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24 ANNI DI PRESENZA Le nostre iniziative Periodico di cultura, informazione e pensiero del Centro Studi Bruttium (Catanzaro) Registrato al Tribunale di Catanzaro n. 50 del 24/7/1996. Chiunque può contribuire alle spese. Manoscritti, foto ecc.. anche se non pubblicati non si restituiranno. Sono gratuite (salvo accordi diversamente pattuiti esclusivamente in forma scritta) tutte le collaborazioni e le prestazioni direttive e redazionali. Gli articoli possono essere ripresi citandone la fonte. La responsabilità delle affermazioni e delle opinioni contenute negli articoli è esclusivamente degli autori.
Anno XXIV Numero 1 - 2020 Direttore Responsabile Giuseppe Scianò Direttore editoriale Pasquale Natali Presidente Raoul Elia Progetto Grafico Centrostudibruttium.org info@centrostudibruttium.org Direzione, redazione e amministrazione CENTRO STUDI BRUTTIUM Iscr. Registro Regionale Volontariato n. 114 Iscr. Registro Regionale delle Ass. Culturali n. 7675 via Bellino 48/a, 88100 - Catanzaro tel. 339-4089806 - 347 8140141 www.centrostudibruttium.org info@centrostudibruttium.org C.F. 97022900795 Stampa: pubblicato sul sito associativo: www.centrostudibruttium.org DISCLAIMER: Le immagini riprodotte nella pubblicazione, se non di dominio pubblico, riportano l’indicazione del detentore dei diritti di copyright. In tutti i casi in cui non è stato possibile individuare il detentore dei diritti, si intende che il © è degli aventi diritto e che l’associazione è a disposizione degli stessi per la definizione degli stessi.
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EDITORIALE
Pasquale Natali
Un grande patrimonio culturale
Nel prossimo numero
Iniziamo quest’anno editoriale con rinnovato entusiasmo, avendo come prospettiva il recupero di quelle “firme” che, nella sua lunga esistenza, la Ciminiera ha ospitato. Infatti, con un po’ di fatica - i numeri telefonici ormai da tempo sono stati sostituiti da numeri cellulari sostituibili nell’arco di una giornata - siamo riusciti a ricontattare alcuni di coloro che scrivevano su queste pagine negli anni passati con l’invito a riprendere la collaborazione con la rivista. Il loro entusiasmo al nostro invito mi dà conforto nell’utilizzare questo spazio per invitare tutti coloro che, ad oggi, non siamo ancora riusciti a contattare, affinché ci contattino, con qualsiasi mezzo volessero usare; in seconda di copertina trovano indirizzo mail, telefoni e via della sede. Già da ora mi compiaccio anticiparvi un grazie ed un benvenuto da tutto il Bruttium. Come anticipato nell’ultima rivista del 2019, da questo numero apriamo le nostre pagine a tutti gli Artisti che operano e vivono sulla nostra terra. Il primo Artista che abbiamo il piacere di presentare è una grintosa e valente Pittrice: Anna Aprile. Il Presidente del Bruttium, Raoul Elia, la presenterà con una intervista e una nota considerazione-commento sulle sue opere e sul suo fare cultura. Segue una inedita Ode dal titolo “Ricordi Antichi” di un scomparso ArtistaPoeta di Filadelfia (CZ), il maestro Napoleone Natali. Questo scritto viene da noi pubblicato in esclusiva e per la prima volta. Completano la rivista due interessanti articoli sulla misteriosa Campana di matrice nazista e una delle tante leggende metropolitane che girano nel nostro Paese. Ci auguriamo di incontrare il vostro interesse e ci attendiamo segnalazioni da parte vostra di Artisti, da ogni campo del fare cultura, che ritenete degni di essere valorizzati. Il Bruttium incontra gli artisti
Calabresi Seconda puntata
Intervista all’Artista
Pino Lavecchia
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2020 Raoul Elia
Considerato che la prima Ciminiera è stata pubblicata nell’ormai lontano 1995, sono ben 25 anni di vita. Ci sono riviste più blasonate che non hanno retto allo scorrere del tempo, a volte a loro stessi. Invece la Ciminiera, fedele al suo motto, “ieri, oggi e domani”, prosegue e si rinnova. Si rinnova con uno sguardo all’antico, recuperando, nel corso dell’anno, molte delle firme che lo hanno caratterizzato nel corso della sua lunga vita editoriale. Ma anche al futuro, con nuove firme, nuove tematiche e la consapevolezza di avere ancora tanto da dire, soprattutto in questa contingenza. Chi scriverà cosa (dove, quando e perché) è ancora presto per dirlo. Ma già siamo sulla buona strada. D’altronde, questo numero della Ciminiera esce a solo un mese di distanza dal precedente. E’ un netto miglioramento, no? Vogliamo continuare su questa strada, cercando di rendere la rivista più aperta anche alle nuove tematiche proposte, per questo faccio mio l’invito del direttore editoriale, prof. Pasquale Natali, a chiunque voglia scrivere sulla nostra ammiraglia a farsi avanti. C’è posto per tutti e più siamo, meglio è. E’ un gran piacere fare ancora parte di questo gruppo, e lavorare per portare avanti questa splendida rivista. Spero lo sia per voi leggere queste sudate carte (ma credo di si, altrimenti non mi stareste leggendo). Promettiamo di fare del nostro meglio per renderle sempre più interessanti e piacevoli da leggere. A presto, Raoul Elia
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Il Bruttium incontra gli Artisti
Calabresi
Prima puntata
di Raoul Elia
Parlaci un po’ di te.. Mi chiamo Anna Rita Aprile (in arte Anna Aprile) e mi dedico alla pittura da circa 30 anni come autodidatta,avendo avuto un percorso di studi ad indirizzo scientifico. Come è la tua giornata di lavoro? Non dedico tutte le mie giornate a questa passione,anche perché, per prendere in mano un pennello, devo aspettare “il momento creativo”; diversamente resto davanti alla tela come se non avessi mai dipinto in vita mia. Ho bisogno di essere ispirata! Come ti sei avvicinata al disegno e alla pittura?Quali sono i tuoi riferimenti artistici e culturali? Potrei dire che da sempre ho sentito l’esigenza di esprimermi attraverso la pittura,sin da bambina. In un primo tempo sperimentando modi e tecniche senza far riferimento a nessuna fonte, completamente a digiuno di cultura artistica. In un secondo momento ho tentato di attingere informazioni dalla Storia dell’Arte più che altro per avere un giudizio critico verso la mia produzione artistica. Non essere “contaminata” da studi accademici mi
Intervista a: ANNA APRILE
Copertina: GRANDE FRATELLO (acrilico su tela -tec.mista-anno 2016) di Anna Aprile https://www.gigarte.com/ annaaprileartista/home
La scia rossa (Acrilico su tela - 2016)
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ha fatta sentire libera sia nell’espressione artistica che nelle tecniche. Quali strumenti di lavoro privilegi?Ci sono tecniche o formati che preferisci? Gli strumenti che prediligo? Pennelli, Spatole, Dita……. Amerei dipingere su grandi formati, ma il mio studio non mi consente di farlo., quindi mi accontento al massimo dell’80x100. Cosa ne pensi degli strumenti digitali? Li usi? Gli strumenti digitali? A volte li uso,ma vuoi mettere… sporcarsi le mani ed i vestiti di colore! A quali artisti guardi? Mi chiedi a quali Artisti guardo? Amo l’Espressionismo americano (Pollok, Rothko), Il Cubismo (Braque,Picasso) Il Surrealismo (Magritte) e, per certi versi, in alcune delle mie opere si possono individuare elementi comuni a queste correnti artistiche.
Cocktail-party (olio su tela tec.mista 2017)
Cinema e letteratura; in che rapporti sei con questi linguaggi? Cinema e Letteratura? Ho un buon rapporto con entrambi i linguaggi (Ho tuttavia un debole per il Cinema Neorealista). Cosa ne pensi della pittura contemporanea in Italia? La pittura Contemporanea in Italia? In una parola : “DISORIENTATA” Cosa significa per te essere pittore oggi? Essere pittori oggi? Dimentichiamo la figura romantica del pittore che fa la fame ma crea opere di grande valore espressivo! Oggi, il Pittore è definito tale se ha modo di promuoversi attraverso critici e galleristi compiacenti/prezzolati. Molto meno romantico ma redditizio! La genialità la ritrovo più nella StreetArt! Spero di essere riuscita a raccontarmi attraverso le tue domande. 6 la Ciminiera
Senza Titolo (acrilico-plexiglass su tela 2016)
L’arte dell’Inconscio di Anna Rita Aprile “We are such stuff as dreams are made of” William Shakespeare. L’arte di Anna Rita Aprile si sostanzia della materia dei sogni e dell’inconscio. Sulla sua tela si materializzano immagini che ricordano archetipi dell’inconscio, schemi istintuali e mnestici. I riferimenti all’Arte e alla sua tradizione sono ben assorbiti e reinterpretati in chiave personale, soprattutto quelli provenienti dall’area delle Avanguardie storiche, dall’Espressionismo di matrice statunitense e del Cubismo. Ad un occhio allenato non passano inosservati i riferimenti a Picasso, Kandiskij, Klee, Rotchko, Pollock, Severini, Magritte e altri ancora.
e da street art, comprese alcune soluzioni di Basquiat, mentre onirici richiami pervadono Le notti insonni, con la figura femminile di schiena nell’alveo centrale che sembra rievocare soluzioni inquietanti alla Magritte. Ma è soprattutto la ricerca di significati inconsci, onirici quasi, nello scandagliare la forma della pittura, la matrice della ricerca pittorica di Anna Rita Aprile, in questo perenne ed inesauribile dialogo con se stessa e il mondo, interiore ed esterno. E dal dialogo con il mondo e con la memoria, la poetica di Anna Rita Aprile si innesta una pittura che cerca un senso più profondo, dell’essere e della vita, per lo più nei silenzi interiori e nello loro specchio che è il mondo.
Così, ad esempio, in Cocktail-party, la elzione della scomposizione cubista si sostanzia, nella cornice blu picassiana, in una ripresa di elementi del volto e dell’ambiente che ritornano in altre opere: nell’opera chiamata Frida, la duplicazione del volto semicoperto della Kahlo riecheggia quello de La Danseuse Obsedante di Severini, mentre ne La scia rossa gli elementi pollockiani della disposizione astratta del colore si associano alla ricerca delle linee kandiskijane, evidenti anche in Gioco, una tela del 2016, qui esaltate dall’uso sapiente dell’acrilico sulla tela. Anche in Impressioni di viaggio lo schema pollockiano si materializza in una gabbia che cela/rivela il viso semi nascosto, ancora una volta, con riferimento all’esperienza acquisita, allo sguardo, soprattutto quello allenato del pittore, che coglie i particolari dei luoghi, delle cose che vede viaggiando e tarsmette allamemoria attraverso sensazioni. Sensazioni che ritornano, ancora una volta, nella parabola de Il Grande Fratello, opera a tecnica mista che ricorda soluzioni kandinskijane proiettate però sull’incubo televisivo dell’occhio, stilizzato in due cerchi concentrici, uno nero, l’altro parzialmente opaco. In Senza Titolo del 2016, invece, i ghirigori e i rettangoli sembrano richiamare soluzioni primitiviste
Impressioni di viaggio (olio-mista, 2012) la Ciminiera 7
Acrilico su tela 50 cm x 70 cm x 2 cm (2015)
Sospesi in un angolo di umana follia (acrilico, tela, 2016) 8 la Ciminiera
Frida (olio su tela, tela, 2013)
Le Artiste Eugenia Ciampa e Anna Aprile
Leggende metropolitane Di leggende urbane connesse ad animali misteriosi sono piene le cronache fin dal Medioevo. Il che non vuol dire che non vi sia spazio per creare mitologie più recenti sul tema degli animali misteriosi.
Le bufale: I mostri del ‘72
di Raoul Elia
Nella tarda primavera del 1972, le campagne del cuneese sembra siano state teatro di mostruose presenze. Strano a dirsi, a dare l’allarme non furono i periodici della Provincia Granda, i quali, invece, per una volta tanto, furono presi alla sprovvista, ma i quotidiani torinesi La Stampa e, soprattutto, la Gazzetta del Popolo. I mostri sono fra noi (perlomeno a Cuneo) Nell’edizione del 13 giugno della Gazzetta compare un interessante articolo su un’improbabile invasione. Nella zona della Stura, a sud di Fossano, dai primi di giugno circolano dicerie sulla presenza di “un grosso animale selvatico”, un vero e proprio “mostro” del quale si raccontano “particolari terrificanti”; i contadini di Sant’Albano Stura, di Castelletto Stura, Murazzo e Montanera alla sera non uscirebbero più di casa, lasciando le luci esterne accese e rinunciando ad irrigare i campi dopo il tramonto. Agli inizi la storia era stata ritenuta uno scherzo, ma, visto che negli ultimi due giorni la paura era cresciuta,
delle voci si erano interessati i Carabinieri della Tenenza di Fossano, che la sera di domenica 11 giugno, insieme a guardiacaccia e guardiapesca avevano compiuto una prima battuta, che si era estesa dalla periferia di Fossano sino al limite con il territorio del comune di Cuneo. Dai sentieri che dai campi scendevano alla boscaglia che delimitava il greto della Stura, qualcuno aveva già rinvenuto delle orme. Sembravano - raccontava la Gazzetta - appartenere a un orso. Anzi, visto che ce n’erano di grandi e di piccole, gli orsi potevano essere due di dimensioni diverse. Sulle cortecce degli alberi erano state notate parecchie unghiate sino a 2,5 metri da terra; alcuni tronchi erano completamente scorticati. Era stato anche rinvenuto un cane dilaniato. Inutile dire che la battuta di caccia dei carabinieri, pur se prontamente approntata, si era ovviamente risolta in un buco nell’acqua. Lo stesso 13 giugno, però, Stampa Sera affermava che “la ‘misteriosa belva’ seminava il terrore, attaccava quasi ogni notte i bovini della zona, dilaniava cani da guardia… C’erano già state battute da parte di contadini e cacciatori, e ora addirittura si parlava del prossimo impiego di un elicottero dei Carabinieri”. Come si può notare, il clima, fra l’edizione mattutina e quella serale, è decisamente la Ciminiera 9
peggiorato, sterzando in direzione di una psicosi collettiva. Ma la storia aveva un antefatto veramente horror: il 7 giugno, alle 4 di mattina, una famiglia di allevatori di Ceriolo di Sant’Albano Stura era stata svegliata dai latrati del loro cane da pastore, Felin. Uno di loro, afferrato un fucile, si era affacciato alla finestra della Cascina Brondero e aveva visto, a trenta metri dalla recinzione, il cane “che lottava disperatamente con un altro animale, una bestia molto più grande di lui”. Nessuna descrizione dettagliata: un secondo componente della famiglia aveva scorto solo un’ombra, e poi aveva ritrovato il corpo esanime di Felin, ucciso con un morso alla gola, mentre il corpo era straziato da unghiate. Si parlava poi di altri avvistamenti, ma senza dettagli. Forse - di qualsiasi cosa si trattasse - era una bestia fuggita da un circo, o da uno zoo. Un orso, forse, ma chi lo aveva visto diceva che somiglia a un cane, o almeno cosìriferiva Luigi Botta sulla Gazzetta del Popolo del 15 giugno, una bestia pesante che lasciava impronte “enormi, quasi della grandezza di una mano aperta” anche sulla terra dura. Numerose pure le unghiateattribuite un po’ dappertutto all’essere, da Ceriolo di Sant’Albano Stura sino a Consovero, Morozzo, Murazzo, Castelletto Stura e Montanera, con segni visibili anche sull’asfalto e sui tronchi degli alberi… Insomma un vero e proprio delirio stava montando, 10 la Ciminiera
acuito dal sensazionalismo dei giornali, tanto più che le informazioni, poche, e le testimonianze, sfuggenti ed equivoche, attizzavano il fuoco invece di spegnere l’incendio. Ad esempio, si diceva che le orme lasciate presentassero quattro unghie, e non cinque, come quelle del plantigrado. Dunque l’animale poteva essere “di una specie estinta da tempo”. E così ci siamo: quando entra in moto la criptologia, il delirio è al suo culmine e siamo in piena area mystero. E infatti la reazione della popolazione e delle autorità è delirante: i contadini della zona spiegano a Botta, il cronista della Gazzetta del Popolo, che da allora in poi sarebbero andati ad irrigare i campi, la sera, in gruppo e armati di fucili. Le autorità reagirono sabato 17 con una battuta in stile ancora più grande a cui presero parte, in un terreno segnato da piogge abbondanti lungo il corso della Stura, un centinaio fra Carabinieri della Tenenza di Fossano, cacciatori esperti e
guardiacaccia, mentre da Cuneo, arrivarono anche i domatori del Circo Orfei con reti adatte ai grandi animali. Ovviamente, un nulla di fatto. Dopo un paio di giorni, il 20 giugno, le acque sembrano placarsi. La Gazzetta del Popolo scrive che la tensione nel Fossanese è calata. La grande battuta di sabato non ha portato a nulla e il Circo Orfei si è spostato ad Alba, da dove non potrà più mandare i suoi uomini e i suoi mezzi; al contempo, però, le “uscite” degli animali misteriosi (perché ormai se ne parla al plurale) paiono essersi diradate, forse a causa dell’intervento delle Forze dell’Ordine. Un’immagine scattata dal fotografo Badino mostra il calco di un’impronta del “mostro” - forse un lupo, si dice di nuovo. Per la didascalia che l’accompagna “le quattro grosse protuberanze corrispondono al palmo e alle falangi distali”. Ma
il
mystero,
lungi
Un lupo (a sin.) e uno sciacallo dorato impagliati presso il Museo zoologico dell’Istituto di zoologia dell’Accademia delle scienze russa. Foto di Mariomassone - pubblico dominio, Wikimedia Commons.
dall’essere risolto, rimbalza e si sposta un po’ più in là. Il 24 giugno 1972 la Gazzetta del Popolo annuncia una seconda vittima dei “due mostri”:Riki, il cane più fidato di una cascina di Costa Trucchi, a cinque chilometri da Marene; il cane era scomparso, pare, tre notti prima. Ma il 22 un secondo cane viene trovato quasi subito coperto di sangue, nascosto, con un orecchio tranciato di netto, mentreil corpo straziato di Riki viene ritrovato ad un chilometro di distanza, senza esser stato divorato. “i mostri si limitano a succhiare il sangue”, commenta il quotidiano torinese. E aggiunge: “Tutto intorno il raccolto era rovinato. Sembrava ci fossero tracce di danza, di una sorta di rito”. La sera dopo, il contadino sente altri rumori inconsueti. I cani abbaiano, prende la doppietta, esce, intravede “un’ombra di notevoli dimensioni” e spara. Al mattino dopo trova delle impronte ed evidenti tracce di sangue. Ora uno dei “mostri” dev’essere ferito. Forse sono due lupi che non temono l’uomo, ma è strano che si limitino ad uccidere senza sfamarsi, scrive la Gazzetta del Popolo per aumentare il mistero. Il pubblico abbocca e il panico riesplode. I due mostri sono giunti a Savigliano, un centro urbano più grosso, scrive il 25 ancora la Gazzetta raccontando l’ennesima “impresa” delle due creature. Dopo gli allevatori e i contadini, entra in scena un’altra categoria lavorativa, quella dei macellai.
Le impronte del famigerato mostro della Stura
Mentre due macellai, residenti a Savigliano, rientrano in auto da una cena, si vedono attraversare la strada da “uno strano animale” che li incrocia sulla strada della frazione Sanità di Savigliano, presso il bivio per Costigliole Saluzzo. Il guidatore prosegue la marcia, ma poi pensa alle bestie del Fossanese, torna indietro e rivede la bestia oltre il torrente Maira, verso la nuova piscina comunale, in via Becco d’Ania. La tallona, la costringe a fermarsi in un campo, l’abbaglia con i fari. Quella è ferma, a soli quattro metri dalla vettura. Si tratta di animale robusto, lungo circa un metro e mezzo, con la testa piuttosto grossa, muso affusolato, denti lunghi e pronunciati, pelo abbastanza lungo e rossiccio. L’animale riesce a fuggire. I due chiamano altri amici, insieme trovano le tracce di un esemplare. Sembrano quelle di un lupo, ma, ovviamente, la cosa non li convince del tutto. Una battuta di cacciatori non dà esito, malgrado un capretto sorvegliato da alcuni
di loro sia posto come esca nella zona. La sera del 28 giugno racconta la Gazzetta del Popolo del giorno dopo - un terzo abitante di Savigliano, un uomo alla guida dell’auto insieme a due amici sulla provinciale per Marene, si trova davanti “uno dei due mostri” e lo descrive in modo simile a quello descritto dai macellai pochi giorni prima. Anche in questo caso i testimoni lo seguono per un po’, ma questa volta la belva si allontana nei campi. I tre corrono alla locale stazione dei Carabinieri e raccontano tutto, con dovizia di particolari; il pelo rossiccio stavolta fa pensare non più a un lupo, ma a un puma. Poi il 29 giugno 1972 le notizie sugli avvistamenti dei “mostri” del Cuneese cessano. Le due fasi del Fossanese e del Marenese / Saviglianesesi erano succedute rapidamente ed altrettanto rapidamente si erano dissolte nel calore dell’estate. Il 5 luglio il settimanale la Ciminiera 11
Gazzetta d’Alba annuncia senza particolare enfasi che “il mostro” è stato catturato e ucciso. Domenica 2 luglio, a Verduno, nelle Langhe, a quanto racconta l’articolista, un lupo maschio di quattro anni dal pelo grigio-rossiccio era stato ucciso mentre “assaliva” una cascina. La breve cronaca ha toni terribili, e indica quanto la sensibilità verso le altre specie animali sia da allora cambiata. Due uomini non meglio identificati avevano affrontato l’animale “con coraggio”, anche se “il coyote” aveva cercato di avventarglisi contro. Abbagliato dai fari di un trattore che illuminavano il porticato, dopo una “lotta dura”, l’animale aveva avuto la peggio “colpito dai badili e dalle zappe dei contadini”. Il mattino dopo il lupo - se di lupo davvero si trattava - fu portato in giro per il paese a mo’ di trofeo, come si usa ancora oggi fare dopo la caccia al cinghiale. Ordine ristabilito e creatura infernale eliminata. Ma non erano due? E infatti, il 6 luglio il settimanale L’Unione Monregalese di Mondovì racconta (senza far alcun accenno al “mostro di Verduno”, ovviamente) che la bestia, definita “il mostro della Stura”, alla fine era stata scoperta da un contadino vicino ad una cascina di Marene, circondata e allegramente uccisa a fucilate. Un non meglio precisato “esperto giunto da Torino” aveva detto che si trattava di uno sciacallo dorato, animale 12 la Ciminiera
decisamente esotico per l’Italia, allora più di oggi (pare che attualmente ve ne siano alcuni esemplari nel Friuli).
L’analisi del caso La storia delle apparizioni di animali misteriosi e selvaggi, distruttori di coltivazioni e affamati aggressori di polli, galline e cani è un must, soprattutto estivo. Sarà la calura, l’assenza di notizie di rilievo, sarà la presenza di lettori con tempo libero da riempire con brividi arcani, ma un’estate senza avvistamenti non è una vera estate. La narrazione segue canoni consueti. La storia inizia con l’avvistamento di un animale che diviene poi sempre più misterioso man mano che i testimoni e le tracce aumentano e si contraddicono, la pericolosità che è, innanzitutto, relegata alle aree in cui lo spazio antropizzato confina con quello non antropizzato, per poi trasferirsi, in un crescendo emotivo, nelle aree meno periferiche e (ma non sempre) nelle aree urbanizzate, fino alla definitiva catarsi con uccisione del mostro e addirittura processione trionfale. L’elemento dell’intervento delle autorità è una costante nella presenza “infestatoria” di aree specifiche da parte di animali misteriosi, “mostri”, fantasmi e altre entità soprannaturali: l’azione in quanto tale di norma sfocia in un nulla di fatto, ma in qualche raro caso razionalizza le
paure collettive. È, comunque, qualcosa di fortemente desiderato: conferma che è meglio darsi da fare che restare inerti, e che il panorama geografico e culturale che considerato “nostro”, cioè dell’uomo, è assoggettabile a interpretazioni rassicuranti. Stampa sera a questo quadro aggiunge, ovviamente senza dirlo in modo esplicito, l’idea che potssa essere un qualche animale esotico, non consueto per la piana piemontese, attivando il gusto per l’esotico ed intrecciandolo con quello per il misterioso, già ampliamente sviluppato. L’articolo del 7 chiude il cerchio. Con la lotta impari, la vittoria sudata e i toni trionfalistici della processione per le vie del comune del “mostro” morto, giustizia era fatta, il controllo del territorio minacciato dai mostri ristabilito. Fossanese, Marenese ed Albese potevano tornare tranquilli. Le preoccupazioni delle categorie sociali più interessate agli avvistamenti, alle caccie e agli inseguimenti (allevatori, contadini, macellai) potevano placarsi, e l’ondata di voci, ipotesi, avvistamenti, rinvenimenti di tracce poteva concludersi. In tutto questo, il ruolo dei giornali (e dei media in generale) è fondamentale per la diffusione della paranoia, che acquisisce, come si è visto in questi articoli del lontano 1972 ritmi frenetici grazie al tamtam giornalistico.
LETTURE CONSIGLIATE Antonella Aletta Fondazione Città solidale onlus (cur.)-“Nel cuore della città. Ricerca/azione nel centro storico di Catanzaro” edizioni Città Calabria collana Cittacalabriaedizioni, 2019
Nel cuore della città. Ricerca/ azione nel centro storico di Catanzaro (Città Calabria, 2019) è un libro molto interessante che rappresenta più punti di vista per capire come si vive nel centro storico della città di Catanzaro che, prima della recente massiccia edificazione di vaste aree periferiche della città, rappresentava il principale, se non l’unico, luogo di riferimento per uffici, servizi ed attività commerciali. Lo spostamento di università ed uffici in un’area prima non edificata, ha generato una modifica sostanziale nell’uso della città antica e nei rapporti tra le parti del centro storico. Il libro cerca di rispondere alle questioni che riguardano la città con sei capitoli dedicati: allo spopolamento, all’immigrazione, alla povertà, alla criminalità, alle criticità e opportunità, alla valorizzazione del centro storico. Nelle conclusioni sono sintetizzati i risultati complessivi attraverso un metodo di ricerca qualitativa che ha utilizzato: osservazioni partecipate, interviste strutturate, interviste semi-strutturate con l’importante supporto scientifico del professore Charlie Barnao, docente di Sociologia all’Università Magna Græcia di Catanzaro e componente del Comitato Scientifico della Fondazione Città Solidale, di cui fa parte anche la professoressa Aletta.
Il tema della città capoluogo della regione Calabria è analizzato nel suo cuore con un’attività di rilevazione in forma di ricerca/azione con un’esplorazione sociologica attenta e una restituzione di dati con tabelle riassuntive chiare ed esaustive per le quali hanno collaborato sei giovani in servizio civile volontario nell’ambito del progetto SolidAli, gestito dalla Fondazione Città Solidale della quale l’autrice è una dei volontari, nonché fondatrice. Antonella Aletta nota: “A Catanzaro bisogna volerci andare, non è una città di passaggio. Eppure, in un mondo in cui il globale e il locale si intrecciano e si intersecano, anche una città piccola e periferica può aiutare a capire le dinamiche di sviluppo della nostra società”.
regionale ha impoverito il Centro e la città in generale” e, continua, “Certo che chi nell’ultimo trentennio ha avuto posizioni di potere, sia imprenditoriale che politico-economico, dovrebbe domandarsi fino a che punto il degrado percepito dalla gente del Centro Storico sia stato assecondato e governato in peius. I responsabili di ieri e di oggi non possono non chiedersi quando sia iniziato questo peggioramento, che dai cittadini viene percepito come iniziato da una trentina d’anni, con alcuni esiti terribili; crisi economiche e disoccupazione”.
Catanzaro rappresenta quindi un caso emblematico del disastro urbanistico italiano e di come ad arte siano stati alimentati sogni, illusioni, vere e proprie chimere che con grandi progetti immaginavano trent’anni fa una “grande Catanzaro”,rivelandosi inveceinefficaci. Nel libro l’indagine, svolta da gennaio a marzo del 2017, riguarda le risposte di 177 intervistati e, come evidenzianella presentazioneMonsignor Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace, “la creazione della cittadella la Ciminiera 13
Pietro Criaco Via dall’Apromonte(Rubbettino, 2017), è il libro d’esordio di Pietro Criaco, che ha ispirato il film di Mimmo Calopresti che è andato in sala dal 21 novembre “Aspromonte. La terra degli ultimi”.
La voce narrante nel romanzo è Andrea, che vive ad Africo, un villaggio inerpicato sulle montagne calabresi, nelle ultime propaggini della catena appenninica che assumono forme superbe e inaccessibili con l’Aspromonte. Africo è un luogoche offre ai bambini tante occasioni per stare assieme, per giocare immersi nella natura e Andrea, così come suo padre, è fortemente attaccato alla sua terra. Ma i disagi, negli anni ’50, rendono il territorio inaccessibile e privo dei servizi essenziali: non c’è la corrente elettrica, è inesistente una strada di collegamento con altri luoghi e, soprattutto, con il comune di Bocca Marina, da cui dipende la frazione di Africo. Tutto ciò rende complicata la vita, manca il medico condotto, le forze dell’ordine sono lontane, il prete non vive stabilmente nella parrocchia e anche il maestro ha difficoltà a mantenere una presenza continua. 14 la Ciminiera
La popolazione di Africo si sente sfruttata e abbandonata, consapevole di assolvere ai propri doveri con le tasse, abbandonata e privata di tutti i diritti, anche di quelli essenziali che riguardano la salute e l’istruzione. Per questo la protesta esplode in maniera vigorosa quando una donna, non curata durante le ultime fasi della sua gestazione, muore e partorisce durante un avventuroso tentativo di portarla dal medico a Bocca Marina. La comunità di Africo ha trovato la sua compattezza e, dopo aver fatto di tutto per salvare la partoriente, si reca in massa dal sindaco per protestare.
La forza del gruppo riesce, in qualche modo, ad ottenere l’impegno per il presidio medico, ma osserva Andrea: “Eravamo tutti consapevoli che il sindaco non avrebbe mantenuto le promesse ma la nostra azione ci aveva reso più convinti che qualcosa si doveva fare, questo era chiaro a tutti”. E la cosa da fare viene individuata nella realizzazione di una strada che gli abitanti di Africo iniziano con entusiasmo e passione a costruire da sé. La decisione, però, è fortemente
contrastata dal sindaco e da Don Totò, un malavitoso che vive nelle montagne dell’Aspromonte. Ci sono pagine del romanzo Via dall’Aspromonte bellissime nelle quali si racconta l’entusiasmo della gente nel progettare e costruire la strada, ma le vicende si complicano e prendono una piega che modifica il corso delle cose e Andrea cresce e matura anche nei sentimenti che prova nei confronti di suo padre e nel giudizio sulle persone, imparando a sue spese a comprendere la complessità del suo ambiente.
Il libro documenta e racconta in modo poetico un mondo arcaico nel quale è facile essere trasportati e coinvolti, guardando con occhi diversi gli stereotipi che riguardano paesi isolati e marginali, ricchi di valori di solidarietà e di condivisione. Il libro ha ispirato il film di Mimmo Calopresti “Aspromonte, la terra degli ultimi” che, al pari del romanzo, è capace di appassionare lo spettatore.
Die Glocke (tradotto di solito in italiano come “la Campana”) è il nome dato al presunto risultato finale di una serie di altrettanto presunti esperimenti scientifici segreti portati avanti dalle autorità della Germania nazista durante la Seconda Guerra mondiale per lo sviluppo di un’arma a tecnologia avanzata. Perché presunto? Perché nessuno, o quasi, ne sa niente. L’unica fonte su questa arma, infatti, è costituita da un libro pubblicato dal sedicente giornalista e altrettanto sedicente storico militare polacco Igor Witkowski.
La misteriosa Campana nazista
La campana nazista
Secondo questa teoria, alcuni scienziati del Terzo Reich avrebbero lavorato per conto delle SS nei laboratori del complesso Riese, nelle miniere Wenceslaus, a poca distanza dal confine ceco, alla realizzazione di un velivolo dalla forma e dalle caratteristiche innovative. Il progetto parte sotto il comando del misterioso generale delle SS Hans Kammler, un tecnico scientifico coinvolto anche nello sviluppo delle V-2.
di Raoul Elia
Dato che gli esperimenti di prova dell’arma si sarebbero rivelati un totale fallimento, tanto che, afferma Witkowski, morirono diversi lavoratori, alcuni piloti e diversi animali cavia, qualche teorico del complotto si è anche convinto che tra il materiale utilizzato potesse esserci del mercurio rosso.
L’oggetto non identificato (ma non chiamatelo UFO, per carità) era composto da una legametallica sconosciuta di colore bluastro e alimentati a da un liquido simile almercuriorosso, cui venivano aggiunti torio e periossido di berillio. Aveva un diametro alla base di circa quattro metri ed era alta cinque. Era interamente ricoperta da piastrelle in ceramica e sul bordo inferiore portava strane iscrizioni. La piattaforma per la sperimentazione sarebbe stata ricavata all’interno di una struttura circolare di archi e colonne dal diametrodi circa 30metri che, in origine, era probabilmente la base di una torre di raffreddamento. Secondo l’intervista di Cook a Witkowski, il dispositivo nazista conteneva due cilindri controrotanti che sarebbero stati “riempiti con una sostanza simile al mercurio, di colore violetto”, nome in codice “Xerum 525”, “conservato in un thermos alto e sottile, alto un metro e incapsulato in piombo”. L’oggetto dovrebbe essere un veicolo non convenzionale
Secondo alcune teorie, lo scopo di questi esperimenti era ottenere un “propulsore senza propellente” ossia un “motore antigravitazionale”; altri autori ritengono invece che il dispositivo fosse uno strumento per osservare il passato, costituito al suo interno da uno specchio al quarzo concavo. la Ciminiera 15
o una macchina del tempo, o magari tutte e due. Secondo Witkowski, la sperimentazione della Campana, con la morte o la scomparsa di molti presenti, fece dedurre a molti che il motore antigravitazionale costruito creasse in realtà wormholes, per cui permettesse di vedere nel passato e quanto altro la SF d’annata ha previsto/inventato. Secondo il geofisico AxelStoll, autore di Hochtechnologieim Dritten Reich, la campana sarebbe stata in grado di sfruttare la curvatura spazio temporale, in altre parole avrebbe potuto creare un tunnel del tempo. I cospirazionisti mettono in collegamento la Campana con The Henge, una miniera di carbone abbandonata presso la località di Ludwikowic dove, secondo le teorie più avanzate, i nazisti stavano costruendo una vera e propria macchina del tempo. Comunque sia, il supervisore del progetto Die Glocke sarebbe stato Hans Kammler, generale delle SS cui Hitler in persona aveva delegato il controllo di sperimentazioni e costruzioni delle wunderwaffe. Poco prima della capitolazione della Germania, il servizio segreto americano gli offrì l’immunità se si fosse consegnato. Lo schema fu quello utilizzato per Werner Von Braun, lo scienziato nazista, inventore delle V2, che diventò cittadino statunitense e direttore del progetto spaziale della Nasa che portò gli astronauti sulla Luna. Kammler prima accettò, poi cambiò idea. Si sarebbe infine suicidato con una fialetta di cianuro e il suo cadavere non fumai ritrovato. Secondo Igor Witkowski, il complesso sotterraneo fu fatto in gran parte saltare in aria, probabilmente su ordine di Himmler, per evitare che 16 la Ciminiera
cadesse in mano ai russi. Il Reichsführer ordinò anche che fossero eliminati tutti i testimoni. Gli operatori furono ammassati nelle gallerie che poi vennero fatte saltare e furono uccisi anche gli scienziati e i tecnici tedeschi non appartenenti al cosiddetto Ordine Nero. Witkowski, grazie ad approfondite ricerche e alle testimonianze degli abitanti del luogo, sarebbe anche riuscito a trovare un ingresso ancora agibile e si è addentrato, sino dove è stato possibile, nelle gallerie, trovando dei bunker interni ancora intatti con postazioni di mitragliatrici che controllavano gli ingressi alle gallerie che conducevano nelle viscere della montagna.
Come si propaga una leggenda La tesi dell’esistenza della Campana nazista, sebbene senza alcuno straccio di prova a favore,è stata ripresa da altri autori. Nel 2000, infatti, il libro Prawda O Wu n d e r wa f f e p u b b l i c a t o dal giornalista polacco Igor Witkowskiviene ristampato per la versione tedesca
come Die Wahrheitüber die Wunderwaffe, parla di una ipotetica arma segreta e di natura sconosciuta sviluppata dai nazisti. Il titolo non ha avuto molto risalto nel mondo occidentale, fino a quando il giornalista Nick Cook non torna sull’argomento nel libro The Hunt for Zero Point. Nel 2003 il libro di Witkowski viene ripubblicato anche in lingua inglese con il titolo The Truthabout the Wunderwaffe. L’argomento ricompare poi nell’opera del geofisico AxelStoll, autore di HochtechnologieimDritten Reich (alta tecnologia nel Terzo Reich).. Infine, Die Glocke, insieme a tutte le fanta-armi della mitologia nazista, ricompare in Hitler Segreto, l’ultimo saggio di Enzo Caniatti, in cui vengono analizzate le cosiddette “armi della vendetta” che avrebbero dovuto far risorgere il Terzo Reich. Come succede in questi casi, ogni autore ha aggiunto qualche elemento. Secondo l’autore statunitense Joseph P. Farrell, ad esempio, ben 60 lavoratori morirono alla costruzione dell’arma e il processo contro Jakob Sporrenberg, accusato dell’uccisione di suoi stessi connazionali in terra polacca, sarebbe da ricollegarsi ai fatti
dell’arma. Nick Cook, in Quest for Zero Point (Alla ricerca del punto zero), cita invece la dichiarazione rilasciata da un presunto alto ufficiale SS agli inquirenti di un tribunale speciale polacco per i crimini di guerra e solo recentemente desecretata.
Cosa ne è stato della Campana nazista?
Alcuni sostenitori della teoria degli Ufo nazisti ritengono che la Campana tedesca sia collegata alla caduta di un Ufo avvenuta a Kecksburg, in Pennsylvania, il 9 dicembre 1965. L’incidente di Kecksburg è probabilmente l’incidente Ufo più famoso dopo quello di Roswell. Molti testimoni oculari hanno visto una striscia
infuocata in cielo e subito dopo hanno sentito uno schianto. I soccorritori civili accorsi per l’incidente prima di esercito, Agenzia di Sicurezza Nazionale, Dipartimento della Difesa e Nasa pare abbiano visto un oggetto a forma di ghianda sepolto a metà nel punto in cui era caduto nel bosco. Altri residenti sostengono di aver visto un oggetto color bronzo-oro, dalla forma di una ghianda, grande abbastanza da contenere un passeggero con iscrizioni simili ai geroglifici. L’oggetto sembrava essere un unico pezzo di metallo senza rivetti o giunture.
5 aprile 2009, quando sono stati visti quattro oggetti a forma di campana in Maryland, e, più di recente, il 15 gennaio 2013. Il già citato Witkowski, comunque, interrogato sulla presunta attuale locazione della fantasmatica campana, ha ipotizzato che, al termine della guerra, quando molti reduci nazionalsocialisti fuggirono per i paesi sudamericani sotto copertura, l’arma possa essere finita nelle mani di uno dei tanti governi latinoamericani filonazisti dell’epoca. Perché non l’abbiano mai usata rimane il mistero senza soluzione più grosso.
I testimoni sarebbero stati allontanati poi dal personale militare. La Nasa, però, nel 2005, ha rivelato che si trattava di un satellite sovietico abbattuto. Tuttavia, avvistamenti negli Stati Uniti di Ufo a forma di campana si sono verificati anche di recente, ad esempio il
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E’ assodato che, con l’avanzare degli anni, i ricordi dell’infanzia diventano prepotenti e più abbiamo vissuto intensamente, più il passato diventa insopportabile se non si estrinseca con qualche azione che lo riporti attuale consentendo di rivivere le sensazioni passate. C’è chi ci scrive un romanzo, chi ne fa un film, chi lo musica, chi lo trasforma in lirica ecc. Ognuno trova il modo suo congeniale per esternarlo a sé e ad altri (specialmente a familiari). Anche io, giunto ormai alla “tenera” età di 72 anni, ho questo ritorno di fiamma ma la pigrizia, che ormai mi fa da compagna, non mi aiuta ad esternare, ancora, ciò che rivivo nei momenti di solitudine o di dormiveglia. Allora ho riversato il mio interesse sulla famiglia e mio padre è balzato prepotentemente in primo piano. Mio padre era una figura interessante che, sia in famiglia che nella società, incuteva rispetto per la cultura e le argomentazioni acute che sapeva propinare ai suoi interlocutori. Artista e studioso a 360 gradi, le vicissitudini familiari (10 figli da accudire e un solo stipendio come entrata nella Roma non certo ospitale degli anni ’60) lo hanno penalizzato, impedendogli di sviluppare appieno i suoi interessi culturali. Musicista, pittore, scrittore, insegnante e maestro nelle scuole pubbliche, eccellente pianista e altrettanto bravo accompagnatore di cantanti lirici (tra cui la sua primogenita, che aveva avviato come Soprano), ciabattino (per la famiglia) all’occorrenza e buon oratore su ogni argomento. Con l’aiuto di fratelli e sorelle, ho ricostruito e verificato i miei ricordi e sono piacevolmente venuto in possesso di un manoscritto che non solo mi ha emozionato nel leggerlo ma mi ha anche colpito, perché rivedevo in questo scritto lo stesso mio sentimento, la volontà, meglio il desiderio di ritrovare momenti passati che hanno segnato la mia gioventù e che ora saltellano nei miei pensieri ogni qualvolta mi estraneo dalla realtà. Spero che anche voi, nel leggerlo, non pensiate l’autore come un estraneo, ma lo sentiate come una espressione dello stesso vostro desiderio di esternare i vostri più significativi ricordi fanciulleschi e confrontarvi con la quotidianità di un giovane nei primi anni del ‘900 in un paesino della Calabria chiamato Filadelfia. PN
Ricordi antichi Napoleone Natali Son nella stanza dove mamma mia, quieta, senza dolore, ma ormai stanca del secolo di vita maturato, dette l’ultimo fiato e dove prima molti anni addietro avea fatto mìo padre, senza spavento alcuno della morte, brutta come la vide e la sentiva negli ultimi momenti della vita, quando spirò, col dolce nome in bocca di Gesù’ di Giuseppe e di Maria, quale patriarca antico lasciando dietro di sé una lunga figliolanza. Steso, sul letto antico, come altare, con gli occhi intenti a le vecchie memorie, guardo di fronte il pendolo a cucu’ che ripeteva sempre il triste verso, una o più’ volte ed ora noi fa più.
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Mi viene in mente il buon maestro Nino alto, baffuto, calvo e corpulento che mi veniva a casa a prelevare ed io, contorto, irato, lo graffiavo che non volevo a scuola proprio andare, a la baracca dove egli insegnava ai piccoletti della prima età.
Napoleone Natali Filadelfia (CZ) 22 Gennaio 1907 Roma 16 Ottobre 1995
Ricordo bene le cinque vocali, grandi segnate sopra la lavagna ch’egli indicava con la lunga canna, sempre dicendo ed io le ripetevo mille e più volte che m’addormentavo. Davanti casa grossi tavoloni vedo assestati come grandi torri e ivi sempre intenti i serratoli a manovrare il lungo resegone tutti ansimanti e a volte con grugniti,
come se sopportassero quel taglio, spesso da gocce d’olio raddolcito. Guardavo quel lavoro con incanto, ìl breve riposare ed il ristoro che ognuno avea portato dalla casa e rilevato da un fazzolettone più volte avvolto e dove compariva pasta fumante come in quel momento la fosse stata proprio scodellata. Quando giusto suonava mezzogiorno, tutti gli si mettevano d’intorno al tovagliato bianco di bucato e, dopo della pasta informaggiata, si passava alla rossa soppressata che lacrimava al taglio del coltello e ognuno decantava la più bella. ìl pane bianco che era di iermana, le ulive nere, madide e lucenti, con la frittata bionda e incipollata in tutti rinnovavan l’appetito. Il pasto si chiudeva col formaggio già’ rassodato che venia dal Poro e da un bicchier di vino prelibato dell’assolato colle di Bonì. A chiuder la gradita cerimonia era appaiata in tutti la pulita al doppio labbro e al baffo la lisciata. Il capomastro avea una benda al viso come un corsaro nordico di antico, uso ai rischiosi viaggi di ogni mare. La guancia deturpata ei nascondeva da lo scoppio di una bomba carta che, inconscio bimbo aveva masticata, in un lontano tempo a Carnevale. Magrino e piccoletto di statura era di piglio duro sul lavoro più rinforzato dalla ria figura. Quando furono fatti i grandi scavi, per dare fondamenta a questa casa sudaron molto con gli sterratori, compare Peppe e Juda e Cuojustortu ch’erano i dirigenti della squadra. Per elevare i muri furo intenti quattro fabbricatori con a capo Mastro Antonino detto “de bruvera” ch’era considerato un gran maestro molto valente quasi un architetto,
oltre che narratore di gran vena di beffe spiritose e di bravate da lui ben conosciute e raccontate. Sopra gli spalti, spesso si vedea mia madre con la bombola del vino per dissetare tutti i muratori che a turno si passavano il bicchiere rimporporato quando traspariva. Trottarellando sempre io mi agiravo tutto dintorno ed anche nel fossato dove si dava mano ai fondamenti che erano situati sullo scoglio. Sotto la prima pietra, ben murata, mio padre aveva posta.una sterlina segno di buon auspicio, rinforzato da sale asperso e grano una manciata. Oltre queste memorie nella mente scorron ricordi che son molto cari con la lor gioia o melanconia. Abile tessitrice di telaio Bettuzza a minnajanca rassettava dentro la tramatura complicata i molteplici fili dell’ordito dal pettine per ben discriminati. Muovendo mani e piedi, la navetta lanciava da sinistra a mano destra a farla poi tornare alla mancina per il canale istesso ribaltato dal doppio gioco della pedaliera: infine il tutto molto ben pressato dal mangano centrale forte e greve. La donnetta si mite, tutta bianca, sempre vestita a nero, se ne stava dentro una stanza scura che la luce prendeva solamente dalla porta sopraelevata al piano della strada, Quante risate con comara Betta de la Morana che teneva in bocca un solo lungo dente discalzato da la gengiva che ben lei diceva di mantenere contro la iattura. Molto affettuosa e sempre premurosa mi dondolava sulle sue ginocchia, con verso eterno, grata cantilena, che io col mio sussulto favorivo: sempre insaziato di quel sobbalzare. Quand’era stanca e sen doveva andare mi prometteva certo di tornare la Ciminiera 19
e la promessa sempre manteneva. Comare Maria de Juda mi donava quello trattenimento che mia madre mandavami a richiedere e che invano per lungo tempo inutile aspettavo finchè a gran voce non mi richiamava che’ più’ ragione non lo richiedeva. Grande motivo di imbarazzo era quel giorno quando mamma mi mandava a far la spesa al piccolo negozio dove solitamente si serviva. Lungo il tragitto io dimenticavo il numero e gli oggetti delle cose per cui ero costretto a ritornare per sentire ridir la commissione che nel nuovo viaggio ripetevo, ma nel negozio tutto pasticciavo e per non tornare a casa a mani vuote prendevo qualsivoglia mi si dava. Ivi tornato tutto moggio,moggio, non potevo far altro che a sorbire
i rimbrotti che mamma mi faceva.
Solo per comperar palle salmone, confettoni più’ duri della pietra, si andava alla vetriata, ove vendeva, il vecchio e corpulento Vigilante sempre seduto dietro il suo bancone che al nostro entrar faceva un gran fracasso proprio di soprassalto con i pesi battuti forte sopra la bilancia. -Prendetelo! -Prendetelo! - Che cosa? -Come non lo vedete il suricillo? Noi guardavamo senza veder quello che lui diceva che’ non c’era nulla. Il trambusto il furfante avea creato per non fare sentir l’altro rumore fatto pure da lui morbosamente, e sparso avea dintorno gran fetore. Dopo molti anni ancora pur sorrido pel buffo inconveniente capitato a mio fratello Attilio piccoletto che mentre eravamo a Pietra Bianca fu colto da fortissima diarrea per le ciliege nere ingurgitate a prima mane dentro la contea. Mancando tutto intorno acqua corrente con cui potere almeno riparare, 20 la Ciminiera
mia nonna, pur avanti già negli anni, dovette far ritorno a Filadelfia a prendere pulito un pantalone per rivestire il figlio insudiciato; nel tempo io rimasi a sorvegliare nudo sull’aia il bimbo che piangeva per un galletto che lo pizzicava. Quando alcun tempo dopo fu tornata la nonna tutta ansiosa e trafelata con l’altro pantalone ben pulito, di colpo mi sovvenni e dissi;- O nonna, guarda, che addosso io avevo due calzoni!-Sei proprio un cornutello e un gran minchionea risposemi ella con lo sguardo torto che spinsemi a raggiungere un covone e nascondervi dietro la vergogna. Fu vero campo d’armi la Stagliata sede invernale un tempo di mia nonna, ora libera terra diventata da piccoli e da grandi calpestata. Lì tenevam concilio e insediamento con tutta la combricola di amici e costruivamo comode capanne con lunghi pali e viride fogliame di tutti quanti i limiti degli orti: dentro vi sostavamo estasiati benché ristretti e pieni di sudore, senza sentire il minimo disagio del corpo cotto dalla gran calura. Quanta grande incoscienza sono gli ardori che informan quasi sempre quella età! Quand’era il tempo in cui facevan gola le nerissime more delle siepi o i dolci fichi dei begli orti altrui, si scorrevan tutte le campagne ed i giardini aperti e quelli chiusi sfidando anche i pericoli sicuri per i coloni irati ed i cagnacci che facean la guardia inferociti, quindi dei genitori le sgridate per i ricorsi che dovean.subire senza poter avere da obiettare. Quando fu Don Carmelo de’ Patelli ad iniziarmi bene a computare, molto accondiscendente mi mostravo per potere passar più lungo tempo col suo figliuolo Enrico a costruire
trombe,tromboni e flauti di canna con cui riuscivamo a zufolare le melodie più in voga a meraviglia: l’aria del Trovatore, la Traviata o la fanfara del Guglielmo Tell.
con palmo aperto e svelto pugno chiuso, quand’eran prese tutte da ebrietà sui rami o ramoscelli delle piante frignendo alla distesa e quando l’aria era vibrante di elettricità.
Tutti quegli strumenti ci servivano a fornire il complesso della banda del tutto agreste, come conveniva e come tutti la si desiava.
Sopra dei lunghi spazi delle siepi ci sfidavamo a chi saltava più col pericolo d1 incappar tra i rovi irti di spine grosse e resistenti che ci rendevan spesso sanguinanti.
Più lungo tempo si passava errando per le scoscese terre di campagna, inventandole tutte per distrarci, sempre più uniti dal divertimento. Con grande abilità riuscivamo ad incappiar lucertole e ramarri da seppellire in ampi cimiteri, al triste suono della marcia funebre con il devoto segno della croce, sopra dei tumoletti delle bare. Quando non sapevamo più che fare si andava a disturbare gli alveari delle api grigie, fitte ed industriose oppur quelle più rare delle vespe che pur se sparse, eran più1 aggressive, e infine anche i più grossi calabroni che sono veramente velenosi. Per ripararci dalle reazioni, ci coprivam la testa con la giacca durante la rincorsa della fuga; ma ciò alle volte proprio non valeva e tornavamo a casa spesso gonfi per le punture che ci si prendeva. Catturavamo i grilli e le farfalle con alle mani grande abilità, costituendone lunga infilzata secondo la bellezza e qualità. A le molte farfalle prataiole bianche, leggere quasi trasparenti; noi preferivamo quelle rare grandi, occhialute dalle lunghe antenne e pei colori molto assai più’ belle. Esse che eran difficili alla presa noi le conservavamo nelle teche secondo la lor più preziosità. Le lucide cicale prendevamo
Per le “iuntate” dalle timpe ardite molte ferite furono curate e molte ammaccature sopportate con cinica freddezza e indifferenza. La sfida più azzardata era la scesa de la Notara, sopra lo slittino fatto da tavoletta a quattro ruote, ch’era molto difficile guidare, soggetto a facilissime sbandate, con susseguenti male ruzzolate. Oltre dei vari giochi passatempo fur varie le persone molto care che tutti noi amavamo venerare. Don Tommasino detto l’Africano, fu il mio maestro della prima classe, dopo varie frequenze dell’asilo. Egli veniva su dalla villetta, sita nella discesa, dei Chicchini, con passo svelto come bersagliere come uomo eccezionale, quale eroe che, essendo stato in terra coloniale, aveva combattuto con i negri, per conquistar la Libia e l’Eritrea tornando, oltre che vivo, decorato di medaglia d’argento, si dicea. « Saliva l’alta scala della scuola: facendo quei gradini a quattro a quattro con seste lunghe che meravigliava. Dopo di aver asceso quei gradini noi pur ci trovavamo nella scuola adornata da immensi cartelloni: la penisola Italia e i continenti con tutti gli animali della terra: dal leone crinito alla gazzella, dall’elefante, al grosso coccodrillo, la Ciminiera 21
dall’aquila reale alla gallina, dalla balena all’agile sardina. Ricordo i cartelloni con le Alpi con gli Appennini e le grandi pianure solcate ora dal Tevere o dal Po. Guardavo con molta curiosità il bel pallottoliere colorato che consideravo articolo da gioco accanto alla grandissima lavagna dove ogni giorno si scrivea la data e in permanenza c’eran le vocali con tutto intero l’alfabetiere. Il maestro dall’alto ci parlava chiamandoci per nome e ci diceva quello che dovevamo ricordare premurando di stare sempre attenti a quello pocolin che ci insegnava. Noi ramavamo perché era gentile nel comandare e molto tollerante anche con chi tardava ad imparare. Come compagno, nel piccolo banco, avevo un mio cugino che scriveva correttamente e con calligrafia, che proprio strabiliato lo guardavo cercando di copiar come facea, ma lui, molto geloso, nascondea che non copiassi e noi potessi fare tutto col mio più grande dispiacere. Era la data del dodici Ottobre del Millenovecentodieci e due che si è scolpita e dura nella mente. Feroce era il maestro Serraino, con i baffi spioventi sulle guance e la mosca segnata sopra il mento. Egli punia con la verga di ferro senza pietate e quella punizione spesso aggravava coi chicchi di grano posti per terra sotto i due ginocchi. Don Bruno dei Gemelli invece usava larga riga di arancio che frigeva dentro le palme di chi non sapeva i mari, i laghi, i fiumi e gli affluenti, che bagnavano le varie città. Non dico quanta fosse la paura nel dir la saltellante tabellina con la più quasi certa punizione: l’ignoranza di tutto o di porzione conportava il torcer delle orecchie 22 la Ciminiera
che annebiare facevan le cervella. Stando così le cose della scuola, basata sull’apprender per paura, molti salinavamo di sovente ci riparavamo nei portoni per tutto il lungo tempo del mattino, o cercavamo mite comprensione in chi nella sua casa ci accoglieva, facendoci pur sempre il predicozzo che non si deve marinar la scuola. Grande affezione e pur riconoscenza ebbi per mastro Antonio “d’o Gigante” che era felice di mia compagnia perché gli davo mo’ di raccontare le molte sue briose barzellette mentre cuciva suole al suo deschetto, donava giusta forma alle tomaia o rassodava il cuoio col martello rendendo impermeabile la scarpa. La continua battuta del martello scandiva a giusto tempo il suo cantare, gridato quasi sempre a squarciagola e che era quello ripetuto in foga da compare Turiddu a la sua Lola. Per variare spesso decidevo di andare all’antro caldo della forgia del gran maestro Antonio “lu Pagano” che era di fronte al largo del mulino che lo si rifugiva nel terrore ci potesse accusar con la farina. Ivi i ferri roventi le scintille sprizzavan sopra tutti i lavoranti facendo diventare la fucina un nero ciclo di stelle filanti tra ritmi sonori e travolgenti sopra le piastre e verghe incandescenti. Comparivano zappe spiattellate, tondi picconi ed agili rastrelli, ferri di balconate e finestroni, cerchi di carri, ferri di cavallo tutti ben fatti a debita misura con esperienza d’arte e competenza. Per tutto quanto questo, a me sugli altri, era la forgia il luogo più allettante perché muovendomi la fantasia, mi portava nel mondo delle fiabe o nel corrusco mondo dell’orrore,
con mastro Antonio che parca Vulcano e i suoi assistenti diavoli d’averno. Quando solitamente ci si univa dentro il rione, dopo rimbrunire, sotto il lampione della luce a gas, usavamo giocare a “mucciateja” che acutezza di udito richiedeva oltre che vista fina gamba lesta. Molto piaceva far “guerra francese” ma molto spesso più’ “scaricanavi” che consisteva nello scavalcare chi stava avanti curvo alla somara, oltraggio tollerato e che spettava di turno a tutti con l’altrui montare. Ai pacifici giochi delle volte si preferia il cimento della guerra ben dichiarata con gli altri rioni. Tra Carmine,Timpone e Zagaria correvano rabbiose bastonate, lanci di pietre e colpi di catene che spedivano spesso in farmacia di cui nessuno allor dramma facea. Dagli uomini veniva preferito il gioco del formaggio ereditato
dall’antico costume della Grecia. Si usava grossa pezza di formaggio ben rassodata, fatta rotolare lungo l’esteso piano delle Grazie per dritti tratti o viottoli scoscesi con sosta di caduta bene in vista, pregiudiziante invece se non l’era, sopra la stesa spanna della mano. Chiaro raggiungimento del traguardo era la chiesuolina delle Grazie posta sopra lo scoglio in collinetta svettante a protezione della terra ch’era difronte insieme alla città. Al primo che giungeva al luogo sacro, dopo varcato il mistico calvario, veniva aggiudicato il palio d’oro simbolico qual segno di vittoria, e che valeva per tutta l’annata. Per tal giorno dì grata commistione fra tutti i ceti e allegra comunanza ben si poteva dire Filadelfia la vera patria della fratellanza. FILADELFIA AGOSTO 1985
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Ricordi Antichi L’ode, composta in endecasillabi piani non rimati con strofe di dimensioni differenti, si presenta inizialmente come un’ode funebre, dal tono sospeso fra rimpianto ed epica, proprio della soluzione foscoliana, ad esempio. Memori della lezione post ermetica, però, le strofe si svestono dei panni caudati della poesia classica e si aprono a soluzioni più intime e narrative, a cui ben si accorda la scelta della mancanza di rime ed assonanze così come quella del linguaggio, che si fa più piano, sebbene non manchino richiami al vocabolario della Letteratura e in particolare al bagaglio lessicale della grande poesia italiana (come non rivedere, in versi come “con verso eterno, grata cantilena” o “per dritti tratti o viottoli scoscesi” la lezione pascoliana di Lavandare o Novembre), sebbene riadattati e “rimasterizzati” per acquisire il senso umano e colloquiale che si propone come lirica di ricordi. Così, lessemi poetici ed elementi quotidiani si amalgamano, non sempre efficacemente, per dare colore ai ricordi e giocare con il registro dell’epica, ad esempio, quando si parla del capomastro, nella cui descrizione si fondono benignamente le origini segrete della sua “ria figura” e lo sguardo mitopoietico del bambino, che intravede, nel volto deturpato e nella benda che copre uno egli occhi dell’uomo, la promessa delle avventure sul mare del corsaro. Altrettanto interessanti risultano i ricordi della banda di ragazzini scalmanati e delle loro imprese, appena velate di tristezza riscattata dallo slancio epico che guida e orienta la narrazione. Divertente e molto educativa la rappresentazione delle differenti tipologie di maestri conosciuti, con gli approcci pedagogici sintetizzati in pochi versi e la distanza, quasi epica, che divideva docenti e discenti, da allora prepotentemente ribaltata. Ma sicuramente la parte più accesa e vivida, nella mente del poeta, è quella dedicata ai giochi dell’infanzia, che ci apre uno squarcio in un mondo, quello di cento anni fa, fatto di vita all’aperto, giochi di strada, scontri fra rioni e avventura nel verde e nella campagna. Un mondo che sembra lontano secoli (eppure la fase della giovinezza era così ancora in gran parte della nazione fino agli anni ’70 del secolo scorso!). E’ qui, si diceva, che Napoleone Natali rivela il suo guarda attento, nella descrizione dei poveri mezzi di divertimento e delle grandi emozioni che si provavano all’epoca. Per i bambini, le emozioni sono sempre forti e le scoperte sempre entusiasmanti: il poeta di Filadelfia è riuscito a farci provare, insieme alla malinconia e al rimpianto per una giovinezza ormai passata, la stessa gioia, la stessa festa di allora, quando si correva per il verde, si inseguivano animali per giocare, si giocava a pallone nei cortili o nelle strade poco affollate di automobili. Oh no, aspettate, questo non è Napoleone, sono io che scrivo. E’ la mia giovinezza che rivedo, dietro ad un Super Santos, nel cortile di un amico. A scovare i rifugi delle farfalle e delle lucertole. A giocare a figurine. Anche per me il tempo della giovinezza è lontano. Spero di diventare capace di raccontarlo (ma non subito, facciamo fra qualche annetto, ancora) agli altri con la stessa maestria dimostrata in questi versi, tanto da far confondere il mio vissuto, i miei ricordi del tempo che fu, con quelli di chi legge. Per lo meno, il nostro poeta, Napoleone Natali, c’è riuscito, e non è certo cosa da poco. 24 la Ciminiera
Prof. Raoul Elia Gennaio 2020