La Cimineira 03 2020

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24 ANNI DI PRESENZA Le nostre iniziative Periodico di cultura, informazione e pensiero del Centro Studi Bruttium (Catanzaro) Registrato al Tribunale di Catanzaro n. 50 del 24/7/1996. Chiunque può contribuire alle spese. Manoscritti, foto ecc.. anche se non pubblicati non si restituiranno. Sono gratuite (salvo accordi diversamente pattuiti esclusivamente in forma scritta) tutte le collaborazioni e le prestazioni direttive e redazionali. Gli articoli possono essere ripresi citandone la fonte. La responsabilità delle affermazioni e delle opinioni contenute negli articoli è esclusivamente degli autori.

Anno XXIV Numero 3 - 2020 Direttore Responsabile Giuseppe Scianò Direttore editoriale Pasquale Natali Presidente Raoul Elia Progetto Grafico Centrostudibruttium.org info@centrostudibruttium.org Direzione, redazione e amministrazione CENTRO STUDI BRUTTIUM Iscr. Registro Regionale Volontariato n. 114 Iscr. Registro Regionale delle Ass. Culturali n. 7675 via Bellino 48/a, 88100 - Catanzaro tel. 339-4089806 - 347 8140141 www.centrostudibruttium.org info@centrostudibruttium.org C.F. 97022900795 Stampa: pubblicato sul sito associativo: www.centrostudibruttium.org DISCLAIMER: Le immagini riprodotte nella pubblicazione, se non di dominio pubblico, riportano l’indicazione del detentore dei diritti di copyright. In tutti i casi in cui non è stato possibile individuare il detentore dei diritti, si intende che il © è degli aventi diritto e che l’associazione è a disposizione degli stessi per la definizione degli stessi.

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EDITORIALE

Pasquale Natali

QUANDO UNA RINASCITA SOCIO-CULTURALE DEGNA DELLA VERA CULTURA ITALIANA ? Stiamo vivendo dei periodi, nazionali e internazionali, alquanto difficili e in diversi casi misteriosi. Per chi come me si trova a operare nel campo socio-culturale diventa sempre più difficile non essere tentati d’intervenire in ambiti non nostri ma prettamente politici. Mi diventa anche difficile scrivere di questi sentimenti per evitare di alimentare polemiche sul Bruttium causa personaggi che non stimo e non ho mai pensato di frequentare. Esempio: Come si fa ad accettare che una tendenza politica prepotente che, consapevole del bonus giustizia di cui gode, senza freno e superando di gran lungo la decenza possa esprimere convinzioni come questa signora qui sotto? Non avendo più desiderio di dire altro, se non “godetevi la rivista”, vi abbraccio affettuosamente e...... alla prossima.

Un clamoroso scivolone, quello della scrittrice Michela Murgia, nemica giurata di Matteo Salvini e sovranisti. Una gaffe da brividi in cui è incappata a L’assedio, il programma su Nove condotto da Daria Bignardi. La scrittrice, infatti, si è augurata in modo esplicito che il coronavirus prosegua nel contagio. La ragione? Grazie aI Covid-19, oggi come oggi, le strade sono più vivibili e i mezzi pubblici semi-deserti. Parlando del suo viaggio verso Milano, verso lo studio della Bignardi, la Murgia ha affermato: “Ho viaggiato comodissimamente in un aereo semi-vuoto, sono arrivata in una città senza traffico. Le persone... normalmente non riesco a fare un passo. Può durare un altro po’ questo virus? Se il risultato è la vivibilità delle strade, io ci metterei la firma”. Attimi di gelo in studio, dunque la Bignardi ha cercato di correggere il tiro della scrittrice: Diciamo che ci sono dei pro e dei contro ... “. Certo, una battuta quefla della Murgia. Ma di pessimo gusto: si pensi, per esempi, che ad ora il coronavirus ha mietuto 14 vittime soltanto in ltaIia. https://www.liberoquotidiano.it/news/personaggi/13568853/michela-murgia-assedio-coronavirus-spero-duri-ancora-citta-piu-vivibili.html la Ciminiera 3


E tre.. Ce l’abbiamo fatta, dunque. Per ora, l’idea di riportare la rivista alle uscite mensili per il venticinquennale del n. 0 de la Ciminiera, ieri, oggi e domani sembra stia avendo i suoi frutti.

Raoul Elia

Tre. Numero di dantesca memoria, il tre riporta alla mente, oltre alle tre cantiche della Commedia dantesca, anche le tre grazie, simbolo di bellezza immortale, e, passando a qualcosa di più prosastico e tecnologico, il TagliaCopia-Incolla, il cui creatore, ricordato nella rivista, è scomparso di recente. Ma cosa c’è in questo numero tre de la Ciminiera? Sicuramente è un numero ricco di spunti e variegato nell’offerta culturale, con articoli che spaziano dalla storia antica (la scuola romana) all’arte contemporanea (la presentazione delle opere del pittore calabrese Benito Cristini) passando per libri misteriosi, macchine per identificare i falsi capolavori, taglia-copia-incolla e quanto altro. Rimane giusto lo spazio per un saluto alla nuova firma, Daniele Mancini, alle prese con la scuola nella Roma antica, e la gioia per il ritorno di una firma storica della rivista, Angelo Di Lieto, con i suoi frammenti di storia della Calabria e dei suoi personaggi. Dunque buona lettura e a rileggerci fra 30 giorni (spero...)

Benito Ctistini - droga (Olio su tela) 4 la Ciminiera


Il Bruttium incontra gli Artisti

Calabresi Terza puntata

di Angelo Di Lieto

L’artista Benito Cristini lo conobbi nel 1960, quando, studente universitario in giurisprudenza, ero appena rientrato a Catanzaro Lido per le annuali feste di Natale. Dal momento in cui mi mostrò nella sua casa le sue opere, nacque la nostra lunghissima amicizia e che è durata quasi cinquanta anni.

Benito Cristini nella sua poetica umana e verso gli animali della terra

Copertina: Verso il porto di Lido 1988 (olio su tela 50x70) Collezione Privata Catanzaro

Poi cominciai a frequentare il suo studio e a ricevere le prime nozioni di vera pittura. Sino ad allora avevo fatto l’acquerellista di strada nei vicoli del mio paese in Amalfi, ma lavorando vicino a lui, incominciavo a sentirmi importante ed un vero artista. Era la presunzione dei principianti. Di lui ho sempre grandemente ammirato il modo con cui riusciva a rappresentare, con colorazioni armoniosi e di grande spazialità, cieli profondi di luce, naturali e delicati. I suoi colori venivano strappati al sole, alla terra, al bosco, alle nuvole, alle acque scintillanti dei ruscelli, per poi essere proiettati sul supporto, facendolo vibrare sino all’ultimo con un dinamico, magistrale colpo di spatola. Quando non riuscivo ad ottenere gli effetti che volevo, mi fermavo e cercavo di osservare, con grande ammirazione, quello che egli invece riusciva a riprodurre con tanta facilità a colpi di spatola o di pennello. Quando col cavalletto all’aria aperta si metteva in sintonia col mondo esterno, era in grado di tradurre con immediatezza e potenza espressiva la visione che in quell’ istante viveva nella sua drammaticità e tensione. La natura era il suo regno, il suo mondo spirituale, dove la sua anima si apriva, riuscendo a sintetizzare i suoi pensieri, le sue emozioni, le sue immagini, la sua commozione. la Ciminiera 5


Figlio d’arte, perché suo padre Francesco era un pittore dell’800 di chiaro ed indiscusso valore, timido, modestissimo, irrequieto, signore sempre, lontano da ogni compromesso, era perennemente pronto a cogliere dalla natura qualsiasi impressione. Amava vivere nel suo “pantano”, un fitto bosco, oggi quasi interamente distrutto dalla speculazione degli uomini, nel quale trovava quiete, libertà, cani, uccelli e mandrie di buoi che lo ispiravano e che per lui costituivano la fonte del suo essere libero, ma era anche elemento di contestazione verso una civiltà devastante che nella modernità stava cancellando valori, ritualità, tradizioni e secoli di memorie. Il suo mondo interiore, a seguito di una vita non facile, era pervaso di tristezza, di malinconia, di sofferenza, ma anche di tanta dignità e spiritualità. Sapeva tradurre il suo dolore, la miseria umana in bozzetti pieni di serenità e di malinconico romanticismo Ogni suo soggetto diveniva oggetto di meditazione e di riflessione in un’atmosfera di pace contemplativa, la quale costituiva sempre l’essenza della sua esistenza e della sua etica. Molteplici erano i temi delle sue tele che lo commuovevano e lo emozionavano. Così “Ti darei il Mondo se potessi…però son più povera di te” è la storia di un bimbo ignudo, il quale, chiedendo l’elemosina, s’incontra con una donna cenciosa che è ancora più povera di lui e che gli porge, in astratto, sulle mani, il mondo, rappresentato sulla tela in modo diafano e trasparente. Anche l’opera: “Un po’ di fuoco”

Triste miseria 6 la Ciminiera

Attesa

rappresentava un vecchietto, che io vedevo tutti i pomeriggi, posizionato sulla soglia della sua casa, in un cortile, con la pipa di terracotta in bocca, seduto innanzi ad una vaschetta in disuso che utilizzava come braciere, tenendo poi in mano un ramoscello di ulivo che adoperava come un frustino e che gli serviva per smuovere il fuoco. Il mondo di Cristini era fatto di memorie, di un mondo in via di estinzione e che oggi a distanza di anni veramente non c’è più. E’ fatto di creature antiche, di materia che stava scomparendo, di ruderi, di nobili decaduti, di dormienti innanzi al gregge che pascolava, di lavoratori della terra con i loro abiti sformati e rovinati dal sudore e dalle intemperie, di contadini che usavano ancora l’aratro o che seminavano con la gestualità della mano. I suoi figuranti son tutti soggetti sprofondati nella luce accecante dei suoi cieli ed illuminati nei loro movimenti ancestrali. Come pure di grande effetto e malinconia è “Ritorno”, “Fuori dal bosco”, “Lavandaie”, “La fontana del Convento”, “Tramonto”, “Lavoro nei campi”, “Vecchia alla fontana”, “La grande quercia”. I suoi dipinti sembrano quasi sequenze cinematografiche, dove le figurazioni diventano fotogrammi pieni di umanità e di storia, di cultura e di tempo passato. Ma Cristini non rappresenta solo la natura, perchè molte volte realizza anche il mondo animale, nel quale è veramente un grande interprete. E così nascono: “Primo solco”, “Un po’ di sosta”, “Attesa”, “Donna col


porcellino”, “Il mio Dick”, “Ritorno”, “Sempre Eva la tentatrice”, “Buongiorno Tristezza”. Un simpatico bozzetto lo realizzò anni fa col titolo:”Eccoci finalmente in tre” e che mise in mostra polemicamente nel Salone della Provincia di Catanzaro, in Piazza Prefettura. Fra tutte le opere i visitatori si sentivano stranamente attratti e richiamati dalla rappresentazione di due asini posti in bella mostra al centro del quadro. Infatti essi, pur osservando da tutti i lati il bozzetto, non riuscivano ad individuare il terzo asino. Quando la curiosità di conoscere dove fosse posizionato l’invisibile quadrupede, una volta arrivati al massimo della curiosità, sconcertati, si vedevano forzatamente costretti a rivolgersi all’autore, il quale, argutamente ben appostato e gustandosi già da lontano tutta la scena, candidamente affermava all’interlocutore che il terzo asino non era nel quadro, ma fuori davanti all’opera e che riguardava il visitatore stesso. E così tutto finiva con un gran sorriso e con i complimenti per quella originale trovata. Vivendo nella natura ed attraverso lo studio pittorico, Cristini aveva colto che non tutti gli animali sono uguali nella loro bellezza, perché se si uniformano nelle loro forme esterne, sono diversi invece nello sguardo. Infatti se si guardano attentamente gli occhi, e io ho sperimentato più volte lo sguardo degli animali, ho rilevato che veramente ognuno esprime interiormente una personalità e sentimenti diversi, così come lo è negli uomini. Credo che essi, abbiano veramente dei loro pensieri ed una loro interiorità, certamente

la fontana del convento

lavandaie a Maratea

non in senso umano e religioso. E la scienza oggi ci conferma e ci sottopone episodi di umanità, di solidarietà, di sacrificio, di sensibilità, di desiderio di amicizia, espressi verso l’uomo o verso gli animali. Negli ultimi decenni l’artista Cristini, per la sua estrosità ed eclettismo, sentiva una forte attrazione verso il surrealismo, perchè si rendeva conto che molti suoi pensieri o concetti astratti non riuscivano ad essere realizzati nelle reali ed usuali raffigurazioni. Fu sempre più cosciente e consapevole che

Il mio Dick

egli aveva bisogno di trovare una maggiore dimensione nell’ espressione pittorica e che gli consentisse di spaziare senza limiti interpretando le sue bizzarre idee. E così finalmente trovò nel surrealismo la sua perfetta identificazione ed il sincronismo che gli consentiva la fusione della pittura con i soggetti idealizzati. Così nacque il suo celebre quadro “La Deposizione delle corna del Diavolo”, nel quale, il diavolo, quasi contento della sua ultima scelta, manifesta la ferma intenzione di abbandonare la lotta contro la Ciminiera 7


Dio, perché è ormai ampiamente perdente nella conquista delle anime. L’atto di gettare le monete d’oro che servivano per corrompere le anime, costituisce la prova inconfutabile del suo definitivo ritiro, per cui dà la possibilità alla Dea del Bene di trionfare finalmente sul Male. Altre opere surrealiste, sono: “Il Fuoco della droga”, “La materializzazione dei corpi”, “Materializzazione dello Spirito Cosmico”, “Un fiore al centro della Terra”, “La Donna di Vetro”, “L’Uomo che cercò rifugio nella Luce”. Questi titoli sono solo un esempio, perchè furono innumerevoli le sue follie pittoriche nelle diverse rappresentazioni artistiche.

Tramonto

Un po di sosta

La Deposizione delle corna del Diavolo

Il 14 agosto 2008, sfuggendo al nostro Tempo, il caro amico Benito Cristini, ha cessato il suo viaggio terreno ed ha terminato il suo incedere nel Mondo dell’Arte. Ma ha lasciato dei valori, grandi valori nella pittura e nella poesia. I suoi pennelli e la sua spatola sono stati, sempre, gli strumenti che hanno consentito la realizzazione della sua identità, dei suoi sentimenti, della sua vita e del suo misticismo esistenziale.

Da sinistra: Di Lieto, Pancari, Cristini, Omar (Galleria Arte Le Nove Muse del C.S.B.) 8 la Ciminiera


MACHINA un nuovo strumento al servizio del patrimonio culturale

http://www.ansa.it https://xanthippeonline. wixsite.com/website

Grazie alla collaborazione dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e l’Istituto nazionale di Fisica nucleare (Infn) ha visto la luce un congegno chiamato (MACHINA) prettamente indirizzato alle analisi di manufatti artistici senza che questi vengano rimossi dal loro sito. Machina aiuterà esperti e ricercatori a studiare in modo non invasivo opere d’arte e reperti storici permettendo loro di evitare il delicato ed a volte impossibile trasporto delle opere d’arte. Il risultato pertanto sarà più affidabile e le analisi ottenute avranno la stassa valenza di quelle effettuate nei laboratori fissi.

Ma cosa è Machina? Machina è un acceleratore di particelle che separa le componenti dell’atomo e le accelera a grande velocità verso l’opera da analizzare. Le interazioni delle particelle con gli atomi dell’opera producono radiazioni con energie che sono caratteristiche di ciascun elemento chimico presente e rappresentano quindi Il quadrupolo a radiofrequenza l’impronta digitale dell’atomo del progetto MACHINA in fase di che le ha emesse. sviluppo (Immagine: Julien Marius Dal progetto Machina è stato Ordan / CERN) possibile sviluppare due famiglie di acceleratori per i beni culturali e l’archeologia: l’Accelerator Mass Spectroscopy (AMS), utilizzata per datare reperti archeologici, e l’Ion Beam Analysis, che invece serve a esaminare la composizione dei materiali di cui è costituita un’opera d’arte. I materiali così analizzati, possono offrire informazioni utili per lo studio delle opere e per il restauro. Per esempio, è possibile scoprire falsi, risalire alla provenienza delle materie prime, sapere di più sulle tecniche impiegate da un artista, identificare la corretta datazione dei manufatti. Un altro grande vantaggio di questa tecnica è ato poi dalla possibilità di effettuare qualsiasi misura senza la necessità del vuoto, che spesso rappresenta una conditio sine qua non per poter far funzionare una macchina acceleratrice. Tutto ciò rende l’Ion Beam Analysis lo strumento ideale per lo studio delle peculiarità di inchiostri, pigmenti, vetri, ceramiche, pietre preziose e leghe metalliche ed è una tecnica così potente da permettere di scoprire, ad esempio, l’origine dei colori sulla tavolozza di un pittore o i suoi ripensamenti nei vari strati di un dipinto. Proprio per questi motivi, particolari acceleratori chiamati Tandetron sono stati installati presso grandi musei e centri di restauro: per fare alcuni esempi, al Louvre di Parigi abbiamo AGLAE, Accélérateur Grand Louvre d’Analyses Elémentaires, mentre a Firenze è stato costruito un intero laboratorio attorno all’acceleratore, il LABEC (Laboratorio di tecniche Nucleari per i Beni Culturali). “Con queste tecniche abbiamo contribuito a ricostruire l’evoluzione del pensiero di Galileo Galilei”, ha detto Francesco Taccetti dell’Inf. “Grazie alle particelle iaccelerate’ abbiamo misurato la composizione degli inchiostri usati dal grande scienziato, riuscendo a datare molte note sul moto dei corpi e risolvendo enigmi dibattuti per centinaia di anni». la Ciminiera 9


Daniele Mancini

Publicazioni - Blogger di divulgazione archeologica con il sito www. danielemancini-archeologia.it - Racconto inedito, Leonida a Teate, in Racconti Abruzzo e Molise Antologia, Cesena 2018 - Nell’ambito del progetto di comunicazione e marketing commissionato dal Comitato X Tappa Giro d’Italia 2018, realizzato inserto storico culturale sui centri attraversati dalla gara all’interno del periodo politico, culturale e sportivo Lacerba, 13-15 maggio 2018 - La cisterna perduta dell’antica Teate (Chieti - Abruzzo), in Opera Ipogea. Journal of Speleology in Artificial Cavities, n. 1/2016 - Indagini nel settore orientale del Santuario di Ercole, in Quaderni di Archeologia d’Abruzzo n. 3/2011 edito dalla Soprintendenze per i Beni Archeologici d’Abruzzo, Firenze 2014. - Itinerari archeologici su Cultura e Turismo, prodotto promozionale realizzato nell’ambito del Progetto di Valorizzazione dei Beni Culturali e Paesaggistici del Patto Chietino – Ortonese Società Consortile a r.l., Chieti, 2010. - Itinerari archeologici sul libretto Ludi Teatini 2010, prodotto promozionale realizzato per la manifestazione dei Ludi Teatini organizzata dall’Associazione culturale ScopriTeate, Chieti, 2010. - Itinerario archeologico Il Sito Archeologico dell’Antica Aufinum, su Guida FAI alla visita dei beni aperti in Abruzzo, prodotto promozionale realizzato nell’ambito della XVI Giornata FAI di Primavera, Milano, 2008.

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INFLUENZA ROMANA IN ISTRUZIONE MODERNA In un periodo in cui l’istruzione subisce gravi interferenze dal mondo degli analfabeti funzionali, ho il piacere di mostrarvi quanto molto dei moderni metodi di istruzione provengano dall’antichità. L’istruzione è sempre stata molto apprezzata nella cultura romana e ha contribuito a stabilirla come una società che ancora oggi lascia segni in diversi campi. Diversi sono i modi in cui il sistema educativo romano ha lasciato un segno innegabile nel moderno sistema educativo. L’idea di apprendere tutto in modo graduale è stato appositamente reso possibile dai Romani proprio per rendere l’educazione meglio accessibile: ancora oggi, infatti, gli studi sono consecutivi e graduali e ogni classe si baserà sulle basi della classe precedente. Questo era un concetto rivoluzionario perché era basato sull’apprendimento globale anziché sui principi di memorizzazione alla base delle altre culture. I Romani hanno implementato i principi di costruzione della conoscenza attraverso l’applicazione dell’apprendimento anche nei loro sistemi di addestramento, sia militari che politici, ancora usati oggi. Le scuole sono un concetto molto romano e hanno cambiato il modo in cui le persone sono state educate in passato. L’educazione formale era un privilegio dei ricchi romani, quasi come uno status symbol, mentre le masse tendevano ad “apprendere” attraverso le loro vocazioni e gli apprendistati lavorativi.


L’idea dell’apprendistato di gruppo si basava sul principio di aiutare l’educazione e la formazione professionale significativa per le masse. Si è scoperto, infatti, che un ambiente di apprendimento di gruppo è più favorevole allo sviluppo cognitivo a tutto tondo per i cittadini dell’Impero. L’apprendimento di gruppo nelle scuole, oggi, offre a tutti il ​​vantaggio di apprendere da qualcuno che conosce il modo migliore per insegnare, non solo ai ricchi. Per quanto utili fossero le scuole, i Romani comprendevano anche il principio dei diversi stili di apprendimento. L’uso di ambienti di apprendimento alternativi sono stato un altro modo in cui i romani riformarono il sistema educativo. Questo ha fornito la possibilità di ottenere istruzione anche quando non si aveva tempo o denaro per la tradizionale classe, spesso attraverso l’addestramento militare pratico. L’esercito romano, in qualche modo, ha posto le basi per le moderne accademie militari e i relativi sistemi educativi. I moderni ambienti di apprendimento, come le aule online, hanno, dunque, le loro radici nella formazione sul posto di lavoro e negli apprendistati che i Romani sono stati in grado di fornire alla loro popolazione per dargli le competenze lavorative necessarie per essere un membro produttivi della società. I Romani credevano che l’educazione avrebbe dovuto comprendere tutti gli aspetti dell’apprendimento, almeno per coloro che potevano permettersi di studiare nelle scuole. Questo era qualcosa di diverso rispetto

alle culture precedenti e oggi si riscontra nei diversi gradi di istruzione, dalla scuola primaria alla laurea. Scienze, matematica, letteratura e studi sociali sono solo alcune delle aree disciplinari impartite nelle attività educative. All’atto pratico, più di uno di questi campi era necessario per i progetti infrastrutturali, con ad esempio, la costruzione di strade. In poche parole, la costruzione di strade romane aveva bisogno di esperti dei settori interdisciplinari come il rilievo, la scienza dei materiali da costruzione e la logistica. Dunque, la cultura educativa romana è qualcosa che può ancora essere vista come un sostanzioso banco di appoggio dell’apprendimento nella cultura moderna in cui molte cose, che crediamo come concetti moderni, hanno le loro radici nel mondo antico, provando a permetterci di vedere meglio la storia come un tutto connesso.

Bibliografia: J. Carcopino, La vita quotidiana a Roma, Bari 1971 R. Frasca, Donne e uomini nell’educazione a Roma, Firenze 1994 R. Frasca, Educazione e formazione a Roma, Bari 1996.

https://www.danielemancini-archeologia.it/ la Ciminiera 11


Nel 1876 compare a Londra un libro sconvolgente dal titolo The Oera Linda Book, sottotitolato ‘Da un manoscritto del XIII secolo’. L’editore, Trubner & Co., è uno dei più seri presenti sul mercato e non c’è alcun motivo di pensare ad una falsificazione. Il fatto poi che accanto al testo in inglese venga riportato a fronte quello originale in frisone (la lingua della Frisia, la parte più settentrionale dell’Olanda) è una garanzia aggiuntiva di serietà, poiché consente agli studiosi di verificare l’autenticità del testo. Raoul Elia

Il Libro di Oera Linda

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Fin qui, nulla di nuovo. Di libri antichi recuperati e messi all’asta o pubblicati non ne mancano certo. Cosa lo rende così speciale? La storia narrata nelle sue consunte pagine, perché se il libro fosse autentico e i suo contenuto vero, la storia del mondo antico dovrebbe essere completamente riveduta e corretta.

La leggenda Nelle pagine dell’Oera Linda Book si racconta, infatti, che, nel III millennio a.C., nel tempo in cui venivano innalzate le grandi piramidi e Stonehenge, nel nord dell’Europa esisteva una grande isola continente, abitata da una razza altamente civilizzata. Nel 2193 a.C., però, l’isola sarebbe scomparsa, svanita come l’altrettanto leggendaria Atlantide, completamente disintegrata da non meglio precisate immense catastrofi. Molti superstiti sarebbero riusciti a trasferire la loro civiltà altrove, Egitto e Creta compresi. Tanto che, si legge nel Libro di Oera Linda, Minosse, il favoloso re di Creta, costruttore del labirinto, sarebbe stato un frisone e che era stata questa civiltà a originare in seguito sia la civiltà minoica che quella ateniese.


Scrittura iscritta sul muro di Waraburgt.jpg

Nel libro si narra la storia di una grande isola continente, chiamata Atland, posta all’incirca sulla stessa latitudine delle isole britanniche, in quello specchio di mare che noi oggi chiamiamo Mare del Nord (per farla breve, a nord delle coste olandesi). Atland godeva di un ottimo clima e di abbondanza di cibo e fintanto che i suoi governanti si erano mantenuti saggi e religiosi, l’isola era rimasta serenamente in pace. Il suo leggendario fondatore era stata una donna semidivina, Frya, una versione della nordica Freya, la dea lunare, il cui nome significa “signora”. Gli abitanti di Atland veneravano un solo dio, che si celava sotto il nome di Wralda (molto simile al Wotan dei Vicinghi). Frya era la prima di tre sorelle. Le altre si chiamavano, con molta originalità, Lyda e Finda. Mentre Frya, da brava ariana, aveva la pelle chiara, le altre due, pur essendo sorelle di Frya, appartenevano ad altri fenotipi: Lyda, chissà come, aveva la pelle scura ed aveva dato origine alle popolazioni negroidi, mentre Finda, che aveva la pelle giallastra, avrebbe dato origine alle popolazioni orientali. Nel 2193 a.C. una catastrofe immane

e non meglio precisata avrebbe colpito Atland, a causa della quale la ricca e fertile isola sarebbe stata inghiottita dalle acque dell’oceano. Nella sezione iniziale dell’Oera Linda si narra che per tutta l’estate che aveva preceduto il diluvio ‘ il Sole era stato velato dalle nuvole, come se non avesse più voluto farsi vedere dalla Terra’ . C’era stata una calma perpetua e ‘una nebbia spessa come sudore si era distesa sulle case e sui campi’ . Poi, all’improvviso, ‘nel bel mezzo della quiete più profonda, la terra aveva incominciato a tremare come se stesse per esplodere e i monti si erano aperti per vomitare fuoco e fiamme’. Non ci sono dubbi: si tratta proprio della descrizione di una eruzione vulcanica. Da questa data (se non anche prima) Frisoni avevano preso a navigare per tutto il mondo conosciuto, civilizzando l’area del Mediterraneo per spingersi fino in India.

La storia del libro Stando a quanto si legge nell’Introduzione, scritta nel 1871, il libro era stato conservato presso la famiglia Linden (o Linda) da ‘tempo immemorabile’ ed era scritto in una lingua simile al greco. L’incipit era costituito da una lettera di un tal “Liko Oera Linda” – datata 803 d.C. – in cui l’uomo diceva che avrebbe conservato il libro ‘con il corpo e con l’anima’, poiché in esso era contenuta la storia della sua gente. Nel 1848 il manoscritto era stato ereditato da un certo C.Over de Linden – versione moderna del casato Oera Linda – quando un esimio linguista, il professor Verwijs, aveva chiesto il permesso di esaminarlo. Questi, sin da subito, avrebbe riconosciuto nel misterioso linguaggio del libro l’antichissimo frisone, una forma arcaica di olandese. La versione esaminata dal professore era una copia dell’originale datata 1256, riportata su pagine ottenute con fibra di cotone e scritta con inchiostro nero che non conteneva ossido di ferro (perché se no sarebbe diventato bruno). la Ciminiera 13


la quale, una pitonessa gli aveva predetto, sarebbe diventato re d’Italia. Fallito il tentativo di farsi consegnare sotto lauta ricompensa (i molti tesori portati da Troia) la lampada dalla sacerdotessa, la “Madre Terra”, che la custodiva, Ulisse aveva fatto vela fino a raggiungere un luogo chiamato Walhallagara (nome che suona molto simile a Walhalla) dove aveva avuto una storia d’amore con la principessa Kalip (ovviamente Calipso) e con la quale era convissuto per molti anni fra ‘ lo scandalo e la disapprovazione di tutti coloro che lo conoscevano’ . Da Calipso aveva ottenuto una sacra lampada tipo quella che stava cercando, ma la sorte non gli era stata amica, perché la sua nave aveva fatto naufragio e lui era stato salvato, nudo e senza più alcun avere, da un’altra imbarcazione. Anche di questa versione dell’Odissea non vi sono, ovviamente, riscontri terzi.

Una pagina di Oera Linda

La storia nel libro Non tutto quello che riporta il libro, certo, è affidabile, tanto meno al 100%. Tuttavia, qualche riferimento, seppur limitato, alla Storia c’è. Ad esempio, le popolazioni che vengono citate non sono certo frutto di fantasia. Nel Libro di Oera Linda si parla parecchio di Alessandro: ad esempio, si parla a lungo di un prode guerriero di nome Friso, ufficiale di Alessandro il Grande (nato nel 356 a.C.) citato anche in altre cronache storiche dei popoli del nord. In queste cronache si dice che Friso giungeva dall’India. Nell’Oera Linda, l’eroe viene fatto discendere da una colonia di Frisoni stanziatasi nel Punjab attorno al 1550 a.C. mentre il geografo greco Strabone menziona queste stranissime tribù “indiane”, da lui chiamate in modo generico Germania. Tuttavia, non vi è nessun riscontro “storico” su questa origine “indiana” dell’eroe macedone. Nel testo si ricorda anche Ulisse e la sua ricerca della sacra lampada, trovata 14 la Ciminiera

Un servizio sul libro (in tedesco) https://www.youtube.com/watch?v=vHSK9x3HS0U


Addio signor

Taglia Copia Incolla

Larry Tesler, lo scienziato informatico che ha creato la funzione taglia/copia e incolla, è morto lunedì (17/02/2020), ha confermato il suo ex datore di lavoro Xerox. Aveva 74 anni. “La giornata di lavoro è più semplice grazie alle sue idee rivoluzionarie”, ha twittato Xerox, la società in cui Tesler ha inventato la funzione. Tesler si laureò alla Stanford University con una laurea in matematica nel 1965. Pioniere nel settore con più brevetti a suo nome, Tesler ha coniato la parola “browser” con il suo prodotto SmallTalk Browser nel 1976, secondo il suo sito web. Ma il suo contributo più utilizzato è stato la creazione e la funzione taglia / copia e incolla, che ha sviluppato dopo essere entrato a far parte del Centro di ricerca Xerox Palo Alto (PARC) nel 1973. (Per Gizmodo, PARC è responsabile dello sviluppo del mouse-driven interfaccia utente grafica che usiamo oggi). Tesler è entrato in Apple nel 1980, dove ha lavorato allo sviluppo di molti prodotti, tra cui Newton MessagePad e Lisa, un precursore del Macintosh e uno dei primi personal computer a utilizzare l’interfaccia utente grafica. Dopo aver lasciato Apple nel 1997, ha lavorato nell’esperienza degli utenti in varie aziende high-tech, tra cui Amazon, Yahoo! e 23AndMe. Ha anche lavorato come consulente indipendente nell’ultimo decennio. Xerox ha reso omaggio al pioniere in un tweet mercoledì pomeriggio, scrivendo: “L’inventore di taglia / copia e incolla, trova e sostituisci,

e altro ancora era l’ex ricercatore Xerox Larry Tesler. La tua giornata lavorativa è più semplice grazie alle sue idee rivoluzionarie. Larry è morto lunedì, quindi per favore unisciti a noi per festeggiarlo”. la Ciminiera 15


Il mito di Ulisse, simbolo dell’uomo, si presta a diverse interpretazioni secondo il momento storico e l’immaginazione del cultore.

Domenico Caruso

Nato nel 1933 a S. Martino di Taurianova (Reggio Calabria), dove risiede. Scrittore, poeta e studioso di tradizioni popolari, ha ottenuto diversi premi ed il consenso di critica e di pubblico. Figura in molte prestigiose antologie nazionali. Collabora a riviste culturali, a siti Internet, a Wikipedia.

Il taurianovese esploratore

Gemelli Careri

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Dante (1265/1321) nella ottava bolgia infernale condanna i consiglieri fraudolenti fiorentini, paragonandoli a “lingue di fuoco”, ma cambia atteggiamento di fronte ad Ulisse pur avendo costui violato le leggi divine. Nel segnalare l’eroe greco, il cui errare è l’unica forma di vita, ne valorizza il coraggio e il desiderio di conoscenza e verità. Per Omero, Ulisse rappresenta il viaggiatore che attraversa infiniti pericoli pur di tornare alla nativa Itaca. D’Annunzio (1863-1938), Gemelli Careri - (Foto D. Caruso) a sua volta, lo assume come modello di vita operosa, sdegnoso, “re delle tempeste”, senza bisogno di alcuno per andare avanti, alla ricerca di sempre nuove avventure. Nel leggendario viaggio per l’incontro di Ulisse, Il Vate è al comando di una nave assieme agli intrepidi compagni. A distanza di due secoli dalla fantastica impresa dannunziana, Gemelli affronta da solo la scoperta del mondo. L’Alighieri apprende dall’astuto acheo la tormentata peregrinazione che influenzerà la letteratura successiva. L’invito che l’Odisseo rivolge ai compagni per avventurarsi nell’oceano è un capolavoro di eloquenza retorica:

Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza. (Inf. XXVI, 118-120) Prima del Divino Poeta, da Orazio a Seneca, a Cicerone era stato valutato il patrimonio di saggezza conquistato da Ulisse nel suo viaggio, facendone il simbolo della virtù (“humanitas”) intesa come insaziabile aspirazione umana del sapere. Nel XVII secolo il desiderio di Gemelli di vedersi in azione richiama, ancora, il mito di Ulisse. Nato a Radicena (ora Taurianova) tra il 1648 e il 1651,


Gemelli Careri cessò di vivere a Napoli il 25 luglio 1724. La sua esistenza fu molto laboriosa. Laureatosi a Napoli “in utroque iure” (giurisprudenza) nel 1670, per 14 anni svolse con successo funzioni giuridiche nel Vicereame partenopeo. Costretto a lasciare l’impiego, intraprese un primo viaggio in Europa (Italia, Francia, Inghilterra, Paesi Bassi e Germania). Nel 1686 partecipò alla guerra contro i Turchi in Ungheria rimanendo ferito. Dopo un breve rientro a Napoli, ripartì per l’Ungheria e si distinse sotto il comando del duca Carlo V di Lorena nella battaglia di Mohács (agosto 1687), ottenendo come ricompensa la reintegrazione nella Magistratura del Regno di Napoli per due bienni di auditore, uno a Lecce e l’altro all’Aquila. Trascorso il periodo, intraprese l’avventura del giro del mondo via terra. L’intenzione era di visitare la Terrasanta e l’Impero cinese. Intanto dai concittadini veniva definito: “’Nu vagabundu, chi tantu vagabundau chi giriau ’u mundu”. Si ritiene, invece, che perfino Jules Verne (1828-1905) abbia avuto, dalla geniale impresa del nostro esploratore, l’ispirazione per il suo romanzo “Giro del mondo in 80 giorni”. Il 13 giugno 1693, imbarcatosi su una feluca napoletana, dopo alcune brevi tappe, Gemelli approdò a Gioia Tauro; proseguì, quindi, per Radicena dove sostò fino al 28 del mese. Ripartito, toccò Malta ed Alessandria prima di avviarsi al Cairo e a Gerusalemme. Rientrato ad Alessandria si diresse a Costantinopoli, a Trebisonda e in Persia dove vide le rovine dell’antica città di Persepoli. Raggiunse, in seguito, Daman nell’India (gennaio 1695). Il Gran Mogol gli riservò un’udienza privata e l’avrebbe voluto al suo servizio. Ripartito per Goa, il 4 agosto 1695 fu ricevuto a Macao nel convento dei Padri agostiniani spagnoli. Il 19 agosto a Canton sia i francescani che i gesuiti portoghesi lo ritennero inviato dal Papa in Cina a

Taurianova - (Foto D. Caruso)

prendere informazioni sugli ordini religiosi e la giurisdizione episcopale. Non ostante la smentita dell’ipotesi, i frati l’aiutarono a trovare una guida e un domestico per farlo andare a Pechino, dove giunse il 6 novembre 1695. Là il superiore dei missionari portoghesi Filippo Claudio Grimaldi, in occasione del calendario per l’anno 1696, lo presentò all’imperatore. Dopo Pechino, Gemelli pervenne alla Grande Muraglia (gennaio 1696). Rientrato a Canton, l’8 aprile arrivò alle Filippine. Con un galeone spagnolo, quindi, giunse al Messico e a L’Avana. Da qui tornò in Europa, a Cadice (giugno 1698). Attraversate la Francia e l’Italia, pernottò a Roma, prima di concludere il “giro” a Napoli. Il viaggio durò complessivamente cinque anni, cinque mesi e venti giorni (13 giugno 1693 - 3 dicembre 1698). Gemelli scrisse tre opere edite a Napoli: “Relazione delle campagne d’Ungheria” (1689), “Viaggi per l’Europa” (1693) ed il “Giro del mondo” in 6 volumi (1699-1700) che lo rese famoso. Poiché l’impresa appare fine a se stessa, il Gemelli viene considerato l’inventore del turismo. Furono numerose le ristampe, in diverse lingue, del suo “Giro”. Tuttavia c’è chi ritenne che Gemelli nel suo lavoro fosse stato aiutato dall’amico e collaboratore Matteo Egizio, letterato e archeologo napoletano; altri addirittura l’accusarono di plagio. la Ciminiera 17


Nell’impossibilità di trattare in un servizio la vastità dell’opera, ne rileviamo qualche aspetto. Gemelli nel visitare i vari popoli non si soffermò agli usi, costumi e tradizioni ma puntò anche sui sistemi politici e religiosi. Senza venir meno alla sua Fede cristiana, fece attenzione alle credenze e ai riti dei luoghi raggiunti ponendosi il problema della loro genesi e del loro divenire. Tuttavia, il successo del “Giro del mondo” non procurò all’autore l’anelata promozione ed a nulla valse nel 1701 l’aver dedicato la nuova edizione del “Viaggio in Europa” a Filippo V. Nell’archetipo di Ulisse (“homo viator”),

come accennato, le peripezie sono imposte dagli dei, mentre per Gemelli rappresentano un valore personale. Ogni contestazione non regge al confronto dell’erudito, storiografo e antropologo che seppe ricostruire gli eventi mondiali del suo tempo. Così, anche nel paese natale dovrà essere bandita dal coraggioso viaggiatore l’etichetta di “vagabondo” e venga valorizzata la sua opera straordinaria. È per noi motivo di orgoglio se, dopo Marco Polo (1254-1324), un nostro calabrese realizzò la memorabile impresa del giro del mondo.

Bibliografia essenziale: 1 - Angela Maccarrone Amuso: “Gianfrancesco Gemelli-Careri” - L’Ulisse del XVII secolo Gangemi Editore, Roma - 2000. 2 - “Dizionario Biografico Treccani” alla voce: Gemelli Careri, Giovanni Francesco di Piero Doria.

Un’antica tradizione popolare carnavalesca si rappresenta in quasi tutto il territorio calabrese e prevede la costruzione di un fantoccio, dalle sembianze umane, di un personaggio chiamato “Carnalavari” o “Vicenzuni”.

Con il Fuoco purificatore si conclude il Carnevale e si entra nel tempo dell’astinenza di Coraijsima di Franco Vallone

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Un fantoccio riempito di paglia, con pantaloni, giacca e coppola scura, mani ricavate da guanti da cucina riempite di segatura. Dalla bocca e da sotto la giacca di Carnalavari escono fuori salcicce, polpette e lardo, mentre in una mano Vicenzuni stringe un fiasco di vino rosso. Il fantoccio viene portato in processione su una specie di barella. Dietro il corteo seguono maschere di tutti i tipi ed in particolare uomini, donne e bambini vestiti da prete e chierichetti, da infermiere, da medico e da notaio. In prima fila, dietro il finto feretro, la sorella – moglie – vedova di Carnevale, denominata Corajisima (Quaresima). Altre maschere, che seguono la processione – funerale, vestono abiti militari, di soldato o Carabiniere, ma anche da marinaio o da aviere. Ad un certo punto della rappresentazione il Carnalavari si sente male! ha mangiato troppe polpette, salsicce e lardo, ha bevuto troppo vino, ha fatto una grande indigestione.


Il medico lo visita scrupolosamente e a questo punto decide di operare subito con una grande sega da falegname. Dalle viscere del povero carnevale morente vengono tirate fuori varie reste di salcicce e centinaia di polpette e salumi vari. Con un bottiglione di vino rosso e un tubo di gomma viene costruita una gigantesca flebo utilizzata per cercare di salvare l’ammalato che si aggrava a vista d’occhio, sempre di più. A sera la farsa si conclude con il testamento e la morte di Carnevale che viene, ancora una volta, portato in processione, seguito da Coraisima che, affranta dal dolore, piange e si dispera, e da un’allegra banda di suonatori di pipita e zampogna, tamburelli e pifferi che rendono il clima permeato di follia. Alcune volte a seguire il corteo è la banda del paese che suona le marce

funebri, utilizzate di solito il Venerdì Santo, alternandole con pezzi jazz e motivi decisamente molto più allegri. Il rumoroso corteo prosegue, tra le urla dei presenti, fino ad uno spiazzo isolato, alla fine del paese. Qui il carnalavari viene adagiato a terra, cosparso di benzina, alcol o petrolio, e incendiato in un falò purificatore tra i pianti delle prefiche ciangiuline e tra scompisciate risate dei presenti. Molti degli accompagnatori, in questa occasione, ballano tarantelle, tipica espressione popolare dove, con gesti di imitazione ben ritualizzati che rientrano nella sfera magica, si recupera il tempo e lo spazio speciale del chiudersi nel cerchio sacrale che è, a sua volta, elemento tipico degli scongiuri e dell’evocazione magica. Tarantelle dalle gestualità antiche del contendere lo spazio magico conquistato, un conflitto non risolto all’interno dello spazio conteso. È carnevale, è il tempo straordinario dove tutto è possibile, dove tutto viene ribaltato e capovolto. I poveri diventano ricchi, i maschi diventano femmine e dove, almeno per un giorno, la trasgressione prende il sopravvento sulla normalità del quotidiano. Ora che il carnevale si è concluso con il falò purificatore tutto rientra nel ritmo infinito della normalità quotidiana, da oggi subentra la sorella triste, Quaresima, che ci trasporterà nei tempi straordinari della Settimana Santa.

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Coscienze Umiliate Primo episodio

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Angelo Di Lieto PRESENTAZIONE Le grandi figure storiche femminili non sempre hanno avuto fortuna nella vita, né sono vissute felici di stare in un corpo femminile. Spesso il prodotto donna è una negativa manipolazione della cultura di una società retta da uomini che relega la donna in alcuni ruoli e non consente un’autonomia ed un’individualità paritaria, come dovrebbe essere per tutti gli esseri della terra, probabilmente imputabile ad un falso e primitivo convincimento inerente il suo stato di essere fragile, debole e come tale bisognosa sempre di ricevere, dalla costante presenza maschile, protezione e sicurezza. Lo scontro antropologico tra sessi, nel consuntivo passato, è risultato per le donne perennemente perdente, perché esse hanno avuto reiteratamente grandissime difficoltà ad entrare “in diretta” nel manipolato ed adamantino meccanismo culturale maschile ed a porsi su un bilanciato e paritario piano di rispetto e di difesa dei propri diritti, della propria indipendenza e dignità. Le antiche tragiche storie rinvenute, costituiscono, nella realtà presente, la prova del radicale ma anche del lento cambiamento di una retrograda e distorta visione che si aveva nei secoli passati. 20 la Ciminiera

IL CASTELLO DI BELVEDERE MARITTIMO E RUGGERO DI SANGUINETO La Calabria, nel passato, è stata ricca di Castelli, ma non tutti sono stati testimoni di una vita felice e spensierata da parte dei loro occupatori. Quando nelle notti d’inverno il freddo è particolarmente pungente e la pioggia picchia incessantemente da giorni rendendo tutto intorno il paesaggio triste e nebbioso e le case umide e gelide, solo innanzi ad un bel camino scoppiettante di ardente fiamma si crea l’atmosfera ideale per rievocare e raccontare storie di antichi amori e di feroci eccidi, o di geste eroiche e di ardimento vissute ed ancora non dimenticate dalla tradizione orale. Tanti episodi o eventi vengono ricordati, non solo perché non si perda la memoria, ma anche perché si abbia conoscenza che un determinato comportamento popolare può modificarsi proprio a seguito di un traumatizzante avvenimento, per cui, a posteriori, conoscendo l’evento, si riesce con pietà a comprendere ed a giustificare l’avvenuta trasformazione delle abitudini e della vita locale. Oggi non vi sono più i cantastorie che, muovendosi nei giorni di festa in un antico viaggio culturale, di paese in paese, di strade in strade o di piazze in piazze, per pubblicizzare e rendere quasi immortale il loro racconto, cantilenavano in versi, con passione ed ardimento, agli increduli spettatori, attraverso le immagini dipinte in sequenza su un tabellone, vecchie storie o fatti di cronache passionali. Lo spirito e l’intento etico, forse, non sono ancora cambiati. Nel nostro secolo, un avvenimento potrà essere rappresentato in qualsiasi modo, ma ogni storia di amore o di morte, di ardimento o di eroismo, di valori o di coraggio, di onore o di rispetto, come in questo racconto, dovrà eternamente insegnare a vivere e a rispettare, anche se da vinto o da vincitore, il proprio nemico infelicemente segnato dalla sorte. Ecco la storia… Si ritiene che Belvedere Marittimo sia nato dopo la


Castello Belvedere Marittimo

distruzione di “Blanda”, chiamata dai Greci anche “Skydros”, dalla parola greca “kydros” , che vuol dire “cedro”, frutto che ancora sopravvive sul territorio.

Blanda fu forse fondata da Galo, discendente di un figlio di Noè, dopo il diluvio, che si chiamava Jafet. Il clima dolce e mite probabilmente diede origine al nome “blando”. Blanda era stata sostenitrice di Annibale, per cui, quando il condottiere cartaginese sconfisse Roma nella battaglia di Canne nel 216 a. C., le legioni romane, dopo tre anni, per vendicarsi, guidati da Fabio Massimo, distrussero la “Torre” di Emilio (Lucio) Paolo il Vecchio, che qualche anno prima l’aveva fatta edificare su di una roccia a piramide, in località “Rocca”, a tre chilometri dalla Marina di Belvedere. Saccheggiata e distrutta Blanda, i superstiti si ritirarono su di una collina dove oggi sorge Belvedere Marittimo. La nuova città fu fortificata con mura, le quali restano visibili alla Porta di Mare, alla Porta degli Orti, alla Porta della Piazza ed alla Porta del Praio o Fosse, dal nome dei primi cristiani, che venivano chiamati “fossores”. Questi ingressi costituivano l’entrata e l’uscita della città. Così il nuovo centro

fu chiamato “Belloviderium” ( = bello da vedere), trasformato poi in ”Belvedere”, perché da una parte vi era il mare, dall’altra i monti, spazi infiniti e profumati di fiori selvatici, di cedri, di verde che rendevano l’aria particolarmente odorosa e olezzante. Si respirava il delicato profumo della natura, mentre il differente cinguettìo degli uccelli distraeva la mente ascoltando quei toni flebili e musicali che nascevano in un sottobosco luminoso e brillante. Là la natura non aveva confini. Il Castello che esisteva, era stato edificato forse in epoca anteriore al X secolo, solo che il tempo e l’incuria degli uomini avevano quotidianamente distrutto e cancellato il passato e la sua vita. Il Castello di Belvedere Marittimo non ha una data di nascita; i suoi ruderi sprofondati nei rovi e nelle erbacce non parlano e si presentano muti e testimoni assertori di un tempo vissuto. Restaurato nel 1490 da Ferdinando d’Aragona, era appartenuto al feudo di Girolamo Sanseverino, che, appena ultimato, aveva notevolmente fortificato con cannoni e con un manipolo di soldati. In aggiunta il Re aveva voluto collocare sulla porta d’ingresso una lapide, sulla quale era stato celebrato, a ricordo, che l’opera era stata recuperata a spese degli abitanti e con la Ciminiera 21


il loro stesso lavoro materiale. La lapide portava la data del 1490. L’iscrizione fu successivamente resa mutila dal principe Carafa, che malamente tollerò che un Castello di sua proprietà fosse stato restaurato con le contribuzioni personali ed il sudore dei cittadini di Belvedere. L’evento che verrà ricordato, è datato 1289. Giacomo d’Aragona, che all’epoca governava la Sicilia, pensò che il Castello di Belvedere, poteva essere un baluardo di osservazione importantissimo, dal quale avrebbe potuto conoscere anticipatamente eventuali nemici che via mare lo avrebbero potuto attaccare sul territorio siciliano. Anzi nella circostanza pensò non solo che avrebbe potuto fronteggiare anticipatamente ogni armata nemica, ma che anche avrebbe potuto assalirli alle spalle avendo contestualmente una forza

consistente nel feudo di Belvedere. Pertanto, incominciò ad attaccare per prima le Città calabresi di Reggio Calabria, Seminara e Monteleone, che dopo un brevissimo scontro dovettero subito arrendersi e sottostare ad ogni sorta di saccheggio, di stupro e di nefandezze che un esercito ostile può mettere in atto in fase di occupazione. Successivamente tutti i paesi che egli attraversava, pur di limitare i danni ed ogni evento tragico, preferirono arrendersi senza colpo ferire e sottomettersi ad ogni sorta di prepotenza e di spoliazione. Con queste facili conquiste e con le notizie che correvano, Giacomo d’Aragona era convinto che la sua fama di indiscutibile conquistatore era ormai sufficiente per intimidire gli abitanti del territorio di Belvedere e per raggiungere il suo obiettivo. Così, prima di attaccare, mandò degli ambasciatori, i quali ebbero cura di riferire a Ruggero di Sanguineto, Signore

Castello Ruggero di Lauria 22 la Ciminiera


di Belvedere, uomo fedele a Carlo II d’Angiò, Re di Napoli e di Sicilia, che se non si fosse arreso con gli abitanti, il paese sarebbe stato messo a ferro e a fuoco da parte del suo esercito. Ruggero non si fece affatto intimidire dalle minacce ricevute, anzi, con grande dignità e senso dell’onore, replicò agli ambasciatori che si sarebbe saputo difendere “ da un ingiusto assalitore”. Giacomo d’Aragona, furioso per la risposta ottenuta, convocò tutto l’esercito, diede i suoi ordini e partì alla volta di Belvedere. Ruggero, ricevuto rinforzi dai paesi vicini, con grande coraggio ed ardimento, organizzò la sua difesa, ma Giacomo d’Aragona, intuito che la parte del castello sul lato mare era alquanto sguarnita, inviò su quel lato duecento tra i più ardimentosi e coraggiosi dei suoi soldati, con l’intento di sfondare la linea e penetrare molto facilmente dentro il maniero. Ma gli assediati, che osservavano attentamente le vicende della battaglia, quando si accorsero che quel punto stava indebolendo tutta la loro difesa, si precipitarono su quel lato, visibilmente fragile, e con spade e mazze difesero strenuamente la posizione, provocando nelle file nemiche un gran numero di morti e di feriti. Molti, invece, preferirono mettersi in fuga e correre a gambe levate. Ruggero, forse infervorato dallo spettacolo di fuga dei suoi nemici e dall’ardimento dei suoi soldati, uscì allo scoperto ed inseguì l’esercito nemico. Insieme a Ruggero di Sanguineto uscirono anche due suoi figli per inseguire i fuggitivi, ma non appena Giacomo d’Aragona ricevette dalla controdifesa rinforzi, Ruggero diede subito ordine di rientrare nel castello. I figli, però, dei quali non si conoscono i loro nomi, perchè la Storia non li ha mai riportati, che si erano spinti oltre e che si erano anche attardati, non si accorsero della reazione in atto del loro nemico e così furono entrambi catturati.

Nel momento in cui Ruggero si accorse della mancanza dei figli, ordinò ai suoi cavalieri di ritornare nuovamente sul campo nemico. Quando però si accorse che non c’erano tra gli uomini che giacevano morti o feriti sul campo, rattristato notevolmente, si ritirò nel suo castello, grandemente preoccupato per la sorte dei suoi cari. Tra i mille pensieri e preoccupazioni pensò di inviare subito a Giacomo d’Aragona ricchi doni ed asini carichi di ori e di argento con l’intento di farsi consegnare i figli, ma Giacomo, agli inviati di Ruggero, replicò che era finalmente giunto il momento che il Castello di Belvedere venisse consegnato nelle sue mani. Ruggero, a questa richiesta, non si arrese, anzi ordinò l’attacco verso il campo nemico. I suoi soldati lottarono come leoni, sia per difendere il loro sito e le loro famiglie e sia per vendicare l’onta resa al loro padrone. Quando Giacomo d’Aragona si accorse che innanzi a tanto ardimento ed eroica ostinazione stava correndo il rischio di perdere, fece legare a due distinti pali i due figli di Ruggero con la speranza che l’esercito del Signore di Belvedere si arrendesse per non colpire con i dardi i due illustri prigionieri. Allorché Ruggero si accorse che i suoi soldati avevano rallentato il furore della battaglia per non colpire i figli, diede subito ordine di riprendere il lancio dei dardi. Innanzi a questa inaspettata reazione degli aragonesi, i soldati nemici, sorpresi ed increduli, si sbandarono e si misero in fuga. Quando la battaglia cessò, la vittoria di Ruggero di Sanguineto si era trasformata in un atroce e tremendo risultato: il figlio minore era stato ucciso da un dardo durante la furiosa battaglia. Giacomo d’Aragona, innanzi alla sconfitta, pensò subito di allontanarsi e di ritornare in Sicilia, ma prima di la Ciminiera 23


partire, avvolse in un prezioso drappo l’infelice figlio di Ruggero e facendolo accompagnare dai suoi ufficiali di più alto di rango e dai suoi soldati, unitamente all’altro figliolo, perfettamente incolume, lo restituì, rendendo così omaggio al vero vincitore del Castello di Belvedere. Questo episodio dimostra che le atrocità

della guerra non sempre rendono ciechi e bruti gli uomini che vi partecipano, perché quando si ha l’animo nobile e sensibile, il dolore diventa universale e profondamente sentito anche da chi, come in questa storia, avrebbe desiderato solo uccidere e vincere. Peccato che ci si accorge solo un attimo dopo e non un momento prima.

Bibliografia - Nocito V. = “Belvedere Marittimo” a cura di Francesco Spina - II Edizione - Genova - 1975. - Gaetano Vena = ”Itinerari attraverso i 13 Comuni della Comunità Montana dell’Appennino Padano” - Pellegrini Editore - Cosenza - 1981. - Antonio Verre = “Ruggero di Sanguineto” - da “Rivista Storica Calabrese” - Anno XV GennaioMarzo - 1907.

Fra i nuovi adempimenti causati dall’attuazione del GDPR c’è l’obbligo a nominare il Data Protection Officer (DPO) ovvero il responsabile della protezione dei dati personali.

Data Protection Officer

(DPO)

di Raoul Elia

Figura già presente nelle organizzazioni più complesse presenti anche nel mercato italiano, il DPO è ora obbligatorio in tutte le pubbliche amministrazioni e in alcuni casi anche in ambito privato. Con l’arrivo del decreto di adeguamento italiano al Gdpr, le organizzazioni italiane sono chiamate all’attuazione delle nuove norme. Compresa, appunto, la nomina del DPO. Secondo il Regolamento generale sulla protezione dei dati 2016/679 | GDPR, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale europea L. 119 il 4 maggio 2016, il DPO è un professionista con un ruolo aziendale (può essere sia un soggetto interno che esterno) con competenze giuridiche, informatiche, di risk management e di analisi dei processi. La sua responsabilità principale è osservare, valutare ed organizzare la gestione del trattamento di dati personali (e dunque la loro protezione) all’interno di un’azienda (sia essa pubblica che privata), affinché questi siano trattati nel rispetto delle normative privacy europee e nazionali. Ma entriamo più nello specifico.

Cosa deve fare un DPO? Le linee guida pubblicate dal Gruppo europeo dei Garanti ex art. 29, in consultazione pubblica fino alla fine di gennaio 2017, forniscono alcune indicazioni su cosa sia il DPO: il DPO è un supervisore indipendente, deve essere designato obbligatoriamente da soggetti apicali di tutte le pubbliche amministrazioni e nello specifico è previsto l’obbligo nel caso in cui “il trattamento è effettuato da un’autorità pubblica o da un organismo pubblico, eccettuate le autorità giurisdizionali quando esercitano le loro funzioni giurisdizionali”. Il Regolamento sulla Data Protection, entrato in vigore il 25 maggio 2016 e applicato in tutti i 28 Stati membri UE a decorrere dal 25 maggio 2018, disciplina l’istituzione della figura del Data Protection Officer (in italiano Responsabile della protezione dei dati) nei seguenti casi: “a) il trattamento è effettuato da un’autorità pubblica o da un organismo pubblico, eccettuate le autorità giurisdizionali quando

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esercitano le loro funzioni giurisdizionali; b) le attività principali del Titolare del trattamento o del Responsabile del trattamento consistono in trattamenti che, per loro natura, ambito di applicazione e/o finalità, richiedono il monitoraggio regolare e sistematico degli interessati sularga scala; oppure c) le attività principali del Titolare del trattamento o del Responsabile del trattamento consistono nel trattamento, su larga scala, di categorie particolari di dati personali di cui all’articolo 9 (dati particolari | sensibili) o di dati relativi a condanne penali e a reati di cui all’articolo 10”.

I dati del DPO L’articolo 9 del Regolamento al comma 1 definisce quali siano le categorie particolari di dati personali (ex dati sensibili) a cui è legato l’operato del DPO. In particolare, i dati personali in questione sono quelli che rivelano “l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale”, nonché i dati genetici, i dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, i “dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona”. L’art. 39 del Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali elenca i principali compiti del DPO (Responsabile della protezione dei dati): 1. Il responsabile della protezione dei dati (DPO) è incaricato almeno dei seguenti compiti: a) informare e fornire consulenza al Titolare del trattamento o al Responsabile del trattamento nonché ai dipendenti che eseguono il trattamento in merito agli obblighi derivanti dal presente regolamento nonché da altre disposizioni dell’Unione o degli Stati membri relative alla protezione dei dati; b) sorvegliare l’osservanza del presente regolamento, di altre disposizioni dell’Unione o degli Stati membri relative alla protezione dei dati nonché delle politiche del Titolare del trattamento o del Responsabile del trattamento in materia di protezione dei dati personali, compresi l’attribuzione delle responsabilità, la sensibilizzazione e la formazione del personale che partecipa ai trattamenti e alle connesse attività di controllo; c) fornire, se richiesto, un parere in merito alla valutazione d’impatto sulla protezione dei dati e sorvegliarne lo svolgimento ai sensi dell’articolo 35; d) cooperare con l’autorità di controllo; e e) fungere da punto di contatto per l’autorità di controllo per questioni connesse al trattamento, tra cui la consultazione preventiva di cui all’articolo 36, ed effettuare, se del caso, consultazioni relativamente a qualunque altra questione”.

Nell’eseguire i propri compiti, il responsabile della protezione dei dati considera i rischi inerenti al trattamento, tenuto conto della natura, dell’ambito di applicazione, del contesto e delle finalità del trattamento stesso. Come si può intuire da quanto detto sopra, i complessi compiti affidati al DPO sono previsti solo a livello minimale dal regolamento potendo quindi il titolare e il responsabile affidarne altri compiti. Di sicuro, comunque, il DPO deve: 1) informare e fornire consulenza a titolare e al responsabile del trattamento nonché ai dipendenti degli obblighi derivanti dal regolamento; 2) sorvegliare l’osservanza del regolamento, nonché delle altre disposizioni europee o di diritto interno in materia di protezione dati; 3) sorvegliare sulle attribuzioni delle responsabilità, sulle attività di sensibilizzazione, formazione e attività di controllo; 4) fornire pareri e sorvegliare alla redazione della Data protection impact assessment (c.d. Dpia); 5) fungere da punto di contatto e collaborare con l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali; 6) controllare che le violazioni dei dati personali siano documentate, notificate e comunicate (c.d. Data Breach Notification Management). Al DPO può essere affidata inoltre la gestione degli inventari e del registro dei trattamenti e delle attività di trattamento ex art. 30, sebbene, a stretto rigore, la specifica conservazione del registro della attività di trattamento ex art. 30 del regolamento europeo resti appannaggio del titolare e del responsabile. Il DPO può essere un dipendente dell’organizzazione oppure esterno in forza di un contratto di servizi; in quest’ultimo caso, mentre l’indipendenza intesa come non ingerenza nelle proprie attività è un elemento più facile da soddisfare rispetto al DPO interno, il conflitto di interessi dovrà comunque essere disciplinato tenuto conto di alcune specificità del DPO esterno. il DPO non può rispondere personalmente della non conformità dell’organizzazione al regolamento europeo, dato che queste responsabilità dirette ricadono esclusivamente sul titolare e sul responsabile (ovvero, nella scuola, il Dirigente scolastico).

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Le notizie dai Blog ARTISTS UNFRAMED:

GLI SCATTI RARI CHE RITRAGGONO CELEBRI ARTISTI NELLA LORO VITA QUOTIDIANA http://www.lanonaporta.net/blog

I loro nomi sono importanti quanto un marchio di fabbrica, i loro volti sono pressoché sconosciuti. Chiunque è in grado di associare, ad esempio, al nome di Picasso una sua opera o quantomeno uno stile inconfondibile, individuabile tra mille altre creazioni artistiche. E se invece incontrassimo Picasso per strada? Saremmo in grado di riconoscerlo quanto la sua Guernica o il Ritratto di Dora Maar?

Artists Unframed di Merry A. Foresta

Mentre musei e collezionisti si contendono le loro opere d’arte, Merry A. Foresta ha preferito oltrepassare le stupende tele per cogliere la quotidianità degli artisti che si nascondono alla loro ombra e di radunare alcuni scatti rari in Artists Unframed (“artisti senza cornice”). Lee Krasner, Stella Pollock, Pablo Picasso in un momento e Jackson Pollock della vita quotidiana, insieme alla figlia Maya. Sul fondo si può leggere una nota: “Sua figlia, della quale è innamoratissimo”.

Walt Kuhn

Lee Krasner e Jackson Pollock

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Frida Kahlo – in questa foto ritratta con il collega/ marito Diego Rivera – è un caso a parte. Il suo volto è reso celebre da numerosi ritratti, uno dei quali presente su un francobollo emesso dagli Stati Uniti nel 2001. L’anno successivo nelle sale cinematografiche fece la sua apparizione Frida, film biografico interpretato da Salma Hayek.

Georgia O’Keeffe è forse la pittrice statunitense più celebrata del momento. Il legame con il sud del suo paese può essere percepito attraverso una panoramica delle sue opere. Posato il pennello, l’artista amava rilassarsi magari in compagnia di persone non meno dotate di talento: in questa foto la vediamo che posa per una scultura di Una Hanbury.

Quando Yoko Ono e John Lennon non erano impegnati a farsi fotografare nudi a letto, la controversa coppia non poteva che frequentare artisti stravaganti come Andy Warhol.

David Hockney

Gertrude Abercrombie Dizzie Gillespie

e Marcel Duchamp, Jacques Villon e Raymond Duchamp-Villon

Ansel Adams

Autore di opere astratte capaci di trasmettere ansia alla più tranquilla delle persone, l’ispirazione di Jackson Pollock non doveva certamente arrivare dalle tranquille spiagge che frequentava in compagnia del suo allegro cane.

Helen Lundeberg

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14 ottobre 1918 1) - Curare la più scrupolosa nettezza della persona e dei luoghi di abitazione, sia familiari, che colletttivi (Laboratori, officine, scuole, collegi, uffici, caserme ect). E cioè: prendere bagni generali frequentemente; lavarsi le mani almeno ogni volta prima dei pasti; sciaquarsi la bocca e fare gargarismi con soluzioni disinfettanti inocui) dentifrici a base di acido fenico, acqua ossigenata etc). Non sputare mai a terra e mantenere costantemente puliti i pavimenti delle abitazioni, degli opifici, delle officine, delle scuole, delle caserme etc. compresi i corridoi e le scale, mediante segatura o stracci bagnati di una soluzione disinfettante, senza sollevare polvere. La polvere. in modo speciale quella delle abitazioni, costutuendo uno dei pericoli più gravi per la nostra salute in ogni tempo, ma specialmente quando domina l’influenza. La nettezza rappresenta il mezzo più semplice, più pratico e più efficace per tener lontani i germi infettivi di qualsiasi natura.

(1918-1920)

Spagnola:

l’influenza che fece più morti della guerra. da 50 e 100 milioni di morti nel mondo

In Italia: più di 4 milioni di malati

In Italia la spagnola contagiò circa 4,5 milioni di persone, cioè il 12 per cento della popolazione, facendo registrare uno dei più alti tassi di mortalità in assoluto, secondo solo a quello russo. Colpì duro soprattutto nelle regioni del Sud, dove quasi il 70 per cento dei contagiati nonsopravvisse. A un certo punto il Governo, preoccupato che la difficile situazione minasse il morale, già basso,della nazione, vietò il rintocco funebre delle campane, così come gli annunci mortuari, i cortei e i funerali. Nel frattempo, al fronte e nelle trincee italiane, il virus mieteva indisturbato sempre più vittime, facendo registrare anche 3.000 nuovi casi al giorno. Nella 1a armata, nell’ultimo quadrimestre del 1918, si ebbero 32.482 casi di contagio con 2.703 morti. A quelli dei soldati si aggiunsero i molti decessi registrati tra il personale sanitario e addetto ai trasporti, che venivano a contatto con i malati.

2) - Mantenere inalterate, per quanto è possibile, le condizioni di vita ordinarie. E cioè: viaggiare in ferrovia il meno possibile e non affollare le tranvie; mangiare CIBI SANI e regolarmente ai pasti; non prendere alcuna medicina, se non prescritta dal medico, e diffidare dei rimedi cosidetti preventive giacchè non si conosce alcuna sostanza che serva ad impedire l’attacco d’influenza, mentre invece l’ingestione di medicamenti, non necessaria, potrebbe indebolire i poteri di resistenza naturali dell’organismo. 3) - Evitare tutti i contatti con persone, non necessari. E cioè non visitare i malati e i convalescenti d’influenza anche se di .... leggerissima: non frequentare luoghi ove il pubblico si affolla (osterie, caffè, teatri, chiese, sale di conferenza, etc. etc.). Così facendo, si mette in pratica l’unico mezzo veramente efficace di difesa contro l’influenza, ossia l’isolamento di coloro che portano seco e spandono il germe della malattia, e che sono i malati di forme leggere, che non obbligano al letto. I convalescenti e quelli che furono a contatto di malati, senza ammalarsi essi stessi. 4) - Evitare qualsiasi eccesso nel mangiare e nel bere. Gli alcolici non servono a preservare dall’influenza; anzi i bevitori sono meno resistenzi, specialmente alla complicazione più frequente di essa, che è la polmonite. 5) - Appena si avvertono i primi segni della malattia (mal di gola, mal di capo, dolori muscolari e alle articolazioni, malessere generale, brividi di freddo) mettersi subito a letto, e chiamare il medico, la attesa del medico si può tutt’al più mettere l’intestino con un purgante, non predendo cibi solidi, ma solo brodo e latte. Terminata la malattia, non abbandonare il letto se non quando sono scomparsi completamente la febbre e tutti gli altri sintomi del male e non uscire di casa se non quando si sono riacquistate anche le forze. Chi trascura queste precauzioni facilmente ricade malato e le ricadute sono sempre più gravi, e spesso anzi mortali. 6) -Durante la malattia si adottino tutte le norme comuni alle altre forme contagiose. E cioè: il malato non dev’essere avvicinato che dal medico e da chi l’assiste; escluse assolutamente le visite dei parenti e dei conoscenti anche quando si tratta di forme lievissime; gli sputi saranno raccolti entro recipienti appositi, e versati nelle latrine dopo l’aggiunta di una soluzione disinfettante; le biancherie saranno bagnate della stessa soluzione, prima di essere esportate dalla camera e date al bucato; gli utensili da tavola verranno immersi in una soluzione di soda al 2% e fatti in essa bollire. Finita la malattie, si lascerà ventilare smpliamente la camera. tenendo le finestre aperte, e sciorinando bene all’aria, entro la camera stessa , tutti gli effetti letterecci, per tre o quattro giorni. Così facendo, il virus dell’influenza resta distrutto anche senza ricorrere alle disinfezioni.


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