William Wenton

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Bobbie Peers


Bobbie Peers William Wenton e il ladro di luridium Traduzione di Alice Tonzig © 2017 Editrice Il Castoro viale Andrea Doria 7, 20124 Milano info@castoro-on-line.it www.castoro-on-line.it Pubblicato per la prima volta da Aschehoug con il titolo Luridiumstyven © 2015 Bobbie Peers Illustrazione di copertina di Nikolai Lockertsen La traduzione di questo libro è stata pubblicata con il supporto economico del NORLA

ISBN 978-88-6966-227-0


Bobbie Peers

WILLIAM WENTON E IL LADRO DI LURIDIUM

Traduzione di Alice Tonzig



A Michelle: se non fosse stato per te, questo libro non sarebbe mai esistito.



Victoria Station, Londra

Prima mattina, ora di punta. Gente indaffarata che andava molto di fretta, ciascuno pensando ai fatti propri. Nessuno notò un uomo anziano con la barba e gli occhiali rotondi che attraversò di corsa la hall della stazione, stringendo tra le mani un pacco marrone e guardandosi di continuo alle spalle, come se qualcuno lo stesse inseguendo. Inciampò nel trolley di un passante. Impiegò qualche passo per recuperare l’equilibrio e prese le scale mobili che scendevano ai treni della metropolitana. Sulla banchina di attesa le persone erano schiacciate come sardine in un barile. L’uomo si fece strada tra la folla e si fermò alla fine del marciapiede. Una brezza fresca soffiava dal tunnel. Stava arrivando un treno. Nessuno degli altri viaggiatori se ne accorse quando saltò giù sui binari. 1


Il treno che si avvicinava lanciò un ululato e la pressione dell’aria dal tunnel aumentò. Il vecchio gettò un ultimo sguardo in su, verso il marciapiede, poi si voltò e scomparve nel buio della galleria.

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CAPITOLO 1

Otto anni dopo, a un indirizzo segreto da qualche parte in Norvegia William era così assorto in ciò che stava facendo che non sentì la mamma che lo chiamava. Chino su un’enorme scrivania, la punta della lingua che gli spuntava tra le labbra, stava stringendo l’ultima vite in un cilindro di metallo delle dimensioni di un rotolo di carta igienica vuoto. Il cilindro era diviso in più parti, su cui erano incisi diversi segni e iscrizioni. William lo sollevò soddisfatto verso la luce, studiandolo attentamente. Prese un ritaglio di giornale con la foto di un altro cilindro, che assomigliava molto a quello che teneva in mano. L’Enigma Impossibile – il codice più difficile al mondo – arriva in Norvegia. Riuscirai a decifrarlo?, c’era scritto. Anche se William aveva già letto l’articolo centinaia di volte, lo rilesse di nuovo. Guardò la fotografia del mi3


sterioso cilindro di metallo. Un manipolo dei migliori criptologi esistenti aveva impiegato più di tre anni a costruirlo, e ora era stato lanciato con lo slogan «Il codice più difficile al mondo». Quasi impossibile decifrarlo. Alcuni dei più eminenti decifratori di codici ci avevano già provato, ma senza esito, e adesso era finalmente arrivato in Norvegia. Presto William l’avrebbe visto con i suoi stessi occhi e non stava più nella pelle. L’indomani sera la mostra sarebbe ripartita per la Finlandia: era l’ultimo giorno utile. «È PRONTA LA CENA!», gridò la mamma dalla cucina. William non reagì. A sua difesa, va detto che i suoni non si propagavano molto bene in quella casa: le pareti della grande villa erano tappezzate di scaffali straripanti di libri che avevano ereditato dal nonno, con precise istruzioni di non sbarazzarsene mai. Erano stati fatti arrivare dall’Inghilterra in sette grossi container. E William li aveva letti tutti. Almeno due volte. Erano passati otto anni da quando erano dovuti fuggire dall’Inghilterra. Otto anni da quando si erano sistemati nella villa. E otto anni da quando il nonno era scomparso. Ora William e i suoi genitori vivevano in incognito presso un indirizzo segreto e con un nuovo cognome, in un paese che si chiamava Norvegia. «WILLIAM OLSEN! È PRONTO!» Sua madre non si dava per vinta e adesso William l’aveva sentita. Lo aveva chiamato Olsen. William Olsen. Non riusciva proprio ad abituarsi a quel cognome, e non vedeva l’ora 4


che arrivasse il giorno in cui avrebbe potuto usare il suo nome vero: William Wenton. Da tempo aveva smesso di chiedere che cosa fosse veramente successo a Londra otto anni prima. O perché ora si chiamasse Olsen e avesse imparato il norvegese. O come mai abitassero proprio lì, tra tutti i luoghi possibili, e cosa ne fosse stato del nonno. I suoi genitori avevano deciso che non se ne doveva parlare; come se tutti quei segreti fossero meglio della verità. Quel poco che William sapeva dell’accaduto aveva a che fare con un incidente d’auto. Lo stesso incidente in cui suo padre era rimasto paralizzato. Era successo qualcos’altro, però. Qualcosa di così grave da costringere la famiglia a scomparire dalla faccia della terra. E la Norvegia, un paese lungo e stretto che il resto del mondo quasi non aveva sentito nominare, era il posto perfetto in cui sparire; finché fosse durata, almeno. «PROOOONTOO!», gridò la mamma ancora una volta. «Prima devo solo finire una cosetta…», mormorò William tra sé e sé. Quindi fu il turno di papà di urlare da sotto: «WILLIAM… LA CENA!». William fece ruotare con cautela le piccole parti del cilindro metallico e sentì come gli si adagiavano alla perfezione nelle mani. Trasalì e fece un vero e proprio salto quando la porta di camera sua si spalancò di colpo, andando a cozzare contro un’alta pila di libri che crollarono sparpagliandosi sul pavimento. Uno colpì il cilindro che gli sfuggì dalle mani, cadde a terra con un clang e rotolò via. William era piegato a 5


raccoglierlo quando suo padre fece irruzione nella stanza con la sua sedia a rotelle. William guardò sgomento il cilindro sul pavimento, in piena rotta di collisione con la sedia a rotelle, e un istante dopo udì uno scrocchio metallico: una delle ruote ci era passata sopra. Suo padre frenò di botto. Dal sistema elettronico fuori uso proveniva un debole crepitio, e una nuvoletta di fumo si alzò dai frammenti rimasti sotto la ruota. Suo padre, irritato, buttò un’occhiata al pavimento e arricciò il naso. «Ricomincia a perder colpi? Ma se l’ho appena portata a fare la revisione», borbottò tra sé e sé, e piantò due occhi severi in faccia a William, che coprì con la mano il ritaglio di giornale sulla scrivania. «È pronta la cena, vieni subito!», esclamò suo padre, poi innestò la marcia indietro, si scontrò con un’altra pila di libri e uscì dalla stanza. Prima di alzarsi William aspettò che il ronzio del montascale per la sedia a rotelle fosse cessato. Tirò un sospiro di sollievo: c’era mancato poco. Aveva forse visto qualcosa? Era piuttosto sicuro di essere già riuscito a nascondere il ritaglio di giornale quando suo padre aveva fatto irruzione nella stanza. Andò a prendere il cilindro e lo sollevò con cautela. Una delle estremità era stata schiacciata verso l’interno. Lo scosse un po’. «Ma è mai possibile?», si disse irritato, e buttò un’occhiata a un robusto catenaccio fissato sulla porta. Come aveva potuto dimenticarsi di tirarlo? Si chiudeva sempre dentro quando lavorava ai codici. Si girò e tornò alla scrivania. Infilò il ritaglio di giornale e ciò che rimaneva del cilindro dentro un cassetto. Rimase 6


lì qualche istante, a fissare il resto del suo contenuto: una mano meccanica che aveva costruito lui stesso; un puzzle tridimensionale in metallo; un normalissimo cubo magico e una piccola scatola da scarpe contenente saldatori, tenaglie e minuscoli cacciaviti. Richiuse il cassetto, lo serrò con una chiave che nascose in una crepa del pavimento, poi si guardò intorno un’ultima volta per assicurarsi di aver messo tutto al sicuro. Per qualche ragione suo padre li odiava, i codici, e aveva vietato qualunque attività li riguardasse. Voleva che William si dedicasse a uno dei normali passatempi di tutti i ragazzi della sua età: calcio, la banda musicale della scuola, cose così. Sembrava quasi che avesse paura dei codici, e anche dell’interesse che suo figlio dimostrava per loro. E le cose continuavano a peggiorare: era arrivato addirittura a ritagliare le parole crociate dal giornale e bruciarle nel caminetto. Era quella la ragione per cui William aveva cominciato a chiudersi dentro a chiave, così lui non avrebbe scoperto tutto quello che aveva nascosto in camera sua. Suo padre nemmeno immaginava che cosa capitasse a William di tanto in tanto. A volte i codici erano l’unica cosa che riusciva a vedere intorno a sé. Tutto, in realtà, era un potenziale codice: un giardino, una casa, un’automobile. Tutto ciò che William vedeva in Tv o leggeva in un libro. Era come un puzzle, e il suo cervello prendeva il sopravvento. Poteva accadere quando guardava un albero o il disegno di una tappezzeria. A volte era come se le cose si disgregassero, e lui fosse in grado di vederne ogni singola parte e il posto 7


esatto cui apparteneva. Gli capitava da sempre – da che riusciva a ricordare – ed era questa la ragione per cui spesso finiva nei guai. Ecco perché stava meglio da solo. Preferibilmente in camera sua, dietro una porta chiusa, in uno spazio dove avrebbe potuto tenere tutto sotto controllo. William rimase a guardare l’enorme scrivania. Era appartenuta al nonno. La superficie era di ebano, scuro e duro, uno dei tipi di legno più resistenti al mondo. Su ciascun angolo erano intagliati dei volti simili a demoni, che si contorcevano in smorfie e facevano la linguaccia. Quando William era piccolo aveva avuto paura di quella scrivania ma, a mano a mano che era cresciuto, la paura aveva lasciato il posto alla curiosità. L’intera superficie del tavolo era ricoperta di strani segni, o meglio gli «scarabocchi del nonno», come li chiamava la mamma. William fantasticava che fossero messaggi segreti: dopotutto, suo nonno era uno dei migliori criptologi al mondo. Non era ancora riuscito a decifrarli, ma sperava che un giorno li avrebbe compresi, che avrebbe capito cosa aveva scritto suo nonno e perché. «NOI ADESSO MANGIAMO!», gridò ancora la mamma. «Eccomi!», rispose William. E con due passi agili uscì dalla stanza.

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CAPITOLO 2

«Non hai fame?», gli chiese la mamma. «Non tanta», rispose William, spingendo via il piatto. Suo padre mandò giù il boccone. «Stai troppo tempo fermo», sentenziò. «Quando io avevo la tua età non stavo mai fermo. Giocavamo a calcio, ci arrampicavamo sugli alberi e rubavamo le mele nei giardini. Guardati: sei magro come un chiodo!» William si sforzò di ignorarlo, ma sapeva che il papà aveva ragione. Era davvero magro come un chiodo. Più forte di quanto potesse sembrare, però. Lo era sempre stato. Non c’era nessuno, in classe, che riuscisse a fare più flessioni di lui. Perfino l’insegnante di ginnastica aveva problemi a stargli dietro, quando William ci si metteva. Gettò uno sguardo al giornale ripiegato e al paio di forbici che giacevano in grembo a suo padre. Aveva cominciato a ritagliare più che semplici parole crociate dai giornali, da 9


quando erano comparsi i primi annunci sull’Enigma Impossibile che presto sarebbe approdato al Museo di Storia della Scienza. Suo padre stava facendo del suo meglio per tenerlo lontano da quella mostra. Ciò che il papà non sapeva, tuttavia, era che la scuola aveva organizzato un’escursione per andare proprio lì, alla mostra. La mamma aveva detto a William che avrebbe potuto partecipare se prometteva di non dir niente al papà. E di non toccare nulla di ciò che era esposto. Come se capisse quanto significava per lui, come se riconoscesse il formicolio che gli si propagava nel corpo ogni volta che pensava al codice che nessuno era riuscito a decifrare. Come se sapesse che suo figlio aveva sognato quella mostra fin dalla prima volta che aveva sentito nominare l’Enigma Impossibile. Come se fosse consapevole che quella era la sua unica possibilità. Dopo che suo padre si fu allontanato da tavola, William e la mamma rimasero seduti ancora per qualche minuto. «Il signor Humburger era molto preoccupato per l’escursione al museo di domani», riprese la mamma. «E a dire il vero lo sono anch’io. È difficile per noi vivere nascosti a lungo. Non dobbiamo richiamare l’attenzione, lo sai.» William non rispose. Stava pensando al suo insegnante, il signor Humburger, che lo aveva odiato fin dal momento in cui, una volta, William lo aveva corretto davanti alla classe. «Guardami, William», lo richiamò la mamma, severa. Lui si girò a guardarla. «Promettimi che ti comporterai bene domani!», disse im10


plorante. «Non dobbiamo attirare la minima attenzione su di noi!» William sapeva che sarebbe stato difficile tenere giù le mani dall’Enigma Impossibile. Ma sapeva anche di non dover fare nulla che avrebbe potuto tradire la loro presenza. «Lo prometto», disse, e avvertì una fitta allo stomaco.

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CAPITOLO 3

«Buongiorno e benvenuti al Museo di Storia della Scienza», disse la donna alta e vagamente tesa che li accolse fuori dal museo. Aveva l’aria di essere lì da un pezzo. Il suo naso era rosso come un pomodoro e tremava dalla testa ai piedi. Faceva minuscoli passettini impazienti e saltellava su e giù per riscaldarsi, mentre il signor Humburger si sforzava di calmare la classe. «Mi chiamo Edna e oggi sarò la vostra guida. Ci aspetta un pomeriggio intenso ed entusiasmante.» La donna si raddrizzò nervosa la gonna. «Siete arrivati un po’ più tardi del previsto, il che significa che purtroppo non sarà possibile visitare la mostra dell’Enigma Impossibile. Ma naturalmente avete tutto il resto del museo da esplorare.» William si irrigidì. Erano arrivati troppo tardi? Non poteva essere vero! «E visto che non avete fatto in tempo a vedere quella, andremo direttamente alla sezione del museo intitolata Rebus 12


della Conoscenza. Troverete dei questionari sul tavolo appena oltrepassate le porte», proseguì Edna. «La cosa migliore è che lavoriate in coppia.» Ci vollero solo un paio di secondi perché la classe si dividesse nelle coppie di sempre. Ma William era ancora immobile, completamente paralizzato dalla delusione. «Muoviti, William, non abbiamo tutta la giornata», abbaiò il signor Humburger. William annuì appena. Sentiva la rabbia montargli dentro. Rebus? Neanche per sogno. Lui era lì per vedere l’Enigma Impossibile! «Ci troviamo di nuovo all’uscita tra un’ora», pigolò Edna, e aprì le porte massicce di rovere dell’edificio. La classe si precipitò cicalando su per le scale. Una ragazzina andò a sbattere contro la guida, facendola cadere a terra. Edna si tirò su e rimase a sedere stordita su un gradino. Il signor Humburger partì di slancio ed Edna gli tese la mano perché lui potesse aiutarla a rialzarsi, ma il professore la oltrepassò di fretta. «Non correte… camminate!», urlò a gola spiegata, e proseguì verso l’interno del museo senza più degnarla di uno sguardo. William si fermò davanti a Edna, le afferrò la mano e la aiutò a rimettersi in piedi. «Grazie», disse lei, scuotendosi via la polvere dalla gonna. «Non c’è di che», rispose William, con un sorriso incerto. Rimase fermo, esitante. Poi domandò: «La mostra dell’Enigma Impossibile è già chiusa?». 13


«Là sotto è strapieno di gente, non possiamo far entrare nessun altro. Per via delle norme antincendio, capisci.» William annuì e passò attraverso le porte. La prima cosa che notò all’interno del museo furono due uomini che stavano smontando un cartello poco lontano. Mostra dell’Enigma Impossibile – scendere le scale, recitava la scritta. Gettò un’occhiata al signor Humburger, che era impegnato a liberare la mano di un ragazzo rimasta incastrata in una macchina a vapore. Una delle guardie del museo era accorsa in loro aiuto. William sorrise: il signor Humburger aveva il suo bel da fare. Quella era la sua opportunità per intrufolarsi alla mostra.

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Un misterioso e potentissimo metallo chiamato luridium. Una corsa contro il tempo con un unico obiettivo: scoprire la verità sul suo passato e salvare il mondo. Fenomeno editoriale in Norvegia. Per due anni al primo posto in classifica. venduto in 37 paesi.

«Immaginate Hogwarts con robot e piante carnivore meccaniche... e aggiungete una cascata di colpi di scena che sorprendono di continuo: questo è William Wenton.» – booklist «Un po’ Alex Rider, un po’ Artemis Fowl, un po’ Il codice da Vinci per ragazzi: questo è un libro per chi cerca azione e mistero.» – SCHOOL LIBRARY JOURNAL

€ 13,50

ISBN 978-88-6966-227-0

www.castoro-on-line.it

Bobbie Peers

Uno straordinario talento per decifrare i codici.

e il ladro di Luridium

William Wenton.

Bobbie Peers


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