multiverso 12 margine

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margine

Il margine, di per sé, implica sempre l’esistenza di un centro. Ma tanto più quest’ultimo ha una sua connotazione certa e conosciuta, quanto più il margine è invece indefinito, vago, sfumato, fino a diventare altro se non alternativo margine ha sempre una sua esten sione, ma è di difficile collocazion il suo essere lontano dal centrospesso lo porta a sovrapporsi ad altro, confondendosi con periferia confine, limite, soglia, frontiera.Il margine, più che uno stato è una condizione, e se è un luogo è il luogo della resistenza, dell’ignoto della ricerca, del possibile e del cambiamento. Multiverso, nel suo dodicesimo numero, si propone d indagare questo concetto di margine attraverso una lettura multidisciplinare e multilinguaggio per coglierne significato e potenzialit

numero 12 - duemilatredici Università degli studi di Udine - Forum


Gli altri non sono per noi altro che paesaggio e, quasi sempre, il paesaggio invisibile di una strada nota.

© Ulderica Da Pozzo

Fernando Pessoa, ‘Il libro dell’inquietudine’, Feltrinelli, Milano 2004, p. 53 (trad. it. di M.J. de Lancastre e A. Tabucchi).


Franco Arminio

arminio17@gmail.com

Chiodi di pane, appunti sul confine Quelli che frequento non sono paesi di montagna, paesi d’altura. Le montagne sono un orlo lontano verso sud e verso ovest. Bisaccia è il paese dove vivo, Andretta è il paese dove faccio il maestro elementare. In mezzo c’è l’altopiano del Formicoso, che sembra una schiena piena d’aghi. È la terapia eolica, estrarre energia dal vento, estrarre denaro, tanto, e lasciarne assai poco a chi il vento qui da secoli lo prende in faccia. Oggi ad Andretta ero con il mio amico Fabio Nigro. Gli ho detto che la paesologia è una risposta a una domanda mai formulata e quindi mai ricevuta. Sono un pescatore di montagna. I laghi, i fiumi, le pozze della desolazione. Pesco seduto su una panchina, davanti a un bar, camminando per strada, nell’ufficio anagrafe, dentro un cimitero, in un vicolo, davanti a una villetta, sotto un albero, sotto un lampione. Ad Andretta pesco facce, le facce delle donne che qui sembrano più antiche che altrove, la carriera della vecchiaia portata avanti gloriosamente, senza trucchi, senza abbellimenti. Oggi non ho fotografato volti ma porte, il confine brutale tra le porte di alluminio anodizzato e quelle di legno. Andretta offre una serie di questi confini e anche nelle persone, a guardar bene, c’è il confine tra legno e alluminio. L’alluminio è il corpo pubblico, quello esposto. Il legno col lucchetto, con i buchi e con i tarli, è l’anima. Fare paesologia significa non rimanere con lo sguardo sulle porte. Trovato un confine, subito ne attraversi un altro. A Fabio parlavo del mio essere morto. Gli dicevo che il mio funerale è già passato, è stato ieri, un mese fa, un anno fa. Forse vale per tutti, tutti già morti, già dimenticati. Facebook mi fa pensare a un cimitero, ogni profilo è una lapide, c’è tutto, la foto, i lumini, i fiori, c’è quello che serve per celebrare il rito quotidiano della nostra scomparsa.


La parola non è parola se non vi è chi la pronunci; la parola è parola solo quando c’è chi la ascolta. Raimon Panikkar, ‘Lo spirito della parola’, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 19 (trad. it. di G. Jiso¯ Forzani e M. Carrara Pavan).

© Saul Steinberg, ‘Passaporto’, Mondadori Electa, Milano 2002.


Antonella Riem Natale

antonella.riem@uniud.it

Il lungo sorriso del suo sogno ha appeso per un filo d’oro un angelo la lucertola sull’antico sentiero e l’ultima stella caduta la bambina che al sole dorme si copre di neve mentre la sua esile mano tiene saldo l’orlo del mondo. (a Lara) Luigi Natale, ‘L’orlo del mondo’, in ‘L’orlo del mondo’, Giuliano Landolfi Editore, Borgomanero 2012, p. 12.

Voci e parole dal margine Alcuni studi ci dicono che ogni quattordici giorni scompare una lingua e che entro il 2050 circa 6.000 o 7.000 lingue non esisteranno più: popolazioni ‘native’, ‘minoranze’ della terra si sottomettono all’egemonia di qualche lingua globale (inglese, spagnolo, mandarino), abbandonando (spesso forzatamente o per necessità) la loro voce del cuore e il sentire profondo di una tradizione antica che sa come rappresentare il loro cosmo. In un tempo di trasmissioni e informazioni globali dei media che tutto asserviscono e omogeneizzano, le lingue dei luoghi lontani, ai margini del globo, non sono più protette da ‘confini’ geografici né culturali. Proprio come facevano i nostri emigrati italiani per essere meglio accetti nel luogo della migrazione (Australia, Canada, Argentina), anche i vecchi di questi luoghi incoraggiano i giovani a parlare la lingua della globalizzazione, che gli potrà dare un ‘futuro’. Ogni lingua, lo sappiamo, è un tesoro nascosto, una miniera di conoscenza e saggezza, non solo del popolo che la parla ma anche per noi stessi come esseri umani, come abitanti del pianeta. Perdendo questo patrimonio, nella caduta dell’importantissima varietà linguistica, perdiamo un pluriverso, che parla

anche di noi. La ‘traduzione’, che molto ci aiuta, è troppo spesso un tradimento, non è in grado di portare completamente il peso delle cose insito in una parola ascoltata da una voce che narra, un detto, un proverbio, una storia, un sogno, un canto – la traduzione non sa e non può traslare totalmente tutte le sfumature, anche affettive, immaginative, poetiche insite in una lingua. Cosa accade quando una lingua tace lo racconta in maniera esemplare lo scrittore australiano David Malouf nel suo racconto The Last Speaker of his Tongue (in Antipodes, 1985; per un’analisi approfondita del racconto, cfr. A. Riem, ‘The Only Speaker of His Tongue’. David Malouf and Endangered Languages and Id-Entities in Partnership Id-Entities, 2010), dove l’ultimo parlante della 27


Per la gran massa dei lavoratori flessibilità non significa altro se non contratti di breve durata; reddito incerto; impossibilità di costruirsi un solido percorso professionale, con tutti gli effetti negativi che ne conseguono: una vita sotto la sferza della precarietà. Il tratto che accomuna gran parte dei lavoratori flessibili è appunto il loro essere precari, predicato che – a rigor di dizionario – riassume due cose. Anzitutto l’essere in varia guisa, codesti lavori, e da diversi punti di vista, insicuri, temporanei, soggetti a revoca, senza garanzia di durata, fugaci. In secondo luogo, come dice bene l’etimo del termine ‘precario’, sono lavori che bisogna pregare per ottenere.

© Luca Laureati

Luciano Gallino, ‘La lotta di classe dopo la lotta di classe’, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 155.

La mia tecnica commerciale aveva anche un’altra caratteristica, che io chiamavo ‘lasciare un margine’. Per esempio: supponendo che i debiti di Herbert ammontassero a centoquarantasei sterline, quattro scellini e due pence, dicevo: «Lascia un margine e segna duecento». O, supponendo che i miei debiti ammontassero a quattro volte tanto, ‘lasciando un margine’ avrei segnato settecento. Avevo la più alta opinione della saggezza di questo margine, ma devo riconoscere, guardando indietro, che lo ritengo un espediente piuttosto costoso. Perché c’indebitavamo poi subito, fino a raggiungere quel margine, e a volte, spinti dal senso di libertà e di solvibilità che esso ci dava, riuscivamo a superarlo di molto andando a finire in un nuovo margine. Charles Dickens, ‘Grandi speranze’, Mondadori, Milano 2012, pp. 360-361 (trad. it. di C. Mazzola).


info@martazacchigna.it

Nota a margine

i bordi dell’Italia

Marta Zacchigna

Avevo venticinque anni quando sono partita per Milano. Non che mi dispiacesse vivere nel posto dove ero nata e cresciuta: l’elegante salottino triestino corrispondeva ormai a un luogo dell’anima e il mare era una sorta di terzo genitore con il quale ero abituata a conversare tutte le stagioni. Dopo l’Università però hai bisogno di chiudere la porta del salotto per uscire a consumare le scarpe sulla strada e di finirla di confrontarti con i genitori, anche quelli liquidi. Sì, c’è un periodo della vita in cui si ha l’urgenza di stare al centro anche se non si sa ancora dov’è. In quel momento per me, e per tanti altri, era la voglia di vivere in una grande città con il desiderio di incontro e di scoperta e con la missione di uno studio ‘qualificante’. Anche gli amori volevano stare al centro a quel tempo. Le passioni giovanili hanno orrore del margine. Si vuole scavare fino al nucleo terrestre, con il corpo e con il cuore. Per questo il fidanzato di allora mi seguì, senza battere ciglio, nella seducente capitale lombarda. A Milano ho studiato e a Milano ho cominciato a lavorare. Anche i miei compagni di corso avevano lasciato Napoli, Bari, Genova, Ancona, Taranto. Anche loro erano corsi al centro insieme a me. C’era la sensazione che solo lì accadessero le cose importanti, che solo lì si potesse davvero giocare la propria partita. E poi c’era il pensiero sugli altri, quelli che sapevamo fin dall’inizio, che sarebbero nati e invecchiati nello stesso fazzoletto di terra. A tratti, va detto, ci sentivamo figli di una stirpe privilegiata. Eravamo tutti giovanissimi allora, sì, abbastanza prossimi ai

margini dell’esistenza. Non avevamo idea di politica, di società, di economia. C’era però una grande spinta di esplorazione, di incoscienza, di esposizione al nuovo. Un sano slancio vitale verso le cose ignote del mondo. Ricordo bene. Tutto era ancora meravigliosamente intatto. Fu con la fine del nostro ‘periodo di formazione’, credo, che cominciammo a comprendere che il centro stava rimpicciolendo. La crisi cominciò a insinuarsi come un cancro silenzioso. I sinto35


© Saul Steinberg, in ‘Saul Steinberg’, a cura di M. Belpoliti e G. Ricuperati, Marcos y Marcos, Milano 2005, p. 87.


Angelo Vianello

angelo.vianello@uniud.it

Nello spazio infinito innumerevoli sfere lucenti, intorno a ciascuna delle quali ne ruotano forse una dozzina di altre più piccole e illuminate che, calde all’interno, sono ricoperte da una crosta indurita e fredda, sulla quale uno strato di muffa ha generato esseri viventi e conoscenti: ecco la verità empirica, il reale, il mondo. Arthur Schopenhauer, ‘Il mondo come volontà e rappresentazione’, Mondadori, Milano 1989, p. 737 (trad. it. di N. Palanga).

La vita: una storia di margini La vita è un fenomeno indubbiamente familiare e al tempo stesso sfuggente. Nonostante le numerose definizioni che ne sono state date, questo concetto appare ancora elusivo. Forse non riusciremo mai a descriverla completamente e, in tal caso, saremo ‘condannati’ a osservarla solo da una finestra socchiusa. Il tentativo più autorevole di fornire una risposta a tale interrogativo l’ha compiuto Erwin Schrödinger, uno dei fisici più illustri del Novecento, il quale nel suo famoso libro Che cos’è la vita introdusse in biologia i concetti legati alla meccanica quantistica e all’informazione, che egli ipotizzò potesse essere contenuta in un cristallo aperiodico, aprendo così la strada, qualche anno più tardi, alla scoperta dell’acido desossiribonucleico (DNA). Eppure la vita, anche se ciò potrà apparire sorprendente, può essere pure descritta e interpretata, nel suo dispiegarsi da forme più semplici ad altre più complesse, come un susseguirsi (emergere) di margini: questa è la sfida che ho raccolto e alla quale vorrei qui dare una risposta. Sono consapevole che il concetto di margine, pur apparentemente così semplice e immediato, può subire diverse ‘declinazioni’ ed essere letto anche come ‘confine’ o come ‘barriera’. Pertanto, questi tre termini dovrebbero essere utilizzati in funzione della coerenza che essi possono assumere nei diversi contesti. Ciò nonostante, per semplicità di esposizione, farò riferimento prevalentemente alla parola ‘margine’ che forse è la più inclusiva, ricorrendo alle altre solo nel tentativo di meglio contestualizzare aspetti specifici. Cercherò, inoltre, di perseguire questo obiettivo attraverso uno stile narrativo, poiché anche la scienza ha bisogno di storie, e la biosfera necessita di letterati non meno che di scienziati. Secondo Stuart Kauffman, grande studioso di teoria della complessità, la vita è, prima di tutto, un fenomeno che si pone al ‘margine’ (in inglese edge) tra ordine e caos. La vita può, in altri termini, dispiegarsi in un intervallo definito da due ‘muri’: da una parte vi è un muro di


Un designer […] sceglierebbe di fare del suo meglio per preservare il vuoto, perché crede che il nulla sia qualcosa di importante. L’opportunità persa a seguito dell’aumento dello spazio sgombro è compensata dalla maggiore attenzione per ciò che resta. Più spazio bianco significa che viene presentata meno informazione e, allo stesso tempo, che una maggior attenzione sarà dedicata a ciò che è stato reso meno disponibile. Quando le cose di cui disponiamo sono poche, le apprezziamo molto di più. John Maeda, ‘Le leggi della semplicità’, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. 80 (trad. it. di M. Faillo).


Francesco Messina

francescomessina@polystudio.net

Lo stereotipo dell’artista eccentrico e dello scienziato pazzo ha spesso svolto un ruolo di protezione nell’immaginario collettivo di fronte alla paura del nuovo e al sospetto che l’eccellenza e la diversità hanno sempre ingenerato nei più. I soggetti creativi, d’altra parte, sembrano talora volontariamente impersonare il ruolo degli eccentrici, come strategia di difesa rispetto alla fama di sovversivi, ma anche a dimostrazione di una volontà di sfida nei confronti dello status quo […]. Edoardo Boncinelli, ‘Come nascono le idee’, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 116-117.

Meglio avere un m-argine Mi sono alzato alle cinque; c’era già un po’ di luce. Una volta preparato il tè, mi sono rimesso a letto e con la finestra socchiusa ho cominciato a pensare alla faccenda dei margini. In capo a un’ora (ma devo aver anche ‘pisolato’ un pochino) mi ero già reso conto che ‘margine’ è la parola-tema più vasta dell’universo conosciuto; nemmeno confine (che credevo quasi simbolicamente la più estensibile) riesce a batterla. Da tutti i punti di vista, in tutte le direzioni. Praticamente non ha margini, o meglio li ha ma confinano con tutto e tutto risulta talmente elastico da creare una rete in continuo movimento. Margini di miglioramento, di sopportazione, di errore, di guarigione, di segretezza, di tolleranza, di commissione. Poi ci sono anche i margini accordati, quelli designati, quelli ristretti, eccetera eccetera. Al che, mi sono detto, «qui serve mettersi dei margini chiari e ben definiti per poter procedere verso qualcosa di sensato». Ho impiegato più o meno una settimana per definirli. Avevo un certo margine per la consegna. Risultato: mi sono imposto di fare tutto nel tempo di quattro ore al massimo e di non superare le due cartelle. La dichiarazione di Mark Twain sul rapporto tempo-pagine non depone a mio favore, ma pazienza. Allora quattro ore e non un minuto di più. «Casomai mi tengo un margine per trasgredire» ho detto tra me e me. Non è come procedere senza freni; avere un limite serve, e poi il piacere di trasgredire è infinitamente superiore al rispetto di una regola. Viva le regole se i margini che ne delimitano i confini sono pensati bene. 43


Ăˆ stato Antony Grafton in un curioso e geniale libro a spiegare cosa sia, per uno storico, e in generale, per un saggista, una nota a margine.

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Distruggete i manoscritti, ma conservate ciò che avete tracciato a margine, per noia, per disperazione e come in sogno. Osip Mandel’štam, ‘Il rumore del tempo. Fedosia. Il francobollo egiziano’, Einaudi, Torino 1970, p. 160 (trad. it. di G. Raspi).

Chi scriva un saggio storico riempirà il testo di note. Perché? Ma, per esempio, per distinguerlo, banalmente, da un romanzo. Un saggista svolge una professione diversa da un romanziere. Non inventa: deve esaminare tutte le fonti sul problema del quale discute e proporre soluzioni nuove. E inserendo di continuo le note, l’autore non fa altro che attestare il fatto che si tratta del lavoro di un professionista. «Come il sibilo del dentista, il sommesso brontolio della nota a piede pagina dello storico è in fondo rassicurante» scrive Grafton. «L’uggia che infligge, analogamente al dolore inflitto dal trapano, non è casuale ma intenzionale». Dunque è l’esercizio tecnico della professione di saggista scientifico che ‘impone’ le note. Ciò che esse rappresentano, allora, è molto di più che un semplice dettaglio. Le note, insomma, forniscono alla comunità dei pari grado e dei lettori comuni la certificazione di essere in presenza di un professionista e l’autorevolezza piena allo scrivente. Maggiori e più precise esse saranno, tanto più l’autore acquisirà prestigio. Ha tutto letto, tutto commentato, tutto confutato. Il testo persuade, le note dimostrano. L’architettura testuale prende una forma diversa: le note si impongono proprio perché esse sono, anche visivamente, il fondamento da cui erigere il testo. Lo storico, il saggista è ‘costretto’ a spiegare al lettore le procedure usate per produrre il testo che si vede nella parte centrale della pagina, ma senza quelle fondamenta cadrebbe in una categoria molto meno accattivante (agli occhi dello storico): quella del romanzo, del testo filosofico, del testo religioso, insomma non del testo scientifico. Sono un sottofondo nel quale si inserisce il nuovo testo, un dialogo con tutti gli altri testi passati, con quelli che verranno. Dal margine della pagina emana quel fitto discorrere tra libri, tra intellettuali, tra persone. Fino a che verrà un altro, il successivo e destinerà a quel lungo testo che si è appena scritto, lo spazio di una nota. Certificherà di averlo visto. Ma, ci potete giurare, ci sono professionisti disposti a tutto pur di avere la garanzia di essere, almeno in nota, per i secoli a venire. Ps. E che questo che avete letto non sia un testo scientifico ma un semplice articolo è, in fondo (e lo scrivo apposta, in fondo), provato dal fatto che esso non contiene nessuna nota. 53


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