Il problema della creatività del linguaggio non emerge solo nell’ambito privilegiato del discorso poetico, ma ogni volta che il linguaggio – per indicare qualcosa che la cultura non ha ancora assimilato […] – deve ‘inventare’ possibilità combinatorie o appaiamenti semantici non previsti dal codice. La metafora in questo senso appare come un appaiamento semantico nuovo non preceduto da alcuna stipulazione di codice (ma che genera una nuova stipulazione di codice). In tal senso […] assume valore comunicativo e – mediatamente – conoscitivo. Umberto Eco, ‘Le forme del contenuto’, Bompiani, Milano 1971, p. 97.
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Creare è vivere due volte. Albert Camus, ‘Il mito di Sisifo’, Bompiani, Milano 2013, p. 92 (trad. it. di A. Borelli).
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Il due è il numero della relazione e della contesa, dell’instabilità; il numero della scissione ma anche del completamento; del diavolo e del simbolo: quello indica etimologicamente la separazione, questo la corrispondenza tra i separati. Nella sua tensione, il due slitta di continuo, verso la crisi o verso una sintesi. È la forma elementare del bivio, del dubbio, dell’alternativa, del problema. Il due è il numero del confronto, del rapporto teso tra il «noi» e il «loro», dell’accordo e della competizione. E forse il piacere del gioco che oppone squadra a squadra, giocatore a giocatore, concordi sulle regole, sta anche nel manipolare per scherzo quella configurazione universale e drammatica che è la dualità tra sé e l’altro. Stefano Levi Della Torre, ‘Zone di turbolenza’, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 9-10.
© Ulderica Da Pozzo
Il personale si oppone all’impersonale, eppure dall’uno all’altro vi è passaggio. Non vi è invece passaggio dal collettivo all’impersonale. Occorre anzitutto che una collettività si dissolva in persone separate perché sia possibile accedere all’impersonale. Soltanto in questo senso la persona partecipa del sacro più della collettività. Simone Weil, ‘La persona e il sacro’, Adelphi, Milano 2012, p. 20 (ed. it. a cura di M.C. Sala).
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Aveva espresso il folle desiderio di poter rimanere giovane, lasciando invecchiare il ritratto; pregando che la sua bellezza rimanesse pura e il viso sulla tela sopportasse il marchio delle passioni e delle colpe; aveva chiesto che sull’immagine dipinta potessero incidersi i segni dei dolori e delle meditazioni, purché egli conservasse il delicato fiore e la dolcezza di un’adolescenza appena risvegliata. Oscar Wilde, ‘Il ritratto di Dorian Gray’, Mondadori, Milano 1982, p. 129 (trad. it. di R. Calzini).
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Š Erika Pittis
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Š Ulderica Da Pozzo
Š Ulderica Da Pozzo
Chi entra in un labirinto sa che esiste una via d’uscita, ma non sa quale delle molte vie che gli si aprono innanzi di volta in volta vi conduca. Procede a tentoni. Quando trova una via bloccata torna indietro e ne prende un’altra. Talora la via che sembra più facile non è la più giusta; talora, quando crede di essere più vicino alla meta, ne è più lontano, e basta un passo falso per tornare al punto di partenza. Bisogna avere molta pazienza, non lasciarsi mai illudere dalle apparenze, fare, come si dice, un passo alla volta, e di fronte ai bivi, quando non si è in grado di calcolare la ragione della scelta, ma si è costretti a rischiare, essere sempre pronti a tornare indietro. Norberto Bobbio, ‘Autobiografia’, a cura di A. Papuzzi, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 226.
© Erika Pittis
Carlo Ancona
carlo.ancona@giustizia.it
[…] quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; […] nessuno degli arditi uomini di occidente ha portato quaggiù il suo senso del tempo che si muove, né la sua teocrazia statale, né la sua perenne attività che cresce su se stessa. Carlo Levi, ‘Cristo si è fermato a Eboli’, Einaudi, Torino 1981, pp. 3, 4.
Quell’altro mondo Eravamo sull’Ortigara nel giugno 2007, in occasione del novantesimo anniversario della battaglia; aiutato dall’evidenza dei luoghi, avevo appena finito di raccontare ai compagni che mi avevano seguito da Mori e da Brentonico delle migliaia di uomini che si erano scontrati per conquistare o difendere quel nulla sassoso, della condotta dei soldati e dei comandi, delle molte ragioni della sconfitta degli italiani ad onta della loro superiorità in uomini e mezzi. Alla fine, un bambino mi chiese: «Signore, lei che sa tante cose, può dirmi perché fecero la guerra?». Non risposi nulla, perché mi vennero alla mente solo risposte parziali: colpi di pistola che uccisero un erede al trono, fede cieca in ideologie ottocentesche, interessi economici nazionali in contrasto, ‘trappola malthusiana’ per un’Europa matura e ormai decadente, recenti tecnologie e immense risorse di cui ormai gli eserciti disponevano ma che le piazze e i generali ignoravano; tutto troppo complicato e cerebrale per poterne parlare in quel momento e in quel luogo. Poi, più volte ho ripensato a quella domanda, e oggi saprei cosa rispondere: quei lutti e quel disastro, la stessa tragica fine dell’Europa come potenza mondiale si sono compiuti perché chi comandava o si agitava nelle piaz-
ze negava il peso della propria responsabilità; o meglio la declinava legandosi a bandiere di parte e ad una confusa tradizione di valori ottocenteschi; ma non ammetteva neppure che ve ne potesse essere una verso i propri concittadini, a carico dei quali si sarebbero poi consumati i lutti e le sofferenze di quella decisione. Sarebbe fin troppo facile ricercare nelle odierne cronache italiane la prova dell’irriducibile persistenza di questo atteggiamento; e non solo nel comportamento delle forze politiche, ma anche in quello delle infinite corporazioni in cui è frammentato il panorama della classe dirigente nazionale, e purtroppo di gran parte dello stesso corpo del popolo 31
marisa.sestito@uniud.it
© Giovanna Durì
Marisa Sestito
Il piacere della simmetria: serenità e turbamento Tra i numeri, il due occupa una posizione privilegiata, in quanto unico numero primo pari, e in quanto divisore comune di tutti i numeri pari: è infatti il solo in grado di scindere l’unità in due parti identiche, producendo simmetria; la simmetria, a sua volta, infonde rassicurazione e quiete, al riparo dalle asperità e dagli spigoli dei rapporti asimmetrici. E, a ben vedere, la sostituzione del due all’uno, sia nel caso dell’unità che si spezza sia in quello dell’unità che si raddoppia, assolve talvolta a una funzione particolare: misurare le variazioni del gusto. Mi riferisco qui al mio specifico campo d’indagine, la letteratura inglese, dove il ricorso allo sdoppiamento da forma di controllo e argine delle passioni del Neoclassicismo secentesco si trasforma, muovendo verso la modernità, in strumento di esplorazione del profondo e perturbante perdita di orientamento.
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La vita è solo un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si dimena per un’ora sulla scena e poi cade nell’oblio: la storia raccontata da un idiota, piena di frastuono e di foga, e che non significa nulla. William Shakespeare, ‘Macbeth’, Rizzoli, Milano 1951, p. 78 (trad. it. di U. Dettore).
Prendiamo il secondo Seicento inglese, un’epoca – almeno inizialmente – distante anni luce dalla cultura elisabettiana e da Shakespeare. Brevemente, la storia. Morta la regina Elisabetta (1603), l’equilibrio da lei sapientemente mantenuto tra forze potenzialmente conflittuali – religiose, economiche, sociali – si spezza e già durante il regno del suo successore, Giacomo I Stuart, il Parlamento mostra segni sempre più forti di insofferenza nei confronti della corona: se per ora non viene contestato apertamente il re ma solo i suoi cattivi consiglieri, durante il regno di suo figlio Carlo I il contrasto sfocia nella Rivoluzione Puritana e, nel 1649, nella decapitazione del re – anticipando la ghigliottina di Luigi XVI di quasi un secolo e mezzo. Il regime repubblicano non sopravvive alla morte di Oliver Cromwell, il Lord protettore, e nel 1660 Carlo II ritorna dall’esilio francese. Tralasciando le conseguenze politiche del ventennio rivoluzionario, sul piano culturale l’effetto più devastante è rappresentato dalla chiusura dei teatri, per i puritani luoghi di sedizione e immoralità. Riaperti per volontà del re, la situazione che gli impresari si trovano a fronteggiare è sconfortante: attori professioni-
sti invecchiati e mancanza di nuove leve – un fatto tanto più grave visto che sono maschi giovani a ricoprire i ruoli femminili –; oltre agli interpreti, sono invecchiati i repertori, improponibili a un pubblico sempre più incline ad apprezzare la cultura francese e a considerare rozza la tradizione prerivoluzionaria. Non piace Il sogno di una notte di mezza estate e neppure Re Lear; Amleto viene amputato di tutte le scene ‘inutili’, e senza scrupoli viene alterato Romeo e Giulietta. Situazione difficile dunque, ma allo stesso tempo gravida di promesse: l’intervento del re, infatti, istituisce un sistema di duopolio in cui due teatri e due impresari – e si potrebbe riflettere sulla cifra della competizione – si contendono il favore del pubblico londinese, sperimentando, innovando; soprattutto, utilizzando al meglio il permesso accordato da Carlo II alle donne di recitare, per la prima volta nella storia d’Inghilterra. Una concessione destinata a modificare radicalmente la cultura teatrale, innanzitutto per la proliferazione delle ‘attrici’, donne belle e promiscue, piene di talento e solitamente analfabete che in più d’un caso passano dai trionfi in palcoscenico al letto del re – come Moll Davis o 37
Nella realtà, dove tutto avviene sempre e soltanto in modo naturale, la copia segue all’originale, l’immagine alla cosa, il pensiero all’oggetto; ma nel regno soprannaturale, capriccioso della teologia, l’originale segue alla copia, la cosa all’immagine. Ludwig Feuerbach, ‘L’essenza della religione’, Einaudi, Torino 1972, p. 35 (trad. it. di A.M. Solmi).
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Ogni proposito di vita solitaria si scontra col paradosso che, se cercata, la solitudine è inafferrabile; se ti afferra, è insopportabile. L’uomo è un solitario non solo. Il paradosso avvolge l’esteriorità del suo comportamento, ma si radica dentro la sua stessa essenza. Nasce per divisione, ma di per sé tende all’uno. Senza equivalenti nel creato, è un’entità fatalmente duale, maschile e femminile, corporeo e spirituale, io e tu.
© Ulderica Da Pozzo
Giovanni Pozzi, ‘Tacet’, Adelphi, Milano 2013, p. 11.
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La vecchiaia (è questo il nome che gli altri gli danno) può essere per noi il tempo più felice. È morto l’animale o quasi è morto. Restano l’uomo e l’anima. Vivo tra forme luminose e vaghe che ancora non son tenebra. Buenos Aires, che un tempo si lacerava in sobborghi verso la pianura incessante, è di nuovo la Recoleta, il Retiro, le confuse strade dell’Once e le precarie case vecchie che seguitiamo a chiamare il Sud. Nella mia vita sono sempre state troppe le cose; Democrito di Abdera si strappò gli occhi per pensare; il tempo è stato il mio Democrito. Questa penombra è lenta e non fa male; scorre per un mite pendio e somiglia all’eterno. Gli amici miei non hanno volto, le donne son quello che furono in anni lontani, i cantoni sono gli stessi e altri, non hanno lettere i fogli dei libri. Dovrebbe impaurirmi tutto questo e invece è una dolcezza, un ritornare. Delle generazioni di testi che ha la terra non ne avrò letti che alcuni, quelli che leggo ancora nel ricordo, che rileggo e trasformo. Dal Sud, dall’Est, dal Nord e dall’Ovest convergono le vie che mi han condotto al mio centro segreto. Vie che furono già echi e passi, donne, uomini, agonie e risorgere, giorni con notti, sogni e immagini del dormiveglia, ogni minimo istante dello ieri e degli ieri del mondo, la salda spada del danese e la luna del persiano, gli atti dei morti, l’amore condiviso, le parole, ed Emerson, la neve, e quanto ancora. Posso infine scordare. Giungo al centro, alla mia chiave, all’algebra, al mio specchio. Presto saprò chi sono. Jorge Luis Borges, ‘Elogio dell’ombra’, in ‘Jorge Luis Borges. Tutte le opere’, 2, Mondadori, Milano 1985, pp. 363, 365 (trad. it. di D. Porzio).
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