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Spionaggio o tradimento nello sbarco di CARLO PISACANE ?

La medaglia di

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24 ANNI DI PRESENZA Le nostre iniziative EDITORIALE Pasquale Natali

Cari amici anche questo mese di Giugno con piacevole fatica “La Ciminiera” del Centro Studi Bruttium si presenta a voi con una serie d’interventi interessanti e piacevoli nella lettura. Inizio con il presentarvi l’artista Dino Vincenzo Patroni, che ebbi il piacere di conoscere nel lontano febbraio del 1998 (ben 22 anni fa) alla prima della mostra di arte contemporanea tenuta nella nostra galleria d’arte “Le nove muse” a Catanzaro Lido, se ricordo bene l’artista era il grande siciliano Giusto Sucato (scomparso nel 2016) e il titolo della mostraconferenza “I territori dell’amore”. Questo nuovo incontro mi ha aperto un cassetto di memorie bellissime perché era all’inizio della mia avventura con il Centro Studi Bruttium. Ma bando ai ricordi, piacevoli ma sempre ricordi, per un presente ancora spumeggiante grazie a Dino Patroni e alla sua meravigliosa medaglia dedicata a un eroe del nostro Risorgimento “Carlo Pisacane”. Apriamo con lui la lettura della “La Ciminiera” . Il resto scopritelo voi, e se avete il piacere di darci consigli, per ampliare i nostri orizzonti, sappiate che sarete sempre accolti a braccia aperte, le nostre pagine sono sempre bianche e prendono vita solo grazie al vostro entusiasmo nel condividere le vostre con le nostre fatiche.

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Anno XXIV Numero 5 - 2020 Direttore Responsabile Giuseppe Scianò Direttore editoriale Pasquale Natali Presidente Raoul Elia Progetto Grafico csbruttium.altervista.org centrostudibruttium.org/blog/ info@centrostudibruttium.org Direzione, redazione e amministrazione CENTRO STUDI BRUTTIUM Iscr. Registro Regionale Volontariato n. 114 Iscr. Registro Regionale delle Ass. Culturali n. 7675 via Bellino 48/a, 88100 - Catanzaro tel. 339-4089806 - 347 8140141 www.centrostudibruttium.org/blog/ info@centrostudibruttium.org C.F. 97022900795 Stampa: pubblicato sul sito associativo: www.centrostudibruttium.org/blog/ DISCLAIMER: Le immagini riprodotte nella pubblicazione, se non di dominio pubblico, riportano l’indicazione del detentore dei diritti di copyright. In tutti i casi in cui non è stato possibile individuare il detentore dei diritti, si intende che il © è degli aventi diritto e che l’associazione è a disposizione degli stessi per la definizione degli stessi.

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UN’IMPORTANTE MEDAGLIA D’ARTE CONIATA DALL’AIAM PER CELEBRARE IL BICENTENARIO DELLA NASCITA DELL’EROE RISORGIMENTALE CARLO PISACANE

E’ una pregevole opera d’arte eseguita dallo scultore Vincenzo Dino Patroni (ex docente anni fa anche presso l’Accademia di Belle Arti di Catanzaro) il medaglione in bronzo creato dal noto artista salernitano nell’anno 2000 in cui è effigiato l’eroe Carlo Pisacane per essere destinato ad enti e collezionisti privati. Questa scultura, realizzata in un tondo modellato a bassorilievo, fu poi utilizzata dall’AIAM – Associazione Italiana per l’Arte della Medaglia* – con l’autorizzazione dell’autore anch’egli socio dell’istituzione, quale medaglia annuale coniata dal prestigioso sodalizio in occasione del bicentenario della nascita di Carlo Pisacane, nato a Napoli il 22 agosto 1818. La coniazione di suddetta opera del Patroni fu affidata dall’AIAM alla Ditta Picchiani & Barlacchi di Firenze per l’esecuzione di pochissimi esemplari del diametro di mm.70 destinati ai soli associati AIAM ed elargiti anche a prestigiosi collezionisti di Numismatica italiani. Il modello in bronzo, consistente in un medaglione del diametro di cm. 33,4, fu già presentato al pubblico per la prima volta durante un famoso

convegno organizzato dall’U.P.L.E. - Università Popolare della Libera Età - di Sapri il 4 maggio 2002. Successivamente a tale avvenimento, l’Amministrazione Comunale di Torraca (Salerno) acquistò dall’artista un multiplo in bronzo di quest’opera monumentale collocandola su una stele di pietra locale a Piazza dell’Olmo nel piccolo paese cilentano alle spalle di Sapri e posto proprio dove Carlo Pisacane, quattro giorni prima di essere ucciso in combattimento a Sanza, lesse il suo proclama rivolgendosi alla gente del posto sperando nell’arruolamento di uomini per la sommossa popolare. Tra gli autorevoli relatori di quello storico convegno di Sapri del 4 maggio 2002, presente l’insigne Prof. Giuseppe Colucci, uno dei membri dell’Accademia Italiana di Studi Numismatici, il quale così si espresse: “…Delineare nel bronzo la fisionomia del personaggio e da questa far trasparire il suo carattere non è da tutti e solo la perfetta conoscenza dei contenuti emozionali dell’opera di Pisacane ha permesso la creazione di una medaglia (bronzo fuso uniface di cm.34,3 di diametro) non oggetto ma testimonianza di quei messaggi, un ritratto vivente di chi ha ancora qualcosa da dirci. E il Pisacane di Patroni ha qualcosa da dirci. la Ciminiera 3


Di Pisacane è presentata la testa di 3/4 con una capigliatura “eroica” ed uno sguardo forte e fisso negli occhi di chi guarda e la bocca appena socchiusa come chi ha appena posta una domanda o una serie di domande, e aspetta la risposta, la nostra risposta. Forse accennano un sorriso quelle labbra, non di scherno né di supponenza, ma quasi a sottolineare la difficoltà delle risposte. E lo sguardo è di chi è consapevole delle proprie ragioni ideali, indipendentemente dal fallimento del momento, ed è consapevole che la sua azione è stato lievito per quell’altra che tre anni dopo porterà a termine Garibaldi…”; “…Patroni ha magistralmente modellato una medaglia per celebrare l’artefice di un avvenimento antico, ha usato uno stile chiaramente impressionistico, uno stile vicino all’epoca della “spedizione di Sapri”, ma il messaggio è decisamente moderno, attuale. Cosa vogliono questi occhi fissi, cosa si aspettano da noi, cittadini di quest’epoca, figli dei figli di quel 1857? Forse vogliono una nostra dichiarazione d’amore: amore per gli ideali di giustizia e di libertà che mossero Pisacane, amore per la gente per la nostra gente, anche per quella che in quel luglio non capì perché non poteva capire, perché non gli fu dato di capire. Ognuno fece quello che doveva fare; e il Pisacane che ci presenta Vincenzo Dino Patroni è ben consapevole di tutto ciò e appare quasi soddisfatto per quanto ancora oggi noi leggiamo del suo messaggio. Il merito dell’artista consiste anche nell’essere riuscito, attraverso la plasticità del modellato, a dare all’eroe un linguaggio universale, che attraverso la medaglia rimarrà per sempre e a disposizione di tutti.” Seguì poi l’intervento prestigioso del Dott. Angelo Di Lieto, noto scrittore, storico ed artista catanzarese di adozione e nativo di Amalfi, il quale così concluse il suo intervento riguardante il medaglione presentato ufficialmente e per la prima volta al pubblico dal maestro salernitano: “…Oggi l’artista Vincenzo Dino Patroni a circa 150 anni dal tragico evento, idealmente ha fuso in bronzo il “medaglione 4 la Ciminiera

della ricompensa” e nel segno, simbolo del recupero del ricordo perenne di Carlo Pisacane e dei suoi eroi, ha racchiuso in questa straordinaria scultura il passato vissuto ed il vissuto vagheggiato, la maturità del carattere come sigillo della Storia, la coscienza dell’altra sponda raggiunta immolando negli ideali la propria vita con fede e purezza d’animo, le ombre e le luci degli avvenimenti che si vissero prima, durante e dopo, graficamente segnati con le emotività interiori e con le debolezze umane, il fallimento di un progetto sognato e non realizzato…e poi ancora i valori, l’entusiasmo, lo spirito di abnegazione e la vita di tutti coloro che morirono per l’Italia libera ed indipendente.” Il Dott. Roberto Ganganelli, importante numismatico italiano e Direttore della rivista on line specializzata “Cronaca Numismatica”, nel numero 137 del 24 marzo 2020 con un suo articolo firmato dal titolo “Il fiero Carlo Pisacane del Maestro Patroni diventa medaglia per l’AIAM”, tra l’altro, così scrive: “…Pur nel ridotto diametro della medaglia coniata emerge il fine “monumentale” dell’opera originaria da cui anche grazie alla perizia dell’autore nella modellazione dei ritratti, scaturisce una fisionomia di grande espressività. Ci colpisce, in particolare, lo sguardo del Pisacane – fiero e mite al tempo stesso – che si rivolge all’osservatore in un monito silenzioso di amor patrio, acceso di fede per gli ideali di giustizia di libertà dei popoli. Una medaglia questa per l’AIAM – che colloca il Maestro Vincenzo Dino Patroni quale autore di primo livello in quella plurisecolare tradizione di omaggi agli illustri della storia d’Italia.” *L’AIAM è l’Associazione Italiana Arte della Medaglia che nasce a Roma nel 1963 come sodalizio culturale che riunisce, artisti, collezionisti, editori, fabbricanti, studiosi e cultori dell’arte medaglistica, italiani e stranieri, uniti dal comune interesse per questa forma particolarmente raffinata di arte.


SPIONAGGIO O TRADIMENTO NELLO SBARCO DI

CARLO PISACANE ?

Carlo Pisacane, Ufficiale di Comunque, nonostante i contrari Ferdinando II Re di Napoli, si era convincimenti, Mazzini gli mise formato alla Scuola Militare della a disposizione, per questo suo Nunziatella, scuola che, preparando progetto, armi e soldi. di Angelo Di Lieto ottimi militari, questi dovevano servire Era vero che gli insuccessi di al Sovrano per tutelare il Regno e la Mazzini erano notori, però, o sua persona. si tentava qualcosa, oppure tutti La sua ideologia rivoluzionaria sorse dovevano rassegnarsi ed accettare proprio a seguito di un incarico ricevuto alla Corte senza reagire lo “status quo”. Regia napoletana. Infatti, nominato paggio del Re, ebbe Nella strategia mazziniana si era formato il l’opportunità di constatare tutti i soprusi, le ingiustizie convincimento che innanzi alle numerose e disseminate e le malvagità che si perpetravano contro il popolo. insurrezioni che crescevano di giorno in giorno con Il suo peregrinare in Italia ed all’estero, Inghilterra e i rivoluzionari, il Piemonte, o prima o poi, si sarebbe Francia, sorse a seguito di un gravissimo ferimento che dovuto svegliare per prendere finalmente una decisione subì dal marito di una donna, Enrichetta di Lorenzo, impegnativa e da coinvolgere tutto il territorio italiano. con la quale si era cresciuto da ragazzo. Dimenticando per un attimo la rappresentazione La polizia borbonica, che non sospettava romantica del patriota Luigi Mercantini nella famosa minimamente della sua incipiente attività clandestina, poesia “La Spigolatrice di Sapri”, bisogna chiedersi chiuse la vicenda avendo constatato che il ferimento se lo scenario storico-ambientale era favorevole di Pisacane era legato alla legittima reazione di un alla spedizione del Pisacane, oppure fallì perché la popolazione del Vallo di Diano era fortemente marito tradito. La “disonorata”, secondo la terminologia dell’epoca, impreparata, indifferente ed ignara dello sbarco e delle pur essendo stata sino a quel momento una donna sue intrinseche motivazioni ideologiche. Intanto occorre premettere che ormai da secoli, irreprensibile ed onesta, fuggì da Napoli con Carlo Pisacane per giungere definitivamente a Londra. specialmente la popolazione del Sud, restava Lì, sospettato di essere una spia regia, non fu bene indifferente ai regimi politici che si alternavano, accolto, finché la polizia inglese, su pressione di quella partecipando, senza logica o autodeterminazione, ora partenopea, non lo estradò in Italia. Rifugiatosi a a sostenere una fazione, ora ad opporsi ad un’altra. Parigi, sempre su solleciti della Corte napoletana, fu Completamente svuotata, ma ribelle solo se il fisco interveniva in modo molto gravoso e pesante, sapeva imprigionato con Enrichetta. Il suo rancore verso l’élite societaria, impantanata supinamente assoggettarsi al padrone di turno e nella difesa dei propri egoistici interessi, si sviluppò tollerare passivamente tutti i comandi, leciti ed illeciti, che quotidianamente riceveva. sempre di più nel suo petto. Nel mentre la corruzione degli amministratori Pienamente convinto che il Piemonte e Carlo consolidava per convenienza i poteri istituzionali, Alberto non sarebbero stati mai in grado di preparare il potere giudiziario, poi, complice, compromesso e una grande rivoluzione, ordì un piano per organizzare fortemente oppressore, nei gravi momenti di tensione una rivolta partendo dal Sud. politica, sapeva benissimo che ogni sovversione era Mazzini era invece convinto che nel Sud non vi fosse originata quasi sempre da una certa classe intellettuale “un potenziale rivoluzionario”, Pisacane, al contrario, esistente sul territorio, la quale subiva subito arresti, non era d’accordo su quest’opinione mazziniana. la Ciminiera 5


perquisizioni, processi e deportazioni. La classe borghese, poi, che si era arricchita comprando le vaste terre espropriate alla Chiesa ed agli ex Feudatari, non avrebbe mai pensato di appoggiare i rivoltosi, che invece proclamavano l’esproprio delle terre accumulate. Nello stesso tempo il popolo, al di fuori di qualche idealista contaminato o per natura libero, se ne stava tranquillo ed osservava disattento all’alternarsi dei poteri sul povero territorio. La polizia, infine, nella circostanza, arrestava tutti, servi, camerieri, maggiordomi, amici, sempre convinti che nel mucchio si potessero ottenere notizie utili e prove inconfutabili, che il più delle volte divenivano accuse o delazioni, spesso calunniose ed infondate, perché quasi sempre frutto di ricatti, di violenze e di torture terrificanti. Il clero, infine, si presentava diviso, perché vi erano quelli che, liberi da posizioni di privilegio, si adoperavano per creare adepti per la causa italiana e personale, mentre vi erano altri, invece, che temendo di perdere prebende e benefici parrocchiali di cui godevano, facendo buon uso del confessionale specie con le donne, sapevano sostenere i loro interessi personali che intimamente paventavano di perdere nel caso che vi fossero stati cambiamenti rivoluzionari. Ma vi erano anche dei buoni preti rivoluzionari. Ovviamente erano veramente rari. Nessun burocrate denunciava un “male della Società”, per tema di finire arrestato o porre fine alla sua carriera. Nella strategia rivoluzionaria, lo stesso Mazzini aveva raccomandato a Pisacane la massima segretezza nell’espletamento dell’operazione, però, già ben quattro mesi prima dello sbarco a Sapri, in una riservata del 18 febbraio 1857, l’Intendente di Salerno avvertiva il giudice del Circondario di Sapri di “vigilare attentamente se qualche legno inglese praticasse delle segnalazioni con la terra” e ne avesse quindi risposta. Ugualmente le scritte comparse tre mesi prima dell’invasione sulle mura delle abitazioni di Sapri, come “Muoia il Tiranno Ferdinando II”, oppure “Viva Luciano Murat Re di Napoli”, o anche “Viva il Governo Francese e Viva la Repubblica Napoletana”, costituivano una violazione della richiesta segretezza, per cui le Autorità si resero subito conto che non erano giubilazioni occasionali, ma che sicuramente tra breve qualcosa di molto importante e preoccupante sarebbe successo. Infatti si tenevano all’erta e pronti ad intervenire per ogni evenienza. Nella circostanza il giudice dell’epoca notiziò le Superiori Autorità ed aprì, in sede penale, un fascicoletto contro ignoti. Intanto il 25 giugno 1857, il piroscafo “Cagliari” della Compagnia Rubattino, con un’apparente missione postale, caricava casse di armi e di munizioni dirette a Cagliari e a Tunisi. La nave doveva arrivare a Cagliari sabato sera, per poi ripartire la domenica mattina. Il ritardo fu subito notato, ma si attribuì a qualche guasto o alla mancanza di carbone. Fu anche inviata una nave per cercarla. Dato che a Genova si erano imbarcati diversi passeggeri, si cominciò a temere che il piroscafo fosse stato dirottato altrove. Infatti, questi uomini, pronti a “morire da forti”, dopo aver dirottato la nave, la mattina del 27 giugno, alle quattro, fecero rotta su Ponza e lì sbarcarono. I “relegati” del carcere di Ponza vennero subito liberati ed imbarcati sul Cagliari. In tutto erano 323, 6 la Ciminiera

costituiti da 202 condannati, 118 ex-militi che si erano congiuntamente ribellati e tre presidiari. Come si rileva dall’atto di accusa della Gran Corte Criminale di Salerno, del 20 ottobre 1858, vi erano anche 72 detenuti calabresi. Il primo appuntamento mancò allorché il “Cagliari” non s’ incontrò per la foschia o forse perché sbagliò rotta, con la nave che doveva consegnare un gran numero di armi, però il rinvenimento delle casse di armi nella stiva dello stesso “Cagliari” supplì in parte il mancato rifornimento. Alle 6 pomeridiane del 28 giugno 1857, venne notato un piroscafo che dirigeva la prua verso Sapri. Avendo tre alberi, con l’allarme che vi era stato mesi prima, si suppose che fosse il preannunciato “legno inglese”. Alle 8 di sera furono buttate le ancore e così si ebbe la certezza che il piroscafo era il Cagliari e non una nave inglese. Subito il giudice del Circondario allertò le sue 30 guardie urbane al fine di acquisire notizie. Insediatisi in punti di osservazione, alcuni, come furono scoperti, si eclissarono, altri, che si erano mimetizzati nei pressi del naviglio, per paura, fuggirono a nuoto, non comprendendo che quegli uomini dalla nave gesticolavano nei loro confronti, non perché fossero stati individuati, ma perchè volevano dimostrare a tutti di essere lì come “amici o fratelli” e non come nemici o briganti. Intanto, la popolazione cilentana, avvisata dal potere borbonico che rivoltosi avevano liberato dei delinquenti dalle carceri di Ponza, preferì fuggire terrorizzata o allontanarsi vilmente, pur di mettersi in salvo. Infatti, quando sbarcarono gridando ”viva l’Italia” e ”viva la Libertà”, nonostante avessero spiegato a qualcuno i motivi del loro approdo, non furono creduti, e così le famiglie cominciarono a nascondersi sui monti, compreso il giudice, che giustificava “l’allontanamento” a scopo precauzionale, perché nel caso che fosse caduto nelle mani dei rivoltosi, non vi sarebbe stato più nessuno che avrebbe potuto coordinare le necessarie operazioni. Anche lui, tanto per non sembrare vile, aveva una pelle ed una logica per trovare una giusta motivazione nei confronti dei suoi superiori. Contestualmente i rivoluzionari recitarono l’apposito proclama, nella speranza che la gente si infervorasse e brandisse le armi, insieme a loro, contro “ il tiranno di Ferdinando II”, precisando che l’esercito “era con loro” e che la capitale Napoli attendeva solo la risposta dalla provincia. Infine, come ultima esortazione, concludevano in tal modo: “Vergogna vi doveva essere per chi non avrebbe combattuto”. Ma nulla si mosse a loro favore. Forse Mazzini aveva ragione. Al di fuori di alcuni folli, il resto della popolazione restò veramente indifferente e pronta a difendere il proprio Re contro i rivoluzionari. Nell’operazione Carlo Pisacane si era autonominato generale, Giovanni Nicotera era il suo colonnello e Giovanbattista Falcone era maggiore. Alcune famiglie, temendo per la loro vita, rifocillarono alcuni rivoltosi, così come fece pure un prete ed una guardia urbana. Ma le fughe si verificarono anche tra le fila dei relegati-liberati. In prossimità di Casalbuono, per dare l’esempio e frenare queste diserzioni, si riunì il consiglio di guerra e così fu eseguita subito sul posto una fucilazione per diserzione di certo Eusebio Bucci. In tutte le cose c’è sempre chi, forse, innocentemente, paga per tutti, sicuramente più scaltri o più colpevoli.


Il 30 giugno, alle otto di sera, erano a Padula, ma quando alle 14 del giorno successivo arrivò il battaglione dei Cacciatori, fece una strage di questi rivoltosi, nel mentre circa 150, vistosi circondati, fuggirono. Molti, pur avendo chiesto salva la vita, furono fucilati. Così a Padula l’insurrezione fallì subito. Pisacane, Falcone e Nicotera, invece, fuggirono verso Sanza, ma davanti ad una folla di contadini inferociti, radunati dal farmacista del paese con le campane a stormo, furono quasi tutti massacrati. Pisacane morì quasi subito colpito da una guardia urbana nel Vallone di S.Vito. Ognuno, poi, si attribuirà il merito nell’intento di intascarsi il premio, ma si racconta anche che Pisacane, vistosi ferito, da militare qual’era, innanzi al fallimento della spedizione, preferì spararsi un colpo di pistola. Nicotera restò gravemente ferito al capo e ad una mano e così tutti deposero le armi. Anche quelli che avevano chiesto salva la vita, circa 80, furono uccisi. Gli altri furono successivamente affidati nelle mani della giustizia. Molti fuggirono. I adaveri, compreso quello di Pisacane, furono bruciati e le ceneri, da mani pietose, messe sotto terra. Addosso gli fu trovato il cifrario, per mezzo del quale l’Autorità Giudiziaria riuscì a tradurre le carte cifrate successivamente rinvenute e a conoscere gli interlocutori ed i loro piani. Il precitato giudice del Circondario di Sapri, a distanza di tempo, ebbe a lamentarsi che coloro che non avevano affatto partecipato al soffocamento della rivolta, compreso alcuni alti gradi che avevano ricevuto solo le notizie dello sbarco, o che, combattendo, avevano commesso un’inutile e disumana strage, erano stati tutti ingiustamente premiati dal potere borbonico. In tal modo citava che l’Intendente di Salerno, lontano 80 miglia, era stato nominato “commendatore di Francesco II”, per essere stato semplicemente informato dello sbarco da un rapporto dello stesso giudice. Il sottintendente, lontano 30 miglia, anche lui che aveva semplicemente saputo dello sbarco dalla voce di un corriere che il giudice aveva espressamente inviato, ebbe il suo riconoscimento. Il capo della guardia urbana di Sapri, che dopo lo sbarco era scomparso per cinque giorni, ebbe una decorazione e cento ducati di pensione. Il capo urbano di Sanza, per aver consentito la strage di Sanza, fu fatto cavaliere. Anche un collega del giudice “rosicchiò un osso”, ricevendo una pensione

di 20 ducati. Tutti coloro che salirono sull’albero della cuccagna, furono segnati nel giornale Ufficiale di Napoli del 22 agosto 1857. Anche dopo la pubblicazione vi furono altri segnalati. Il giudice non ebbe nulla e né avanzò richiesta, anzi, fu trasferito a Cagnano, “a 257 miglia”, e fu invitato a non parlare dei fatti di Sapri. Forse aveva parlato troppo e male. Questo giudice, certamente non doveva essere un elemento gradito alla Corte di Napoli, perché dopo cinque mesi, sebbene richiesto dai cittadini di Cagnano, fu nuovamente trasferito ed inviato a Brienza. L’operazione Sapri riuscì funesta per quei 26 giovani rivoltosi e per tutti quei “relegati” che parteciparono con sentimento ed audacia, ma fu anche il fallimento di un’iniziativa rivoluzionaria, che si compì in pochissimi giorni, dal 25 giugno al 1° luglio 1857. Il programma politico di Pisacane, probabilmente anche modificato da altri patrioti intervenuti, consisteva nel non ribellarsi al Regno di Napoli e di non annetterlo al Piemonte, ed io aggiungo che non era condivisibile, come avvenne, che si cospirasse contro un Re meridionale, per andare poi sotto il governo di un Re del Nord, tra l’altro sconosciuto. Ed ancora: Pisacane, iniziando il suo percorso dal Vallo di Diano, intendeva far sollevare soltanto il popolo dell’Italia Meridionale e dare origine ad una Repubblica, che poi, allargandosi gradatamente, poteva abbracciare anche altri Stati sino a pervenire alla proclamazione della desiderata “Unità d’Italia”. Era quello che Gioacchino Murat aveva tentato, mettendo in gioco anche lui la sua vita. Il moto fallì per difetto di organizzazione e di mezzi. Infatti, i rivoltosi erano senza armi e senza soldi, tanto è vero che si appropriavano dei fucili, quando li trovavano o li chiedevano, come pure, per non passare per briganti, chiedevano che fosse loro dato solo il tesoro comunale e non il risparmio delle famiglie. La rivoluzione di Pisacane è meno deprecabile sul piano teorico, come si rileva dai suoi scritti, mentre, sul campo, strategicamente, mancò di preparazione, perché non vi fu segretezza e poi non si armonizzò e né s’integrò con i terricoli con un piano a sorpresa. Sia a Ponza che su tutto il territorio cilentano venne meno persino l’aggancio con chi avrebbe dovuto contattare amici e conoscenti, perchè non fu messo in condizione di poterlo fare, perché anticipatamente arrestato e fors’anche per altri motivi. Si mossero a terra aspettando un miracolo, e cioè che il popolo si ribellasse e che la polizia urbana si unisse a loro. Il movimento reazionario, poi, si trovò innanzi ad una popolazione indifferente ed apatica, che pensò, scappando, solo a mettersi in salvo, e ancora più sfortunatamente, si trovò innanzi ai contadini di Sanza, che seppero soltanto capire, senza conoscerne i motivi, che bisognava difendersi da chi calpestava la loro terra. Questi giovani eroi erano stati soppressi da un popolo represso e che da secoli, come la maggior parte del Sud, era privo ormai di corpo e di anima. I Napoletani, infine, invece di insorgere contestualmente nella capitale, così come erano stati gli accordi, per ripensamento e viltà si fecero convincere dagli impavidi a non intervenire. Più fortunati furono coloro, compreso il Nicotera, la Ciminiera 7


che furono condannati dalla Gran Corte Criminale, la quale emise sette condanne a morte col 3° grado, che consisteva nel trasporto del condannato al patibolo a piedi nudi, vestito di nero e con un velo nero che gli copriva il capo, poi sentenziò nove ergastoli, due condanne a 30 anni, 54 a 25 anni e 139 a pene minori. Ma il Re, per la sua “inesauribile clemenza”, com’era la formula pubblicitaria di rito, nel decreto del 22 luglio 1857, forse in cambio di una delazione dello stesso Giovanni Nicotera per aver rivelato sicuramente tutto il piano della congiura, commutò la pena di morte e ridusse a tutti le diverse pene. Il fallimento di quest’ennesimo sommossa, causò non pochi guai a Mazzini, perchè fu accusato di giocare con i rivoluzionari, mentre lui, dirigendo le azioni da lontano, se ne stava al sicuro. Intanto, in contumacia subì la seconda condanna a morte. Enrichetta, dopo la morte di Pisacane, non fu la vedova, ma la “druda”, per cui preferì vivere in solitudine con la sua famiglia. Quando nel 1860, dopo lo sbarco in Sicilia, Giuseppe Garibaldi giunse nel Vallo di Diano, anche per mettere a morte tutti coloro che avevano ucciso Pisacane, compreso il farmacista di Sanza, e gli fu proposto che sarebbe stato opportuno che in quei luoghi venisse eretto un monumento a ricordo della sfortunata spedizione di Pisacane e dei suoi compagni, Garibaldi subito assentì all’iniziativa. Invero, in Sapri, il monumento a Pisacane fu realizzato nel 1933 dall’artista Gaetano Chiaromonte. Anche lo scultore Diomede Patroni di Salerno aveva presentato un bozzetto raffigurante Carlo Pisacane, colto nel preciso momento di massimo furore patriottico nel mentre impugnava con fierezza ed ardimento il tricolore italiano. Nella circostanza la particolare sensibilità di Garibaldi andò oltre, perché propose che tutte le medaglie elargite dal potere borbonico a titolo di ricompensa per l’uccisione di Carlo Pisacane e di tutti i rivoluzionari fossero fuse e con esse venisse realizzato un medaglione commemorativo. Nel 2002, l’Artista salernitano Vincenzo Dino Patroni, appartenente ad un’eccelsa dinastia di scultori, per uno strano ed invisibile filo che lo legava alla Storia, a circa 150 anni dal tragico evento, ignorando storicamente l’intenzione di Garibaldi di voler far fondere, per un nobile scopo, le medaglie della vergogna, ha idealmente fuso in bronzo i “medaglioni della ricompensa”, così come all’epoca furono definiti, allorché donati dal potere regio. E così lo scultore Vicenzo Dino Patroni, senza

Bibliografia

Cippo sepolcrale di Carlo Pisacane, presso il luogo della morte, località Salemme, Sanza (SA), realizzato dopo il 1860. minimamente immaginare che Giuseppe Garibaldi, più di un secolo prima, aveva già ordinato la proposizione di questa nobile medaglia commemorativa, ha realizzato, nel fulgido ricordo di Carlo Pisacane e dei suoi eroici compagni, una fusione di altissimo livello artistico e storico. In questo simbolo il Maestro Patroni ha racchiuso, in una straordinaria scultura, il passato vissuto ed il futuro vagheggiato, la maturità del carattere come sigillo della Storia, la coscienza dell’altra sponda raggiunta immolando negli ideali la propria vita con fede e purezza d’animo, le ombre e le luci degli avvenimenti che si vissero prima, durante e dopo, graficamente segnati con le emotività interiori e con le debolezze umane, il fallimento di un progetto sognato e non realizzato…. e poi ancora i valori, l’entusiasmo, lo spirito di abnegazione e la vita di tutti coloro che morirono per un’Italia libera ed indipendente.

- Leopoldo Cassese = “Spedizione di Sapri” - Editori Laterza - Bari - 1969. - Gaetano Fischetti = scritti sull’ “Invasione dei liberali in Sapri nel 1857”- Napoli - 1877- Tipografia Italiana. - Francesco D’Episcopo = Quaderni Salernitani – “Diomede Patroni (1880-1968- Uno Scultore tra Salerno ed il Mondo” - Ediz. Salernitana - Edi Sud Salerno - 1985. - Luigi de Monte = dalla “Cronaca del Comitato Segreto di Napoli sulla spedizione di Sapri”- Napoli - Anno 1877. - Francesco Carbone = “Vincenzo Dino Patroni: Un continuo antico peregrinare sulle acque mediterranee”Museo Comunale di Praia a Mare - settembre 1996. - Six Mediterranean witness in the Baltic area: Di Lieto, Iannone, Napoletano, Patroni, Pellecchia, Ruggieri – “It is not a Utopia…” - Republic of Lithuania - City of Panevezys - marzo 1995. - Mariana Fauci = “Dal Mediterraneo al Baltico”- Il Mezzogiorno - marzo 1995. - Aldo Trione = “Patroni”, interventi di Vitaliano Corbi - Francesco D’Episcopo e Filiberto Menna - Castello di Arechi di Salerno - febbraio 1986. 8 la Ciminiera


GIUGNO ROMANO, IL MESE DELLE MATRONE Daniele Mancini danielemancini-archeologia.it

Il mese di giugno è sacro a IVNO/ VESTA/GIUNONE. IVNIVS deriva da IVNO, regina e madre degli Dei, sposa e sorella di IVPITER, che accorda il suo soccorso, la seispes e la ivvat in singolari rituali. Ivno è anche l’anima di Ivpiter, è l’anima/ aura vagante che esso spande, è l’anima in se, ma specialmente l’anima femminile, contrapposta all’animo maschile, il genivs di Ivpiter . Come principio aereo, dunque, è l’aura vitale, l’aura degli Dei che si manifesta nella figlia IRIS, Arcvs Coelestis, messaggera divina, connessa a Mercvrivs. Ivno, gloria vivificante, come principio plastico è RHEA, scorrevole e umida animazione degli enti sacri. Del fuoco è la fiamma, ossia il flatvs della fiamma, VESTA-HESTIA, che Ivpiter alimenta col suo alitvs-animvs. Ivno è la sposa divina, potenza suggellata nell’ordine civile, matronale, definitivamente fissata, linfa raccolta al

culmine e maturata, congiunta alla forma fissa, esprimendo così il passaggio dalla potenza indeterminata di Maia/ Bona Dea alla determinazione stabile nell’ordine civile, perno dell’ordine matronale. Ivno non solo è Genitrix. ma anche Mater, in contrapposizione alle vergini abissali Diana e Vesta o alla meretrice Venvs, tutte potenti divinità non formate o fissate, extra mondane ed extra civili. Ivno è patrona dell’Ordo Matronarvm, esempio di fede, amore, concordia coniugale. Essa presiede alla conivnctio che genera conivges: questo mese, quindi, diviene favorevole al matrimonivm, alla VNIO, YVGVM della potenza attivata e poi fatta fruttificare e fissata dal Padre come Ivno Regina, Venvs Felix del trionfo. Il mese di giugno vede il culmine del sole con il solstizio d’estate, la liberazione definitiva dal tellurico, l’inizio dell’ardente AESTAS che segna la vittoria, il trionfo apoteosico del ciclo del Sole-Spiritvs. la Ciminiera 9


Dopo il verde Martivs, il bianco Aprilis, il giallo Maivs, arriva il rosso Ivnivs. e Iovis si configura nell’entrata nel ciclo ApollineoMinervale, dove la mente divina è conseguita divenendo Imperivm. Il ciclo festivo si muove dalle Kalendae, sacre a Carna, il corpo ignificato, continua alle Nonae, con la celabrazione di Fides, il ristabilirsi del patto divino originale,

entrando poi nel ciclo Vestale che culmina nella festività di Mater Matvta, l’alba del Sole, lo Spiritvs Apollo. Alle Idi si celebrano Apollo, Minerva e le Muse, la conseguita Verità Aletheia. Fortuna chiude il mese esprimendo la potenza posseduta dal Trionfatore, sancendo il passaggio al culmine della gloria nell’Annvs.

I giorni di giugno più importanti per i Romani: 1 Giugno, Kalendae, Carnaria – Giorno sacro a Ivno Moneta, la si propizi come memoria divina ammonitrice. Si compiono le offerte a Carna che protegge le anime vitali dell’uomo con la pvls di frumento-fave-lardo. Questo protegge dalle striges 2 G., IV Nonas – DIES RELIGIOSVS 3 Giugno, III Nonas – Bellona nel Circo Flaminio 4 G., Pridie Nonas – HERCVLI MAGNO CVSTODI IN CIRCO FLAMINIO 5 Giugno, Nonae – DEO FIDIO IN COLLE – Si propizia il dio dei patti e della fede 6 G., VIII Idvs – DIES RELIGIOSVS 7 Giugno, VII Idvs – VESTA APERIT – E’ aperto il penetrale di Vesta da parte delle Matrone 8 G., VI Idvs – DIES RELIGIOSVS – Si prega Ivno affinché sia propizia al vir, nel giorno dell’anniversario della dedica del suo tempio in Campidoglio 9 Giugno, V Idvs – VESTALIA – DIES RELIGIOSVS – Grande ciclo dei riti vestali, la Dea è propiziata con il libvm di farro abbrustolito. Sono inghirlandate le mole dei grani cereali 10 Giugno, IV Idvs – DIES RELIGIOSVS 11 G., III Idvs – MATRALIA – DIES RELIGIOSVS – Alla Madre della luce spirituale, MATER MATVTA, le matrone offrono un libvm di farro abbrustolito. Le BONAE MATRES VNIVIRAE cacciano la SERVA dal tempio 12 Giugno, Pridie Idvs – DIES RELIGIOSVS 13 G., Idvs – Si concede un epvlvm a favore di IVPITER e si propiziano cantando a Minerva e le Muse 14 Giugno, XVIII Kalendas – DIES RELIGIOSVS 15 G., XVII Kalendas – Q STERCVS D F – Sono rimossi i residui di sterco e l’immondizia dal tempio di Vesta, a chiusura delle sue Feste 18 Giugno, XIV Kalendas – Si propizia nuovamente Anna Perenna al culmine del Sole, come la vera ambrosia 19 G., XIII Kalendas – Inizia il periodo solstizial, epifania apollinea, quale compimento dei riti in favore di Minerva, sull’Aventino 20 Giugno, XII Kalendas – Solenni riti nel Circo Massimo in onore del signore della folgore notturna, SVMMANVS, il SOMMO NOVS 21 G., XI Kalendas – Culmine solstiziale, è propiziata la Fortvna in ogni istante con una mensa sacra 24 Giugno, VIII Kalendas – Questo giorno è sacro a FORS FORTVNA e la si propizi nel suo tempio a Trastevere 27 G., V Kalendas – LARIBVS IN SACRA VIA – IOVI STATORI IN PALATIO 29 Giugno, III Kalendas – Viene riconsacrato il Tempio di Quirino da parte di Augusto 30 G., Pridiae Kalendas – Si propiziano ERCOLEe le MUSE nell’anniversario della dedica del loro tempio al Flaminio

R. Del Ponte, La religione dei Romani, Milano 1992 Bibliografia G. Dumézil, La religione romana arcaica, Milano 2001 consultata: J. Champeaux, La religione dei Romani, Bologna 2002 J. Carcopino, La vita quotidiana a Roma, Bari 2003 A. Brelich, Calendari festivi, Roma 2011 10 la Ciminiera


Michael Sweerts (1652) Peste di Atene

LA PESTE DI ATENE DEL V SECOLO a.C.

Intorno al 430 a.C., non molto tempo dopo l’inizio Gli effetti si sono della guerra tra Atene e immediatamente mostrati Sparta, un’epidemia di peste molto gravi, anche perché ha devastato la popolazione nessuno sia sembrato in ateniese ed è durata per grado di frenare l’effetto cinque anni. Alcune stime devastante della pestilenza. propongono che il bilancio Scrive Tucidide: delle vittime sia arrivato Daniele Mancini fino a 100.000 persone, tra « […] Si trovavano in cui anche Pericle, l’abile e danielemancini-archeologia.it Attica da non molti giorni famoso politico ateniese. (gli Spartani, ndr), quando Lo storico greco Tucidide prese a serpeggiare in Atene l’epidemia: (460-404 o 399 a.C.), nel II libro della sua anche in precedenti circostanze s’era diffusa Guerra del Peloponneso (in greco Perí toû la voce, ora qui ora là, che l’epidemia Peloponnēsíou polémou), a cui viene attribuito fosse esplosa, a Lemno, per esempio, e anche il titolo di Storie, narra dell’irrompere in altre località. Ma nessuna tradizione della peste in Attica e ad Atene durante serba memoria, in nessun luogo, di un l’estate del secondo anno di guerra (430 così selvaggio male e di una messe tanto a.C.). ampia di morti. I medici nulla potevano, L’esercito di Sparta era più forte e ha per fronteggiare questo morbo ignoto, che costretto gli Ateniesi a rifugiarsi dietro una tentavano di curare per la prima volta. Ne serie di fortificazioni chiamate “lunghe erano anzi le vittime più frequenti, poiché mura” che proteggevano la loro città. con maggiore facilità si trovavano esposti Nonostante l’epidemia, la guerra continuò, ai contatti con i malati. Ogni altra scienza fino al 404 a.C., quando Atene è stata o arte umana non poteva lottare contro il costretta a capitolare a Sparta. contagio. Le suppliche rivolte agli altari, il Il diffondersi dell’epidemia è stato favorito ricorso agli oracoli e ad altri simili rimedi dalle quelle particolari condizioni, con riuscirono completamente inefficaci: tutta la popolazione, inclusa quella arrivata desistettero infine da ogni tentativo e dalle campagne, ammassata in città e lungo giacquero, soverchiati dal male. […] » (II, le mura, perché Pericle aveva stabilito che 47). non era opportuno combattere contro gli Spartani in pianura. La novità e la gravità della malattia fanno la Ciminiera 11


sorgere il sospetto di un complotto ordito dagli Spartani: « […] Su Atene si abbatté fulmineo, attaccando per primi gli abitanti del Pireo. Cosicché si mormorava che ne sarebbero stati colpevoli i Peloponnesi, con l’inquinare le cisterne d’acqua piovana mediante veleno: s’era ancora sprovvisti d’acqua di fonte, laggiù al Pireo. Ma il contagio non tardò troppo a dilagare nella città alta, e il numero dei decessi ad ampliarsi, con una progressione sempre più irrefrenabile. Ora chiunque, esperto o profano di scienza medica, può esprimere quanto ha appreso e pensa sull’epidemia: dove si possa verosimilmente individuare il focolaio infettivo originario e quali fattori siano sufficienti a far degenerare con così grave e funesta cadenza la situazione. […] » (II, 48). Tucidide descrive attentamente, in 49 i sintomi del morbo, ma anche l’inutilità dei rimedi che provoca un generale scoraggiamento fino a sfociare nella disperazione: « […] I decessi si dovevano in parte alle cure molto precarie, ma anche un’assistenza assidua e precisa si rivelava inefficace. Non si riuscì a determinare, si può dire, neppure una sola linea terapeutica la cui applicazione risultasse universalmente positiva. Nessuna complessione, di debole o vigorosa tempra, mostrò mai di possedere in sé energie bastanti a contrastare il morbo, che rapiva indifferentemente chiunque, anche quelli circondati dalle precauzioni più scrupolose. Nel complesso di dolorosi particolari che caratterizzavano questo flagello, uno s’imponeva, tristissimo: lo sgomento, da cui ci si lasciava cogliere, quando si faceva strada la certezza di aver contratto il contagio (la disperazione prostrava rapida lo spirito, sicché ci si esponeva molto più inermi all’attacco del morbo, con un cedimento immediato); inoltre la circostanza che, nel desiderio di scambiarsi cure ed aiuti, i rapporti reciproci s’intensificavano, e la gente moriva, come le pecore. Era questa la causa della enorme mortalità. […] » (II, 51). Le regole della vita civile all’interno di Atene iniziano a essere sovvertite: le norme sulle sepolture vengono stravolte, capita perfino che i cadaveri non vengano 12 la Ciminiera

neppure sepolti o siano ammucchiati nei santuari, senza alcun rispetto delle norme né divine né umane: « […] Poiché non disponevano di abitazioni adatte e vivevano in baracche soffocanti per quella stagione dell’anno: il contagio mieteva vittime con furia disordinata. I cadaveri giacevano a mucchi e tra essi, alla rinfusa, alcuni ancora in agonia. Per le strade si voltolavano strisciando uomini già prossimi a morire, disperatamente tesi alle fontane, pazzi di sete. I santuari che avevano offerto una sistemazione provvisoria, erano colmi di morti: individui che erano spirati lì dentro, uno dopo l’altro. La violenza selvaggia del morbo aveva come spezzato i freni morali degli uomini che, preda di un destino ignoto, non si attenevano più alle leggi divine e alle norme di pietà umana. Le pie usanze che fino a quell’epoca avevano regolato le esequie funebri caddero travolte in abbandono. Ciascuno seppelliva come poteva. Molti si ridussero a funerali indecorosi per la scarsità di arredi necessari, causata dal grande numero di morti che avevano già avuto in famiglia: deponevano il cadavere del proprio congiunto su pire preparate per altri e vi appiccicavano la fiamma prima che i proprietari vi facessero ritorno, mentre altri gettavano sul rogo già acceso per un altro il proprio morto, allontanandosi subito dopo. » (II, 52). La mancanza di regole si trasforma in disordine e anarchia, si insinua nella vita quotidiana e la popolazione cerca di appagare i propri istinti senza più alcuna inibizione, i criteri del bello sono tragicamente sostituiti dalle proprie pulsioni; si persegue il piacere egoistico a scapito di qualsiasi finalità comune: « […] l’epidemia travolse in più punti gli argini della legalità fino allora vigente nella vita cittadina.Siscatenaronodilagandoimpulsiprima lungamente repressi, alla vista di mutamenti di fortuna inaspettati e fulminei: decessi improvvisi di persone facoltose, gente povera da sempre che ora, in un batter di ciglia, si ritrovava ricca di inattese eredità. Considerando ormai la vita e il denaro come valori di passaggio, bramavano godimenti e piaceri che s’esaurissero in fretta, in soddisfazioni rapide e concrete. Nessuno si sentiva trasportare dallo zelo di impegnare con anticipo energie in qualche impresa ritenuta


degna, nel dubbio che la morte giungesse a folgorarlo, a mezzo del cammino. L’immediato piacere e qualsiasi espediente atto a procurarlo costituivano gli unici beni considerati onesti e utili. Nessun freno di pietà divina o di umana regola: rispetto e sacrilegio non si distinguevano, da parte di chi assisteva al quotidiano spettacolo di una morte che colpiva senza distinzione, ciecamente. Inoltre, nessuno concepiva il serio timore di arrivar vivo a rendere conto alla giustizia dei propri crimini. Avvertivano sospesa sul loro capo una condanna ben più pesante: e prima che s’abbattesse, era umano cercare di goder qualche po’ della vita. » (II, 53).

È un quadro fosco e amaro, dipinto con i toni accorati che hanno suggestionato sia i lettori antichi che quello moderni: oggi alcuni versi sembrano drasticamente di attualità e spero ci invitino a riflettere. Che cosa sia stata esattamente questa epidemia è stata a lungo fonte di dibattito tra gli stotici e gli scienziati; un certo numero di malattie sono state avanzate come possibilità, tra cui la febbre tifoide e l’Ebola. Si mediti, si mediti…

Sul prossimo numero: NEVIO POMPULEDIO, IL RE GUERRIERO Il Guerriero di Capestrano è una statua tagliata nel calcare della zona di rinvenimento ed è alta circa 210 cm; è conservata al Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo Villa Frigerj, a Chieti, fin dal 1959. La statua è attribuita a un re, Nevio Pompuledio, ed è stata rinvenuta a Capestrano nel 1934. E’ tra le testimonianze più affascinanti della produzione artistica delle antiche civiltà che popolarono i territori al centro della nostra penisola, prima dell’affermarsi degli Etruschi e poi dei Romani.

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CACCIA ALLE STREGHE

La caccia alle streghe a comprenderne la reale ha suscitato l’interesse di Il mito dei nove milioni di entità numerica. donne uccise. molti storici e di un numero Nei 300 anni che vanno ancora maggiore di curiosi. dal 1450 al 1750, in Quando e dove è nato il Europa furono uccise mito dei nove milioni di per stregoneria circa 30 o donne uccise? 40.000 persone. Parliamo di “persone” perché molto Ci siamo occupati più spesso, in alcuni paesi, a volte, sulle pagine di finire sul rogo erano gli Gabriele Campagnano Zhistorica, di processi uomini. Presidente dell’Inquisizione e dei Centro Studi Zhistorica tribunali protestanti. Giusto per dare qualche http://zweilawyer.com/ dato, sappiamo che a Mosca Fenomeno di una certa gli uomini rappresentavano rilevanza nell’Europa sconvolta da Riforma e Controriforma, la c.d. caccia alle streghe il 75% dei condannati per stregoneria, che raggiunse l’apice nel centro-nord Europa arrivavano a 92% in Islanda. tra XVI e XVII secolo. Ma allora per quale motivo sentiamo Gli studi più moderni (una buona e agevole spesso parlare di 5, 7, o addirittura di 9 lettura è Witchcraft and magic in Europe milioni di donne uccise sul rogo? del 2002) mostrano chiaramente come il Si tratta di una mistificazione che risale numero complessivo delle donne vittime di al 1791, a un pamphlet dell’illuminista questi processi fu piuttosto basso. tedesco Gottfried Christian Voigt. Questo, ovviamente, non diminuisce Egli, prendendosela con Voltaire, reo l’abominevole brutalità di tali atti, ma aiuta di aver parlato di centinaia di migliaia di 14 la Ciminiera


donne uccise nei secoli precedenti, propone una cifra al di fuori di ogni senso logico: 9 MILIONI. In pratica, parliamo di 30.000 donne bruciate ininterrottamente ogni anno per

300 anni, 2.500 al mese e ben 82 al giorno. Come scritto bene dal CICAP in un articolo di qualche anno fa, i dati usati da Voigt sono un falso costruito su altri falsi.

Caccia alle Streghe. Il grafico pubblicato da The Economist nel 2017. I Paesi cattolici, come potete osservare, hanno un rapporto abitanti/processi molto più basso rispetto a quelli protestanti. Nello studio della storia, come in altri ambiti del sapere, ci si avvale sia del criterio qualitativo che di quello quantitativo. Fermo restando che ogni innocente giustiziato nella storia umana grida vendetta, la differenza tra 30 e 3.000 o 30.000.000 è significativa. Così come è significativa la differenza tra chi ruba un pezzo di pane per sopravvivere e chi sottrae 100 milioni di euro ai risparmiatori, o tra chi uccide una persona per difendersi e chi massacra 1 milione di Armeni.

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Eppure, il clima politico e intellettuale del periodo, unito al feroce anticlericalismo degli ambienti europei del XIX Secolo, permette la penetrazione di questa assurdità storica in diversi volumi.

In Magic and Superstition in Europe: A Concise History from Antiquity to the Present (2006), Michael D. Bailey riassume bene la questione della falsificazione di Voigt e dei suoi seguaci, quando scrive:

[Voigt] stimò il numero totale delle esecuzioni per stregoneria basandosi sui venti casi ricordati negli archivi della città di Quedlinburg . Decise, infatti, che questi dati costituissero una ratio universale applicabile alla storia cristiana senza distinzione di tempo e luogo. Per questo motivo, aumentò il numero fino a renderlo [a sua detta] adeguato alle dimensioni del continente Europeo e lo moltiplicò per 1.800 anni: 9.442.994. Il numero di streghe ucciso immaginato dal Voigt fu arrotondato a 9 milioni dal professore viennese Gustav Roskoff, che lo riportò nel suo volume Geschichte des Teufels (Storia del Diavolo). Da quel momento, anche se mai accettato definitivamente, questo numero immaginario entrò nella divulgazione storica mainstream tedesca relativa alla stregoneria, che diede nutrimento anche alla retorica Nazista. Insomma, per fare un paragone quantitativo, possiamo prendere la città di Milano. Lì hanno luogo diversi roghi famosi, ma, tra 1390 e 1641, le streghe giustiziate con questa modalità sono circa 30. Più o meno una ogni dieci anni. Nel periodo di massimo zelo inquisitorio, sotto Federico Borromeo, arcivescovo di Milano

dal 1595 al 1631, finiscono sul rogo 7 streghe. Gli uffici inquisitoriali della Chiesa in generale, e quelli italiani in particolare, manifestano sempre un estremo scetticismo verso la stregoneria e la magia. Ne Il giudice e l’eretico: studi sull’inquisizione romana, John A. Tedeschi scrive:

Oltre al crescente scetticismo del mondo giuridico romano in materia di stregoneria, due decisive scelte procedurali risparmiarono all’Italia le persecuzioni che, sotto forma di caccia alle streghe, insanguinarono il resto d’Europa dal tardo Cinquecento alla fine del Seicento. La prima fu l’insistenza, da parte dell’Inquisizione, sulla tesi che la testimonianza di una sospetta strega avesse una validità molto limitata contro altre persone. La seconda scelta fu di non attribuire alcun ruolo nei procedimenti inquisitoriali al famigerato marchio del diavolo, che se scoperto sul corpo dell’imputato durante i processi secolari era considerato una prova decisiva quasi quanto la confessione. Diversamente dai tribunali laici, che senza eccezione comminavano la pena di morte per stregoneria quando l’imputato confessava di avere partecipato a un sabba, o fatto apostasia al demonio, o compiuto un maleficio, l’Inquisizione trattava la stregoneria come un’eresia; così, il condannato non recidivo che si dichiarava pentito poteva riconciliarsi con la Chiesa. In realtà, già uno studioso cattolico Jakob Kollman (1727-1787) era arrivato ad una stima delle esecuzioni analoga a quella degli studi più recenti ma, per parecchio tempo, anche grazie al fervente anticlericalismo ottocentesco, i numeri 16 la Ciminiera

di Voigt continuano ad avere un discreto successo. Lo stesso Bertrand Russel (e questo dovrebbe far comprendere come sia rischioso affrontare alcuni argomenti senza una solida preparazione storica), in Why I Am Not a Christian (1957), scrive:


Nell’Età della Fede [medioevo]… C’era l’inquisizione con le sue torture e ci furono milioni di sfortunate donne che finirono bruciate sul rogo […] Abbandonato (fortunatamente) nel dimenticatoio della storiografia, il mito dei 9 milioni torna ad avere grande fortuna negli anni ’70, grazie ad alcune esponenti del movimento femminista e delle fazioni

anticlericali. Matilda Joslyn Gage, femminista e mediocre studiosa, in Woman, Church and State (1972) scrive:

“Si calcola sulla base di fonti storiche (!!!) che nove milioni di persone sono state mandate a morte per stregoneria dopo il 1484…”

Ancora nel 1990, il film femminista The Burning Times ripropone questo falso acclarato, parlando di Olocausto Femminile. Al giorno d’oggi, la mistificazione dei 9 milioni riscuote ancora un buon successo

in molti libri (anche di presunti professori) e in migliaia di siti e pagine Facebook. Ci vuole un’attività di ricerca non troppo complessa per trovare affermazioni del genere:

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Un Dornier Do-217K-3 armato con l’Hs-293A

Fritz X, la morte che arriva via radio Gli scienziati del Reich, Kramer era ricercatore alla come in molti altri campi, Deutsche Versuchsanstalt für Raoul Elia soprattutto bellici, furono i Luftfahrt (DVL), una delle Presidente primi a realizzare un missile sezioni di ricerca bellica del Centro Studi Bruttium teleguidato. Reichsluftfahrtministerium (RLM). Si chiamava Fritz X e conteneva al suo interno Questa sezione, in un sofisticato, almeno per particolare, nel 1938 l’epoca, apparato radio che aveva iniziato a studiare consentiva ad un operatore a l’aerodinamica delle bombe distanza di guidarlo sul bersaglio con una aeronautiche, ipotizzandone il controllo a discreta approssimazione. distanza, in modo da riuscire a correggere Il suo vero nome pare fosse Ruhrstahl SD gli errori d’impatto delle bombe a caduta 1400 (o anche bomba guidata planante FX libera. Studiando la SC 250, bomba 1400). La sigla SD deriva dall’acronimo in standard della Luftwaffe, in particolare, lingua tedesca di bomba a frammentazione Kramer sperimentò l’applicazione di alette a parete spessa, Splitterbombe Dickwandig, mobili comandate a distanza per rifinire mentre il 1400 dal peso in chilogrammi ulteriormente il puntamento della stessa. dell’ordigno. Il progetto, una volta approvato dalle alte sfere, venne trasferito presso la Ruhrstahl La nascita di Fritz X AG a Witten nella Vestfalia tedesca, già impiegata nella realizzazione di bombe, per sfruttarne l’esperienza. Qui il progetto Lo sviluppo dell’SD 1400 partì con le iniziale fu sviluppato su un ordigno più ricerche di Max Kramer e l’applicazione potente il cui carico esplosivo era di 1400 delle sue scoperte all’industria bellica e kg. siderurgica Ruhrstahl AG di Witten, nella Il peso supplementare, però, si rivelò Vestfalia tedesca. un problema molto grave, peggiorando la 18 la Ciminiera


Fritz X poteva trasportare una carica esplosiva di oltre 1,5 tonnellate e poteva essere lanciato da una quota di 7.000 metri, più che sufficienti per garantire al pilota di non essere colpito dalla contraerea. Era un’arma davvero letale, che poteva agevolmente perforare corazze di 30 centimetri di spessore. Fritz X in azione

Lancio di prova del SD-1400X Fritz-X

scarsa manovrabilità del progetto iniziale. Per aumentare la portanza del proto-Fritz X, si provò ad intervenire sulla dimensione delle alette e sulla velocità di discesa. Altri problemi furono l’elevata velocità di caduta necessaria, che comportava la notevole attenzione del puntatore, e una tendenza al bloccaggio delle alette direzionali, che contavano su attuatori elettromagnetici. All’inizio del 1942, però, venne costruita una galleria del vento in cui effettuare le prove. I risultati spinsero i ricercatori a modificare le alette di controllo e ad introdurre un freno aerodinamico in coda, in modo da ridurne la velocità di caduta. L’altezza necessaria minima per controllare al meglio il puntamento venne fissata a 3900 metri. Le condizioni meteorologiche però ponevano dei limiti alla sperimentazione da tali altezze, perciò i nazisti, approfittando del ben più mite clima italiano, trasferirono tutto il programma nelle vicinanze di Foggia. Qui, in un solo mese, l’équipe del dottor Kramer fu in grado di completare le prove e lo sviluppo e di assicurarne la completa operatività.

Corazzata italiana Rom sotto attacco della bomba glide tedesca Fritz X nel mediterraneo 9 settembre 1943 dipinto di Paul Wright

Fu utilizzato poche volte, ma sempre con conseguenze letali. Nel settembre del 1942 si costituì un’unità speciale, la Erprobungsund Lehrkommando 21. Le prove pratiche furono eseguite utilizzando come bersaglio vecchie navi affondate nel Mar Baltico. Il III/KG 100 fu equipaggiato con i Dornier Do 217 K-2, una versione espressamente riconvertita per ospitare la nuova bomba, ed iniziò le operazioni sul Mediterraneo il 29 agosto 1943. Il 9 settembre 1943 la Luftwaffe realizzò il più importante e celebre successo bellico del Fritz X. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 stipulato con le forze alleate, fu ordinato alla flotta della Regia Marina di far rotta verso Malta in ottemperanza alle clausole del’Armistizio anziché, come precedentemente stabilito, la Ciminiera 19


attaccare gli alleati impegnati nello sbarco di Salerno. Per impedire che le navi finissero per cadere nelle mani alleate, i Dornier Do 217 K-2 del III Gruppe KG 100 attaccarono il convoglio con il risultato di affondare la nave ammiraglia Roma, con i suoi 1255 uomini di equipaggio, e di danneggiare la sua gemella Italia (ex Littorio). Schema del Fritz-X.jpg

Navi affondate Nave da battaglia Roma (1861-1946) Regia Marina Nave ospedale HMHS Royal Navy Navi danneggiate Nave da battaglia HMS Warspite Royal Navy Nave da battaglia Italia (ex Littorio) (1861-1946) Regia Marina Incrociatore USS Philadelphia (1912-1959) U.S. Navy Incrociatore USS Savannah (1912-1959) U.S. Navy Incrociatore HMS Uganda Royal Navy

Un fotomontaggio con nazisti in primo piano e aerei monoala sullosfondo

Gli UFO

Nazisti parte 2: di Raoul Elia

Una delle più strambe teorie sul mondo esoterico nazista riguarda la missione antartica delle SS. Ne abbiamo già parlato nel n. 01 del 2018 (Gli UFO Nazisti parte 1) ma vale la pena di riprenderla in mano per qualche “approfondimento” 20 la Ciminiera

Il mistero della carta d’identità smarrita in Antartide da un ufficiale nazista ovvero gli spietati nazisti riuscirono veramente a a “negoziare” con i veri maestri e custodi dell’Antartide?

complottista. I complottisti, si sa, sono molto fantasiosi. E, soprattutto, non si fanno problemi ad ibridare teorie, mescolare suggestioni ecc... ed infatti, mixando UFO, Terra Cava, Nazisti,


Giapponesi, Alieni e OOPS (oggetti fuori posto), la teoria dei nazisti polari assume proporzioni nuove ed inquietanti. In Antartide… Nel condurre le loro ricerche, i tedeschi, secondo questa teoria del complotto, avrebbero raggiunto l’Antartide, seguendo non si sa quale fonte di informazione. Qui le SS avrebbero individuato non solo i resti di una civiltà antica, ma, per quanto incredibile possa sembrare, anche i suoi evoluti cittadini. Questa ipotesi mette in correlazione la cultura dell’Antartide e i presunti segreti ottenuti dalla spedizione tibetana dell’ “Ahnenerbe”, essendo i nazisti convinti dell’esistenza di una mitica civiltà che si nasconderebbe da qualche parte sotto l’inaccessibile catena montuosa dell’Himalaya. A quel tempo, l’intelligence militare sovietica avrebbe riferito ai dirigenti dell’URSS e forse allo stesso Stalin alcune indiscrezioni circa l’esistenza in Antartide della misteriosa base nazista denominata “211”. A seguito di queste presunte informazioni, i sovietici avrebbero deciso di condurre una serie di operazioni di spionaggio e delle ricognizioni militari lungo le pericolose coste dell’Antartide. Come siano andate queste operazioni non si sa, ma sembrerebbe che alcuni documenti, venuti alla luce di recente e comprovanti questi misteriosi fatti siano gelosamente

custoditi all’interno degli archivi nazionali russi. Questi documenti, in soldoni, confermerebbero una serie di operazioni segrete nella zona, chiamata dai nazisti Neuschwabenland o Nuova Svevia, e la costruzione dell’enigmatica Base 211, situata, come si è detto in altro articolo, all’interno dell’Antartide alle coordinate 20° E e 10° W, ovvero non lontano dalla Terra della regina Maud. Ma se ne abbiamo già parlato, perché riprendiamo questo argomento. Perché pare che ci sia una prova: secondo i documenti sovietici sopra detti, sarebbe stata scoperta una carta d’identità smarrita nel 1944 da un ufficiale nazista. Cosa ci faceva là? …E nella Terra Cava Secondo alcuni ricercatori (molto) indipendenti, una parte dei nazisti al termine della guerra sarebbe risultata dispersa. Erano per lo più giovani, arruolati da poco, “l’ultimo battaglione” che sarebbe partito proprio per i luoghi dell’Antartide già esplorati precedentemente. I tedeschi nazisti andati in Antartide si sarebbero poi stanziati all’interno dell’apertura polare della Terra Cava, prima, e poi su un’isola, ribattezzata Nuova Berlino, per poi scivolare tranquillamente in Argentina e integrarsi con la popolazione locale. Prima che finisse la guerra, inoltre, almeno secondo quanto afferma il ricercatore statunitense Len Kasten, la base di “Neun Berlin” ospitava una comunità di circa quarantamila civili e alcuni equipaggi composti da tedeschi e giapponesi alcuni dei quali avrebbero anche tentato, nel 1945, di portare a termine una missione (chiaramente, per l’epoca, suicida) su Marte (di cui, ovviamente, non si sa assolutamente niente).

Una presunta carta d’identità nazista della base 211

Secondo l’indagine condotta dal giornalista russo Nikolay Subbotin sui documenti del KGB della cartella “Orion”, la Ciminiera 21


quella, per intenderci, relativa alle attività dei nazisti in Antartide prima e durante la Seconda Guerra mondiale, sarebbe stata rinvenuta dalle spie di Stalin addirittura una mappa che mostra il continente principale della Terra Cava, chiamato ovviamente Asgard. Nel continente di Asgard, proprio al centro, si trova la città di Aesir. In basso a sinistra, nella stessa mappa si vedrebbe chiaramente l’area di Neu Schwabenland con la capitale Neu Berlin. Qui sarebbero venuti in contatto con la popolazione, ovviamente ariana e Immagine della mappa di Nuova Svevia

Len Kasten

ovviamente superiore, che abita la Terra Cava, e ne avrebbero carpito i segreti,

ravvedendosi in seguito e praticando una forma di “sorveglianza passiva” (gli svariati avvistamenti di UFO un po’ in tutto il mondo ne sarebbero la prova) sull’umanità di superficie. Inutile dire che di questi presunti documenti segretissimi non vi è traccia alcuna. E sapete da dove è partito il tutto? Dal presunto (e mai dimostrato) ritrovamento di un documento di identità di età nazista in qualche sperduto recesso dell’Antartide. E poi dicono che sono gli scrittori di SF, quelli strani...

Nikolay Subbotin

Antarctic Map Asgard 22 la Ciminiera


Letture consigliate

Raffaello valutazione, i danni, le guerre e i Il 6 aprile avrebbero dovuto furti che hanno interessato molte esserci grandi eventi a ricordo dei opere di Raffaello. cinquecento anni dalla morte di Raffaello, ma sono stati tutti sospesi La “Lettera di Raffaello d’Urbino per effetto del funesto avvento del a papa Leone X” di Baldassarre Covid-19 e dei suoi travolgenti effetti. Castiglione (Edizioni La Francesca Ferraro Tuttavia molte celebrazioni sono Biblioteca Digitale), mette in state trasferite sui social e attraverso evidenza che Raffaello è stato viaggi virtuali è possibile rivedere le sensibile e rispettoso del patrimonio storicoopere del grande artista, anche con restituzione di artistico dell’antica Roma, dimostrandosi immagini ad alta definizione. precursore dell’attenzionealla cultura del passato Raffaello Sanzio è stato ungrande protagonista ma anche grande conoscitore dell’arte antica. del Rinascimento e uno dei più straordinari artisti Raffaello era noto per la sua avvenenza fisica e per italiani di ogni epoca. La sua città natale gli ha la sua gentilezza, nelle sue opere la bellezza è data dedicato la mostra “Raffaello e gli amici di Urbino” con grande generosa schiettezza, senza i tormenti ormai conclusa (dal 3 ottobre 2019 al 19 gennaio di natura religiosa che aveva Michelangelo o quelli 2020), nella Galleria Nazionale delle Marche, al di natura scientifica di Leonardo. Palazzo Ducale di Urbino.Una grande mostra L’ultima sua opera, ancora non conclusa, la appena inaugurata il 5 marzoalle Scuderie del Trasfigurazione, fu posta alla testata del suo Quirinale di Roma, in collaborazione con gli Uffizi catafalco e tale e tanta fu la commozione del di Firenze, da cui provenivano importantissime popolo per la morte del giovane ed amabile artista, opere, è stata chiusa per l’emergenza sanitaria. che Vasari scrisse nel famoso testo “Le vite de’ Tra le tante monografie su Raffaello, si segnalano: più eccellenti pittori, scultori e architettori”: “Raffaello segreto. Dal mistero della Fornarina alle “gli misero alla morte, nella sala ove stanze vaticane” di Costantino D’Orazio (Sperling lavorava, la tavola della Trasfigurazione & Kupfer, 2015), “Raffaello pittore del segno e del che aveva finita per il cardinal de’ Medici: colore” di Claudio Strinati (Erreciemme, 2014). la quale opera, nel vedere il corpo morto Il libro di Marco Carminati “Raffaello pugnalato” e quella viva, faceva scoppiare l’anima di raccoglie articoli e recensioni pubblicatisul ”Sole dolore a ognuno che quivi guardava”. 24 Ore Domenica” ed apre altri scenari, scoprendo gli avventurosi viaggi, ma anche gli errori di la Ciminiera 23


PRESENTAZIONE Le grandi figure storiche femminili non sempre hanno avuto fortuna nella vita, né sono vissute felici di stare in un corpo femminile. Spesso il prodotto donna è una negativa manipolazione della cultura di una società retta da uomini che relega la donna in alcuni ruoli e non consente un’autonomia ed un’individualità paritaria, come dovrebbe essere per tutti gli esseri della terra, probabilmente imputabile ad un falso e primitivo convincimento inerente il suo stato di essere fragile, debole e come tale bisognosa sempre di ricevere, dalla costante presenza maschile, protezione e sicurezza. Lo scontro antropologico tra sessi, nel consuntivo passato, è risultato per le donne perennemente perdente, perché esse hanno avuto reiteratamente grandissime difficoltà ad entrare “in diretta” nel manipolato ed adamantino meccanismo culturale maschile ed a porsi su un bilanciato e paritario piano di rispetto e di difesa dei propri diritti, della propria indipendenza e dignità. Le antiche tragiche storie rinvenute, costituiscono, nella realtà presente, la prova del radicale ma anche del lento cambiamento di una retrograda e distorta visione che si aveva nei secoli passati.

LA MANO DI P IETRA NELLA STRAGE DI PENTEDATTILO Questa triste storia si tutti gli abitanti, con svolse a Pentedattilo la terrore, si sentono sera del 16 aprile 1686. ancora oggi addosso la maledizione, in Pentedattilo, di origine quanto, proprio nelle greca, probabilmente notti di bufere o di fondata da Calcidesi plenilunio, sentono fuoriusciti per motivi uscire dalle dita politici, a mille passi dal della roccia, lugubri mare ed a circa 30 km da di Angelo Di Lieto lamenti di morte, che Reggio Calabria, è un la gente capta sul filo paesino della Calabria, caratteristico e suggestivo, sito in un ripido del vento per miglia e miglia lontane. Scarsi declivio, presso una rupe che ha la forma di sono i resti del Castello, dove un tempo visse cinque dita di pietra, che danno alla roccia la la gioia, la vita e l’amore, ma soprattutto forma di una mano che s’innalza verso il cielo sciaguratamente la tragedia e la Morte. per un’altezza di 150 metri. Nel periodo greco-romano, Pentadattilo La mano, secondo la dizione popolare, tiene era stato un centro molto florido e di gran ancora in pugno la vita del paese, perché riferimento commerciale ed agricolo. 24 la Ciminiera


Decadde durante il periodo zio Bernardino che lo aveva delle incursioni saracene, avuto il 1495, e al feudo perché considerato luogo dell’Amendolea, ricevuto poco affidabile e sicuro. Con per investitura, da parte di il consolidarsi dell’attività Ferdinando II d’Aragona. normanna, invece, l’Italia Quando Bernardino il 1497 Meridionale fu divisa morì, Ludovico, nonostante fra i baroni che avevano fosse stato castellano al S. sostenuto gli Altavilla nelle Lorenzo, perse il feudo, che guerre di conquista, così i subito tornò alla Corona, feudi di Capua, Aversa e mentre il feudo Amendolea Pentedattilo furono assegnati rimase a Troilo, padre di alla Famiglia Abenavoli del Ludovico. Franco, ( o anche Abenavoli o Successivamente, verso il Abbenavoli), i cui componenti 1500, Troilo comprò il perduto divennero i feudatari di tutto feudo di S. Lorenzo per 5000 il territorio. ducati da Antonello Serrano Dalla parola germanica da Tropea, che lo aveva “flum, fevum, feodum, feudum“, acquistato dal re Federico, e di il feudo era un istituto col quale conseguenza Ludovico poté venivano assegnati vaste terre recuperare anche il suo posto in beneficio a personaggi, che di Castellano. Però Ludovico, in cambio dovevano dare al per essersi dimostrato ribelle Sovrano fedeltà, obbedienza a Carlo V, nel 1528 perse ed aiuti. il feudo di Montebello, per Madonna della Candalora Dopo il Mille, il feudo riacquistarlo all’inizio del rappresentò un autentico 1600. potere territoriale del feudatario, sul quale La baronia di Pentedattilo, il cui iniziatore poteva esercitare, per diritto ereditario, la fu Ferrante Francoperta nel 1509, era stata piena giurisdizione ricevuta dal Signore (senior ceduta, per motivi economici, dagli Abenavoli o dominus). ai baroni Francoperta da Reggio. Questo La costituzione di un feudo era fondato su impoverimento si era potuto verificare sia tre elementi importanti: l’esercizio dei poteri per le guerre che gli Abenavoli avevano sovrani, la dipendenza al Signore (vassallaggio), dovuto sostenere al servizio degli Altavilla, il territorio ricevuto in beneficio. sia per le donazioni spontanee o pattuizioni Il regime feudale creava quindi, a livello matrimoniali e sia per le assegnazioni piramidale, un legame di fedeltà tra il Sovrano successorie del patrimonio fra eventuali eredi. ed i vassalli, e l’atto di concessione del feudo Il Castello baronale era a forma quadra. Vi avveniva tramite investitura, da cui sorgevano era un cortile scoperto con tre bassi terranei, una pluralità di omaggi, che nel tempo fecero uno di essi veniva utilizzato come carcere; poi perdere coesione e forza al legame tra i attraverso una scala scoperta sul lato destro, si contraenti. accedeva a due grandi camere e a tre piccole La Signoria degli Abenavoli iniziò a che costituivano l’abitazione del padrone. Montebello il 1507 con Ludovico, il quale, I prodotti della terra, vino, olio, frutta, cereali proveniente dagli Abenavoli di Capua, si e grano, venivano venduti sul mercato di distinse perchè era stato uno dei 13 coraggiosi Reggio Calabria. Il pane di 12 once si vendeva italiani della disfida di Barletta del 13 febbraio ad un grano, la ricotta a 5 grani, il formaggio 1503 che avevano saputo dimostrare al nemico ad 1 carlino, una gallina a 2 carlini, la carne di francese l’antico valore. maiale a 10 grani, quella di vaccina a 5 grani il Questi fu premiato dalla Reale Corona rotolo. Inoltre, a Montebello vi erano pure due con la concessione di un feudo in Basilicata, sindaci, di cui uno veniva eletto dal barone, più però, sorti per alcuni diritti dei contrasti con i altri 12 eletti. Quando il castello fu distrutto Sanseverino di Potenza, gli fu prima data, per dal tempo, sui ruderi rimasti fu posizionato il tre anni, una rendita di 150 ducati e poi gli fu camposanto. definitivamente offerta la Baronia di Montebello, I Francoperta, famiglia grandemente oltre al feudo di S. Lorenzo, per conto dello latifondista di origine calabrese di Reggio, ma la Ciminiera 25


di adozione messinese, era tanto ricca che nel 1571 Giovanni Paolo Francoperta partecipò alla battaglia di Lepanto con una galea pagata a sue spese, nella quale si distinse come coraggioso ed abile condottiere. I Francoperta contribuirono anche all’edificazione di numerose chiese e case religiose a Reggio e territori viciniori. A Pentedattilo, invece, fondarono la Chiesa della Candelora e l’annesso Monastero dei Padri Pii Domenicani. Ivi fu collocata anche un’artistica statua di marmo bianco, alta due metri, rappresentante la Madonna della Candelora, della scuola dello scultore Antonello Gagini di Messina, dono, nel 1564, del barone Giov. Battista Francoperta. Sulla faccetta centrale della base esagonale, vi era un bassorilievo della Vergine con in braccio il Bambino e due angeli a fianco con un vecchio inginocchiato, che dovrebbe essere Simeone che Le va incontro, e due altre donne, al servizio nel Tempio, tra cui vi è scolpita anche la vecchia Susanna. Dovrebbe rappresentare il tema della “Purificazione di Maria , la Quale va al Tempio, secondo un uso giudaico, dopo il parto per purificarsi. Cosa altrettanto sorprendente è come si sia potuto collocare una statua così grande in un luogo dove vi erano soltanto strade impraticabili ed inaccessibili. Nella faccetta di destra poi, vi è la scritta “Io, Dimitri Francoperta“ e lo stemma del Casato, a sinistra invece v’è un altro stemma con le iniziali “ D. M.”, che può intendersi “Dei Matri“, offerta alla Vergine Madre. Sotto la data 1564. L’aspetto della Vergine è maestosa ed ha occhi vivi e capelli ondulati; sulle spalle porta un ampio manto con numerose pieghe, unitamente alla tunica, anch’essa pieghettata, che da sotto il petto, arriva sino ai piedi; in braccio tiene il Bambino, col volto a lei molto somigliante e particolarmente tenero nell’abbraccio al collo della Mamma. Negli atti scritti del Mons. Annibale d’Afflitto, arcivescovo di Reggio Calabria dal 1594 al 1638, di origine siciliana ma derivante dal ceppo dalla nobiltà amalfitana, risulta che a Pentedattilo vi erano numerose chiese con molti arredi sacri (“oltre 24 chiesette erano in uno stato di totale abbandono e distruzione “) e numeroso era anche il clero. In prevalenza la locale popolazione era di indole mite e tranquilla e con buoni sentimenti religiosi, per questo il culto era mantenuto dalle libere elargizioni dei fedeli. 26 la Ciminiera

Pentedattilo (Reggio di Calabria) di Lear Edward 1851.png

Si ha anche notizia di una Duchessa Francoperta di Pregacore che donò due Corone d’oro al quadro della Consolazione di Reggio Calabria e che nel 1722 furono sostituite con corone vaticane. Inoltre, in un testamento del 15 dicembre 1574, in assenza di notaio sul territorio, “in articolo morti“, il testatore Mario Majorana, a morte sua, - proprio perché i cittadini di Pentedattilo, allo scopo di arricchire e di tenere viva la fede si prodigavano a fare elargizioni in vita o per testamento -, offriva, alla presenza di testimoni, alla Chiesa della Candelora ducati 100, alla Cappella del Corpo di Cristo ducati 50, a Branda Teresa ducati 200 ed alla madre Lucrezia ducati 50, che dovevano all’una per maritarsi ed all’altra per il seppellimento. Fra i testimoni veniva beneficiato anche il vicario della Candelora Fra’ Giov. Battista de San Giorgio dell’Ordine di S. Domenico, che lo aveva assistito e confessato prima del trapasso. Nella Chiesa della Candelora, inoltre, vi era anche un bellissimo affresco raffigurante Gesù Cristo Crocifisso, che già nell’800 veniva segnalato per essere restaurato prima che il tempo lo cancellasse definitivamente. Vi erano anche 5 preti greci (un protopapa e 4 ditterei, che era il prete in secondo che collaborava col protopapa alla cura delle anime), più un diacono e 4 chierici, anche se il rito greco era in decadenza. Infatti, su sollecitazione dell’arciprete


Domenico Cardea, che nel 1595 aveva 35 anni, poichè il clero non comprendeva più il rito greco e desiderava altresì svolgere al più presto le funzioni con il nuovo rito latino, l’Arcivescovo Annibale d’Afflitto decretò la fine del rito greco. Il primo sacerdote che ebbe in quell’anno l’incarico nella chiesa matrice dedicata al divo Pietro, principe degli Apostoli, fu “D. Dominicus Toscano Boven“, sicuramente di nobile origine amalfitana, perchè la famiglia Bove era nativa di Ravello, nel comprensorio di Amalfi. Lo stesso arcivescovo, il 31 luglio 1595, nella sua prima visita a Pentedattilo, trovò la Chiesa della Candelora in pessime condizioni, anche perchè privo di tetto da più di due anni, per cui avviò con l’arciprete Domenico Cardea un’indagine al fine di acclararne i motivi e di rinvenirne i rimedi. In effetti risultò che, per l’assenza del Rettore e dei Padri Domenicani, Religiosi di ordine diverso, di cui uno aveva provveduto anche a scoperchiare il tetto con l’intento di riedificarlo, avevano incassato le elargizioni dei fedeli, e non si erano fatti, scandalosamente, più sentire. L’arcivescovo d’Afflitto si adoperò subito per la sua ristrutturazione e così, ben presto, fu restituita all’antica funzionalità e prestigio. A comprova che il Monastero della Chiesa della Candelora era ancora abitato dai Padri, bisogna rifarsi ad un tragico avvenimento che si svolgerà proprio nei pressi della stessa Chiesa la sera del 18 maggio del 1630. Tale Giovanni Michele Tropea uccideva per gelosia, con tre colpi di stiletto, la propria moglie Antonina Liurì, nonchè nutrice e balia del marchese Lorenzo Alberti, mentre ritornava dalla Chiesa. I testimoni, durante il processo, attestarono tutti l’innocenza della povera donna. L’uxoricida, com’era all’epoca consuetudine, subito dopo il delitto, si rifugiò nella Chiesa della Candelora per godere dell’immunità d’asilo. Però storicamente resta l’attestazione del l’abitabilità di questo luogo di ritiro spirituale attraverso la conoscenza del fatto che la donna si era andata a confessare dai Padri, che il Tropea si era rifugiato nella Chiesa abitata dai Padri ed inoltre che il Padre Domenicano Domenico Galante, che dimorava nella Candelora, aveva battezzato il 7 settembre 1633 nella Chiesa di S. Pietro il Marchese Domenico Alberti , figlio di Lorenzo e di Giovanna Mancuso. Invece la caduta del Monastero, del quale sono rimasti pochi ruderi, si ebbe a seguito della Bolla del Papa Innocenzo X “Instaurandae“ del 22 ottobre 1652, a seguito della quale

Chiesa dei SS. Pietro e Paolo

decaddero altri monasteri della Calabria. La Chiesa, che ancora oggi esiste, a seguito di diversi interventi, fu restaurata interamente nel 1632 e successivamente nel 1881 ad opera dell’arciprete Domenico Zema, che provvide anche ad acquistare pregevoli arredi sacri. Per arrivare alla vera storia, bisogna riferire, come sembrerebbe, che tra il barone Abenavolo di Montebello ed il marchese di Pentedattilo vi fosse una profonda inimicizia per una questione di confini, per cui, con l’intervento di alcuni amici comuni, la riappacificazione si ebbe, ma con l’impegno di entrambi che una sorella sarebbe dovuta andare in sposa al barone di Montebello. Nel 1589 il feudo Francoperta, per i gravi debiti del barone Giovanni, fu venduto all’asta e comprato per aggiudicazione per 15.180 ducati dal nobile Simone de Conti Aliberti (o Simonello o Monello Alberti), fiorentino, ma residente a Messina, al quale, i Reali di Spagna, per l’aiuto ricevuto durante la conquista del Regno di Napoli contro i francesi, gli elevarono la baronia a marchesato. Dopo Simone Alberti subentrò il figlio Francesco, poi il figlio di quest’ultimo Lorenzo ed infine Domenico, che fu il più stimato di tutti, soprattutto dallo stesso Vicerè di Napoli e dagli Spagnoli che lo nominarono Duca di Melito. Domenico Alberti diede incremento alla cittadina di Mileto con l’edificazione di ville e fabbricati e fu anche fondatore della Chiesa di S. Maria di Porto Salvo nel 1680. Si sa anche che Domenico Alberti teneva inoltre, nella Chiesa Matrice un faldistorio con soppanno la Ciminiera 27


e tappeto, che serviva per assistere alle sacre funzioni religiose. Questa poltrona con braccioli ed inginocchiatoio poteva essere utilizzata solo dai vescovi e dai papi, per questo il Vescovo Matteo de Gennaro, patrizio napoletano, vescovo dal 1660 al 1674, gli impose di levarla. Alla sua noncuranza il Vescovo pose la questione nelle mani della Sacra Congregazione a Roma, la quale finì per condannare l’Alberti. Grazie anche ad una notevole abilità diplomatica, il duca Domenico, al fine di ottenere maggiori benefici dagli Spagnoli e consolidare attorno a sé il territorio feudato, riuscì a tessere una rete matrimoniale attorno al suo primogenito Lorenzo e a Caterina Cortés, figlia del Marchese Pietro Cortés, dignitario del Re di Spagna alla Corte di Napoli e della Marchesa Agnese Cortés-Velasquez. Infatti, il matrimonio si celebrò tra i due nel 1685, poco prima che Domenico morisse, la cui morte è datata il 25 aprile 1685. E poco prima di morire, il nobile Domenico Alberti aveva avuto da parte di Bernardino Abenavolo, barone di Montebello ed erede degli antichi feudatari, una richiesta di matrimonio per la figlia più grande Antonia. Ma egli, pur non disdegnando questo matrimonio, avendo comunque delle diverse mire, continuava contestualmente a tessere altri rapporti, sperando che il matrimonio si potesse combinare non con gli Abenavoli, ma con nobili più vicini alla Corte Reale spagnola. Intanto la marchesa Agnese Velasquez, abbandonata la Corte di Napoli per recarsi a Pentedattilo dalla figlia Caterina, perchè in stato di gravidanza, da donna abile ed intelligente, vivendo nel feudo, si era accorta subito della gran potenza economica degli Alberti. Quindi con le sue arti suasive, incominciò a tessere i fili di un possibile matrimonio tra il figlio Petrillo, fratello di Caterina Cortés e la bella Antonia, sorella di Lorenzo, nonchè cognato dello stesso D. Petrillo. Il barone Abenavolo, che intendeva veramente sposare Antonia per amore e non per interesse, rivolgeva spesso, verso la desiderata sposa, ogni particolare azione o attenzione, così lei, manifestando grande simpatia verso Bernardino Abenavolo, intimamente tentava di avversare il matrimonio che si stava organizzando, anche se in apparenza fingeva di assecondare la volontà della famiglia, perchè temeva che disubbidendo apertamente, potesse essere rinchiusa e segregata dallo stesso fratello Lorenzo in un monastero. 28 la Ciminiera

In aggiunta la Marchesa Velasquez affinava le sue armi nella speranza che l’intera ricchezza del feudo degli Alberti passasse, per mezzo dei figli Caterina e Petrillo, nella totale disponibilità della Famiglia Cortés-Velasquez, tra l’altro coadiuvata altresì dal marito Pietro Cortés, il quale, nonostante i suoi gravosi impegni nel Reame di Napoli, si recava spesso nel feudo di Pentedattilo per imporre la sua autorità di gran dignitario di Spagna e di suocero verso il duca Lorenzo, nonchè di padre verso la figlia Caterina ed il figlio D. Petrillo, oltre che di ospite gradito e compiaciuto, pur se intrigante verso la bella Antonia. Intanto Bernardino Abenavolo ed Antonia Alberti, sicuramente attraverso una fidata e segreta collaborazione della governante che si metteva in contatto con gli uomini di Abenavolo, si scambiavano messaggi e lettere d’amore, che tra l‘altro facevano accrescere sempre più l’ansia e le preoccupazioni per un matrimonio non desiderato ed ormai imminente. Nell’altro gruppo, invece, con gioia, prendeva sempre più forza il convincimento che finalmente quest’unione stava maturando e che quindi era necessario incominciare a fissare una data per la celebrazione delle nozze. Nella tragedia greca vi era sempre il coro che preannunciava sventure e disgrazie in previsione delle sequenze degli avvenimenti che di lì a poco si sarebbero svolte, mentre qui, in Pentedattilo, il coro era il chiacchierio sottovoce del popolo che sussurrava che ormai per Antonia non c’era più nulla da fare e che lei non aveva altra possibilità se non quella di accettare le imposizioni e le decisioni del fratello Lorenzo. Invero il barone di Montebello Abenavolo, mediante l’intervento di persone nobili ed influenti del territorio, come il Cavaliere Carmine Malaspina ed il cognato, fratello della moglie, Carmine Mazzacua, aveva tentato di far dissuadere il marchese Lorenzo Alberti, facendogli ricordare, se voleva che non venisse meno alla parola a suo tempo data, che un giorno il defunto padre Domenico Alberti aveva già dato il consenso per la celebrazione del matrimonio tra Antonia e Bernardino. Lorenzo, però rifiutando ogni possibilità di persuasione e di accondiscendenza, disdegnò quest’ intromissione e che anzi ebbe un effetto contrario, perchè, per dare un colpo definitivo alle circostanze, ritenne opportuno stabilire che il matrimonio si sarebbe potuto celebrare nel marzo del 1686 e nel giorno in cui il marchese Pietro Cortés fosse stato libero dai propri impegni diplomatici e di responsabilità, tra i


quali il più gravoso era quello che riguardava la lotta contro il brigantaggio nel Sud. Così la data del matrimonio venne fissata nel mese di aprile. Il barone Abenavolo, sempre dettagliatamente informato di ogni avvenimento che accadeva nel Castello di Pentedattilo, con l’assenso e la complicità di Antonia, e nel tentativo di salvare il loro amore, come ultimo disperato tentativo, preparò il finto rapimento di Antonia. Così la sera del 14 aprile, e non del 16, del 1686, giorno di Pasqua, Bernardino Abenavolo, intorno alle dieci, senza dare nell’occhio per la tarda ora, anche perchè la gente dormiva, nè poteva immaginare che il barone a quell’ora di notte andasse dalla sua amata così accompagnato, ed anche perchè era possibile che un nobile venisse scortato dai suoi figuri per motivi di protezione, arrivò con circa 50 uomini, i quali, attraverso un’entrata secondaria, volutamente lasciata aperta dall’interno da una domestica, complice della padrona, entrarono silenziosamente nel Castello del duca. Intanto il duca Lorenzo, ignaro di quanto stesse per accadere, scorreva la serata con tutta la famiglia nel salone del castello in compagnia della propria madre Maddalena Vanctoven, della moglie Caterina, della suocera Agnese Cortés-Velasquez, del cognato Petrillo, delle sorelle Antonia ed Anna di 16 anni, nonchè del fratello piccolo Simone. Inoltre vi era il Marchese Francesco Arcasto con la famiglia, un amico di D.Petrillo, Giovanni Pellegrino da Napoli ed il figlio Giuseppe del Cavaliere Melana. Improvvisamente le ombre si materializzarono e con le armi in mano intimarono a tutti gli astanti di non muoversi, nel mentre il Barone Abenavolo, giocando sulla sorpresa e sulla finta ribellione, che doveva servire anche per difendere l’ onorabilità della sua donna, rapì con grande forza Antonia. Gli altri, per coprirsi probabilmente la ritirata e per non compromettere il risultato del rapimento, portarono via anche il giovane D. Petrillo Cortés. In quel momento il caos fu totale, nella scena vi sono rapinatori da una parte con le armi in mano che minacciavano e segregavano le persone, dall’altra le donne ed i bambini che incominciavano a gridare dallo spavento. Innanzi a questo gravissimo episodio, il Duca Lorenzo Alberti, vedendo quei ceffi affatto rassicuranti, che coadiuvavano al rapimento della sorella e del cognato, tentò di reagire,

aiutato altresì dagli stessi ospiti. Gli uomini, presi anch’essi dal panico, cominciarono a sparare, così, quando tutto fu finito, fu terribile lo spettacolo che si presentò, non era stata una difesa o una reazione spropositata, era stata una vera strage. A parte qualche sgherro, erano morti: il Duca Lorenzo con la madre Maddalena, il fratellino Simone e la sorella Anna, i familiari del Marchese Arcasto, Pellegrino, l’amico di D. Petrillo, ed il piccolo Giuseppe Melana. Incolumi invece, la Marchesa Agnese Cortés Velasquez e la moglie del Duca Lorenzo, Caterina Cortés. Intanto, a copertura, l’ombra della mano di pietra si proiettava sui fuggitivi e sull’ostaggio che si ribellava al suo rapimento e a quello di Antonia, mentre il Barone Abenavolo, ignaro della strage, conduceva la sua amata nel Castello di Montebello, dove veniva ricevuta con tutti gli onori dai familiari e dagli amici che lì si trovavano. Anche lo stesso D. Petrillo fu onorevolmente ospitato e lì restò prigioniero per una settimana, guardato a vista, finchè non si decise per la sua liberazione. La notte fu grandemente movimentata per tutti: il paese si svegliò di colpo sotto lo scoppio degli spari, delle urla di paura e di aiuto degli scampati e dei servi che avevano temuto anche per la loro vita. Il più impavido popolano si avvicinò al Castello con grande circospezione, poi osò entrarvi lentamente, finchè non si trovò insieme ad altri pavidi, curiosi, ma anche nel contempo inorriditi di trovarsi innanzi ad uno spettacolo di sangue così terrificante ed indescrivibile. Faceva inoltre pena e dolore vedere quei poveri ragazzi ormai senza vita o intuire l’abbraccio che la madre di Lorenzo aveva tentato nei confronti del figlio come ultimo e strenuo tentativo di proteggerlo e di sottrarlo ad una morte certa e probabilmente anche pensando al bimbo che la moglie teneva ancora in grembo e che sarebbe potuto nascere già orfano. I soldati spagnoli che si trovavano di presidio alla Marina di Melito Porto Salvo, cioè a circa 5 km di distanza dal luogo dell’eccidio, furono subito avvisati, però per l’ora tarda nulla poterono fare, per cui solo all’alba inviarono un corriere al Presidio Principale di Reggio Calabria, per avere rinforzi, per aiutare i superstiti del Castello e per rincorrere i responsabili di quella strage. Quando il corriere arrivò a Reggio Calabria ed apprese che il Preside del Presidio era la Ciminiera 29


Pentedattilo – Edward Lear

a Pizzo Calabro, fu necessario, prima di prendere qualsiasi iniziativa militare, che un altro corriere si recasse a Pizzo, per prendere le necessarie istruzioni. Il Preside Marchese Garofalo, appena informato della grave notizia, partì subito alla volta di Reggio Calabria e contemporaneamente inviò un corriere a Napoli per informare il Vicerè ed il Marchese Pietro Cortés. Il giorno dopo la Marchese Cortés-Velasquez e la figlia Caterina furono subito condotte nel Palazzo del Preside di Reggio Calabria. Appena la Corte di Napoli seppe di quest’eccidio, pensò immediatamente di dare la caccia al Duca Bernardino Abenavolo ed alla sua feroce banda di assassini, per cui, il 27 aprile 1686 (sabato), il Vicerè inviò tre galee con soldati, il 30 (martedì), di notte, altre due galee ed il 4 maggio 1686, sempre di notte, ancora due galee con truppe a rinforzo di quelle che si trovavano già in istanza in Calabria e che incominciavano a battere palmo a palmo le campagne di Montebello e di Pentedattilo. Ciò per dimostrare ovviamente anche lo zelo ed il rispetto che la Corte di Napoli poneva nei confronti del proprio dignitario Pietro Cortés e del suo dolore, che intanto confidava nella liberazione del figlio Petrillo, pur temendo, 30 la Ciminiera

come completamento della vendetta, anche l’eliminazione dell’ostaggio. A giusta ragione o meno, il Comandante del Drappello di Napoli, su segnalazione della gente del posto, appena due giorni dopo il suo arrivo a Pentedattilo, catturò sei uomini e ritenutoli complici del Duca Abenavolo, li impiccò sulle mura del Castello. Altri due furono imprigionati. Nello stesso tempo ordinò di bruciare ogni cosa sporca di sangue e vietò a tutti l’ingresso nel Castello. Intanto la stampa, montando ed esagerando, come sempre, gli avvenimenti, ovviamente fomentati anche politicamente dalla Corte spagnola, mirava ad aggravare la posizione dell’Abenavolo, sulla cui testa era stata messa una taglia di 600 ducati, allo scopo di farlo apparire sulla bocca dei popolani ancora più spietato e terribile, sino al punto di sostenere che la strage era stata portata a compimento proprio da lui, ed inoltre che, appena entrato nel salone, aveva violentato Antonia Alberti innanzi a D. Petrillo Cortés ed ai sopravvissuti, perchè vedessero tutti lo sfregio che stava compiendo. Ma i fatti non erano andati così, perchè l’Abenavolo seppe della strage dopo qualche ora e se avesse ordinato lui stesso preventivamente l’uccisione di tutti, non avrebbe senza dubbio preso in ostaggio Lorenzo, ma lo avrebbe fatto uccidere per prima, nè sarebbe ritornato tranquillamente a Montebello, nella sua casa, ma si sarebbe nascosto subito, senza perdere tempo, tra gli intrigati boschi delle montagne calabre. L’unico e vero obbiettivo che l’Abenavolo voleva perseguire era quello di provocare e coprire con un finto rapimento la fuga volontaria di Antonia, per poterla liberamente e successivamente sposare, ritenendo che, innanzi ad un fatto compiuto, sia il Duca Lorenzo Alberti, sia la Famiglia CortésVelasquez, non avrebbero più potuto suggerire soluzioni diverse ed insistere ancora sui loro subdoli ed ingannevoli piani. Intanto altri complici furono catturati e ferocemente fatti a pezzi. I loro miseri resti furono poi anche messi in bella mostra sui merli del Castello o nelle stanze, nel punto preciso dove avevano commesso l’eccidio. Sicuramente per Bernardino Abenavolo il compito di riferire alla propria amata il tragico evento fu un compito gravoso e tremendo, anche perché il loro piano, apparentemente perfetto nell’idea, nella fase della realizzazione, e per coprire poi una concordata e desiderata


fuga d’amore, aveva provocato tanti lutti e tanto spargimento di sangue di persone intimamente care e che profondamente si amavano. Nell’arrovellarsi dei sofferti pensieri pensò anche, doverosamente, di dover sposare al più presto possibile la bella ed infelice Antonia, e sempre se avesse ancora voluto, legalizzando così agli occhi di tutti quest’altra ibrida situazione. Così il 19 aprile 1686, come è stato rilevato dai registri dell’Archivio della Parrocchia di Montebello, il Parroco della Chiesa di S. Nicola di Montebello, Don Giovanni Cuzzocrea, alla presenza dei testimoni, l’arciprete D. Antonio Vazzana e Giovanni Paolo Parmisano, unì clandestinamente in matrimonio il Duca Bernardino Abenavolo e la nobile Donna Antonia Alberti di Pentedattilo, Purtroppo, nonostante il matrimonio, la situazione all’esterno non era certamente migliorata, perchè l’Abenavolo aveva innanzi a sé due grandi pericoli: che qualche paesano, convinto di dover vendicare i morti ammazzati, lo tradisse, sotto la spinta anche della taglia, denunciandolo alla gendarmeria spagnola, la quale, con grande piacere e soddisfazione di tutti, lo avrebbe subito arrestato ed impiccato nella pubblica piazza; ed inoltre, perché temeva che stessa sorte potesse capitare alla propria moglie, per correità nella strage, per cui decise, attraverso le montagne, di arrivare sino a Reggio Calabria e di farsi ricevere, ascoltare ed ospitare dall’Arcivescovo Martino Jbanez, di origine spagnola ed uomo pio e santo, di grande levatura ed umanità. Questa decisione di volersi confidare col Vescovo Jbanez dimostrerebbe indirettamente che la sua azione era finalizzata ad un pentimento limitato solo al rapimento della ragazza e non alla predeterminata strage, così come qualche cronista aveva all’epoca insinuato e raccontato. Se avesse compiuto scientemente la strage, quantomeno non avrebbe avuto il coraggio di farsi ricevere proprio da un uomo di chiesa per farsi perdonare ed aiutare, si sarebbe sicuramente rivolto ad altre persone che lo avrebbero potuto nascondere e preparargli una fuga fuori dal territorio reggino. Certamente anche Antonia Alberti doveva vivere quelle ore in una disperazione inimmaginabile, per la sofferenza fisica e soprattutto per quella interiore, ed anche perché, sicuramente pentita del piano messo in atto, nel quale vi era stato un costo tanto alto di sangue e dove tante persone care erano state sacrificate per lei, che invece credeva di poter così vivere nell’amore la sua felicità.

L’attraversamento dei monti fu pericoloso e ad alto rischio per la presenza di tanta gendarmeria spagnola e per il timore di essere catturati anche dai briganti, sebbene gli uomini che li accompagnavano non fossero da meno. Un altro fattore che poteva far compromettere la salute di Antonia era il freddo e la pioggia, nonché il disagio di dover camminare di notte. Una volta arrivati a Reggio Calabria, entrarono dalla porta orientale, in prossimità di Piazza S. Filippo (poi piazza Carmine), mescolati tra la moltitudine dei contadini che portavano i prodotti della terra a vendere al mercato, ma accortamente accompagnati e protetti da alcuni uomini travestiti da frate o da mendicanti. Raggiunto il Duomo, chiesero al custode di poter incontrare l’Arcivescovo Jbanez, che, già informato dettagliatamente della strage e dell’avvenuto clandestino matrimonio, volle ascoltare dalla viva voce del Barone Abenavolo la verità e l’esatto svolgimento dei fatti. Alla fine del drammatico racconto, l’Arcivescovo si preoccupò, per motivi di protezione, di far ritirare Antonia Alberti in un monastero del posto, mentre il Barone, vestito da frate, restò qualche giorno nel Convento dei Frati Riformati, sito a circa 500 metri dal Duomo, sempre temendo per la sua vita, per quella della moglie e di essere tradito da qualcuno. Infatti, una notte tra il 24 ed il 25 aprile del 1686, un drappello di soldati spagnoli circondò il Monastero con l’intento di arrestare il Barone. Aprirono la porta lo stesso barone, il parroco della Chiesa don Marco Colombo ed un altro monaco, i quali, diedero ampia assicurazione che nel convento, del barone, non v’era nemmeno l’ombra. Come i gendarmi se ne andarono, il barone, con alcuni suoi fidi, decise di partire subito per nascondersi tra i boschi. Quando gli spagnoli si accorsero della beffa, il povero capitano spagnolo fu destituito, arrestato e processato, responsabile di aver consentito la fuga del barone, mentre il Preside di Reggio Calabria prese personalmente il comando delle operazioni e l’inseguimento tra i monti. Eppure un giorno i fuggiaschi restarono intrappolati e circondati: la maggior parte degli uomini restarono uccisi nel conflitto a fuoco con gli spagnoli, mentre Bernardino Abenavolo, con Giovanni Palmisano, il loro testimone al matrimonio, e pochissimi fedeli, riuscirono a sfuggire miracolosamente all’accerchiamento. la Ciminiera 31


La gente, intanto, applaudiva sempre le truppe in movimento e non pensava che le cose potessero essere andate in modo diverso e che il barone non era poi l’ assassino così spietato di come erano stati raccontati gli avvenimenti. Comunque tutti erano convinti, dopo quello che aveva combinato, che il diavolo lo aiutava e lo proteggeva, e nell’affermarlo speravano sempre in un’immediata ed auspicabile cattura. Il Barone Abenavolo, nonostante cambiasse spesso domicilio, rifugiandosi tra amici fedeli che gli offrivano ospitalità ed aiuto, oppure nascondendosi tra gli anfratti dell’Aspromonte, si rese subito conto che, per la salvezza di tutti quelli che rischiavano la propria vita per aiutarlo, non poteva restare oltre sul territorio calabrese. Egli era anche pienamente cosciente che in caso di arresto i suoi beni sarebbero stati confiscati e venduti all’erario ad un prezzo simbolico. Una sera che si era rifugiato a Brancaleone Superiore, grazie all’aiuto dei soliti amici, raggiunse dopo mezz’ ora di cammino a piedi la spiaggia e s’imbarcò su una barca a vela con rotta verso Malta, con la speranza di non incontrare sul cammino navi spagnole. Al ritorno da Malta i finti pescatori riempirono le reti di alghe e di pesci, per dare l’illusione, se fossero stati bloccati, che essi ritornavano veramente da una normale battuta di pesca. Nel mentre che sulle montagne la caccia continuava, il Dignitario Cortés, dopo essere stato nel palazzo del Preside a Reggio Calabria con la moglie ed i figli, sempre trepidando nella notizia della cattura degli assassini, sbarcò a Napoli la sera del 4 maggio 1686. Intanto Malta, con la Repubblica di Venezia, l’Austria e la Santa Sede, sotto l’egida della Lega Santa, lottava contro i Turchi, per cui il Barone Abenavolo, una volta sull’isola e pur di sfuggire all’ inseguimento degli Spagnoli, pensò di arruolarsi sotto falso nome combattendo contro i Turchi ed entrando nell’esercito dell’Ordine dei Cavalieri di Malta. Col grado di ufficiale fu inviato a combattere in Ungheria e per il coraggio e la temerarietà che aveva manifestato in battaglia, ben presto fu nominato capitano dell’esercito asburgico. Quando Buda fu conquistata, un calabrese, anzi un nobile calabrese, il barone Bernardino Abenavolo di Montebello di Reggio Calabria, aveva partecipato e dato il suo personale contributo ad una delle tante, terribili e sanguinose battaglie che un popolo stava lottando per la difesa della propria autonomia 32 la Ciminiera

e libertà. Un giorno, mentre vagava per la città di Buda, il Barone venne riconosciuto da un soldato che era di Montebello, tale Andrea Tripodi, il quale lo denunziò subito, per vendetta, al suo comandante per i crimini commessi. Andrea Tripodi era fuggito da Montebello perché un giorno si era ribellato al suo arrogante padrone, già inviso perché scudisciava i poveri e deboli contadini. Come fu colpito lui stesso dallo scudiscio, furioso, rientrò nella sua povera dimora e ne uscì sparando colpi di archibugio. Il Barone, che poi era Cola Maria III Abenavolo, padre di Bernardino, ed i due suoi bravi che lo accompagnavano, furono freddati all’istante. Inseguito dagli armigeri, riuscì a raggiungere Vienna, arruolandosi così nell’esercito austriaco. Il Tripodi, quindi, ritenendo che delitti così gravi fossero un disonore per un ufficiale dell’esercito asburgico, anche se l’accaduto doveva riguardare solo le autorità spagnole, deferì lo stesso il barone Bernardino Abenavolo alla Corte Militare. Innanzi a questa nuova situazione, il Barone, appunto perché nobile, chiese udienza privata all’ imperatore d’Austria, per essere direttamente ascoltato ed eventualmente giudicato dallo stesso. Rimase per mesi agli arresti domiciliari, finche l’Imperatore non si decise a convocarlo ed ascoltarlo in una pubblica udienza. Il Barone, dopo aver esposto dettagliatamente tutti i fatti, così come si erano effettivamente svolti, si sottopose alla definitiva volontà giudicante dell’Imperatore Leopoldo I, che prima di emettere una sentenza in merito, si era informato anche sui fatti e sulla sua condotta di uomo coraggioso ed intrepido. Il giudizio imperiale fu favorevole, e questo non sarebbe stato di assoluzione se la strage fosse stata scientemente predeterminata nel piano del rapimento, per cui il Capitano Abenavolo fu perdonato dall’Imperatore d’Austria ed immediatamente integrato nell’esercito asburgico, per riprendere insieme ai combattenti della Repubblica di Venezia, la battaglia contro i Turchi, che si protrasse sin oltre l’estate del 1687. Obbiettivo di Solimano III era quello di occupare prima Venezia, invadendola dalla Jugoslavia e dal Mare Adriatico, per poi impossessarsi successivamente anche dell’ Austria. Ma un giorno, in una delle più sanguinose e cruente battaglie, nel mentre si trovava sulla tolda di una nave austriaca a dare ordini, il


povero Barone Bernardino Abenavolo venne colpito in pieno da un colpo di cannone. Così il 21 agosto 1687 finiva la sua storia e la sua tragica corsa verso una felicità che non aveva mai potuto godere e tenendo nel petto il disonore di aver provocato tanto spargimento di sangue di tanti poveri ed estranei innocenti, nel mentre, in piena infelicità e dolore lasciava sola in un Convento di Clausura di Reggio Calabria la sua sfortunata compagna che certamente continuò a vivere struggendosi negli anni e rimordendosi l’anima su quanto era irrimediabilmente accaduto. La Gran Corte della Vicaria, con sentenza del 30 agosto 1690, a seguito della morte del Barone Bernardo Abenavolo, dichiarava Antonia Alberti Abenavoli erede universale, la quale, nel suo dolore e con l’intenzione di disinteressarsene completamente, permise che i suoi beni venissero amministrati direttamente dall’Arcivescovo Martino Jbanez di Reggio Calabria, che morì nel 1695, mentre successivamente furono acquisiti da nobili e da famiglie dei paesi viciniori e confinanti. Caterina Cortés, moglie del defunto Duca Lorenzo Alberti, che si era ritirata a Napoli con la suocera Agnese Cortés-Velasquez, diede alla luce un bambino, per cui, sinchè durò il

suo stato di vedovanza, Pietro Cortès, a tutela del nipote minore, amministrò tutti i beni degli Alberti. Quando andò invece sposa a Don Nicola Salinas, barone di Polveca, Caterina Cortés, non volendo più ritornare a Pentedattilo, ove vi era l’ombra della maledizione della mano di pietra che sovrastava il paese, preferì vendere tutte le proprietà alla nobile famiglia spagnola dei Marchesi Ramirez, che si stabilì definitivamente a Melito. Solo nelle favole che si leggono ai bambini si vedono principesse sognanti e felici, la vita invece nella realtà è diversa, però il tempo cancella affreschi, fa ruinare castelli, distrugge giardini d’incanto, nasconde, sotto secoli di polvere, la tristezza e la malinconia di nobili fanciulle, come se seppellire sfortunate storie d’amore sia il giusto rimedio per far dimenticare l’eterna infelicità degli uomini. Anche Eva, è bene ricordarlo, nell’Eden, pagò a caro prezzo e soffrì intimamente la sua libera scelta d’amore. Forse gli uomini, ancora oggi, nella propria congenita tristezza, da quel giorno, custodiscono, celano e vivono sempre ed in eterno nei loro geni, la storia di quel primo ed infelice celestiale amore.

Bibliografia - Angelo Borzelli = “Successi tragici et amorosi di Silvio ed Ascanio Corona“- Napoli - Casella, 1898, 124. - Domenico Conforto = “dai Giornali Inediti sulla Strage di Pentedattilo“- Biblioteca S. Martino Napoli. - Antonio Costantino = “La tragedia degli Alberti di Pentedattilo“ - (Tra la Storia ed il romanzo) - III Ediz. - 1982. - Antonio Ficara de Palma = “Storia di Pentedattilo e Strage degli Alberti - Pasqua 1686 “, - Casa Editrice Ellenica di Reggio Calabria - 1979. - Giulio Cesare Libetta = “Fata Morgana”, (Giornale di Reggio Calabria) - Anno 1848 - nn. 5-6-7. - G.B. Moscato = “ Ludovico e Bernardo Abenavoli “ in Rivista Storica Calabrese, a. V, 1898, pagg. 81-84. - Cesare Minicucci = “Il Feudo di Montebello dei Baroni Abenavoli del Franco al sec XVII“ in Rivista Storica Calabrese - 1907 - pagg. 129-139 e R.S.C. “Notizie Storiche sul Monastero della Candelora in Pentedattilo “, a. XVI, 1908, Serie V - fasc. 1-4, pag 52 e segg. - R. Cotroneo = “Lite tra il Marchese di Pentedattilo e l’Arcivescovo di Reggio “ - anno XV - 1907 - S. 2 - pagg. 180-183. E R.S.C. “Melito Porto Salvo “ - 1905 - pag.122 e segg. - Lorenzo Salazar = “La Strage di Pentedattilo“ in R.S.C. diretta da Oreste Dito - Siena - Tip. Edit. S. Bernardino a. II, 1894 - fasc.VIII-IX - pagg. 82-88. - D. Spanò Bolani = “Storia di Reggio“ , Vol. II , lib. VII, pag. 41, cap. V. - G. Valente = “Storia della Calabria nell’Età Moderna“ - Chiaravalle C. Frama , 1980 , vol .2. la Ciminiera 33


STORIA DI

LUCREZIA D‘ALAGNO E LE

“ALFONSINE“ DEL RE Alfonso V d’Aragona

di Angelo Di Lieto

Alcune volte, nel silenzio della narrazione degli avvenimenti storici, ci si dimentica di evidenziare che nell’antichità alcune donne

Lucrezia d’Alagno

hanno saputo imporre nella società, con la loro intelligenza e la loro bellezza, la personalità del loro fascino e del loro potere. ( 1)

(1) Della Famiglia D’Alagna: “Ha dato molte famiglie nobili alla città di Napoli: tra le quali una fu quella d’Alagna. La quale dice il Marchefe, efferui venuta poco innanzi à tempi di Ladiflao. Lo trouo nell’anno 1382 Vuillo d’Alagna già effer chiamato Napoletano, effer caualiere, &, darglifi effendo caftellano di Montelione feffanta oncie di prouifion l’anno. Ma non è pero alcun dubbio, quella effer forta, come egli dice, à tempi del Re Alfonfo per cagioni di Lucretia da lui fopra tutte le cofe amara figliuola già di Niccolo d’Alagna fignor di Rocca Rainola. Prefe coftei parte con la fingolar bellezza del vifo & del corpo, & parte con la dolcezza de coftumi fattamente l’animo del vecchio Re, & in guifa con mille altri modi & maniere piene d’amorofa piaceuolezza l’annodò; che oltre hauer quel liberaliffimo’ principe fatto lei fopra modo ricca & potente, anco i fuoi fratelli & forelle marauigliofamente fece grandi, & arricchì, & come il Pontano nel Fecondo libro della fua hiftoria afferma, fù conftantiffima fama fra tutti i Napoletani in quel tempo; che fe la Reina Maria moglie del Re Alfonfo fi fosse morta, al fermo fi farebbe il Re, tolta per moglia Lucretia.” da - Scipione Ammirato: “Delle Famiglie Nobili Napoletane”-Parte Prima-Fiorenza appreffo Giorgio Marefcotti - MDLXXX - Della Famiglia D’Alagna -pag. 73. “Alagno o Alagna” . La Famiglia fu anche presente in Messina, ove venne ascritta a quel patriziato in Taranto, ove si estinse nei primi anni del Secolo XVIII°, e nel Reggino. D.Domenico Alagna la elencò tra quelle che “ora o non sono o decaddero da quel natio splendore...” Si vuole che la famiglia fosse di origine francese, venuta con Carlo I d’Angiò nel 1269, e, che dal fondo “Ligny” avesse tratto il nome del Casato. (da M.Camera = ibidem pag 233). Arma: “d’oro, alla Croce di rosso, caricato di cinque gigli di argento”. Franz von Lobstein = “ Settecento Calabrese ed altri scritti “-Volume terzo- Edizione Frama Sud - Chiaravalle C/le (C/zaro)-pag. 60 -Anno I990.

Così anche la storia di Lucrezia D’Alagno è rimasta nell’ombra per lungo tempo. La nobile famiglia D’Alagno, originaria di Amalfi, quando si trasferì a Napoli, andò ad abitare con altri nobili nella “ruga Amalfitana” e poi in via San Biagio dei Librai. Risulta che nel 1324 in casa D’Alagno, in Amalfi, vi fosse un presepe collocato nella Cappella di famiglia. Lucrezia , con tre fratelli e tre sorelle, figlia di Nicola o Cola D’Alagno e di Covella Toraldo, (2) era nata intorno al 1430, e quando nel 1448, appena diciottenne, s’ incontrò con il cinquantaquattrenne Re di Napoli Alfonso d’Aragona, risiedeva a Torre del Greco. I1 Re Alfonso V d’Aragona (1394 34 la Ciminiera

-1458), figlio di Re Ferdinando I, il Giusto, dal 1443 fu il I Re di Napoli. Ebbe tre figli, Ferrante, Maria ed Eleonora. Ferrante sposerà prima Isabella di Chiaromonte (1465) e poi Giovanna d’Aragona, figlia illegittima di Enrico, Marchese di Gerace e di Polistena Centellaro dei Marchesi di Crotone. (3 ) Il Re Alfonso, separato da oltre trentanni dalla moglie Maria Castiglia, che viveva in Ispagna, vecchia e malata, aveva avuto illegittimamente, da una misteriosa relazione d’amore, un figlio, Ferrante, che prediligeva e che trattava come un figlio legittimo. Ferrante era stato designato dal padre quale erede al trono di Napoli con la propria moglie Isabella di Chiaromonte, duchessa di Calabria.(4)


(2) Da questo matrimonio nacquero Giovanni, Ugo, Mariano, Luisa, Margherita, Antonia e Lucrezia. Giovanni, sulle tasse pagate nel porto di Gioia Tauro (Reggio Calabria), aveva un diritto di gabella di 15 grana per oncia; quando morì nel 1453, il diritto fu donato al nobile calabrese Giorgio Toraldo dei Signori di Badolato, parente con i D’Alagno. Marian sposò Caterinella Orsini e Luisa sposò in Valencia, Auzias Milas, nipote di Alfonso Borja, che diventerà papa col nome di Callisto III. (3) Alfonso V (1394-1458), Re d’Aragona (dal 1416 ) e I Re di Napoli, dal 1443, figlio di Re Ferdinando I, Re d’ Aragona e di Sicilia, ebbe tre figli, Ferrante, Maria ed Eleonora. Ferrante I (1431-1494) sposa prima Isabella di Chiaromonte e poi Giovanna d’Aragona, quest’ultima figlia illegittima di Enrico, marchese di Gerace e di Polistena Centellaro dei Marchesi di Crotone. Anche Enrico, (m.1445) era figlio illegittimo di Re Ferdinando I d’Aragona e di Diana Guardato di Sorrento. (4) Alcune fonti ritengono che la madre fosse Margherita de Hijar, dama di corte, mentre, altri, invece, pensano che Ferrante fosse figlio di Giraldonna Carlino, una señora bellissima, moglie di Gaspare Reverter di Barcellona.

Lucrezia, dai capelli neri ed occhi verdi “ojos verdes” e dai modi eleganti e raffinati, non era solo affascinante per la sua straordinaria bellezza, ma anche per la sua particolare intelligenza e grazia femminile. Era consuetudine in Napoli che le ragazze da marito, la sera di S. Giovanni, appendessero sulle porte delle loro case una ghirlanda. Il giovane che si manifestava interessato alla ragazza, raccoglieva la ghirlanda di fiori ed in cambio offriva una monetina. Era un modo come un altro per entrare in sintonia con la giovane donna con la quale s’ intendeva avviare un futuro rapporto amoroso. L’amore tra i due sorse, quindi, a Napoli il 24 giugno 1448, proprio la sera di S. Giovanni. Infatti il Re Alfonso si trovò a passare proprio nel momento in cui Lucrezia d’Alagno, una ragazza diciottenne, spavalda, bella e dagli occhi di smeraldo stava collocando la ghirlanda sulla porta della sua casa. Il Re osservò per qualche momento la sua bellezza ed il suo garbo e ne rimase fortemente affascinato. Così, sceso da cavallo, prese la ghirlanda dalla porta ed offrì alla ragazza una borsa piena di denari, dette “alfonsine”. Ella, prelevandone una sola, maliziosamente rispose che : “di Alfonsi a lei bastava uno solo”. Questa frase ed altri incontri incendiarono immediatamente il cuore del Re, a tal punto che Lucrezia divenne liberamente ed in breve tempo, la favorita della Corte, sia per i cortigiani, che per i delegati dei sovrani stranieri. La sua fama di Donna bella, saggia ed intelligente, crebbe a tal punto che tutti, prìncipi, nobili ed alti prelati, quando andavano

a Napoli, trovavano l’occasione per far visita anche al Re Alfonso. Ormai tutti la trattavano e l’ amavano come una Regina. Ovviamente la Famiglia d’Alagno potè godere di privilegi e concessioni che ne potenziarono il prestigio e la posizione economica. Lo stesso Re si trasferì nella Torre di Torre del Greco, vicino alla casa di Lucrezia, facendo costruire nel giardino di lei un’alcova al fine di poter ammirare la bellezza e la saggezza di lei ed ascoltare rapito la dolcezza delle sue parole. Il Re Alfonso in suo onore organizzava spesso tornei, giostre, danze e pranzi a corte. Durante la famosa giostra della Selleria, il Re, per consentire che Lucrezia osservasse direttamente dalle finestre del suo imponente palazzo, oggi sede del museo Civico Filangieri, un tempo palazzo Cuomo sito in via d’Alagno, fece abbattere tutte le case posizionate tra il Palazzo Cuomo e la piazza della Selleria e rifare la pavimentazione della piazza. Nel 1452 l’imperatore Federico III, con la moglie Eleonora di Portogallo, nonchè nipote di Alfonso I, per la fama che correva, vollero subito conoscere Lucrezia. Per incontrarsi il Re Alfonso organizzò una caccia agli Astroni. Il desiderio di conoscerla e la curiosità fu tale che presi dei cavalli, cavalcarono sino alla casa di Lucrezia, attraversando la Via degli Amalfitani, dove abitava. Come Lucrezia seppe che l’imperatore era lì alla porta, subito scese, andò incontro agli ospiti e prendendo per mano l’imperatrice e Federico III, li condusse in alcune stanze dove vi era Alfonso, il quale, come fu informato, convocò subito dame, nobili e gentiluomini la Ciminiera 35


per una sontuosa colazione. Alcuni trovatori spagnoli si trovavano in grande imbarazzo, per cui celebravano a secondo delle circostanze ora Lucrezia, ora la lontana Regina Maria di Castiglia. Anche i rimatori italiani (Antonio Beccadelli detto il Panormita, Francesco Spinello e Pier Jacopo de Jennaro) e spagnoli (Juan de Tapia, Pere Torroella, Suero de Ribeiras, Carvajales) cantarono la grazia e le virtù della bella Lucrezia, definendola “Dea“ e “Signora dell’antica Grecia “. Anche il poeta catalano Auzias March, in un’epistola in versi indirizzata ad Alfonso per ottenere un falcone, chiede l’intercessione di Lucrezia. Infatti, chi voleva ottenere qualcosa dal Re, si rivolgeva prima a Lucrezia d’Alagno. Sicuramente vi furono artisti che la ritrassero, ma non rimane di lei alcun ritratto. Di recente, qualcuno crede di aver individuato in un bassorilievo sito nell’arco trionfale edificato in Castelnuovo in onore del Re Alfonso la figura di Lucrezia “dalle labbra carnose, dal profilo classico ed adorna di una collana di pietre preziose“, posizionata innanzi al carro trionfale nell’ atteggiamento di chi volesse indicare il cammino che il Re Alfonso doveva seguire. Non si sa se il bassorilievo rappresenta proprio Lucrezia d’Alagno, oppure nelle sembianze di Lucrezia vi sia la Sirena Partenope, suicidatosi presso Capri, per amore, per non essere riuscita a farsi amare da Ulisse. Ma nonostante i feudi ed i tesori ricevuti in dono dal Sovrano partenopeo, Lucrezia non si concedè mai al Re Alfonso, anzi reiteratamente gli rimarcò che prima di subire violenza, per la vergogna si sarebbe uccisa prima e non dopo, come aveva fatto, invece, una sua omonima nel passato. L’evento tragico richiamato riguarderebbe la matrona romana Lucrezia, moglie di Lucio Tarquinio Collatino, che, famosa per le sue virtù, si uccise per non sopravvivere al disonore di essere stata violentata da Sesto, figlio di Tarquinio il Superbo. ( bis) Napoli la chiamava Lucrezia “la Regina Vergine”. (bis) Questa storia è stata ripresa drammaticamente da più artisti (Dürer -Tiziano -il Veronese).

36 la Ciminiera

Un anonimo poeta paragonò Lucrezia superiore alla famosa Didone, regina di Tiro e fondatrice di Cartagine, perché, mentre la Principessa d’Amalfi avrebbe difeso la sua castità sino a morirne, al contrario Didone si era uccisa disperata dell’abbandono di Enea, dopo aver dedicato nella sua alcova tutta se stessa. Infatti, Lucrezia, sperando di divenire Regina alla morte di Maria Castiglia, con la doglianza della verginità, ribadiva sempre che si sarebbe concessa al Re solo quando fosse stata con lui regolarmente sposata. Fu forse questa la vera arma della sua potenza, perchè si fece lambire dal fuoco dell’amore, ma non bruciare dallo spasimante Re. Questo rigore morale, reale e non millantato, le conferì maggiore rispetto e stima, da parte di tutti, sovrani, cortigiani e prelati. Quando cominciò a credere, senza attendere l’eventuale morte della Regina, di poter ottenere l’annullamento del matrimonio da parte del Papa Callisto III (Alfonso Borgia), partì per Roma. In testa, per protezione, vi era Antonio Centelles, il marchese di Cotrone, oggi Crotone, con 500 soldati a cavallo e con 50 damigelle nobili e 25 dame titolate, tutte dell’intera corte aragonese. Callisto III era tra l’altro suddito del Re di Napoli e parente della Famiglia di Lucrezia, in quanto zio di Auzias Milà, marito di Luisa d’Alagno, al quale il Re Alfonso aveva dato l’appalto della gabella del Regno. Per le spese di viaggio il Re le diede cinquemila alfonsini e le aprì anche un conto presso il Banco di Rona per tremila ducati. Ovunque riceveva festeggiamenti, musiche, onori e regali. Lo stesso Papa mandò incontro alla colonna, cardinali e dignitari per accompagnare Lucrezia in grande giubilo sino a Roma. Forse era anche presente Rodrigo Borgia, il futuro Papa Alessandro VI. L’11 ottobre del 1457 venne ricevuta dal Papa in grande pompa ed in quella circostanza, numerosi cardinali, insieme ad ambasciatori e prìncipi, le regalarono preziosi oggetti d’oro e d’argento. Per giorni il Papa Callisto III impose festeggiamenti e cerimoniali, con grande critica di alcuni cardinali di avverso parere. Lo stesso Papa era rimasto estasiato della bellezza di


Castel Nuovo (Maschio Angioino) Napoli

Lucrezia e non biasimò affatto l’amore che Alfonso nutriva verso di lei: lei era veramente meravigliosa, una splendida plasmazione dell’Arte divina. Innanzi a questa affettuosa e calorosa accoglienza, Lucrezia D’Alagno, illudendosi, credette di poter ricevere da parte del Pontefice, il “placet” per l’annullamento del vincolo matrimoniale, anche perchè la Regina Maria di Castiglia era sterile. Infatti, Lucrezia, in nome dell’amore suo e di Alfonso, il 13 ottobre 1457, rappresentò al Pontefice che quel matrimonio del Re con Maria di Castiglia, in trenta anni, era stata un’unione senza amore e senza frutti. Invece, giorno 13 ottobre, dopo due ore di colloquio privato con Lucrezia, l’ottantenne Papa, dopo aver valutato le commoventi e convincenti parole di Lucrezia, dopo aver ponderato anche la forza reale della Regina di Spagna e della sua infelice vita, ed infine, dopo aver fatto anche una nervosa ed ispiratrice passeggiata, fu inflessibile e negò ogni possibilità di scioglimento, per paura di peccare, con la motivazione che “non voleva andare all’ inferno con essi ...”. Ritenne che la Regina di Spagna non poteva essere sostituita da una …passione d’amore. Comunque il papa Callisto III era un falso puritano, perché poteva andare all’inferno

anche per ben più gravi peccati, perché aveva una figlia, di nome Adriana, che divenne la confidente del futuro papa Alessandro VI. Sicuramente, nel giudizio negativo, influirono le forti pressioni che la Regina di Spagna aveva fatto sul Papa, perchè, con l’annullamento del matrimonio con Alfonso, avrebbe perso il titolo di Regina, nel mentre a lei stava a cuore più restare Regina di Spagna che preoccuparsi degli amori del marito. Al Papa invece interessava l’amicizia con la Spagna e la gabella che il Re Alfonso aveva dato al nipote (del papa) Auzias Milas. Ma Auzias aveva anche sposato la sorella di Lucrezia, che si chiamava Luisa. Il Papa, poi, era grato anche a Maria di Castiglia, perché lo aveva aiutato con la forza della nazione, di cui era Regina, a salire sul trono pontificio. Infine il Papa aveva anche pensato e sperato, che alla futura morte di Alfonso, con l’aiuto della Spagna, di poter insediare un suo nipote sul Regno di Napoli. Quindi vi erano superiori interessi politici, economici e di ragion di Stato, che respingevano automaticamente ogni secondario obbiettivo. Ma nel diniego prevalse anche un pizzico di vendetta da parte del Papa, in quanto il Re Alfonso, svanito il sogno di una sua egemonia su tutto il territorio italiano, negò al papa sia la lotta contro i Turchi, che l’invio di una crociata a Gerusalemme per la riconquista del Santo Sepolcro. Così, dopo queste parole, ultimati i convenevoli ed i saluti, Lucrezia, fortemente amareggiata e delusa, si congedò dal Papa. La tristezza che le nobili donne lessero sul volto di Lucrezia, le dissuase dal chiederle qualcosa. Nessuno ebbe il coraggio. Era troppo comprensibile il risultato di quel colloquio. Non è da escludere che qualche damigella che anelava ad avere qualche favore dal Re Alfonso, forse, pur simulando una grande tristezza nel comportamento, pur tuttavia, nel cuore, era anche felice della sconfitta di Lucrezia. Certamente il diniego del Papa influì in modo sicuramente determinante nella svolta dei rapporti politici tra il Re di Napoli ed il Pontefice, anche perchè la Storia, con un erede nato legittimamente, avrebbe subìto una svolta diversa se le desiderate nozze tra Alfonso e Lucrezia fossero state regolarmente celebrate. Il corteo si approntò e da tanta allegria che vi era stata nel viaggio di andata, il ritorno a la Ciminiera 37


Ingresso a Napoli di Alfonso I d’Aragona (1443) opera di vari scultori tra cui Laurana, Sagrera, Gagini, Isaia da Pisa.

Napoli fu un vero funerale, nel mentre il Re Alfonso, avvisato da un corriere appositamente inviato, andò incontro alla sua amata. Si incontrarono a Capua e lì le diede forza e coraggio, offrendole tenerezze, regali e tornei. Alfonso, arrivò anche al punto di chiedere cinicamente la morte della moglie Maria di Castiglia, perché ebbe timore che il diniego del Papa, conoscendo i princìpi così fermi e saldi di Lucrezia, gli avrebbe fatto perdere la sua Lucrezia, la quale non avrebbe mai accettato una situazione di pseudo concubinaggio. Anche il Marchese Antonio Centelles, da uomo navigato, intelligente e scaltro, aveva già preannunciato in anticipo quella dura sconfitta. Su Re Alfonso il Magnanimo si racconta anche che essendo un attento letterato, quando seppe che a Padova era stato rinvenuto nel 1413 il corpo del famoso Tito Livio, essendo un grande studioso dello storico romano, inviò subito un ambasciatore con preghiera di poter avere qualche reliquia al fine di posizionarlo in un luogo degno di gloria per il suo popolo e per i posteri. Padova immediatamente provvide a mandargli un braccio, che fu seppellito nella storica Cappella Pontano in Napoli con una lapide che ne ricordasse la reliquia e l’evento. Sfortunatamente, a seguito della demolizione della Cappella del Salvatore, non si ebbe più notizia nè della reliquia e nè dell’iscrizione. Proprio quando gli amanti speravano nella morte della Regina Maria Castiglia, che ritenevano imminente, morì, invece, il Re Alfonso, per un grave morbo, il 27 Giugno 1458, all’età di 64 anni, lasciando Lucrezia senza la corona di Regina di Napoli. 38 la Ciminiera

Il Re Alfonso I fu sepolto in Napoli prima nel Castel dell’Ovo e poi alla morte del Ferrandino fu collocato nella Basilica di San Domenico Maggiore, pur avendo disposto che le sue spoglie dovessero essere rimpatriate in Catalogna nell’Abbazia di Santa Maria de Poblete, dove dormivano tutti i Re aragonesi. Però la notte del 28 dicembre 1509, durante una cerimonia religiosa natalizia, un incendio distrusse in parte le arche sepolcrali di Re Alfonso e del Re Ferrandino. La disperazione della Real Casa fu indescivibile, ma alla fine le casse combuste furono recuperate, restaurate ed adornate. Solo nel 1667 il Vicerè Don Pedro d’Aragona riuscì a rendere esecutive le volontà testamentarie del Re e far arrivare finalmente le spoglie di Alfonso I nell’Abbazia di Santa Maria de Poblete. La beffa maggiore del destino, invece, Lucrezia l’ebbe, quando la Regina Maria, nell’autunno del 1458, cessò di vivere in Valenza due mesi dopo la morte del Re Alfonso. Il papa Callisto morì, invece, poco dopo, il 6 agosto 1458. Ferrante I e la moglie Isabella, la Duchessa di Calabria, che avevano sempre guardato con invidia Lucrezia come futura Regina di Napoli, ricevettero così la corona del Regno di Napoli. Il Regno di Ferrante I, il nuovo Re di Napoli, non fu facile sia per la ribellione dei baroni calabresi capeggiati dal Centelles, che dalle aspirazioni degli Angioini di impossessarsi del Reame partenopeo. Anche i rapporti con Lucrezia non furono idilliaci. Anzi si racconta che nel 1461 Lucrezia rifiutò di ricevere nella sua casa di Somma


il Re che si era colà recato per colloquiare con lei. I motivi andrebbero individuati nel fatto che il Re le avesse sottratto il feudo del Castello di Caiazza. Lo minacciò persino, comunicandogli che se non avesse provveduto subito a restituirglielo, sarebbe passata dalla parte dei baroni ribelli, inalberando i vessilli angioini contro quelli aragonesi. La morte di Alfonso il Magnanimo fu per la bella Lucrezia un autentico crollo. Subito, preferì allontanarsi da Napoli e restare nella sua casa di Torre Annunziata, mentre, nell’animo del popolo, la morte del Re passò quasi inosservata, perché troppo preoccupato della pesante pressione fiscale regia, delle guerre e dell’assillante determinazione di voler riempire le casse del Regno, eternamente vuote. Poi, dopo un iniziale desiderio di ritirarsi definitivamente in convento, umiliata ed offesa, si rintanò, invece, lontana da tutti, in Dalmazia, e poi, a Ravenna, sotto la protezione del Doge della Serenissima Cristofaro Moro. Questi, unitamente al Duca di Milano Francesco Sforza, la convinse a riallacciare con Ferrante e la moglie Isabella i rapporti

interrotti e a ritirarsi a Bari o nei dintorni. A Napoli, comunque, non tornò più. Lucrezia, con una lettera del 30 Marzo 1465, accorta e diplomatica, sciogliendo i suoi protettori da ogni obbligazione di tutela, rinunciò con grande orgoglio alle umilianti proposte e si ritirò definitivamente a Roma, nei pressi di Piazza S. Marco. Alcuni cronisti ritengono che Lucrezia sia morta povera, anche perchè vendette quasi tutti i suoi beni, ma questa notizia è sconfessata dal fatto che nel 1478, 1a nipote Camilla del Giudice, figlia della sorella Margherita, l’unica che si era sposata, ricevette in dono duemila fiorini. Sicuramente la vita romana, ritirata e severa, fu certamente vissuta in modo molto lontana da quella sfarzosa e principesca di un tempo. Lucrezia morì nel Febbraio del 1479, quasi cinquantenne. Sulla sua tomba, nella Chiesa della Minerva in Roma vi è uno scritto che lei stessa dettò in punto di morte, nella quale si rileva la nostalgia di aver lasciato Napoli e la gioia di aver saputo dominare i suoi sensi morendo vergine:

NASCERE SI QUAERIS QUAE SIM LUCRECIA NOMEN PATRIA PARTHENOPE DULCIS ET ILLA FUIT CUNCTA HABUI EXPLEVIQUE ANIMUM SINE LABE PUDORIS VITA FUIT ROMAE MORTUAQUE HIC JACEO.

Bibliografia - Giuseppe Campoleti = “Breve Storia della Città di Napoli”- Mondatori - Milano - 2004. - Benedetto Croce = “Storie e Leggende Napoletane” - Adelphi Ediz. Milano - 1990. - Angela Matassa = “Leggende e Racconti Popolari di Napoli” - Edit. Newton & Compton - Roma. 1997 la Ciminiera 39


Dino Vincenzo Patroni (all’anagrafe Vincenzo Dino), artista dalla personalità poliedrica, nasce a Salerno nel 1947 e si forma in una famiglia di scultori campani di origine irpina, autori di statue e di monumenti in marmo e in bronzo. E’ pittore, scultore, grafico, medaglista e ceramista ed è membro della FIDEM, la cui sede è a Londra e dell’AIAM con sede a Roma. Autore di opere singolari, non ha pregiudizi tra l’esprimersi artisticamente in maniera iconica o aniconica per la sua ricerca nell’arte visiva contemporanea. L’importante per l’autore è comunicare con il pubblico con immediatezza ed espressione. Nel periodo giovanile, in cui frequenta l’Accademia di Belle Arti di Napoli, si inserisce nell’ambito artistico partenopeo avendo relazioni con intellettuali, galleristi d’arte e artisti di primo piano della Napoli degli anni Settanta. Espone in numerose rassegne e mostre d’arte personali e collettive. Inoltre, è presente, come artista invitato, a simposi internazionali di scultura, perfino nella Repubblica baltica della Lithuania (luglio 1994) e come direttore artistico di simposi di scultura in marmo o in pietra, nel mese di novembre 2007 per la città di Portici (Na), per la città di Padula (Sa) “I giorni della pietra” nel mese di maggio 2012 e al III° Simposio di Scultura del marmo del Taburno – Vitulano (Bn) nel luglio 2016 e come curatore di mostre di carattere internazionale come quella per il fotografo-artista italo-americano RonGalella presso il Grande Hotel Pianeta Maratea in occasione della 2^ Edizione del Maratea Film Festival 2010; partecipa a premi e concorsi nazionali, invitato da enti o da critici dell’arte contemporanea, tra cuianche da Pierre Restany. Nella sua ultracinquantennale carriera ha ricevuto premi e riconoscimenti dal mondo dell’arte e della cultura, e tra questi il premio alla carriera nel 2012 con medaglia del Presidente della Repubblica Italiana in occasione della partecipazione alla 52^ Edizione del Premio Internazionale di Pittura “Città di Pizzo” (VV). Nel campo della scultura ha utilizzato, in un primo periodo formativo, materiali tradizionali quali terracotta, gesso, legno, cemento e bronzo; successivamente, si è espresso anche con materiali diversi, alcuni dei quali resistenti all’azione degli agenti atmosferici quali l’acciaio cor-ten, nonché altri ancora come resine, plexiglass, alluminio, ferro, ecc. Dino Vincenzo Patroni vive ed opera in Italia nella sua casa-museo-laboratorio di 85046 Maratea (Potenza); e-mail: vindinpatroni@libero.it sito web: www.dinvinpatroni.com


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