Una gara da vincere

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Una gara da vincere

Stacia Deutsch


Una gara da vincere di Stacia Deutsch adattato da Christa Roberts Traduzione di Chiara Codecà © 2018 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Pubblicato per la prima volta nel 2017 con il titolo: Team BFF: Race to the finish! da Penguin Workshop, Penguin Young Readers Group, an imprint of Penguin Random House LLC, 345 Hudson Street, New York 10014 Testo e illustrazione di copertina © 2017 Penguin Random House LLC e Girls Who Code Inc. All rights reserved including the right of reproduction in whole or in part in any form. This edition published by arrangement with Penguin Workshop, an imprint of Penguin Young Readers Group, a division of Penguin Random House LLC. Emoji © denisgorelkin/Thinkstock. ISBN 978-88-6966-318-5


Una

gara da vincere! di Stacia Deutsch adattato da Christa Roberts



Capitolo Uno “T

ouchdown!», ho mormorato, tenendo ben salda la videocamera. A metà campo l’allenatore Tilton agitava il pugno in aria, eccitato. Ho mantenuto l’inquadratura ferma su di lui per qualche secondo. Le imponenti querce che circondavano il campo di atletica della scuola Halverston stavano iniziando a cambiare colore, e l’aria era fresca e frizzante. Il tempo perfetto per giocare a football. «L’hai filmato?», mi ha gridato Tyson. Io avevo il compito di filmare il gioco da bordo campo e Tyson Phillips, l’altro assistente della squadra, si occupava delle riprese ravvicinate. Ho controllato che il microfono fosse spento e ho sistemato la tracolla della videocamera. «Come se avessi bisogno di chiedermelo!» Ci piaceva confrontare le registrazioni e assicurarci di aver ripreso tutto quello che l’allenatore voleva. La gente pensa che essere l’assistente della squadra di football

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significhi starsene impalati a dire ai giocatori cosa fare, o riempire di bottigliette d’acqua il frigo portatile, ma in realtà è un lavoro duro – soprattutto quando il tuo responsabile è l’allenatore Tilton. Tyson era sdraiato sulla pancia, impegnato in un’ultima inquadratura. I giocatori si erano buttati gli uni sugli altri, come se fosse il primo touchdown che avessero mai segnato – e questo era solo un allenamento. Sono scattata di corsa verso Tyson e mentre lui si girava verso di me ho dato un calcetto a uno dei suoi piedoni con la mia scarpa da ginnastica. «Mostrami quello che hai, superstar», ha detto lui, guardandomi a occhi stretti. Tyson era in prima superiore e all’inizio stargli vicino mi aveva resa un po’ nervosa, ma era davvero un tipo divertente e alla mano. A volte scordavo che aveva tre anni più di me. Mi sono inginocchiata accanto a lui e insieme abbiamo dato un’occhiata alla registrazione. Dovevamo fare in fretta se non volevamo perderci qualcosa o farci calpestare dai giocatori. «Bel lavoro, Sof», ha detto Tyson, annuendo. «Hai occhio.» «Grazie», ho risposto, orgogliosa. «Per essere una delle medie», ha continuato lui, ammiccando. Io ho incrociato le braccia, e ho sospirato. Avrei dovuto immaginarlo, che mi stava prendendo in giro. Ma

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in fondo non m’importava; proprio perché ero soltanto in prima media era davvero una gran cosa che l’allenatore mi avesse affiancata a uno studente di prima superiore. Di solito il signor Tilton sceglieva solo alunni di seconda o terza media per lavorare insieme all’assistente delle superiori della squadra di football della scuola. Ma io avevo lavorato duro per arrivarci, ero curiosissima di scoprire come fosse essere un assistente. In più, ero brava ad assumermi responsabilità: facevo sport fin da piccola, sgobbare non mi spaventava, e penso di aver colpito l’allenatore con le mie idee sulla gestione della squadra. Onestamente non era molto diverso dal prendermi cura delle mie tre sorelline, Lola, Pearl e Rosie. Non che l’avessi detto ai giocatori. Mi sono schermata gli occhi dal sole con la mano e ho guardato indietro, verso l’allenatore che gridava ai giocatori di correre più veloci. Ma un lampo sul vicino campo di calcio ha catturato il mio sguardo. Per l’esattezza, un lampo super carino, atletico, sorridente, di nome Sammy Cooper, un ragazzo che conoscevo da quando ci eravamo scontrati sul campo di calcio ai tempi dell’asilo e che per caso ora era con me nel club di coding. I tacchetti della sua scarpa hanno toccato il pallone che – whoosh! – è volato attraverso il campo, inseguito in fretta e furia dai centrocampisti. «Fantastico», ho mormorato, annuendo. Non mi impressionavo facilmente, ma Sammy era un vero talento.

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E anche se ora era Concentrato con la C maiuscola, aveva un gran sorriso stampato in viso. Giuro di non averlo mai visto non sorridente. Se non fosse che a quanto pare non era poi così concentrato, perché si è voltato a guardare verso di me. A meno che non avesse anche un udito supersonico, non c’era modo che mi avesse sentita, ma io ho subito guardato altrove: non volevo pensasse che lo stavo fissando. Perché non era così. Ok, forse un po’. Il cuore mi martellava in petto, e ho cercato di calmarmi. Schiarendo la gola, mi sono rivolta a Tyson. «Sembra che l’allenamento non finisca mai, oggi», ho detto. «Sì, l’allenatore sembra deciso a sfinire i ragazzi.» Tyson ha estratto dalla tasca un panno in microfibra e si è messo a pulire l’obiettivo della macchina. Era buffo quanto fosse ossessivo nel tenere pulito il vetro. «Ehi, se tu vuoi andare posso restare io», ha detto. «Devo comunque caricare questi video al laboratorio di informatica, posso caricare anche i tuoi.» «Sei sicuro?» Di solito gli allenamenti di football avevano tutta la mia attenzione, ma oggi c’era qualcosa che mi preoccupava. «L’allenatore vuole le riprese stasera, Tyson, non l’anno prossimo», ho aggiunto con un sorriso un po’ canzonatorio.

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«Sono molto migliorato con l’informatica, Sof. L’ultima volta ho dovuto chiamare il supporto tecnico solo due volte.» Ho sollevato un sopracciglio. Lui ha sospirato. «Ok, tre volte.» «Lo sai che puoi sempre chiamare me», gli ho ricordato. «Non avrai in eterno una professionista del computer come me a disposizione; dovresti sfruttare il mio genio finché puoi.» Tyson ha annuito, ridacchiando. «Molto vero.» Non poteva negare che nella parte tecnica del nostro incarico ero io la più brava. Durante la successiva pausa per bere, ho raggiunto il signor Tilton e preso un bel respiro. «Allenatore, mi chiedevo… Magari potrei andare…» «Sophia», mi ha interrotta lui mettendomi una mano sulla spalla. Aveva una voce profonda e roboante; non aveva mai bisogno del microfono, neppure quando i giocatori erano a metà campo. «Faremo un’altra serie di esercizi. Ho bisogno che tu prenda appunti su ciò che vedi, sei il mio secondo paio di occhi.» Mi ha dato una pacca sulla schiena, come faceva con i giocatori quando avevano bisogno di un discorso di incoraggiamento, poi ha attraversato il campo gridando al quarterback: «Blake, arretra fino alla linea delle venti iarde!». Ho sospirato. Non era andata come avevo sperato.

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Sono tornata verso Tyson, che stava riorganizzando i coni. Mai una pausa per noi assistenti. «Niente da fare.» «Accidenti», ha scosso la testa lui. «Peccato.» Ha guardato i giocatori dall’altra parte del campo. «A quanto pare sarà un lungo pomeriggio.» Ho sospirato. «Sì. Grazie lo stesso per la disponibilità.» Ho afferrato un blocco per segnare i punti e mi sono messa in disparte. Potevo capire il ragionamento dell’allenatore ed era bello sapere che contava su di me. Ma non volevo essere un secondo paio di occhi. Volevo essere a casa in tempo per avere tutta l’attenzione di mia madre. Stasera avevamo programmato una cena in famiglia, e avevo bisogno di parlare con mamma prima che lei andasse a lavorare e che Abuela e Pearl tornassero dalla lezione di danza. Mia madre era un’infermiera all’ospedale, quindi la mattina di solito non la vedevo prima di andare a scuola. Ci mandavamo molti messaggi ma non era come parlare di persona, e avevo MOLTO da dirle. Nell’istante in cui la squadra di football si è avviata verso lo spogliatoio, Tyson e io siamo corsi a mettere via l’attrezzatura. Il campo era sempre un disastro dopo gli allenamenti: c’erano coni e palloni sparpagliati ovunque. «A questa pensiamo noi!», mi ha gridato uno dei ragazzi. Lui e un altro giocatore avevano raccolto una rete e si erano avviati verso il capanno degli attrezzi.

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«Grazie!», ho risposto. Di solito alcuni giocatori aiutavano a mettere via qualcosa, ma era parte del nostro lavoro di assistenti assicurarci che il campo tornasse in perfetto ordine. Durante i primi allenamenti, in estate, alcuni ragazzi non erano stati felici di vedere un assistente di prima media. Sapevo che dovevo lavorare duro come Tyson, e così ho fatto. Non ci è voluto molto tempo per sentire che la squadra mi aveva accettata davvero. Non mi trattavano diversamente da come trattavano Tyson. E se lo avessero fatto… gliele avrei cantate. Il capanno degli attrezzi era caldo e puzzava di plastica, cuoio e sudore. Disgustoso, ma ormai ci eravamo abituati. «Dove vanno queste bandiere?», ha chiesto Tyson, agitandole. Gli ho lanciato un’occhiata sofferente. All’inizio della stagione avevo studiato in dettaglio un sistema per la riorganizzazione del materiale. Era la mia specialità, gli amici mi chiamavano la Regina dell’Organizzazione. In realtà era l’unico modo per sopravvivere in una casa con tre sorelline, i miei genitori e la nonna. «Nei cestini», ho detto, indicandoli con la testa. Giuro, Tyson avrebbe potuto recitare a memoria il punteggio di ogni partita delle ultime tre stagioni, ma davanti a un organigramma con codice colore era smarrito come un cucciolo. «Le palle vanno sullo scaffale e i coni in quella scatola.» Ho controllato il mio telefono (che poi era il vecchio

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telefono di mio padre, che lui mi aveva ceduto). Era lento ma se non altro ci potevo inviare email e messaggi. Non era ancora tanto tardi: se mi fossi affrettata avrei potuto parlare con mamma prima che il resto della mia famiglia monopolizzasse la sua attenzione. Perché, dopo, sarebbe stato impossibile. «Mamma!», ho urlato, aprendo la porta d’ingresso. «La tua figlia preferita è a casa!» Ho mollato lo zaino vicino all’attaccapanni, ho appeso la giacca e mi sono tolta le scarpe. L’odore di limone e coriandolo mi ha fatto venire l’acquolina in bocca. «Hola, niña!», mi ha salutato mamma quando sono entrata in cucina. Indossava jeans e maglietta invece dell’uniforme: significava che non sarebbe dovuta uscire subito per andare al lavoro. «Ciao», l’ho abbracciata. Mi ha abbracciata anche lei. «I tuoi capelli sanno di campo da football», ha detto arricciando il naso. Stava tagliando l’avocado. «Il mio menu speciale», ha spiegato, indicando la scodella di riso basmati fumante e un piatto di pollo alla griglia. Il menu speciale di mamma era un modo per tutti noi di scegliere ciò che volevamo, che si trattasse di una tortilla ripiena di riso, pollo e contorni, o semplicemente di riso e condimenti con patatine. «Vuoi preparare tu le patatine e la salsa?»

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«Speravo proprio che mi avresti rifilato qualcosa da fare appena entrata», ho risposto, alzando gli occhi al cielo. Ho aperto una busta di patatine e ne ho messo una manciata su ciascuno dei nostri piatti, tranne che su quello di Lola (a lei piaceva farlo da sola). Mia madre mi ha rivolto un sorriso diabolico. «Sarai ancora più entusiasta più tardi, quando ti chiederò di caricare la lavastoviglie», mi ha detto facendo l’occhiolino. «Allora, cosa c’è di nuovo, tesoro?» Ha preso un altro avocado. «Nel messaggio che mi hai mandato dicevi di avere qualcosa di cui parlarmi. Com’è andato l’allenamento?» Mi è balenata in mente la maglietta da calcio spiegazzata di Sammy e il suo enorme sorriso. Aveva guardato me o semplicemente nella mia direzione? Mamma ha agitato le dita davanti alla mia faccia. «Stai bene, Sof?» «Uh?» Ho scrollato la testa. Sammy occupava decisamente troppo spazio nel mio cervello. «Oh sì. Allora, ieri a…» «Hola, Sophia!», ha urlato mia nonna entrando in cucina. Non era una persona imponente, ma la sua presenza non passava mai inosservata. Lei e mia madre non erano molto alte e avevano gli stessi capelli scuri e gli stessi occhi verde brillante. Spesso venivano scambiate per sorelle, nessuno indovinava mai che Abuela avesse quasi settant’anni. Io condividevo con loro i capelli scuri e la

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Sophia si diverte un sacco con le nuove amiche del club di coding. Certo, devono lavorare sodo sui loro progetti informatici, ma non manca il tempo di raccontarsi problemi di cuore, mangiare biscotti e scherzare insieme. Dopo mesi passati a esercitarsi, in città ci sarà una maratona di coding e le ragazze vogliono mettercela tutta per dimostrare quanto hanno imparato! Ma un cambio di programma improvviso rischia di dividere il gruppo. Se le ragazze vogliono vincere la gara devono capire che il coding è tutta questione di lavoro di squadra e risoluzione di problemi... proprio come l’amicizia!

Illustrazione di copertina di Andrea Fernandez

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€ 12,00

ISBN 978-88-6966-318-5

www.castoro-on-line.it


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