multiverso 1 scarti e abbandoni

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© Giovanna Durì


omologato bisogna essere disponibili a sradicarsi dal territorio: se fosse un processo voluto in qualche centro di potere si direbbe promoveatur ut amoveatur. Quindi né il Piano urbanistico né il mercato rispondono a strategie di valorizzazione territoriale, anzi sono complici dei processi di ‘deterritorializzazione’. Non è per caso che oggi le amministrazioni locali, strutturalmente rappresentative delle ragioni del territorio, quando sono prese nelle tenaglie insostenibili del ricatto delle singole imprese (o sfruttamento o abbandono!), ricorrono a politiche del rattoppo, del meno peggio, sfiduciando i sostenitori dei piani sedicenti ‘comprensivi’, che però trattano solo lo ‘sviluppo’ e non sanno operare nelle crisi. Nella tempesta della deterritorializzazione si assegna sempre più facilmente dignità di strategia organizzativa agli aspetti gestionali e operativi, alle contrattazioni dell’ultimo momento che rinviano gli eventi, che aggiustano pro tempore le emergenze più violente. E la pratica diventa grammatica: non solo di fronte alla catastrofe, ma sempre più spesso, in condizioni anche ordinarie, ci si rifugia nella governance invece (e non a complemento) del government. La capacità gestionale pare una via in alternativa alle rigidità spigolose della pianificazione, che oltre a tutto non premiano sforzi costanti e faticosi contro lo sfruttamento, impedendo l’abbandono. I sindaci preoccupati del loro territorio cominciano a chiedere al tecnico del Piano: ma perché devo contenere l’edificazione del centro se tutto il resto si svuota, perché regole per impedire le attività in una piccola parte del Comune, se da tutte le altre parti le attività cessano per proprio conto? Non tutti i programmi di sviluppo sono così indirizzati allo sradicamento e alla insostenibilità, ma è un fatto che anche per le ipotesi di sviluppo sostenibile e legato al territorio, si tenta di utilizzare le strumentazioni concettuali ed operative che sino ad ora si sono utilizzate per guidare processi in moto, veloci ed irruenti. E si arenano di fronte a dinamiche strutturali di abbandono anche i più recenti progetti di sviluppo locale, che dovrebbero essere adatti alle regioni deboli, in cui si 14

prova una programmazione inclusiva (performante, come dicono i manager), puntata sulla flessibilità alle iniziative locali, alternativa alla pianificazione rigida. Si tratta di una promozione dello sviluppo efficace quando agisce su motori in qualche modo funzionanti: sistemi impoveriti sì, ma con le connessioni del sistema territoriale ancora attive e da rivalorizzare. Ma sono azioni impotenti, come una coppia motrice nel punto di cambio di fase, quando non c’è un volano di inerzia che ancora gira: non si hanno gli strumenti per mettere in moto un sistema ormai spento. Allora per governare un territorio con avanzati processi di abbandono occorre un quadro di riferimenti nuovo: non si possono riusare quelli tentati per le situazioni di sviluppo prepotente, come si faceva per i figli piccoli con gli abiti smessi dai fratelli maggiori. Dunque se si ipotizza una strategia di governo del territorio inversa e complementare a quella che cerca di cavalcare le fasi di sviluppo, occorre ragionare sul processo di abbandono in sé, sulle sue caratteristiche operative, sulle sue dinamiche e le sue inerzie. L’abbandono come fase organica del processo territoriale

È indispensabile distinguere tra il processo e l’evento. Se si considera l’abbandono come un evento, che turba un ordine precostituito, non si può che valutarne gli aspetti di criticità e in qualche misura l’irreversibilità: effetti non governabili in una strategia di fase. L’evento dell’abbandono rende manifesta una crisi che interrompe i processi ordinari presenti sul territorio, di qualunque genere essi siano: di gestione, di governo, di comunicazione. Perciò, in una considerazione statica degli assetti socio-economici e culturali del territorio, dove non si affrontano i processi, ci si attesta impotenti a fronte degli eventi: accade per le alluvioni, per gli intasamenti infrastrutturali, per la descolarizzazione e a maggior ragione per gli abbandoni. In questi termini l’abbandono appartiene alla categoria delle crisi catastrofiche e quindi ingovernabili, il che legittima la resa di ogni pianificatore. D’altra parte i processi non possono essere


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Š Ulderica Da Pozzo

1962 / Sacchetti / di carta miseri, / da pattumiera, gualciti, spiegazzati; / brutalmente, come esemplari di farfalle rare, / li fissavo sulla tela immacolata dei miei quadri. // Le pieghe stampate su di essi alla produzione venivano a sostituire le vecchie, / raffinate partizioni dell’astrattismo. // Quanto, ora, mi erano piÚ care, queste, delle altre, / superbe, avanguardistiche. // Sacchetti martoriati, crocifissi, / imprigionati. Tadeusz Kantor, 1962.


Š Ulderica Da Pozzo


Gian Paolo Gri

gianpaolo.gri@uniud.it

oicIlca setaccio tes lI Centinaia e centinaia di piccoli musei etnografici moltiplicatisi in Italia negli ultimi trent’anni hanno raccolto, trattengono e mettono in vetrina un poco di ciò che le ultime due o tre generazioni hanno trovato comodo buttare: scarti del mondo preindustriale, della cultura contadina, dell’agro-pastoralismo alpino, dell’armamentario di cose che reggevano il vivere popolare e piccolo borghese. Sono discariche/vetrina di genere particolare, istituzioni di garanzia dalla smemoratezza a piccolo raggio che oggi cercano nobilitazione: non possono ambire al piano alto della ‘memoria nobile’ (musei d’arte, biblioteche civiche, archivi), nascondono spesso l’abito liso e la loro fragilità sotto le nuove etichette alla moda degli ecomusei, delle reti museali e dei musei diffusi. Ma c’è anche di più: sotto la linea dei piccoli musei – realtà comunque, più o meno felicemente istituzionalizzata – esiste il mondo magmatico del piccolo collezionismo privato (dai santini ai ditali: universi incredibili di quotazioni, riviste specializzate, scambi, reti internet), dei micromusei domestici, delle piccole raccolte che riempiono le pareti di alcune trattorie tipiche e i tavoli dei mercatini dell’usato; il mondo degli amatori (competentissimi) di piccole cose, dei ricercatori di oggetti e parole perdute, delle classi scolastiche che rivisitano il territorio e spremono la memoria dei nonni, delle tradizioni reinventate per i turisti. Una frana di detriti che viene trattenuta; una varietà di motivazioni che fa da freno alla scomparsa definitiva. Rituali di memoria e di identità, fili che non si vogliono rompere, pietas storica, desiderio di tenere in vita, voglia di conoscere, sfruttamento della tradizione: di tutto un po’. Se potessi scegliere, come emblema del mio personale piccolo museo vorrei un setaccio. Serviva a separare semenza e scarto, giusto ed eccedente, farina e crusca, sabbia e ghiaia, ma era anche un utensile dalla grande potenza simbolica, da millenni al centro di rituali di


Marco Aime

marco.aime@unige.it

otra Sviluppo cs e oppeulscarto ivS Ouagadougou, Burkina Faso. La giornata è umida e sfiancante. Mentre attendo all’ombra di un albero osservo un meccanico che sta armeggiando nel cofano di una vecchia Renault. Dal coperchio di una latta ha ricavato una ventola di raffreddamento e ora prova a montarla. Poco prima avevo visto un negozio che vendeva sandali fatti con scarti di copertoni e secchi ricavati da vecchie camere d’aria. In Africa il riciclo è la norma, lo scarto quasi non esiste, tutto viene riutilizzato: ferro, bottiglie di plastica, scatoloni. Alcune ONG, sulla base di finanziamenti dell’Unione Europea, hanno avviato in Africa occidentale progetti di raccolta rifiuti. La maggior parte delle famiglie coinvolte si è arrabbiata quando è venuta a sapere che bisognava pagare per vedersi portare via scarti organici e non, che sarebbero invece stati utilizzati: «Siete voi a doverci dare qualcosa» sostenevano davanti agli sguardi stupiti degli organizzatori.

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Piccoli episodi di quotidianità africana che sembrano però diventare metafora di un confronto più ampio, che va ben al di là della semplice questione degli scarti fisici. Le società tradizionali di villaggio danno (o davano, se si parla dell’Italia e dell’Europa rurali) spesso vita a realtà piuttosto integrate, dove bene o male tutti hanno un loro ruolo. Non si vuole certo mitizzare o idealizzare un ‘mondo perduto’, ma è certamente vero che le piccole comunità si fondavano su rapporti più stretti, talvolta anche antagonistici, ma rapporti. Anche il tuo rivale era comunque parte della comunità. Il tutto si reggeva su un dosaggio dei conflitti e su un contenimento

delle forze centrifughe. Il mondo del lavoro e quello della festa, del rituale, erano complementari, facevano parte di quel continuum che era lo scorrere della vita. L’avvento dell’era industriale ha creato nuove forme di relazione non solo tra gli individui, ma anche spazio-temporali. Il luogo del lavoro si allontana dall’abitazione e di conseguenza il tempo del lavoro si separa da quello del riposo e da quello della festa. Come ha spiegato brillantemente Victor Turner (Dal rito al teatro, 1986), il rito si trasforma in teatro e la maggior parte di noi, abitanti urbani di una società industrializzata, vive questa esistenza parallela, quasi pirandelliana. Ho lavorato

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undici anni in un’industria e so cosa significhi attendere il ‘tempo libero’, tempo che per chi gestisce il sistema industriale è invece considerato come scarto, come perdita. Ed è su questa idea di scarto che vengono gestite le politiche relative alle vite di molte persone. In società dove la produttività è l’elemento fondante, chi non produce o non produce più viene scartato, posto a margine. La sfera dell’economia è stata posta al di fuori del sistema di valori vigente, esonerata dalla morale, affrancata da ogni forma di giustizia, come ha brillantemente dimostrato Serge Latouche in Giustizia senza limiti (2003). Con un processo di colonizzazione mentale, in gran parte riuscito, l’economia di mercato, la logica del profitto, è diventata essa stessa ‘la morale’, al punto che nessuno la mette più in discussione. Il termine economia si accompagna spesso con sviluppo, altra parola evocativa di benessere e futuro radioso. Con un’analisi raffinata e originale l’antropologo elvetico George Rist sostiene che il concetto di sviluppo svolge per la società occidentale la stessa funzione dei miti nelle società cosiddette primitive (G. Rist, Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale, 1997). Lo sviluppo è il mito fondante della nostra società, senza di esso tutto il sistema crollerebbe e poiché stiamo imponendo a tutti il nostro sistema, imponiamo anche il vangelo dello sviluppo. Sviluppo quindi, come elemento della moderna religione economicistica: un’ideologia si discute, una fede no. La credenza nello sviluppo è

paragonabile quindi ai miti delle società non occidentali. L’atto di credere è performativo e se si deve far credere è per far fare. Come ogni credenza, anche lo sviluppo ha i suoi rituali, fatti di incontri tra i grandi della Terra, i G8, che continuano a tenere accesa la fiamma della speranza in un futuro migliore. Un esempio di come l’idea di sviluppo si avvicini più a una fede che all’espressione di una presunta razionalità, è dato dal fatto che, se un politico fa affermazioni che vengono regolarmente smentite, alla lunga perde di credibilità. Nel campo dello sviluppo invece le promesse sono instancabilmente ripetute e gli esperimenti costantemente riprodotti. Come spiegare allora che ogni fallimento diventa l’occasione di nuove dilazioni? Appare quindi sempre più evidente che la problematica dello sviluppo è inscritta nell’immaginario occidentale e ne costituisce il mito fondante. Nel 1949 il presidente americano Truman per la prima volta in un discorso ufficiale parlò di sviluppo e di paesi ‘sottosviluppati’ da aiutare. Ecco creati gli scarti. Aveva messo a confronto, senza collegarli nei loro rapporti causali e con una lettura tardo-evoluzionista, il ricco Occidente con il Sud povero e affamato che occorreva sviluppare in chiave occidentale: aveva creato degli scarti e le premesse per ‘i naufraghi dello sviluppo’ (S. Latouche, I naufraghi dello sviluppo, 1993) e per il sempre maggiore numero di senza patria, di profughi, di rifugiati privi di ogni diritto e possessori solo della loro ‘nuda vita’.

Nel 1994 avevo quarantasei anni, l’età in cui un uomo ambizioso come me in genere morde il sedere al mondo: avrei dovuto arrivare chissà dove, nei miei piani. Invece… Invece eccomi là, nell’ufficio di quel garbato ingegnere, entrambi preoccupati, in perfetta sintonia di vedute, di accogliere nel migliore dei modi coloro che, un pezzo alla volta, si sarebbero portati a casa propria, in Cina, una fetta importante della nostra vecchia fabbrica. [...] Le voci della grande svendita andavano e venivano sulla cresta del vento: si smontano le colate continue a favore dei cinesi; si smonta l’altoforno 5 a favore degli indiani; si smontano i forni a calce a favore della Malesia; si smonta il treno di laminazione a favore della Tailandia; sono in vendita carriponte di ogni potenza e portata; si cedono al miglior offerente vagoni ferroviari, binari, due immensi scaricatori da pontile addetti al prelevamento dei minerali dalle navi (Malesia?); si vendono motori elettrici per ogni esigenza, da 500 a 5.000 volt (l’Ilva, dicevano tutti, è come il maiale: una volta che lo hai ammazzato non butti via niente). Perfino il cemento frantumato si sarebbe trasformato in oro, e non soltanto per i tondini di ferro in esso contenuti (li vendemmo ad altre acciaierie) ma per se stesso, il cemento, che, macinato una seconda volta, sarebbe stato commerciabile come materiale inerte da utilizzare nei sottofondi stradali. Ed erano in vendita suppellettili, scaffali, attrezzature per uffici…

Ermanno Rea, ‘La dismissione’, Rizzoli, Milano 2002, p. 17 e 31.

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È cosa ben triste, per quanti passano per questa grande città o viaggiano per il nostro Paese, vedere le strade, sia in città, sia fuori, e le porte delle capanne, affollate di donne che domandano l'elemosina seguite da tre, quattro o sei bambini tutti vestiti di stracci, e che importunano così i passanti. Queste madri, invece di avere la possibilità di lavorare e di guadagnarsi onestamente da vivere, sono costrette a passare tutto il loro tempo andando in giro ad elemosinare il pane per i loro infelici bambini, i quali, una volta cresciuti, diventano ladri per mancanza di lavoro, o lasciano il loro amato Paese natio per andarsene a combattere per il pretendente al trono di Spagna, o per offrirsi in vendita ai Barbados. Penso che tutti i partiti siano d'accordo sul fatto che tutti questi bambini, in quantità enorme, che si vedono in braccio o sulla schiena o alle calcagna della madre e spesso del padre, costituiscono un serio motivo di lamentela, in aggiunta a tanti altri, nelle attuali deplorevoli condizioni di questo Regno; e, quindi, chiunque sapesse trovare un metodo onesto, facile e poco costoso, atto a rendere questi bambini parte sana ed utile della comunità, acquisterebbe tali meriti presso l'intera società, che gli verrebbe innalzato un monumento come salvatore del paese. [...] Per parte mia, dopo aver riflettuto per molti anni su questo tema importante ed aver considerato attentamente i vari progetti presentati da altri, mi sono reso conto che vi erano in essi grossolani errori di calcolo. È vero, un bambino appena partorito dalla madre può nutrirsi del suo latte per un intero anno solare con l'aggiunta di pochi altri alimenti, per un valore massimo di spesa non eccedente i due scellini, somma sostituibile con l'equivalente in avanzi di cibo, che la madre si può certamente procurare nella sua legittima professione di mendicante; ma è appunto quando hanno l'età di un anno che io propongo di provvedere a loro in modo tale che, anziché essere di peso ai genitori o alla parrocchia, o essere a corto di cibo e di vestiti per il resto della vita, contribuiranno invece alla nutrizione e in parte al vestiario di migliaia di persone. Un altro grande vantaggio del mio progetto sta nel fatto che esso impedirà gli aborti procurati e l'orribile abitudine, che hanno le donne, di uccidere i loro bambini bastardi; abitudine, ahimè, troppo comune fra di noi; si sacrificano così queste povere creature innocenti, io credo, più per evitare le spese che la vergogna, ed è cosa, questa, che muoverebbe a lacrime di compassione anche il cuore più barbaro ed inumano. Di solito si calcola che la popolazione di questo Regno sia attorno al milione e mezzo, ed io faccio conto che, su questa cifra, vi possano essere circa duecentomila coppie, nelle quali la moglie sia in grado di mettere al mondo figli; da queste tolgo trentamila, che sono in grado di mantenere i figli, anche se temo che non possano essere tante, nelle attuali condizioni di miseria; ma, pur concedendo questa cifra, restano centosettantamila donne feconde. Ne tolgo ancora cinquantamila, tenendo conto delle donne che non portano a termine la gravidanza o che perdono i bambini per incidenti o malattia entro il primo anno. Restano, nati ogni anno da genitori poveri, centoventimila bambini.

Jonathan Swift, ‘Una modesta proposta per impedire che i bambini irlandesi siano a carico dei loro genitori o del loro paese e per renderli utili alla comunità’ (scritto nell’anno 1729).

Progetti da riciclare


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Jonathan Swift, ‘Una modesta proposta e altre satire’, Rizzoli, Milano 1977, pp. 137-143 (trad. it. di B. Armellin).

Ed ecco la domanda: come è possibile allevare questa moltitudine di bambini, e provvedere loro? Come abbiamo già visto, nella situazione attuale questo è assolutamente impossibile, usando tutti i metodi finora proposti. Infatti non possiamo impiegarli né come artigiani, né come agricoltori, perché noi non costruiamo case (intendo dire in campagna), né coltiviamo la terra; ed essi possono ben di rado guadagnarsi da vivere rubando finché non arrivano all'età di sei anni, salvo che non posseggano doti particolari; anche se, lo debbo ammettere, imparano i rudimenti molto prima di quell'età. Ma in questo periodo essi possono essere considerati propriamente solo degli apprendisti, come mi ha spiegato un personaggio eminente della contea di Cavan; il quale appunto mi ha dichiarato che non gli capitò mai di imbattersi in più di uno o due casi al di sotto dell'età di sei anni, pur in una parte del Regno tanto rinomata per la precocità in quest'arte. I nostri commercianti mi hanno assicurato che i ragazzi e le ragazze al disotto dei dodici anni non costituiscono merce vendibile, e che anche quando arrivano a questa età non rendono più di tre sterline o, al massimo, tre sterline e mezza corona, al mercato; il che non può recar profitto né ai genitori né al Regno, dato che la spesa per nutrirli e vestirli, sia pure di stracci, è stata di almeno quattro volte superiore. Io quindi presenterò ora, umilmente, le mie proposte che, voglio sperare, non solleveranno la minima obiezione. Un americano, mia conoscenza di Londra, uomo molto istruito, mi ha assicurato che un infante sano e ben allattato all'età di un anno è il cibo più delizioso, sano e nutriente che si possa trovare, sia in umido, sia arrosto, al forno o lessato; ed io non dubito che possa fare lo stesso ottimo servizio in fricassea o al ragù. Espongo allora alla considerazione del pubblico che, dei centoventimila bambini già calcolati, ventimila possono essere riservati alla riproduzione della specie, dei quali solo un quarto maschi, il che è più di quanto non si conceda ai montoni, ai buoi ed ai maiali; ed il motivo è che questi bambini sono di rado frutto del matrimonio, particolare questo che i nostri selvaggi non tengono in grande considerazione, e, di conseguenza, un maschio potrà bastare a quattro femmine. I rimanenti centomila, all'età di un anno potranno essere messi in vendita a persone di qualità e di censo in tutto il Regno, avendo cura di avvertire la madre di farli poppare abbondantemente l'ultimo mese, in modo da renderli rotondetti e paffutelli, pronti per una buona tavola. Un bambino renderà due piatti per un ricevimento di amici; quando la famiglia pranzerà da sola, il quarto anteriore o posteriore sarà un piatto di ragionevoli dimensioni e, stagionato, con un po' di pepe e sale, sarà ottimo bollito al quarto giorno, specialmente d'inverno. Ho calcolato che, in media, un bambino appena nato venga a pesare dodici libbre e che in un anno solare, se nutrito passabilmente, arrivi a ventotto. Ammetto che questo cibo verrà a costare un po' caro, e sarà quindi adattissimo ai proprietari terrieri, i quali sembra possano vantare il maggior diritto sui bambini, dal momento che hanno già divorato la maggior parte dei genitori.


Donatella Ruttar

stazionetopolo@libero.it

a chiusura, ospitalità, a sospetto, curiosità, a pesantezza, leggerezza, ad abbandono, dono, a indifferenza, ascolto, a partenze, arrivi.

òlopPostaja oT id enTopolove oizatS / e/ vStazione olopoT ajdi atsTopolò oP Uno scarto, una imprevista deviazione, un’audace inversione di senso, una trasgressione in grado di riportare vita ad un paese paralizzato nella drammatica realtà dell’abbandono. È questo ‘l’altro sguardo’ che l’arte ha posato su Topolò. Topolò - Topolove, Tapoluove nel dialetto sloveno della Recˇanska dolina, quaranta abitanti alla fine della strada, un bel paese di case prevalentemente vuote schiacciato contro il confine che corre tra i boschi inselvatichiti dall’abbandono dell’uomo. Fino alla seconda guerra mondiale era uno dei paesi più grossi e popolosi del comune di Grimacco e della Benecˇija, con i suoi quasi 400 abitanti, poi i problemi tipici della montagna italiana, aggravati dal gelo della ‘cortina di ferro’, hanno ridotto il paese alla situazione attuale. L’emigrazione, che ha sempre caratterizzato quest’area nelle forme della temporaneità e stagionalità, diventa massiccia e definitiva a partire dal dopoguerra e in pochi decenni riduce la comunità alla soglia critica dell’estinzione etnica, completando così il progetto di matrice fascista di italianizzazione della comunità slovena.

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Topolò visto da Giorgio Vazza, agosto 2004 39


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