o mio, non importa. Sento il calore irradiarsi dalle mie guance, la rabbia trasformarsi in ira funesta e poi in qualsiasi cosa sia più forte dell’ira funesta. Immaginando di vedere la scena da fuori, incrocio le braccia sul petto. «No, dico sul serio», fa lei. «Perché una come te a un certo punto ci pensa alla possibilità di suicidarsi, no? Quindi, s’il vous plaît, come si dice en français, Gwenny?» 5


Mi giro di scatto, le parole che mi escono come un’esplosione. «Va te faire foutre.» Astrid si ferma e, per mezzo secondo, anzi, per meno di mezzo secondo un lampo di paura le attraversa la faccia. Poi però ricorda di trovarsi nel suo regno, circondata dai suoi fedeli, ed ecco ricomparire la vera Astrid. Che inarca le sopracciglia sapientemente sfoltite. Una delle sue amiche, Chelsea Bunchman, sorride. «Ehi, ti ha appena detto di andare a farti fottere.» La bocca di Astrid disegna una O, lasciando partire un’esclamazione di sorpresa. «Sei proprio una pezzente del cazzo», mi fa, e si avvicina di un passo. Vedo arrivare lo schiaffo mentre la mano è ancora a mezz’aria. Lo vedo, ma non faccio niente per bloccarlo. Semplicemente, stringo i denti e rincagno la testa nel collo e il collo nelle spalle. È uno schiaffo potente, Astrid fa sul serio. Il colpo mi gira la faccia dall’altra parte e un’unghia mi graffia la pelle facendomi bruciare la guancia. Si forma un capannello. Vedo le smorfie ghignanti di Luke Bontemp, Connor Monroe e di una decina di altri compagni che mi fissano a occhi sgranati, più gongolando che non preoccupandosi per la scena a cui hanno appena assistito. Se ne stanno in semicerchio intorno a me e ad Astrid, come in un’arena. All’improvviso realizzo che stiamo dando spettacolo, uno spettacolo antico, e che Astrid non mi ha preso a pugni né a calci e non mi ha nemmeno strappato i capelli, no. Con fredda calma ed estrema determinazione mi ha invece mollato uno schiaffo in piena faccia: la strafiga che piglia a sberle la sfigata. Anziché restituirle il ceffone – perché, diciamoci la verità, Gwendolyn Bloom non si abbasserebbe mai a tanto – chiudo gli occhi, l’umiliazione come il vento del Sahara: rovente, feroce e destinata a durare giorni. Ma ecco che una voce adulta 6


ordina a tutti di muoversi, e quando riapro gli occhi mi trovo davanti un insegnante di mezza età di cui non so il nome, fermo con le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni kaki. I suoi occhi viaggiano da Astrid a me e ritorno. «Che succede?», le chiede. «Mi ha detto… non posso ripetere. Mi ha insultato, mi ha mandata a f…» Dal tono sembra pudica e ferita. «È vero?», mi fai lui, guardandomi. Apro la bocca, pronta a spifferare che lei mi ha appena dato una sberla. «Sì», dico invece. L’Étranger, il libro che stiamo leggendo per letteratura straniera, di solito viene tradotto con Lo straniero, ma potrebbe essere anche L’outsider o L’estraneo. Tutto quello che sono io: straniera, outsider ed estranea. Tecnicamente sono americana, così dice il mio passaporto, però non sono nata qui e fino a questo settembre, prima che la scuola cominciasse, avevo vissuto negli Stati Uniti solo per un anno e mezzo. Ci ero venuta dopo che avevano ucciso mia madre. Noi, mio padre e io, ci siamo trasferiti a New York perché lui lavora alle Nazioni Unite, non lontano dalla Danton Academy. Da solo non avrebbe mai potuto permettersela, una scuola così, ma mio padre è un diplomatico del ministero degli Esteri, e per noi “diplorampolli” le private a volte sono un benefit. A seconda del paese in cui stai, la tua privata può essere l’unica scuola degna del nome nel raggio di mille chilometri e magari ti ritrovi in classe con il figlio o la figlia del presidente o del re o del dittatore locale. Una volta è successo anche a me. Quello stronzo del figlio di quello stronzo del presidente era mio compagno di banco alle lezioni di matematica. Sfoggiava scarpe da cinquemila dollari confezionate apposta per lui a Vienna, mentre fuori dalla nostra aula i bambini morivano di fame per strada. 7


Non che alla Danton sia poi tanto diverso. Anche qui gli alunni sono figli di presidenti, re e dittatori, ma di imprese anziché di paesi. La maggior parte dei miei compagni sono nati ricchi e gli unici poveri che conoscono sono i garzoni del fruttivendolo o del lavasecco che gli fanno le consegne a domicilio. Mio padre guadagna quello che da qualunque altra parte nel mondo basterebbe a campare dignitosamente, ma per gli studenti della Danton siamo poveri in canna. Sulla panca fuori dall’ufficio della vicedirettrice riprendo a giocherellare nervosamente con la gonna – Dio se le odio, le gonne – tirando l’orlo per abbassarmela sui collant neri e lisciando le pieghe. Le uniformi scolastiche sono un tentativo di renderci tutti uguali, immagino, ma sulle scarpe non ci sono limitazioni, ragion per cui ricchezza e fedeltà tribali si riconoscono dai piedi: décolleté Prada e mocassini Gucci per i ricchi e ballerine Louboutin e sneaker Miu Miu per gli arricchiti. Io sono uno dei soli due membri dell’irrilevante tribù Doc Martens. Le mie sono rosse e consumate, ma l’altro membro, un tranquillo ragazzo figlio di un artista di Manhattan downtown, tollerato in quanto fonte sicura di fenetilamine, va di nero lucido. Con questo non intendo dire che se di punto in bianco mi presentassi con delle Prada cambierebbe molto. Io non ho un look da Astrid Foogle, né da nessun’altra di loro. Sono troppo alta e ho il giro vita troppo largo. Naso troppo squadrato, bocca troppo grossa. Tutto troppo, in un modo o nell’altro. Mio padre e il dottore dicono che vado benissimo così, che sono gli ormoni e i muscoli, dopo tanti anni di ginnastica. Ciascuno è fatto come è fatto, non lasciarti imporre dagli altri un’idea di bellezza, e avanti di questo passo, fino alla nausea. Ma dire cose del genere fa parte del loro mestiere. Perciò mi coloro i capelli da sola con la tintura migliore che trovo in farmacia, mi allaccio le Doc Martens e fingo che la cosa non mi tocchi. 8


Quando finalmente esce dalla sua stanza, la vicedirettrice è tutta sorrisi e falsa preoccupazione. Si chiama Wasserman e cammina costantemente avvolta da una nuvola di profumo e di gioia zuccherina, quasi si aspettasse sempre di veder sbucare dal nulla un uccellino ansioso di volarle sul dito, come nei cartoni animati. «Come andiamo oggi?», mi chiede mentre entriamo nell’ufficio. «Benissimo», le rispondo, sprofondando in una soffice poltrona di pelle color sangue. «Una meraviglia.» Le dita delle mani della signora Wasserman si uniscono puntando verso il cielo, in una specie di segnale che stiamo per arrivare alle questioni serie. «Mi dicono che stai avendo qualche difficoltà interpersonale con una tua compagna di classe.» Davanti ai suoi eufemismi e al suo tono artificioso trattengo una sbuffata di insofferenza. Il fatto è che questa scuola è formata al novantacinque per cento da alunni molto ricchi e molto bianchi, e il restante cinque per cento si trova qui grazie a una borsa di studio o a genitori che lavorano alle Nazioni Unite. Noi cinquepercentisti, come ci chiamano, non siamo molto graditi, ma in compenso offriamo a persone come la signora Wasserman la possibilità di fingere che la Danton Academy non sia una semplice fabbrica di merdoni con la puzza sotto il naso. La vicedirettrice consulta un fascicolo in una cartelletta. «Preferisci essere chiamata Gwen o Gwendolyn, cara?» «Gwendolyn», rispondo. «Solo mio padre mi chiama Gwen.» «Vada per Gwendolyn, allora», accondiscende la Wasserman con un sorriso biscottato. «E ho letto bene, Gwendolyn, che hai passato i test di ammissione in… santo cielo, ben cinque lingue straniere?» 9


«Viaggiamo molto.» «Vedo. Mosca. Dubai. In ogni caso… complimenti.» Fa scorrere il dito su una riga. «Non dev’essere facile, con un patrigno che lavora per il ministero degli Esteri. Spostarsi ogni due o tre anni. Nuova città, nuovo paese.» «Può chiamarlo semplicemente “padre”.» «Chiedo scusa?» «Non è il mio patrigno. Mi ha adottato quando ha sposato mia madre. Avevo due anni.» «Padre, certo. Come vuoi.» La Wasserman scuote la testa appuntandosi qualcosa sul foglio che ha davanti. «E ora veniamo al motivo per cui sei qui: Danton è un luogo sicuro, Gwendolyn, e noi abbiamo una politica di tolleranza zero verso i comportamenti psicologicamente aggressivi.» «Giusto. C’è scritto anche sul regolamento.» «Il che comprende l’uso di turpiloquio nei confronti di professori e studenti, perciò se insulti una compagna in francese stai commettendo una violazione.» «Astrid non ha capito una parola di quello che stavo dicendo finché Chelsea Bunchman non gliel’ha tradotto.» «Il punto è che hai pronunciato una frase offensiva, Gwendolyn. Che tu l’abbia fatto in francese o in swahili non cambia la sostanza.» «Se lei non capisce, la cambia eccome.» «Il tuo è solo un giochino semantico», ribatte la vicedirettrice. «Sai cos’è la semantica?» «Lo studio del significato delle parole. Quindi sono perfettamente in tema.» La vedo irrigidire i muscoli della faccia. Prende una penna e la stringe fin quasi a spezzarla. «Mi rendo conto che oggi è l’anniversario della scomparsa di tua madre, e naturalmente mi dispiace molto», riprende poi in tono gentile. Intuisco che 10


è in crisi, non sa che cosa fare con me. Punire la ragazza per qualche difficoltà interpersonale il giorno dell’anniversario della scomparsa di sua madre? Si tossisce nella mano e ricomincia. «Normalmente gli insulti ai compagni sono puniti con un giorno di sospensione. Tuttavia, date le circostanze, sono disposta a passarci sopra se porgerai alla signorina Foogle le tue scuse scritte.» «Vuole che chieda scusa ad Astrid?» «Certo, cara.» Grazie per avermi reso le cose tanto facili. Mi appoggio allo schienale della poltrona e mi sforzo di sorridere. «No, grazie», rispondo. «Accetto la sospensione.» Continua a piovere, una pioggia fredda che da un momento all’altro potrebbe trasformarsi in neve. Quest’anno sta facendo un brutto marzo, niente sole e nemmeno un sentore di primavera. Solo cieli grigi e il puzzolente brodo di rifiuti di New York che scorre nei canalini. Lungo il marciapiede è parcheggiata una fila di suv neri, la versione dantoniana degli scuolabus. Sono quelli che usano i più ricchi, mini limousine private che vengono a prenderli alla fine della giornata scolastica affinché non debbano patire l’affronto di tornarsene a casa a piedi o in metropolitana. Mi incammino verso la stazione, qualche isolato più in là. Non ho ombrello e devo sollevare il cappuccio della vecchia giacca militare. Apparteneva a mia madre quand’era sottotenente, molto tempo prima che io nascessi. È saltata fuori da uno scatolone qualche anno fa, durante l’ennesimo trasferimento non so se da Dubai a Mosca o dove altro. Quando me la sono messa a mio padre è venuto da piangere, perciò stavo per togliermela ma lui mi ha detto che mi stava bene, che potevo tenerla, se volevo. 11


Mia madre. Era tutta la mattina che cercavo di evitare il pensiero, e ci ero pure riuscita, fino all’ora di letteratura straniera. Difficile non pensarci, se passi tutto il tempo a parlare di giustizia in Algeria. Le gocce di pioggia sulla faccia mi danno un senso di calma. Sulla Lexington, proprio dove scendono le scale del metrò, un tipo con al collo una kefiah verde e nera si ripara sotto la tenda del suo chiosco ambulante di kebab. Gliene ordino uno in arabo: un kebab con farcitura completa, dico, e dacci dentro con l’agnello. Lui mi guarda strizzando gli occhi sorpreso, mentre mi chiedo se mi abbia capito o no. Il mio arabo è parecchio arrugginito ed è quello formale che nessuno parla davvero, solo gli speaker alla tivù. «Sei egiziana?», mi fa, prendendo delle pinze da cucina e cominciando a disporre pezzetti di agnello sulla pita. «No», rispondo, «di qui». Mi capita spesso di sentirmi chiedere se sono di questa o quella nazionalità: ho occhi castano scuri e la mia pelle è un sottilissimo foglio pallido e semitrasparente tirato a coprire qualcos’altro – come ottone sotto della carta da lucido, mi disse una volta un ragazzo un po’ fatto sulla metropolitana di Mosca. Ma di quale sia la mia vera origine, non ho proprio idea. A mia madre non posso più chiederlo, e il padre che chiamo papà, perché tale è in tutti i sensi tranne uno, dice di non saperlo. Il nome del mio genitore biologico non compare neanche sul mio certificato di nascita di Landstuhl, l’ospedale militare americano dove sono venuta al mondo, in Germania. «Un extra per Cleopatra», mi fa il tipo, piazzando anche qualche cipolla e spalmando il tutto con quella salsina chiara e amara che tracannerei direttamente dalla bottiglia. Divoro il mio kebab mentre aspetto il metrò. Non mi ero resa conto di quanta fame avessi. Forse è l’effetto dello schiaffo. 12


Sto aspettando una N o una Q per il Queens. Vorrei tanto che passasse. Vorrei che arrivasse subito, per mettere un po’ di distanza fisica tra me e quest’isola e i ricordi suscitati da Camus. Ed ecco che, manco gliel’avessi ordinato col pensiero, una Q mi si ferma davanti stridendo penosamente. Lancio in un cestino dei rifiuti l’involucro unto di carta e alluminio del kebab e monto in carrozza. Un sacco di gente odia la metropolitana, io invece no. Per me è una cosa strana e bellissima ritrovarmi da sola in mezzo ad altri cinquanta o cento passeggeri. Dallo zaino tiro fuori un libro e mi appoggio alle porte, mentre il treno sfreccia nel tunnel sotto il fiume, diretto nel Queens. È un romanzo con una protagonista adolescente ambientato in un futuro distopico. Il titolo non fa nessuna differenza, perché questi libri sono tutti uguali. La poveretta deve partire per la guerra quando invece vorrebbe solo fuggire con il suo bello e vivere d’amore e frutti di bosco. Mondi di carta per eroi veri. Ma mentre il treno stride e fischia nel buio oscillando come se stesse per volar fuori dai binari, mi ritrovo improvvisamente incapace di seguire la storia o anche solo di tradurre in parole i segni sulla pagina. Stavolta i ricordi non vogliono andarsene. Pretendono di essere guardati dritti in faccia, insistenti come il ceffone di Astrid. Oggi è il compleanno di mio padre. Il peggior giorno possibile per un compleanno. O meglio, il peggior giorno possibile perché è il suo compleanno. È così che è successo, dieci anni fa oggi. Al ritorno dalla cena di compleanno che i colleghi avevano organizzato per lui in un ristorante di Algeri. Insomma devo pensarci, giusto? Perché se lo ricacci giù finisce per farti male, no? D’accordo. E allora smettila di opporre resistenza e torna a quel momento, mi dico. Rivivilo. Sii coraggiosa, per una volta. Dieci anni fa oggi. 13


Sento quella specie di rantolo venire da mia madre mentre facciamo una curva, un suono che a sette anni mi sveglia di colpo. Guardo il parabrezza e vedo il fuoco. Nella luce di una camionetta della polizia che sta bruciando scorgo delle facce. Sono una ventina di uomini. Quasi tutti con la barba, quasi tutti giovani, la pelle aranciata nel bagliore delle fiamme. Ci siamo imbattuti in qualcosa che non ci riguarda. Una scaramuccia in cui la polizia militare ha avuto la peggio. Ma gli uomini sono incuriositi dal nostro arrivo e sbirciano dai finestrini della macchina per cercare di capire la nazionalità delle facce sedute dentro. Mia madre urla a mio padre di fare dietro front. Lui ingrana la retro, si gira per guardare la strada e schiaccia sull’acceleratore. Per un attimo la Honda arretra, ma poi si spegne con un sussulto. C’è gente anche dietro, grida mio padre. Investili, gli risponde mia madre. Ma lui non lo fa. Magari vorrebbe anche, solo che non ne ha il tempo. Non ne ha il tempo perché sul tetto della macchina va in mille pezzi una bottiglia di vetro e una cascata di fuoco liquido cola sul finestrino dalla sua parte. Le chiamano molotov, sono bottiglie piene di benzina con uno straccio in fiamme infilato nel collo. Le bombe a mano dei poveracci. Ai diplomatici insegnano che in caso di lancio di molotov contro la macchina devono continuare a guidare a tutto gas finché non si trovano fuori pericolo. Le automobili non è che bruciano come si vede nei film, mica esplodono subito. Serve tempo. E tempo è quel che ti serve se vuoi continuare a respirare. Invece la folla si avvicina e succede qualcos’altro, qualcosa che impedisce alla nostra macchina di allontanarsi. Mio padre cerca di riavviarla, ma il motorino continua a girare a vuoto, senza riuscire a partire. La portiera di mia madre si spalanca 14


e lei grida qualcosa all’uomo che l’ha aperta. Non è un grido di terrore: più come se dar fuoco alla macchina e spalancare la portiera fossero gesti molto maleducati e lei fosse determinata ad andare a cantarne quattro al responsabile. Quel che succede dopo non lo vedo perché mio padre ha già allungato un braccio verso il sedile e mi sta slacciando la cintura. Mi solleva come una bambola di pezza e mi trascina davanti, dove sta lui. Ricordo ancora la forza con cui mi prese e il male che sentii mentre strusciavo fra i due sedili anteriori. Stringendomi al petto in un abbraccio fortissimo, scende dalla macchina dalla stessa portiera che usa anche mia madre, l’unica non in fiamme. Gli piovono addosso bastonate e randellate, sento la violenza di quei colpi attraversargli tutto il corpo. Li sta prendendo anche per me, quasi tutti almeno. Tre o quattro mi raggiungono le gambe, che spuntano dal buco sotto il suo braccio. Vorrei urlare di dolore ma non posso perché mio padre mi tiene schiacciata contro il petto. Non smette di correre finché non si è lasciato dietro la folla, adesso gli penzolo sopra la spalla e lui non so perché ma si gira: si gira e continua a correre all’indietro. Poi un colpo assordante. È la sua pistola, come se a mezzo metro dalla mia testa fosse scoppiata la fine del mondo. Mio padre spara e spara e spara e spara. Il campo visivo si restringe, poi scompare completamente e svengo. Quattordici coltellate al petto e al collo. Ecco la causa di morte ufficiale di mia madre. È quel che c’è scritto sul referto dell’autopsia ed è quel che mio padre mi raccontò quando fui abbastanza grande per chiederglielo. Avevo nove o dieci anni. Ma, naturalmente, non era finita lì. Nell’intervallo da quando l’avevano prelevata dalla macchina a quando l’avevano accoltellata erano successe altre cose. Cose che mio padre disse che mi 15


avrebbe raccontato quando fossi cresciuta. Io però non gli ho più chiesto niente e lui non ne parla mai. Probabilmente per lui è più facile non doverlo dire e per me non doverlo sentire. Siamo arrivati nel Queens, dal tunnel la metropolitana schizza all’aria aperta. Affronta una curva in velocità, le ruote che urlano come demoni, così forte che quasi non sento più i miei pensieri. Per non cadere stringo più forte il corrimano sopra la mia testa. Sento il mio corpo piegarsi sotto lo slancio del treno, che finalmente rallenta facendo gemere i binari bagnati di pioggia di Queensboro Plaza, con i suoi edifici industriali grigi, i grattacieli nuovi e le vetrine illuminate dei negozi piene di biglietti della lotteria e di pubblicità di birre e sigarette. Mi isso lo zaino in spalla e, non appena il treno è fermo, salto sul marciapiede lasciando che i ricordi mi zoppichino dietro svogliati. Faccio le scale due gradini alla volta, poi tre, ansiosa di arrivare in fondo, e una volta giù mi incuneo virando tra vecchi dal passo lento fino a superare il tornello. Dei tizi sul marciapiede davanti ai negozi mi lanciano fischi: la combinazione uniforme scolastica-gambe adolescenti e guizzanti gli garba. Mi metto a correre. Corro e non la smetto più. Attraverso in velocità una via e un taxi giallo mi strombazza contro, sterzando. Corro fino a sentirmi bruciare le gambe e a ritrovarmi fradicia di pioggia e sudore. Corro fino a che la rabbia cieca mi lascia completamente svuotata, libera dalla speranza. E per la prima volta in questo tardo pomeriggio di stelle e insegne al neon lascio che il mio cuore si apra alla tenera indifferenza del mondo.

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Per una frazione di secondo mi libro nell’aria, staccata dalla terra, una freccia già scoccata dall’arco ma non ancora piantata nel bersaglio. Vorrei poter restare sempre così, fluttuante, sospesa. Invece le leggi fisiche non vogliono saperne e dopo il salto mortale all’indietro la forza di gravità mi ritrascina subito giù: di colpo, in modo goffo, da pesante e inerte calamita quale sono. Data la velocità, devo cercare di non schiantarmi. Le mie mani si posano sulla superficie della trave di equilibrio. Un sottile strato di pelle scamosciata ricopre il legno, e se non stai attenta ti rompi l’osso del collo. Le mie gambe tornano così a sollevarsi, a inarcarsi sopra di me una dopo l’altra. Quando stai appoggiata sulle mani la cosa più importante è il baricentro. La trave è larga dieci centimetri, quindi hai uno spazio di manovra limitato: un centimetro o due in più o in meno, e sei già fregata. Un centimetro o due che alle Olim17


QUANTO SI PUÒ ESSERE CRUDELI PER DIFENDERE CIÒ CHE AMIAMO?


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