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24 ANNI DI PRESENZA Le nostre iniziative Periodico di cultura, informazione e pensiero del Centro Studi Bruttium (Catanzaro) Registrato al Tribunale di Catanzaro n. 50 del 24/7/1996. Chiunque può contribuire alle spese. Manoscritti, foto ecc.. anche se non pubblicati non si restituiranno. Sono gratuite (salvo accordi diversamente pattuiti esclusivamente in forma scritta) tutte le collaborazioni e le prestazioni direttive e redazionali. Gli articoli possono essere ripresi citandone la fonte. La responsabilità delle affermazioni e delle opinioni contenute negli articoli è esclusivamente degli autori.
Anno XXIV Numero 4 - 2020 Direttore Responsabile Giuseppe Scianò Direttore editoriale Pasquale Natali Presidente Raoul Elia Progetto Grafico csbruttium.altervista.org Centrostudibruttium.org info@centrostudibruttium.org
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EDITORIALE
Pasquale Natali http://csbruttium.altervista.org/
Il piacere della Cultura Pronti a varare questo numero di Aprile della rivista: nemmeno il coronavirus ci ha bloccati. Il fermo forzato, pur privandoci della possibilità di contattare amici e collaboratori di persona, ci ha detto il tempo di preparare con calma questo numero e programmare di già il successivo. Ma veniamo ai ringraziamenti per i nuovi amici che hanno collaborato a riempire le pagine della nostra rivista con contributi interessati, competenti e variegati. Nelle pagine interne, di alcuni, troverete i link ai loro blog, dateci una occhiata, vi assicuro che meritano. Un grazie quindi all’archeologo Daniele Mancini, al ricercatore storico Gabriele Campagnano e alla prof.ssa Patrizia Spaccaferro. Avete avuto mai il desiderio di sapere che volto avevano Nefertiti, Tutankhamon, Ramses II, Filippo di Macedonia, Cleopatra, Nerone, il Signore di Sipàn, San Nicola, Roberto I Bruce di Scozia, Riccardo III di York, Enrico IV di Francia e Maximilien de Robespierre? Ebbene in questa prima parte del suo articolo Daniele Mancini esaudirà il vostro desiderio. Siete anche voi scossi e incavolati vedendo come il nostro stato odierno ci tartassa? ebbene Gabriele Campagnano ci porta a conoscere le tasse dei nostri più lontani antenati e scoprire che passano gli anni e i governi, ma le tasse non passano mai. Come si dice sono una “tassa fissa”… Certamente non possiamo non essere sempre riconoscenti per la stima e la benevolenza che il Dr. Angelo Di Lieto ci concede. Di suo vi invito a leggere la seconda puntata di COSCIENZE UMILIATE (Il Sud in tragiche storie d’ Amore e di Morte). Per ultimo, ma non perché è meno importante, un riconoscimento al nostro sfavillante e poliedrico presidente, il dirigente scolastico prof. Raoul Elia che da solo ha da anni l’impegno di tenere vivo Il Centro Studi Bruttium. Anche in questo caso vi invito a visitare il nostro blog e, se volete, il nostro Archivio Storico a esso collegato che sta aumentando continuamente di pagine per sopperire alla chiusura del sito associativo. Di Raoul Elia trovate un altro stimolante intervento sui punti oscuri del periodo nazista e una bella intervista e presentazione del mio amico e collega Valter Parrillo, pittore, scultore e docente del Liceo Artistico. Gustatevi le sue opere. Mi sembra, in linea di massima, di essere andato oltre lo spazio che mi sono assegnato, pertanto gli altri articoli li scoprirete leggendo la rivista. Nel darvi appuntamento alla prossima, vi abbraccio tutti con affetto. la Ciminiera 3
Il Bruttium incontra gli Artisti
Calabresi Quarta puntata
di Raoul Elia
CHI E’ VALTER PARRILLO ? e’ scultore, pittore e scenografo. Nasce il 6/11/1943 a Guardia Piemontese. La sua esperienza nel campo artistico spazia dalla pittura surrealista, paesaggistica fino alla scultura. Ha realizzato numerose opere di arte sacra ed ha partecipato a moltissime mostre d’arte nazionali ed internazionali ricevendo premi e riconoscimenti in tutto il mondo:1965 ritratto di Luigi Settino Cosenza, 1969 Mostra internazionale d’arte del mezzogiorno palazzo Reale di Napoli, 1980 Firenze Galleria Michelangelo, 1980 Europa Gallery Princeton New Jersey, 1981 Catanzaro galleria Mancuso, 1981 Manduria Lecce, 1982 S.Marco Argentano castello Normanno, 1982 Praia a mare, 1983 cz, 1983 Zagarise, 1983 Gruppo scultoreo a Vienna da Fuscaldo mostra personale, 1984 Monterosso mostra nazionale d’arte contemporanea, 1985 Cutura cz, 1986 Pisa, 1987 Monterosso mostra naz.d’arte contemporanea, 1986 mostra citta’ di La Spezia, 1988 pannelli bronzei chiesa “mater Domini” cz “storia dell’alleanza”, 1990 “i centauri”collezione privata Cosenza, 1990 scultura “Cristo Orante” collezione Tallarico,1991 Zagarise portale bronzeo chiesa della Madonna del Rosario, 1993 serie pannelli bronzo collezione Brusco Cosenza, 1995 Sacro cuore bronzeo collezione privata, 1996 vetrate artistiche chiesa di Mater domini cz, 1998 tabernacolo e arredi bronzei cz, 1999 crocefissi bronzei, 2000 S.Francesco di Paola gruppo scultoreo collezione privata, 2000 Roma mostra d’arte sacra contemporanea, 2001 busto Don Calabria da Verona, 2002 Via Crucis viale de Filippis Catanzaro, 2002 Carabiniere in grande uniforme Milano, 2002 via Crucis Lamezia Terme, 2002 statua Papa Giovanni XXIII cz, 2002 Portale in bronzo chiesa S.Michele Arcangelo Botricello.: 1981 “pino d’oro”, 1982 “la tavolozza d’oro”, 1986 primo premio citta’ di La Spezia, 2000 premio “arte sacra” Roma. ecc. ecc.
11 domande a Valter Parrillo 1 . Ci parli della sua formazione
Statua Papa Giovanni XXIII Copertina: Valter Parrillo Composizione con fichi d’india e peperoncini Collezione privata 4 la Ciminiera
Con gli studi dell’obbligo, nel ventaglio delle varie discipline, mi ero confermato in quelle che più mi davano soddisfazione ed in cui riuscivo a conseguire risultati positivi più facilmente: disegno, storia, lingue classiche. Un docente di disegno mi consigliò di iscrivermi al Liceo Artistico, mi spiegò cosa fosse e mi fornì l’indirizzo di quello di Napoli, il più vicino di quelli più qualificati. Scrissi e mi fu risposto che era un istituto a numero chiuso per cui era necessario un esame integrativo, esame che consisteva in una prova di disegno dal vero, una di disegno geometrico ed una di acquerello. Per molti mesi mi dedicai allo studio di queste discipline per provare a superare l’esame l’anno successivo. Per questo evento incontrai il Maestro che avrebbe segnato la mia vita dal punto di vista professionale: il professore Greco di Roggiano Gravina, un artista poliedrico, un fuoriuscito per motivi politici sposatosi in loco. Una preparazione per quei tempi rara, una capacità di trasferire il suo sapere con garbo e completezza. Tutto ciò che lui mi ha insegnato ha rappresentato le fondamenta sulla quale ho edificato tutta la mia carriera artistica fino ad oggi.
E’ stato per me una pietra miliare dalle dimensioni di un obelisco. Poi superato l’esame integrativo con successo, liceo Artistico ed Accademia di Belle Arti in scenografia, sempre a Napoli, e poi, vinto il concorso per l’insegnamento a Catanzaro, 40 anni di servizio in Ornato e Figura Disegnata. Una lunga carriera di pittore e scultore e, solo in questi ultimi anni, di autore di vetrate artistiche con il maestro Francesco Caroleo, titolare della vetreria Artè di Catanzaro.
2. Come si è avvicinato alla pittura?
Dai disegni infantili degli anni prescolari passai alle copie delle illustrazioni dei libri rigorosamente disegnati da autori vari, sia quelli scolastici che quelli per l’infanzia. Durante le elezioni politiche mi arricchì dello strumento della caricatura e delle vignette satiriche distribuite con generosità. In seguito, feci la scoperta del chiaroscuro attraverso il quale era possibile suggerire i volumi, riempire quelle linee che suggerivano dei personaggi o cose con dei contorni, con una serie di chiaroscuri che li facevano emergere dal fondo. Fu per me una vera rivoluzione da non riuscire a smettere di indagare quello strumento che aveva del miracoloso. Da quello strumento monocromatico alla ricerca con più colori che avevo sempre ammirato sui libri di fiabe, che mia madre ci leggeva sempre da bambini, il passo fu breve. Fu lo sbocciare di un fiore, lo schiudersi di un bocciolo in una rosa fragrante. Era la naturale conseguenza di tanta ricerca, dalle forme al colore.
3. A quali artisti contemporanei e non guarda o ha guardato?
Praticamente tutti quelli che ho incontrato sul mio cammino, con particolare interesse: Bosch, Velasquez, Caravaggio, Max Ernest, Magritte, Degas, Salvator Dalì e pochi altri.
4. Ci sono tecniche o formati che predilige?
Tutte. Ogni tecnica ha di volta in volta arricchito di nuove possibilità espressive il mio bagaglio culturale, le ricordo che io nasco scenografo. Le tecniche e le dimensioni sono tutte valide.
5. Cosa ne pensa della pittura contemporanea?
Un gran bene di quella migliore, secondo il mio modestissimo parere influenzato dal mio gusto personale.
6. Cosa significa per lei essere pittore oggi?
Un’attività artistica non si fa per scelta ma per vocazione e, a qualunque livello la si pratichi,a è sempre motivo di grande soddisfazione.
7. Ci parli un po’ della sua giornata di lavoro.
Purtroppo è raro poter dedicare al “lavoro” una intera giornata. Le esigenze familiari e sociali ci costringono a lunghe distrazioni. Quando però si rende possibile l’opportunità di un lavoro più intenso e continuo le garantisco che diventa una piacevole “evasione”.
8. Come si trova a lavorare sulle vetrate? in che rapporti è con la Ciminiera 5
la lunga tradizione che parte dal Medioevo?
Per me è stata una piacevole conseguenza delle esperienze e tecniche apprese nello studio e pratica di manipolazione del colore e del disegno. E poi oggi c’è una ricca fioritura di vetrate moderne a livello mondiale da stimolare la fantasia e la creatività di chiunque. Purtroppo, gli alti costi di produzione condizionano la qualità dei lavori.
9. La scultura ed il corpo umano.
La scultura più di ogni altra tecnica, è la più ricca e completa per la riproduzione del corpo umano a motivo della tridimensionalità che permette di godere del prodotto artistico girando intorno ad esso e godendo ad ogni passo delle sue mille sfaccettature, ognuna nuova ed originale.
10. La vetrata e la luce Acquarium
La vetrata è figlia della luce, vive nella luce e si arricchisce di ogni variazione ed angolazione dei raggi luminosi che rendono la vetrata sempre nuova e sempre ricca di nuovi stimoli, andrebbero visitate in ore diverse nell’arco della giornata.
11. La pittura, la Metafisica, il Surrealismo.
Tutte le correnti pittoriche, le mode, le tendenze sono figlie del loro tempo, soggette alla continua mutazione dei tempi storici, politici, economici e culturali. Io non ho sposato alcuna corrente ma mi sono arricchito delle opere di alcuni artisti, e solo di un momento particolare della loro produzione artistica, in cui ho trovato un linguaggio in sintonia con le mie esigenze espressive, in quel particolare momento della mia vita, che mi hanno arricchito spiritualmente e professionalmente.
whats-to-come
survaivor
sottacqua
Il Bruttium incontra gli Artisti
Calabresi Quinta puntata
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fossil
Crocifissione
Valter Parrillo
LUCE E COLORI VERI PROTAGONISTI di RAOUL ELIA
L’utilizzo della luce e del colore è sicuramente una nota determinante dello stile di Valter Parrillo, così come le reminiscenze cubiste, che emergono nelle sue nature morte, come, ad esempio, in Acquarium, in cui la luce petroil che riveste l’acquario in primo piano appare fortemente realistica, pur nella scelta di una tonalità dominante, l’azzurro. Altre nature morte, come Petroil, risentono della lezione delle Avanguardie sull’utilizzo di materiali comuni, lontani dal mondo della pittura ma vicini a quello di tutti i giorni, come oggetto di pittura. Si spiega così il ricorso a rubinetti, scheletri, latte di benzina (il Petrol del titolo) usate. Sottacqua invece affronta il tema del mondo subacqueo partendo dalla situazione dei Bronzi di Riace prima del ritrovamento. Anche qui la composizione risente della scelta di colori forti, nella fattispecie un dominante verde marino, e le immagini soffuse della superficie che traspaiono dalle profondità marine danno un tono disturbante. Survivor è forse la composizione più vicina al surrealismo di Dalì, con i suoi alberi secchi e scarnificati inquietanti forme di un paesaggio freddo e rarefatto. Molto disturbante Gladiator, in cui il gladiatore del titolo è parte integrante dell’ambiente in cui si sta fondendo fino a farne parte ed esserne indistinguibile. Altra natura morta con busto e strane forme di fossili, Fossil è invece giocata il contrasto fra il colore chiaro dei fossili in primo piano e del verde scuro dello sfondo. Anche nella scultura, la tecnica e la conoscenza della Storia dell’Arte traspaiono, come nel bronzo con centauri avvinghiati, in cui lo spazio circostante è reo con pochi segni mentre i due corpi ibridi intrecciati si mostrano in un movimento irruente e tempestoso. la Ciminiera 7
di Patrizia Spaccaferro
CATANZARO, Scrigno di fede e tradizioni È con grande piacere e immenso onore per me essere tra i relatori di questo evento unico nel suo genere. Il mio non vuole essere un intervento di uno studioso del costume pastorale quanto piuttosto con l’animo di una laica che nel mondo religioso vuole entrare in punta di piedi e con grande rispetto, umiltà, sensibilità e attenzione verso ciò che rappresenta la “vigna del Signore”. Siamo qui riuniti per accogliere la presentazione di questo libro, Catanzaro, scrigno di fede e tradizioni, così denso e profondo non solo di spiritualità, di amore, di fratellanza, di devozione ma come si nota dalle prime pagine, la straordinarietà sta proprio nel coinvolgimento emotivo del lettore, perché racchiude la nostra vita, la nostra storia autentica, avendo come via maestra, quella delle tradizioni religiose e delle Confraternite della Comunità. E come sottolinea Mons. Raffaele Facciolo (Vicario Episcopale per le Confraternite) nella presentazione ci parla di una triplice dimensione: “è un libro di appartenenza, un libro di identità e un libro di testimonianza” (contemplare le foto storiche inducono a far riapparire la nostalgia, la malinconia di ieri) La realizzazione dell’opera è stata curata dalla Reale Arciconfraternita dei Santi Giovanni Battista ed Evangelista dei Cavalieri di Malta ad Honorem di Catanzaro che si impone per essere distinta da un manto di straordinarietà ed eccezionalità non solo giuridica ma anche ecclesiale: la sua filiazione diretta alla Cattedra Lateranense, ossia alla Chiesa madre di Roma (“Omnium Urbis et OrbisEcclesiarum Mater et Caput”). Così che gli autori Vincenzo Rotella assieme a Valentina e Fortunato Santise, animati dall’amore per il Signore e per la città, da sempre legati alle loro radici, attenti quindi alla valorizzazione dei rituali e delle tradizioni hanno ritenuto indispensabile mantenere viva l’identità della Comunità per favorirne nel contempo la crescita ed attraverso un lavoro certosino, paziente e impareggiabile hanno reso tutto ciò possibile. Un lavoro quindi meticoloso di grande ricerca archivistica che mira a recuperare la memoria storica sotto l’aspetto della fede popolare, attraverso pagine che raccontano il culto, le antiche tradizioni religiose, il clero, le predicazioni e la vita delle quattro
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Confraternite (dalla quella deiSantiGiovanni Battista ed Evangelista dei Cavalieri di Malta ad honorem a quella di Maria SS. Immacolata, dalla Confraternita di S. Maria del Carmine e quella di Maria del SS. Rosario): tutte loro,valenti custodi della pietà popolare, indispensabili trasmettitrici di un patrimonio da non disperdere. Ma si tratta anche di un libro ricco di immagini iconografiche e fotografie storiche inedite che intendono introdurre il lettore in un percorso di fede e di religiosità carico di emozioni, a documentare un percorso tendente al recupero della memoria storica e dell’identità religiosa. Non ci si può sottrarre al fascino che promana la fotografia anche ingiallita; sono stati immortalati con scatti uomini, donne, panorami, luoghi ed eventi, senza tralasciare l’esigenza di dedicare l’attenzione ad ogni singola parte/evento dell’anno liturgico. È connaturale ormai captare, immagazzinare immagini e ricordi, fotografare eventi, luoghi e persone. Tutto ciò che non si vuole o non si può dimenticare viene fotografato, registrato, immagazzinato nei nostri file della mente e dei sentimenti e conservato nel nostro archivio della coscienza. Grazie a tanta passione, grazia al lavoro di recupero e collezionismo del confratello Enzo Rotella, assieme alla generosità di alcune famiglie e persone citate in questa lodevole pubblicazione, noi oggi possiamo disporre di questo magnifico archivio fotografico capace di raccontare la storia locale, tanto da consentire di cogliere sfumature suggestive ed emozionanti. E’ un libro che appassiona, un tuffo nel passato, un viaggio attraverso i riti religiosi svolti nella nostra città, nel corso dell’anno liturgico, secondo le locali tradizioni trasmesse da generazione a generazione e trasgredirle, una volta, equivaleva, offenderne la memoria, non ascoltare la “voce del sangue”. L’esperienza religiosa, dice Mon Ignazio Schinella può essere racchiusa in questa espressione spagnola: “campane del mio campanile avete cantato quando nacqui, piangerete quando morrò”, questo a significare come la vita dell’uomo sia sempre stata segnata dalla presenza della madre Chiesa dentro un arco spazio-temporale di un luogo e di un tempo. Un’occasione importante quella di stasera per raccontare il lato più profondo del territorio, quello legato alle radici di Catanzaro. La vera ricchezza di un popolo è, infatti, nascosta nelle tradizioni, che rappresentano un risveglio della fede (professata, testimoniata e vissuta). Il grande Pitagora soleva dire: “tutte le volte che mi avvicino a Dio, divento migliore”. Ed in quest’ottica si inseriscono le Confraternite,
istituzioni cariche di storia con una tradizione di forza e di prestigio nell’ambito civile e religioso.Rintracciare le esatte origini storiche è alquanto difficile, certamente possono essere fatte risalire alle prime comunità cristiane per la difesa dei diritti umani spesso negati e violati. L’associazionismo fu una esigenza che i primi cristiani sentirono per realizzare la fratellanza e la piena comunione di amore con Cristo secondo il principio evangelico: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”(Mt 18,20). Originariamente associazioni corporative di arti e mestieri, sono create per permettere a tutti di potersi associare, per curare e difendere gli interessi comuni; nascono con lo scopo della mutua assistenza e per l’esercizio del culto e la salvezza dell’anima. Di certo, non è facile proporre una definizione precisa su un fenomeno associativo così imponente, a causa della diversità dei fini che le singole Confraternite si prefiggono. Le Confraternite, come le conosciamo oggi e dalle quali le attuali discendono direttamente senza interruzioni, iniziarono ad esistere nel secolo XII come istituzioni e come Associazioni ecclesiali di laici fedeli di Cristo per l’esercizio di opere di carità, di pietà e di incremento del culto pubblico. Tre, i concetti che pronuncia il Papa alle Confraternite e che le Confraternite stesse rappresentano (Giornata Mondiale delle Confraternite e della Pietà Popolare, 5 maggio 2013): l’evangelicità, l’ecclesialità, la missionarietà. E ancora, ricordiamo le tre parole dell’omelia del Beato Giovanni Paolo II il 1 aprile 1984 quando disse: “le finalità delle Confraternite si possono riassumere in tre parole: culto, beneficienza, penitenza”.
Presentazione 04 marzo 2020. Da sx Prof.ssa Patrizia Spaccaferro, Don Vincenzo Gallo, Prof. Vittorio Santise, Prof. Mario Cristiano, Dott. Angelo Di Lieto la Ciminiera 9
Penso che ognuno di Voi sfogliando questo libro possa ripercorrere a ritroso lo stesso itinerario che ho percorso io. Così facendo, spero non sarete privati della scoperta di tante cose, aneddoti, momenti di cui tutti in qualche modo ne siamo stati interpreti, e che vi permetterà di ricordare: anch’io c’ero, anch’io sono stato protagonista di questa realtà, anch’io ho contribuito a questa significativa esperienza culturale e spirituale. E attraverso questo libro gli autori più volte sottolineano l’importanza della pietà popolare come un’efficace sinergia da tutelare, recuperare e “valorizzare correttamente e sapientemente” purificata ed orientata sempre verso Dio. Così anche il linguaggio della pietà popolare deve essere sempre curato, dalla gestualità (Si pensi esemplarmente all’uso di baciare o toccare con la mano le immagini, i luoghi, le reliquie e gli oggetti sacri; intraprendere pellegrinaggi e fare processioni; compiere tratti di strada o percorsi “speciali” a piedi scalzi o in ginocchio; presentare offerte, ceri e doni votivi; indossare abiti particolari; inginocchiarsi e prostrarsi; portare medaglie e insegne… Simili espressioni, che si tramandano da secoli di padre in figlio, sono modi diretti e semplici di manifestare esternamente il sentire del cuore e l’impegno di vivere cristianamente) ai testi e formule, ai canti e musiche, alle immagini sacre che, secondo i canoni della cultura e la molteplicità delle arti, aiutano i fedeli a porsi davanti ai misteri della fede cristiana. La venerazione per le immagini sacre appartiene, infatti, alla natura della pietà cattolica: ne è segno il grande patrimonio artistico, rinvenibile in chiese e santuari, alla cui costituzione ha spesso contribuito la devozione popolare. E poi i luoghi, dove la pietà popolare ha uno spazio espressivo di rilievo nella chiesa ma talvolta anche nel santuario. Accanto a tali luoghi, riservati alla preghiera comunitaria e privata, ne esistono altri, non meno importanti, quali la casa, gli ambienti di vita e di lavoro; in date occasioni, anche le strade e le piazzediventano spazi di manifestazione di fede. A questo punto è doveroso aprire una parentesi o meglio ancora è necessario evidenziare i nuovi scenari createsi negli ultimi decenni nella storia dell’umanità ed anche nel nostro territorio. A Catanzaro tante usanza hanno concluso la loro evoluzione passando dallo splendore alla decadenza, sono rimaste vive per eccessivo zelo religioso o forse per non perdere l’ultima memoria rimasta. Ci troviamo in un’epoca di profonda secolarizzazione che ha perso la capacità di ascoltare e di comprendere la parola evangelica come un messaggio vivo e vivificante; che ha permesso di sviluppare una mentalità in 10 la Ciminiera
La processione transita per Piazza Garibaldi. La foto evidenzia anche il vecchio Caffè Garibaldi (distrutto dai bombardamenti) situato di fronte alla Chiesa di S. Giovanni
cui Dio è di fatto assente, in tutto o in parte, dall’esistenza e dalla coscienza umana; che ha sviluppato una cultura della solitudine, una cultura dell’immagine legata alla mentalità edonistica e consumistica,spingendo l’uomo verso la superficialità e un egocentrismo difficilmente da contrastare; una cultura dominante che omologa tutto e tutti in un panorama di cloni senza personalità, senza un pensiero proprio. Ancora oggi nell’era del progresso tecnologico, si continua a morire vittime dell’odio, soli, come nei secoli bui del passato. Penso ancora a tutte le forme di schiavitù più o meno larvate che persistono anche nel nostro mondo cosiddetto libero: la schiavitù di chi per far valere un suo diritto deve ricorrere al potente di turno, la schiavitù del bisogno, la schiavitù di chi deve soccombere ai dictatdel malaffare organizzato, da noi tristemente connotato dal marchio infame della mafia, la schiavitù di chi non ha la possibilità di studiare, di avere un lavoro dignitoso, di fruire di una casa degna. A queste schiavitù se ne aggiungono altre che sono frutto di una cultura dello sfascio morale in cui versa l’umanità: la schiavitù del sesso, della droga, dell’alcool, del gioco d’azzardo. Dove il potente mangia il più debole, dove si sta spegnendo la gioia di vivere, dove l’essere umano lo si usa poi si scarta, sì è proprio così la “cultura dello scarto”, la “cultura dell’indifferenza”, degli “anestetizzati di fronte alla sofferenza altrui”. Ed è, purtroppo, vero che c’è mancanza di amore nel mondo. Il Dio della fede non è l’oggetto di una dimostrazione matematica o di una prova scientifica legata a ciò che si vede: nell’atto di credere, il “cogito ergo sum” di René Descartes – “penso, dunque sono” – cede il posto al “cogitor ergo sum” – “sono pensato, dunque sono” – e ancor più all’ “amor, ergo sum” – “ci sono, perché sono
amato”, sono amato, quindi sono. L’amore è il principio vitale, la forza primordiale, la fonte sorgiva, la radice della vita. Senza amore non c’è vita vera, tutto scolorisce e si annacqua, vien meno il senso stesso della vita. C’è bisogno di una inversione di tendenza, occorre operare di più per evangelizzare. Diviene sempre più impellente promuovere e sostenere l’attività delle Confraternite, autentici ponti verso Dio, custodi della pietà popolare in quanto forza attiva, efficace antidoto contro l’avanzamento del secolarismo [...], canale di trasmissione della fede. C’è un’emergenza educativa, una sfida pastorale per la Chiesa, proprio per quel passaggio dalla “teologia alla vita”, un’urgenza di dover guardare la vita con gli occhi di Dio, perché possa compiersi un cambiamento di mentalità, di cultura. Andare controcorrente, formarsi alla scuola di Gesù, appassionarsi al bene, conquistare spazi di libertà interiore si può e si deve, se non si vuole rischiare di sprofondare nel caos di una vita senza senso, priva di mordente, incolore ed insapore, vuota, insignificante, senza smalto, infelice. “Gesù Cristo è sempre lo stesso ieri, oggi e sempre” (Eb 13,8), ma non è lo stesso il clima culturale in cui oggi ci muoviamo in rapporto ad un passato più o meno recente. Il “panta rei ospotamòs” (πάντα ε ς ποταμός “tutto scorre come il fiume”, Eraclito) della filosofia presocratica ritorna prepotentemente di moda nello scenario culturale contemporaneo. Il mutare delle situazioni è peraltro nell’ordine delle cose, ne coglie poeticamente le sfumature David Maria Turoldo in alcuni suoi versi: “Mai la stessa onda / si riversa nel mare e mai / la stessa luce si alza sulla rosa: / né giunge l’alba / che tu non sia già altro”. Già il Beato Giovanni Paolo II analizzava il rapporto tra liturgia e pietà popolare che non devono porsi in antitesi, in assoluta autonomia, ma in stretto rapporto, perché l’una ha bisogno dell’altra per esprimersi. Sempre Giovanni Paolo nel Messaggio ai partecipanti all’Assemblea Plenaria della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti (17.10.2001) si rivolgeva con queste parole: “la liturgia e la vita sono realtà indissociabili. Nell’affermare il primato della Liturgia, «culmine a cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, fonte da cui promana tutta la sua virtù» . Una Liturgia che non avesse riflesso nella vita diventerebbe vuota e certamente non gradita a Dio. E il magistero di Papa Francesco ci invita a guardare con occhio rinnovato alla pietà popolare per individuarne il suo potenziale evangelizzatore. Papa Francesco nella Esortazione Apostolica
Componenti della Cattedra dell’Arciconfraternita dei SS. Giovanni Battista ed Evangelista dei Cavalieri di Malta ad honorem di Catanzaro. Da sx: Luigi Nesci (Maestro delle cerimonie), Erminio Giglio (Gonfaloniere), Mario Cristiano (Priore), Mons. Vincenzo Bertolone, Enrico Bruno (Vice Priore), Francesco Aversa (Procuratore), Vittorio Santise (Tesoriere), Raimondo Fiorentino (Segretario), Don Francesco Brancaccio (Padre spirituale).
Evangelii Gaudium (24.11.13) scrive: “È imperioso il bisogno di evangelizzare le culture per inculturare il Vangelo”. In queste pagine si porrà l’accento principalmente sul contributo che la pietà popolare può offrire al più ampio processo d’iniziazione cristiana dei giovani e delle famiglie. C’è la necessità di educare i fedeli ad avere come riferimento Cristo, rafforzando quindi la forza della fede di pari passo con le tradizioni e facendo riscoprire sempre di più il vissuto di un popolo. Lo stesso Papa Francesco ci parla di genitorialità e fraternità, il senso del ruolo del padre e della madre nelle famiglie e il rapporto tra genitori e figli e tra fratelli alla luce dell’Esortazione Apostolica Amoris Laetitia. Egli pronuncia: “È fondamentale che i figli vedano in maniera concreta che per i loro genitori la preghiera è realmente importante. Per questo i momenti di preghiera in famiglia e le espressioni della pietà popolare possono avere maggior forza evangelizzatrice di tutte le catechesi e tutti i discorsi”. La sfida educativa investe le varie agenzie e istituzioni formative, ma riguarda in primo luogo la famiglia, la cellula insostituibile della società e della Chiesa, prima agenzia educativa delle nuove generazioni. L’educazione dei figli dev’essere caratterizzata da un percorso di trasmissione della fede, che è reso difficile dallo stile di vita attuale, dagli orari di lavoro, dalla complessità del mondo di oggi, in cui molti, per sopravvivere, sostengono ritmi frenetici. Non ci può essere un fruttuoso cammino di iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi senza il coinvolgimento delle famiglie. i genitori sono i “primi educatori nella fede la Ciminiera 11
dei figli” e questo loro ruolo rimane “insostituibile”. Ciò nonostante, la famiglia deve continuare ad essere il luogo dove si insegna a cogliere le ragioni e la bellezza della fede, a pregare e a servire il prossimo. Il Santo Padre nell’Esortazione Apostolica AmorisLaetitia (cap. 7, 287). La fede è dono di Dio, ricevuto nel Battesimo, e non è il risultato di un’azione umana, però i genitori sono strumento di Dio per la sua maturazione e il suo sviluppo. Perciò «è bello quando le mamme insegnano ai figli piccoli a mandare un bacio a Gesù o alla Vergine. Quanta tenerezza c’è in quel gesto! In quel momento il cuore dei bambini si trasforma in spazio di preghiera». In questa dinamica vorticosa, occorre aprirsi maggiormente al progetto culturale orientato in senso cristiano, conseguenza la necessità di reimparare ad Ascoltare, Accogliere, Assumere, Accompagnare (si è persa la necessità del dialogo, la forza costruttiva del dialogo). Mi colpisce in particolare una espressione del Santo Padre: «Dialogare è avere capacità di lasciare eredità». L’eredità è una cosa che passa di mano in mano all’interno di una famiglia. Specifica Bergoglio: «Nel dialogo recuperiamo la memoria dei nostri padri, l’eredità ricevuta per farla crescere con noi”. Non basta avere tradizioni diceva Cesare Pavese, nella prefazione di Moby Dick, romanzo dello scrittore e poeta statunitense Herman Melville, da lui tradotto in italiano, scrive opportunamente: ”Avere una tradizione è men che nulla, è soltanto cercandola che si può viverla”. Allora come ricorda Mon. Ignazio Schinella, nel presente volume, “si cresce realmente in umanità, in età, sapienza e grazia, soltanto se oltre a prestare ascolto ai nostri desideri, sappiamo riconoscere di essere preceduti da una storia, da tradizioni e culture”. Ecome potremmo dimenticare? Catanzaro, scrigno di fede e tradizioniè’ un testo di grande pregio culturale e storico, è un inno alla memoria per l’attuale e futura generazione; è un prezioso scrigno storico a cui poter attingere per riscoprire sempre di più la nostra identità; un autentico contributo alla ricostruzione e alla salvaguardia delle tradizioni che nel passato si tramandavano nello scorrere della ciclicità del tempo e che oggi, nella frenetica vita, sembrano sempre più destinate a cadere nell’oblio. La memoria, fiamma ardente e vitale, è la vera protagonista di questo libro. Senza di essa saremmo mutilati, (”Io sono memoria di tutti i miei momenti passati, la somma di tutto ciò che ricordo”, U. Eco) è l’elemento vitale di una comunità per la sopravvivenza di un patrimonio. Perdere questo patrimonio significherebbe 12 la Ciminiera
da parte di una comunità perdere la propria identità.Qualsiasi progetto di crescita parte dalle radici, non commettiamo l’errore di pensare che il futuro possa costruirsi senza guardare al passato. Sarà impegno di ognuno di noi avere coscienza della memoria storica racchiusa in questo volume per rendere più efficace il ruolo, il compito e le finalità, cercando di incoraggiare e coinvolgere il più possibile i giovani, “Le sentinelle del nuovo millennio”. Nella luce della Pasqua che tutto illumina e trasforma, sarà possibile, “guardare al ricordo e alla memoria, non per confinarli nel passato ma bensì per riscoprire in essi la necessità di lasciarsi ispirare dal Vangelo e dal buon senso al fine di rinnovare e rimotivare il nostro vissuto esistenziale e cristiano”. Concludo ringraziando Don Vincenzo Grillo per la sua cortese ed infinità disponibilità assieme a tutto il gruppo degli organizzatori che hanno dato una fattiva collaborazione per l’allestimento della Sala e per aver pubblicizzato l’evento. Ringrazio affettuosamente l’Arciconfraternita dei SS. Giovanni ed Evangelista e i Cavalieri di Malta, nella persona del Priore Mario Cristiano, assieme a tutti i confratelli e consorelle per avermi dato la possibilità di presentare questo prezioso libro, che assieme agli autori hanno saputo coniugare la fede all’amore per la riscoperta del nostro patrimonio culturale religioso, scrigno di bellezza, di storia che conserva il senso profondo della nostra identità collettiva. Un ringraziamento doveroso, di stima e di gratitudine, va all’amico Dott. Angelo Di Lieto, per essere sempre guida efficace, uomo di infinita cultura e dal carisma inconfondibile, dalla passione profonda per la ricerca, il riscoprire e il recupero del vero storico, dalla “grande storia” alla storia locale. Infine, è con vero sentimento di gioia che, rivolgo a tutti voi un sentito ringraziamento per la vostra presenza, per l’affetto dimostrato e soprattutto l’augurio con la giovinezza del cuore, la pienezza di amore e di comunione, di essere sempre attenti custodi di un patrimonio culturale e religioso che va mantenuto integro rispettando l’identità religiosa delle tradizioni ma comunque fedele al fine dell’accrescimento della Fede in Cristo; di essere nel nostro vivere,soprattutto come ci esorta il Vangelo,“sale della terra e luce del mondo”. “Che la Speranza non si spenga mai nei vostri cuori e sia sempre compagna del vostro cammino”.
04 marzo 2020
Daniele Mancini
Archeologo www.danielemancini-archeologia.it/
DODICI PERSONAGGI STORICI IN 3D prima parte
Le ricostruzioni storiche in 3D o in realtà virtuale offrono uno sguardo verosimile sul passato: ma se queste creazioni riguardano personaggi storici famosi, il discorso è altrettanto intrigante. La ricostruzione facciale, alimentate dall’archeologia, dagli studi storici e dalle analisi dettagliate dei soggetti, è comunque una rappresentazione credibile delle strutture facciali di un determinato individuo possibili grazie a moderne tecniche di tipo forense. Ecco i dodici personaggi, alcuni controversi ma molto affascinanti: Nefertiti, Tutankhamon, Ramses II, Filippo di Macedonia, Cleopatra, Nerone, il Signore di Sipàn, San Nicola, Roberto I Bruce di Scoazia, Riccardo III di York, Enrico IV di Francia e Maximilien de Robespierre. Nefertiti (XIV secolo a.C. circa) Più di 1.300 anni prima della nascita di Cleopatra, il panorama della bellezza e della regalità femminile egizia è stato agguantato da Neferneferuaten Nefertiti (cioè, Meravigliosa è la bellezza di Aton, La bellezza è arrivata). A differenza di Cleopatra, la vita e la storia di Nefertiti sono ancora avvolte in relativa ambiguità, nonostante sia vissuta durante uno dei periodi più opulenti la Ciminiera 13
dell’antico Egitto.La ragione di questa sorta di damnatio memoriae è probabilmente dovuta alla rivoluzione religiosa provocata dalla famiglia della Grande Sposa reale e del suo consorte faraone Amenhotep IV/ Akhenaton. Fortunatamente, nonostante azioni così rigorose, alcuni frammenti dell’eredità storica di Nefertiti sono sopravvissute attraverso vari ritratti esistenti, tra i quali il famoso busto realizzato del capo scultore di Amarna Thutmose nel 1345 a.C. circa. Il busto, con i tratti particolari del viso, raffigura l’antica regina egiziana, probabilmente all’età di 25 anni. In termini di aspetto visivo, ciò che sappiamo di Nefertiti, deriva anche dalle varie raffigurazioni reali lasciate su numerose pareti e templi costruito durante il regno del faraone Amenhotep IV. In effetti, gli stili di rappresentazione di Nefertiti erano quasi senza precedenti nella storia egiziana, fino a quel momento, con i ritratti che spesso rappresentavano le regine in posizioni di potere e autorità. Questi andavano dal raffigurarla come una delle figure centrali nel culto di Aton fino a rappresentarla come una guerriera a bordo del suo carro, come presentata nella tomba di Meryre ad Amarna. La maggior parte delle ricostruzioni si basano sul famoso busto di calcare Nefertiti, oggi conservato al Museo Egizio di Berlino, già molto affascinante e realistico. Tutankhamon (XIV secolo a.C. circa)
dinastia che regnò per circa un decennio, tre il 1332 al 1323 a.C. circa. Il suo breve è coinciso con l’ascesa dell’Egitto come potenza mondiale militare e con il ritorno del sistema religioso tradizionale, contro i cambiamenti radicali realizzati dal suo padre predecessore, Akhenaton.Circa la sua ricostruzione facciale, nel 2005, un gruppo di artisti forensi e antropologi fisici, guidati dall’egittologo Zahi Hawass, ha creato il primo ritratto del famoso giovane faraone. Le scansioni in tomografia computerizzata dell’attuale mummia hanno prodotto ben 1700 immagini digitali in sezione trasversale, che sono state poi utilizzate dai tecnici forensi. Nel 2014, la mummia di Re Tut ha subito una nuova controversa analisi che può essere definita come un’autopsia virtuale, con una serie di scansioni TC, analisi genetiche e oltre 2.000 scansioni digitali. La ricostruzione facciale e del corpo risultante mostra un giovane piuttosto malandato per essere quelli di un deificato in terra faraone egiziano: una frattura, non completamente rinsaldata, a carico della gamba sinistra; il piede destro presentava caratteristiche compatibili con una possibile deformità attribuibile a equinismo; il piede sinistro, a sua volta, presentava il secondo e terzo dito in abduzione; con una diagnosi di “necrosi ossea asettica e precoce al secondo e terzo metatarso del piede sinistro” (Malattia di Köhler) di certo ancora in corso all’atto della morte, causando, in generale, una seria difficoltà alla deambulazione, che poteva solo in parte essere corretta dall’uso di un bastone. Ramesse II (XIII secolo a.C. circa)
Tutankhamon (“l’immagine vivente di Amon”), noto anche con il suo nome originale Tutankhaten (“l’immagine vivente di Aten”) è stato un faraone della XVIII 14 la Ciminiera
Ramses II (Usermaatra Setepenra Ramess(u) Meriamo; in greco antico Ozymandias) è considerato uno dei più potenti e influenti faraoni egiziani, noto sia per i suoi successi militari esterni che quelli domestici avvenuti il suo lungo regno. Nato intorno al 1303 a.C. (o 1302 a.C.), come membro reale della XIX dinastia, è
salito al trono nel 1279 a.C. regnando per 67 anni, probabilmente all’età di 90 anni.
L’analisi forense suggerisce che l’anziano faraone soffriva di artrite, problemi dentali e forse persino di indurimento delle arterie. I suoi resti mummificati sono stati originariamente sepolti nella Valle dei Re (KV 7, prima; KV 17, po), successivamente sono stati spostati nel complesso mortuario di Deir el-Bahari (DB 320), in modo da impedire che la mummia venisse saccheggiata dagli antichi ladri. Scoperti nel 1881, i resti mummificati conservano alcune caratteristiche facciali del faraone: il suo naso aquilino, la mascella forte, la notevole altezza e i capelli rossi. Sul suo canale YouTube JudeMaris ha ricostruito il volto di Ramesse II al suo apice tenendo conto delle caratteristiche di cui sopra . Un dipinto di Winifred Mabel Brunton fornisce anche una stima del profilo laterale del Faraone in età leggermente avanzata. Filippo II di Macedone (IV secolo a.C. circa)
Magno, Filippo II è stato una figura cruciale nella storia greca, dato il suo enorme contributo alla stabilità e all’ascesa militare del regno macedone. Quando Filippo II ha assunto il regno della Macedonia, l’esercito era quasi completamente in disfatta, con il re precedente e molti degli hetairoi (i compagni del re) che incontravano le morti raccapriccianti in battaglia contro gli Illiri invasori. Colpito dalle formazioni di opliti tebani, il nuovo re ha pesantemente riformato il proprio esercito, creando la famosa falange macedone, fulcro dell’esercito di Alessandro e dei suoi successori ellenistici. Per quanto riguarda la ricostruzione facciale di Filippo II, le immagini si basano sulle ossa originariamente rinvenute all’interno della Tomba II, una delle tre grandi tombe del tumulo reale a Verghina, vicino Salonicco, in Grecia. E’ ancora in corso un dibattito accademico sull’identità effettiva dell’occupante di questa tomba e una delle ipotesi accettate dagli anni ’70 riguardava proprio il modo in cui la tomba potesse appartenere a Filippo II. Recenti analisi avrebbero fatto luce sulla possibilità che la tomba appartenesse al figlio di Filippo (e al fratellastro di Alessandro Magno), Arridao. D’altra parte, le ossa recuperate dalla Tomba I avrebbero potuto appartenere al vero Filippo. JudeMaris ha anche ricostruito il volto del re di Macedone, come presentato nel video in questo link. Cleopatra (I secolo a.C. circa)
Spesso oscurato da suo figlio Alessandro
Il nome di Cleopatra suscita fantasie di bellezza, sensualità e stravaganza, tutte ambientate nel furore politico del tardo periodo egizio, anche se alcune delle nostre nozioni popolari sono ispirate a Hollywood che hanno proiettato Cleopatra come la regina egiziana per antonomasia dei tempi antichi. Storicamente Cleopatra VII Filopatore (Kleopatra Philopátor), è nata 69 a.C.: figlia la Ciminiera 15
di Tolomeo XII, è stata l’ultima sovrana della dinastia tolemaica greca. Cleopatra era un discendente di Tolomeo I Soter, il generale greco macedone, uno degli hetairoi e guardia del corpo di Alessandro Magno, che ha preso il controllo dell’Egitto, dopo la morte di Alessandro, fondando così il regno tolemaico.
di Cleopatra sembra stranamente mancare da questi ritratti, mettendo in evidenza tratti maschili forse necessari ad equiparare il potere di Cleopatra ai suoi antenati tolemaici, legittimandone il dominio. Nerone (I secolo d.C.) Ultimo imperatore della dinastia giulioclaudia, Nerone è famoso nella cultura popolare per i suoi attacchi di tirannia, stravaganza e persino eccentricità. Uno degli episodi spesso associati alla figure di
Per quanto riguarda la sua ricostruzione facciale, una particolare scultura, attribuibile a Cleopatra VII, attualmente esposta all’Altes Museum di Berlino è stata la base dello specialista della ricostruzione facciale, M.A. Ludwig, che ha realizzato il suo progetto basandosi proprio su quel vero busto (tranne l’ultimo video). Le fonti su Cleopatra variano nel loro tono da una profusione di apprezzamento, come il racconto di Cassio Dione, storigo greco vissuto tra II III secolo d.C., alle valutazioni pratiche come il racconto di Plutarco, vissuto tra circa un secolo prima, che scrive “La sua bellezza non era di quel genere incomparabile che afferra istantaneamente gli altri, ma il suo fascino era irresistibile, e all’attrattiva della persona e della parola si aggiungeva una forza di carattere che ne pervadeva il discorso e il gesto, e che lasciava ammaliati coloro che le stavano vicino. Era una delizia anche solo sentire il suono della sua voce…”. Inoltre, una decina di esemplari di monete antiche mostra la regina n una luce piuttosto modesta in cui la famosa bellezza
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Nerone riguarda il modo in cui ha facilitato il grande incendio di Roma del 64 d.C. per liberare terreni per poter realizzare il suo palazzo sfarzoso, la Domus Aurea. Anche se questo episodio è citato da Svetonio, avverso a Nerone, e in parte da Tacito, non ci sono prove concrete a conferma di questo. Nerone è sempre stato percepito come una personalità irregolare, che aumentava le tasse e preferiva la partecipazione agli spettacoli pubblici e, per questo, visto in una luce positiva dalla plebe romana. La ricostruzione facciale è interamente basata sul busto di Nerone conservato ai Musei Capitolini, a Roma. La ricreazione è stata intrapresa da un giovane artista spagnolo, con il suo progetto Césares de Roma in cui si occupa della ricostruzione facciale di numerose personalità romane. - CONTINUA -
di Gabriele Campagnano Fondatore e presidente di Zhistorica e Necrosword http://zweilawyer.com/
Le Tasse nel Medioevo Le Tasse nel Medioevo? Difficile trovare, nel corso della storia umana, qualcosa che si sia attirato le maledizioni della popolazione più delle tasse. Che si tratti di imposte dirette, gabelle, tributi o altro, sono sempre state considerate un fastidioso attacco ai beni individuali e al duro lavoro di una persona o di un’intera famiglia. D’altronde, come si legge in un famoso saggio sui tributi del Settecento: “I tributi sono necessari ad ogni popolo raccolto in società civile. Il sovrano non può farne a meno; i sudditi cesserebbero di essere tali, quando negassero di prestarli. In una famiglia bene ordinata tutti i membri lasciano in cumulo una porzione delle loro rendite o dei loro guadagni per le spese comuni: e perché non si dovrebbe fare lo stesso in uno stato?” Il Medioevo, come è facile immaginare, non fa eccezione. Ovviamente, le differenze tra tempi e luoghi sono enormi. È un discorso che abbiamo fatto spesso, parlando ad esempio della famiglia medievale o dei mercanti medievali, ma vale la pena ribadire che è difficile accumunare le contribuzioni richieste a un contadino nei pressi di Mosca nel 1450 e a un mercante di Granada nell’850. Un discorso che abbiamo già fatto, in fondo, parlando della famiglia medievale. Detto questo, l’intero periodo ci lascia l’imbarazzo della scelta tra le varie tipologie di tasse. Si tratta, ovviamente, di un tipo di tassazione molto lontano dalla complessità del diritto tributario moderno, con erogazioni verso l’autorità basate sul lavoro in prima persona (corvée), il possesso di terre, la produzione del fondo agricolo o particolari beni. la Ciminiera 17
C’è, inoltre, un continuo scontro tra fiscalità signorile e vescovile, che sfocia anche in veri e propri conflitti. Tuttavia, in Italia settentrionale fin dalla fine del XII secolo, e nel resto d’Europa in quello successivo, gli introiti statali più rilevanti arrivano dal prelievo sui redditi dei cittadini piuttosto che dalle gabelle sui singoli beni. Accanto alle gabelle e ai dazi, quindi, si diffonde l’estimo, ossia la descrizione e stima dei beni dei cittadini ai fini fiscali. GABELLA DEL SALE Nel 1318, Firenze introduce una nuova gabella sul sale che deve essere riscossa su tutto il territorio comunale. Tre anni prima, la città ha smesso di utilizzare lo strumento dell’estimo, ed è necessario trovare una nuova fonte per rimpinguare le casse comunali. La durata della gabella è stabilita in un anno, ma sembra che sia stata rinnovata un paio di volte, e la modalità di riscossione è una delle più complesse di cui ci sia giunta memoria, con diverse ripartizioni tra i sesti cittadini e la ripetizione dei conti per almeno tre volte. L’ammontare complessivo che Firenze deve ricavare dalla gabella, 60.000 fiorini, giustifica comunque questo eccesso di zelo. Piero Gualtieri (PhD Università di Firenze) sottolinea che “l’imposta promossa dalla signoria nel 1312, e dunque con il pericolo incombente di Enrico VII, fu stabilita per la città in 30.000 fiorini”, dandoci quindi un importante parametro di riferimento per valutare lo sforzo richiesto alla città. Il primo estimo comunale è quello che si impegnano a far redigere i consoli di Pisa nel 1162, seguito da quello di Faenza (1168), Siena (1170 ca), Lucca (1182) e Firenze (1202). L’area toscana, quindi, che vive un momento di grande crescita economica e istituzionale, è la prima a utilizzare il nuovo strumento, che poi trova consenso anche più a nord. A Milano, la necessità di gestire il sistema di tassazione in modo più organizzato si fa sentire in età 18 la Ciminiera
comunale e, nel 1248, viene pubblicata una Stima e Catasto dei beni di tutti i cittadini, realizzata forse nei decenni precedenti. Nella maggior parte dei casi, e qui l’esempio può essere Firenze nella seconda metà del XIII secolo, l’estimo è tripartito: contado, città e nobili. Il governo cittadino decide la somma complessiva che deve entrare in cassa e procede, poi, a ripartire il carico complessivo secondo diversi criteri. La prima suddivisione è tra città e contado, ma non ci sono arrivate stime precise delle relative percentuali. La città, a sua volta, viene distinta in sesti, parrocchie e popoli, il contado in pievi. Raggiunta questa ripartizione territoriale, si passa alla fase più complessa, quella della quota individuale. È qui che sorgono i problemi maggiori, poiché ci sono continui tentativi di mostrarsi meno abbiente o appartenente a un altro popolo o pieve. Insomma, l’evasione fiscale è vecchia come il fisco stesso.
Il Prof. Roberto Cessi, in un articolo per l’Archivio Storico Italiano del 1931, scrive che, poco prima dell’abolizione dell’estimo a Firenze, l’aliquota complessiva sui redditi e beni di ciascun individuo è intorno al 25%. Si tratta, tra l’altro, di una percentuale che risulta più gravosa per chi vive di redditi mobiliari, per loro natura più soggetti ad oscillazioni, che per quelli immobiliari. L’abolizione dell’estimo ha, però, vita breve. Viene reintrodotto nel 1325 e, in quello del 1327, accanto alle aliquote per il
possesso di un caseggiato o di un immobile rustico, sono presenti, per la prima volta, quelle sul lucro personale, che superano ampiamente quelle su mobili e immobili. Per fornire un quadro più preciso, nella Firenze del 1327 si passa da un’aliquota dello 0,83% sulle abitazioni all’1,25% sui rustici, fino ad arrivare all’1,66% per i beni mobili e alle aliquote progressive sul lucro personale, che vanno dall’1,66% fino a oltre il 5%.
a immaginare uno strumento ancora più preciso dell’estimo: il catasto. Nonostante le resistenze da parte dei cittadini più ricchi, il Catasto Fiorentino viene promulgato nel 1427. Ogni proprietario, sotto comminatoria di gravi pene, fra cui quella di vedersi sequestrati i beni occultati o il dover pagare un’imposta doppia, è definitivamente obbligato a dare una descrizione accurata, secondo le direttive catastali, dei propri beni e il preciso ammontare del reddito dei beni stessi.
L’ESTIMO A PISA NEL 1162 La procedura di compilazione dell’estimo di Pisa che, per somme linee, può servire da archetipo per gli estimi delle altre città comunali, è stata descritta da Cinzio Violante in Economia, società, istituzioni a Pisa nel Medioevo. Saggi e ricerche (1980): “I consoli entrati in carica si impegnavano ad eleggere, prima del 1° febbraio, cinque o più uomini per ciascuna porta della città, i quali avrebbero dovuto, entro il termine delle successive calende di marzo, compilare un elenco di cittadini maschi e femmine delle singole porte, che erano da sottoporsi all’imposta diretta (“data”). Entro i tre mesi successivi, quindi entro il 1° giugno, i consoli dovevano convocare tutti i cittadini, maschi e femmine, iscritti nel suddetto elenco, che fossero presenti in Pisa e avessero l’età per poter prestare giuramento. I cittadini così convocati erano tenuti a giurare che, entro un mese, ciascuno avrebbe presentato ai consoli una dichiarazione scritta, contenente la descrizione quantitativa di tutti i suoi beni immobili, con l’indicazione delle località in cui erano siti, e la descrizione dei beni mobili.” Insomma, un processo molto lungo in cui era fondamentale la precisione del privato, che operava sempre sotto giuramento. La necessità di avere una vista sempre più puntuale e precisa del patrimonio di ogni cittadino porta il governo di Firenze
Oltre all’estimo e poi al catasto, rimangono comunque le gabelle. Parliamo di imposte che, a seconda dei tempi e dei luoghi, possono colpire beni o transazioni, dall’olio ai cavalli, dalle divisioni immobiliari al vino. La gabella sul sale rimane, nel corso del Medioevo, una delle più onerose e odiate. Come accade anche nel resto d’Europa, sono i privati cittadini a poter ottenere la riscossione delle gabelle. In breve, questi ultimi acquistano il diritto di riscuotere dagli altri cittadini versando un quantitativo concordato di moneta sonante nelle casse del comune. Un modo di gestire la fiscalità, quindi, per certi versi analogo a quello del tardo evo antico romano. Il rapporto tra gabella ed estimo è ben spiegato dalla situazione pisana alla fine del 1344, quando la città si trova a dover fronteggiare le spese della guerra con Firenze per il possesso di Lucca. Il governo cittadino conferisce agli Anziani il compito di sistemare le finanze, ma anche i nuovi tentativi di estimo sono poco fruttuosi. A questo punto, gli Anziani provano a la Ciminiera 19
compensare con una gabella sul vino, che dovrebbe fruttare 15.000 fiorini ma che, alla fine, ne porta in cassa solo 8.000. Visto che il deficit annuo del bilancio comunale rimane comunque sopra i 12.000 fiorini, si ricorre massicciamente anche allo strumento della prestanza.
nel 1370. Le prestanze, inoltre, diventano sempre più numerose e ravvicinate nel tempo, trasformandosi in veri e propri atti di coercizione. Nel 1374, quindici mercanti sono “invitati” a versare 9.000 fiorini; nel 1376, viene imposto un nuovo prestito forzoso pari a 24.000 fiorini.
In pratica, si chiede a commercianti e cittadini abbienti di prestare soldi al comune, con la promessa che verranno loro restituiti con un buon tasso di interesse. I tassi delle varie prestanze vengono però uniformati al 10%, a prescindere da quale fosse quello stabilito inizialmente, e addirittura al 5%
Sono proprio i comuni italiani, gli stessi che gettano le fondamenta di tanti istituti giuridici e strumenti finanziari moderni, a creare una sperimentazione fiscale sempre più complessa e vicina alle esigenze di agglomerati urbani molto attivi.
Letture consigliate I Padroni dell’Acciaio - G. Campagnano, F. S. Ferrara I protagonisti del volume sono Giorgio Castriota Scanderbeg, Pier Gerlofs Donia, Pregianni de Bidoux, Ettore Fieramosca, Giovanni delle Bande Nere, Enrico V di Brunswick, Alberto Alcibiades, Jean de La Valette, Astorre Baglioni e Franz Schmidt.
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L’idea di pubblicare questo volume nasce dalla passione per l’oplologia e la guerra medievale-rinascimentale di uno storico, Gabriele Campagnano, e di un disegnatore professionista, Francesco Saverio Ferrara. Unire la narrazione storica all’arte è ciò che li ha spinti ad unire gli sforzi per questo progetto. Il progetto di crowdfunding editoriale alla base de I Padroni dell’Acciaio è stato il più finanziato di sempre in lingua italiana ed è rimasto per diverse settimane nella classifica “Top Ispirational” di Indiegogo. Le Specifiche Tecniche 194 pagine full color HD 10+ bibliografie commentate 20+illustrazioni originali di Francesco Saverio Ferrara 30+ mappe del XVI-XIX secolo rielaborate. È possibile acquistare I Padroni dell’Acciaio singolarmente o, con un ulteriore sconto, i Box ricchi di extra che comprendono gli altri volumi Zhistorica. http://zweilawyer.com/pubblicazioni
Raoul Elia
Le armi naziste quarta puntata:
Le nazibombe sporche
Hans Kammler
La Seconda Guerra mondiale ha visto uno sviluppo tecnologico incredibile, l’impiego di una quantità di armi mai vista prima. Molto più che nei precedenti conflitti, la scienza scese in forze sui campi di battaglia dell’ultima grande guerra, seminando la sua buona parte di morte e distruzione in tutto il pianeta. La Germania nazista, probabilmente per le difficoltà legate all’essere povera di risorse, fu uno dei paesi che più cercò di sfruttare le scoperte della scienza, finanziando diversi programmi in campo bellico, anche piuttosto innovativi e “di confine”, soprattutto quando divenne chiaro che la guerra stava mettendosi male per il Reich millenario.
L’atomica nazista Bibliografia G.Brooks, Hitler’s Nuclear Weapons: The Development and Attempted Deloyment of Radiological Armaments by Nazi Germany, Londra, 1992, L. Castellani, Operazione Alsos: La vera storia dell’atomica di Hitler, Edizioni Lindau, Torino, 2014, J.Cornwell, Gli scienziati di Hitler, Milano, Garzanti, 2003, U. Deichmann, B. MullerHull, Biological Research in Universitities and Kaiser Wilhelm Institutes in Nazi Germany, Berlino, 1998, J. P. Farrell, La bomba atomica di Hitler, Mondo Ignoto editore, Roma, 2005, C. P. Hydrick, L’ atomica nazista, Castelvecchi, Roma, 2019.
Per tutta la durata del conflitto, il Terzo Reich cercò di dotarsi di un’arma mai vista prima, dall’immane potenza distruttiva e dall’impatto psicologico devastante: la bomba atomica. La Germania fu, infatti, il primo paese ad avviare un programma di ricerche nucleari, ovviamente sotto la direzione dell’esercito. Tale programma si concentrava su due aree: la separazione degli isotopi e la costruzione di un reattore a fissione. Per portare avanti questo tipo di ricerche era però necessario un ciclotrone, che i nazisti non ebbero a disposizione prima del 1944, mentre negli USA già nel 1939 ve ne erano 9 in funzione e 27 in costruzione. Dunque l’atomica nazista non era un pericolo, almeno immediato, per gli Alleati. I servizi d’intelligence degli alleati, però, non riuscirono a reperire questa informazione fino agli ultimi mesi del 1944, quando si resero conto che il programma atomico tedesco non rappresentava una minaccia concreta. E comunque la paura dell’atomica tedesca venne meno solo nel 1945, quando risultò palese che la Germania non avrebbe potuto più avere le risorse (uranio o plutonio in primis) per costruire un’arma atomica funzionante. la Ciminiera 21
L’atomichetta nazista Visto che non era possibile costruire vere e proprie armi nucleari funzionanti, gli scienziati tedeschi ventilarono l’ipotesi di realizzare delle armi più “abbordabili” e meno esose di isotopi rari: le“bombe sporche”. Nelle teorie naziste, queste bombe dovevano essere ordigni convenzionali ai quali venivano aggiunti elementi radioattivi; al momento dell’esplosione della bomba tradizionale, essa avrebbe anche disperso gli elementi radioattivi contenuti, contaminando ed avvelenando tutta l’area dell’esplosione. Nel febbraio 1943, Boris Rajewsky, direttore dell’Istituto per le basi fisiche della medicina e responsabile degli standard d’igiene e sicurezza nelle miniere tedesche, era a caccia di fondi per studiare gli effetti biologici delle radiazioni crepuscolari in modo da valutarne la possibilità di impiego come arma, oltre che per comprendere la base biologica della protezione dalle radiazioni. La sua richiesta di fondi non venne ascoltata, come succede
Copertina de L’atomica nazista di Carter P. Hydrick 22 la Ciminiera
Copertina de La bomba atomica di Hitler di Joseph P. Farrell
spesso nelle alte sfere tuttora se a richiedere fondi sono gli scienziati e i ricercatori, ma l’idea di realizzare un’arma radiologica, da destinare alla distruzione della Gran Bretagna o degli Stati Uniti, risultava affascinante per i leader del Terzo Reich, in particolare nell’ambito del programma delle cosiddette “armi di vendetta” guidato dal generale Hans Kammler. Detto questo, una precisazione è necessaria: le prove dell’esistenza di un piano per la produzione e l’impiego di bombe con componenti radioattivi sono scarse ed indiziarie. A dir la verità, durante l’ultima fase della guerra, comparvero occasionalmente nei rapporti dei servizi segreti alleati riferimenti ad una non meglio identificata Uraniumbombe: Henry Picker, lo stenografo di Adolf Hitler, accenna, ad esempio, a “un prototipo della bomba all’uranio tedesca”, circondato “dalla massima segretezza”. Anche Julius Schaub, aiutante di campo principale di Hitler, aveva sentito parlare di quella bomba da alcuni ufficiali delle SS. Secondo le sue fonti, l’ordigno aveva le dimensioni di una piccola zucca ed era composto da una serie di piccole bombe all’uranio disposte intorno a un nucleo di esplosivo convenzionale.
di luce, seguito da un’alta colonna di fumo diradatosi solo due ore dopo. Il giornalista ha aggiunto che, prima che la zona venisse occupata dai russi, le esplosioni erano state due, o forse addirittura tre. I materiali, in ogni caso, furono portati in salvo, pare, in Baviera. Secondo Romersa, all’arrivo degli americani le bombe già sperimentate e in fase finale di assemblaggio erano due. Saranno esistite queste bombe?
Copertina de Operazione Alsos: La vera storia dell’atomica di Hitler di Leandro Castellani
Un’importante testimonianza su queste armi radiologiche giunge da parte di una fonte inaspettata, l’italiano Luigi Romersa, giornalista e corrispondente di guerra, inviato in Germania, nell’ottobre del 1944, da Benito Mussolini in persona per riceve informazioni ufficiali riguardo le armi miracolose di cui parlava spesso Hitler, armi che, a suo dire, avrebbero capovolto l’esito della guerra. Il giornalista pare abbia incontrato personalmente sia lo stesso Führer che alcuni scienziati di spicco, tra cui Wernher von Braun, di cui rimase amico anche dopo la fine della Seconda Guerra mondiale. Roversa fu testimone di un particolare esperimento, che si svolse nell’isoletta baltica di Ruggen nel 1944. L’esperimento di Ruggen Il corrispondente italiano ha dichiarato, senza la minima esitazione o ritrattazione postuma, di essere stato portato in un bunker di Ruggen, da dove – protetto da uno scafandro – aveva potuto osservare l’effetto distruttivo (in un raggio di oltre due chilometri) dell’ordigno sperimentato. L’ordigno avrebbe causato un forte lampo
Una domanda sorge spontanea: perché Hitler non utilizzò una di queste bombe? La risposta più probabile è che il Führer temesse un’immediata e pesantissima ritorsione, fattore che impedì anche l’uso delle armi chimiche. Ma è anche probabile che le informazioni delle fonti, per niente qualificate (nessuno di loro era uno scienziato, nessuno di loro era dunque veramente in grado di comprendere cosa stesse succedendo e poteva essere facilmente stupito da “effetti speciali”), siano state notevolmente esagerate e che in realtà tali armi fossero poco più che un progetto, tutt’al più un prototipo, come le altre armi delle vendetta di cui si è parlato in questa rubrica. Un razzo per sganciare la bomba Ma, ammesso che questa bomba sia esistita veramente e che fosse pronta per essere utilizzata, come sganciarla sul nemico? Qui entrano in gioco le famose V2 e la tecnologia missilistica nazista. Alcuni gerarchi accarezzavano il sogno di lanciare queste armi radiologiche sul nemico grazie a un razzo gigantesco (A9/10), i cui piani di disegno erano realmente esistenti, o da missili lanciati da sottomarini appositamente dotati di camere di lancio verticali, come nei moderni sottomarini nucleari. Per fortuna, i progetti rimasero tali, anche se l’idea di lanciare missili dai sottomarini avrà, come si accennava, grande fortuna tra i vincitori della guerra. la Ciminiera 23
Un anno felice di Chiara Francini Rizzoli editore, 2019
Letture consigliate recensione di Francesca Ferraro
Conosciamo l’attrice Chiara Francini perché, dopo aver lavorato al teatro Ambra Jovinelli di Roma, ha fatto l’attrice e la conduttrice televisiva e ha un grande talento anche in campo canoro, come dimostra nel film “Una moglie bellissima” dove oltre a recitare canta anche due canzoni del musical Grease. Diventa famosissima al grande pubblico con la serie TV “Tutti pazzi per amore 2”, regista Riccardo Milani, ideatore e sceneggiatore Ivan Cotroneo e, nel cast sono presenti. Nero Marcorè, Alessio Boni, Carla Signoris. È conduttrice televisiva (Aggratis nel 2012 – Colorado nel 2014), presta la voce a Matilda nel Cartone Agri Birds. Nel 2016 conduce Domenica In con Pippo Baudo. È esuberante e gioiosa, particolarmente efficace quando si trova ad interpretare personaggiapparentemente ignoranti, ma ricchi di sensibilità ed acume, che vanno subito al cuore dei problemi e li risolvono in maniera leggera, quella leggerezza che non è “superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”. È quella leggerezza che è come quella dell’”uccello che vola, e non come la piuma” che si abbandona al vento e al caso. Chiara Francini, già all’esordio di scrittrice con “Non parlare con la bocca piena” sfonda con decine di migliaia di copie vendute e tante critiche positive. Scrive un secondo libro nel 2018 “Mia madre non lo deve sapere” e diventa editorialista per La Stampa. Si occupa di tematiche contemporanee senza pregiudizi in trasmissioni quali “Love me gender2 (2018 per EFFE) e “Love me stranger” in cui si affrontano i nuovi modi di essere famiglia e gli amori tra italiani e stranieri. Il libro “Un anno felice” è, quindi, il suo terzo libro, edito per Rizzoli. È uscito a giugno 2019 ed è già un romanzo che dà tante
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soddisfazioni per numero di venditee critiche positive. La protagonista del romanzo è Melania Beatrice, una ragazza fuori corso che per mantenersi fa l’editor e divide l’appartamento con l’amica Franca, di nome e di fatto. Melania sogna l’amore ma l’unico spasimante non è attraente per lei, così assetata di vita: Renato è colto, raffinato, le manda poesie tristi e quando sembra che lei stia cedendo al corteggiamento, l’amica la scuote dicendole che “Renato con i suoi pizzini di infelicità” ha contribuito a trasformarla in “una ragazza di provincia alla prima interrogazione di quarta ginnasio”. E Franca “la conosce nel profondo, come chi, non essendo legato nel sangue, deve mettere ancora più dedizione e impegno per diventare sorella”. Per Renato “Melania è tanta, troppo, è oltre. È perfetta e le sensazioni che prova sono sublimi (….). Il cuore capisce ancora una volta prima degli occhi che lei sta arrivando. Quello spazio che li divide è la più sorprendente, tremenda e dilaniante meta che ogni innamorato desidererebbe non percorrere mai”. Sullo sfondo della storia c’è la bella Firenze, quella verace, fatta dagli amici del bar che è “un’entità a metà tra la casa del popolo, l’osteria e un alimentari vecchia maniera” e una Firenze bella, artistica, romantica, quella che diventa lo sfondo di “Camera con vista” quando Melania incontra l’amore. È per lei un colpo di fulmine, si sente subito attratta “non perché sia bello, non per quella eleganza e gentilezza che spuntano da tutta la sua figura, ma perché nell’espressione del suo viso, quando gli è stata vicina, ha colto qualcosa di dolce e dolente”. È un insolito svedese, timido e riservato “Moro come un etrusco, la bocca un grosso fiocco di carne e gli occhi tagliati di rasoio” che si chiama Axel, come l’amore di Maria Antonietta, il personaggio storico preferito da Melania. E come Maria Antonietta, Melania che è alla ricerca dell’amore vero, si innamora totalmente del suo Axel, al punto da decidere, dopo una breve ma intensa storia d’amore fiorentina, di raggiungerlo in Svezia. Il passaggio dal calore rumoroso del suo ambiente alla Svezia non è facile. A Firenze tutto respira bellezza, finanche i lampioni “dal corpo asciutto da manquin di ghisa che terminano con dei piedini sollevati come fossero sempre sulle punte, pronti a danzare”. Tantissimi i luoghi descritti, come il portico
di Cosimo I, la piazzetta del Limbo con la scultura a bassorilievo di Benedetto da Maiano “La Madonna con Bambino” , l’abbazia di San Galgano e l’Eremo di Montesiepi “dove la spada di San Galgano è ancora conficcata nella roccia”, come quella spada conficcata ormai perennemente nel cuore di Melania e quando, proprio lì, Axel le ricorda la trama e, soprattutto, la fine del film di Tarkovskj, Nostalghia “Melania è distrutta. Provata. Piegata, confusa e in totale balia di questa creatura che le sta davanti e la sta portando via. Asservita. Diroccata”. Alla persa Melania, basta che Axel dica “Sono contento che hai deciso di venire a stare con me. Sono completamente innamorato” per cancellare le diverse volte in cui lui, soprattutto in Svezia, la fa sentire inadeguata. In Svezia “Melania trova il clima, l’ambiente (….) l’esatto opposto di ciò che è abituata ad amare, ma si sente amata. Ed è riconoscente per natura”. Una riconoscenza tutta femminile che fa sì che ogni donna, inconsapevolmente, sia pronta a sopportare sacrifici e umiliazioni e Melania, a cui la vita ha dedicato tanto studio ma poche occasioni per innamorarsi, con Axel perde ogni difesa ed è incapace di reagire, è totalmente inerme. Il libro si legge con facilità e si presta a diversi livelli di lettura. Il racconto non è mai banale o scontato e le descrizioni accurate dei luoghi e degli oggetti sono piccoli tasselli che costruiscono un quadro narrativo in cui hanno una certa rilevanza, come l’episodio nel quale Axel compra un oggetto apparentemente insignificante, quasi fosse una semplice mania da collezionista, e che invece rivela il carattere prevaricatore e poco sereno che si nasconde dietro un’apparente figura timida, metodica, silenziosa. Il libro “Un anno felice” di Chiara Francini è leggero e intenso assieme, caratterizzato da una storia avvincente e realizzato con una scrittura molto moderna, data per immagini, cinematografica, già pronta per essere tradotta in sceneggiatura e che trasporta direttamente nei luoghi dove le vicende si svolgono e rende visibili personaggi e ambienti. Chiara Francini ha frequentato il famoso e prestigioso Liceo Classico Dante di Firenze ed ha conseguito la laurea con 110 e lode in italianistica. Nei suoi romanzi traspare davvero tutta la sua preparazione, per la profondità delle riflessioni e per i qualificati riferimenti alla cultura e alla storia dei luoghi che fanno da sfondo al racconto.
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Aspirina e chirurgia in Calabria
di Ulderico Nisticò
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Secondo il Barrio (1571), già nei tempi antichi si faceva uso, in Calabria, dei derivati del salice, ovvero una specie di aspirina. L’aspirina fa bene, e va usata con circospezione, tuttavia senza timore. Bene, ma se uno è ammalato sul serio, di solito l’aspirina non fa niente; e niente fanno i pannicelli caldi, e meno che meno i suffumigi; e ci vogliono altri interventi. Vi risparmio l’anamnesi, che ci porterebbe ai tempi di re Italo; e iniziamo con la diagnosi. La Calabria ha un mare di acciacchi, che, più o meno, così si possono riassumere: 1. È lunga e stretta, il che ha sempre reso difficili i rapporti, l’esito sono le Calabrie – ufficialmente, due, in realtà una o due per ogni paese – invece di una Calabria sola. 2. È stata popolata da ogni sorta di stirpi, lingue, religioni; esse, tutto sommato, hanno convissuto abbastanza tranquillamente, ma senza compattezza. 3. Nei quattro millenni che conosciamo, sono stati rari gli avvenimenti di macrostoria e di guerre; e trascorrono secoli, sotto la penna dello storico, senza quasi avere niente da dire. Ciò non è il massimo degli incentivi alla creatività. 4. Tragici eventi, i terremoti, tuttavia sempre seguiti da rapida ed efficace ricostruzione. 5. Da un punto di vista economico, le Calabrie hanno presentato un quadro medio di produzione e consumo; da ciò, nel passato, una notevole densità di popolazione. 6. Buone le condizioni di salute e di longevità, soprattutto delle donne. E allora, dove sono i malanni? Sono che i punti 1-6 riguardano il passato, anche remoto; mentre, nel 2020:
1. La Calabria è la terzultima su 360 regioni d’Europa; e ciò per ogni indicatore positivo. 2. Scarsa è la produzione di qualsiasi cosa, e scarse le attività produttive e così gli addetti; nettamente superati di numero dagli stipendiati. 3. L’euro ha reso gli stipendi palesemente inadeguati al costo della vita.Gli stipendi, a loro volta, sono divenuti pensioni. 4. La popolazione è infatti in netto calo anagrafico, con sproporzione tra nati e morti; e non perché si muoia di più – tutt’altro – ma perché non si nasce. Lo spopolamento è palese. 5. La sanità è stata utilizzata come tappabuchi sociale; ovvero, assistenza dei sani, e i malati se ne vanno a Milano. 6. Molto mediocre è la classe dirigente politica, e sia detto senza alcuna distinzione di sigle o sedicenti tali. 7. Ancora peggiore la qualità delle diverse burocrazie, d’altro canto abbandonate a loro stesse e senza alcun controllo o incentivo o punizione. 8. La cultura – esclusi i presenti – è in mano a piagnoni superpremiati. 9. Le cronache sono zeppe di casi di corruzione, spessissimo di alto livello sociale e professionale e di scolarizzazione. 10. Fa la sua parte, nel disastro, la ndrangheta, ormai ammodernatissima, con qualche sporadica riserva di tagliagole. Riassumendo: questi dieci malanni non sono da aspirina, ma da chirurgia. Bisogna tagliare le parti infette e buttarle via. Bisogna consentire al corpo sano
di tornare a vivere. Bisogna attuare una robusta fisioterapia con ginnastica: a zappare nei campi, tanto più zappa quanto più il calabrese è laureato. Si può fare? Ma sì: se una persona viene bene educata, vedrete che lavora ed è pure contento; i mali della Calabria sono frutto di pessima educazione e pessimi esempi, a colpi di, in dialetto: - “non t’incrisci… ”; - “poi vidimu”; - In italiano: io sono machiavellico. Servono esempi e modi contrari.
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Coscienze Umiliate secondo episodio
Angelo Di Lieto PRESENTAZIONE Le grandi figure storiche femminili non sempre hanno avuto fortuna nella vita, né sono vissute felici di stare in un corpo femminile. Spesso il prodotto donna è una negativa manipolazione della cultura di una società retta da uomini che relega la donna in alcuni ruoli e non consente un’autonomia ed un’individualità paritaria, come dovrebbe essere per tutti gli esseri della terra, probabilmente imputabile ad un falso e primitivo convincimento inerente il suo stato di essere fragile, debole e come tale bisognosa sempre di ricevere, dalla costante presenza maschile, protezione e sicurezza. Lo scontro antropologico tra sessi, nel consuntivo passato, è risultato per le donne perennemente perdente, perché esse hanno avuto reiteratamente grandissime difficoltà ad entrare “in diretta” nel manipolato ed adamantino meccanismo culturale maschile ed a porsi su un bilanciato e paritario piano di rispetto e di difesa dei propri diritti, della propria indipendenza e dignità. Le antiche tragiche storie rinvenute, costituiscono, nella realtà presente, la prova del radicale ma anche del lento cambiamento di una retrograda e distorta visione che si aveva nei secoli passati. 28 la Ciminiera
GIOVANNA VALOIS, LA REGINA DI FRANCIA E LA SPINA DELLA CORONA DI CRISTO A PETILIA POLICASTRO Nel 1504 la figlia minore di Luigi XI, la deforme Giovanna Valois, che divenne Regina e che sposò per imposizione paterna il cugino Luigi, Duca d’ Orleans, figlio di Carlo I, passato alla storia come Luigi XII, donò al suo padre spirituale, Fra’ Dionisio Sacco di Petilia Policastro, antico sito oggi in provincia di Crotone, “un cannellino d’oro massiccio”, che portava come ciondolo sempre addosso e che conteneva una spina tolta dalla corona di Gesù Cristo. St.Jeanne de Valois La Corona ancora oggi è custodita a Parigi nel tesoro della Sacra Cappella nella Cattedrale di Notre Dame. Questa spina, che aveva macchie di sangue, era stata donata nel 1239 al Re di Francia Luigi IX, il Santo, da Baldovino II, imperatore di Costantinopoli. Fra le numerose spine sparse nel Mondo cristiano questa di Petilia Policastro è certamente la più famosa. Fuori del cannello d’oro vi erano apposte tre lettere sopra e tre sotto, con una piccola corona su ogni lettera. La scritta di sopra, con la sigla “I.R.Y”, voleva dire in breve “Iesus Rex Yudeorum”, mentre quella di sotto, con le abbreviazioni “I.R.M.”, molto probabilmente voleva significare “Joanna Regina Monilis”, richiamando così
San Luigi re di Francia, El Greco, 15901600, olio su tela, Museo del Louvre, Parigi.
l’appartenenza del prezioso gioiello alla Regina Giovanna. Mentre S. Francesco di Paola era consigliere ed angelo di conforto della Regina Giovanna di Valois, Padre Dionisio Sacco, invece, patrizio di Policastro, ottimo predicatore dei Minori Osservanti di S. Francesco di Paola, era divenuto famoso alla Corte di Francia per la sua santità e per la sua dottrina. Oltre ad aver conseguito in Parigi la laurea in Dottore, era stato anche confessore della Regina Giovanna, di S. Francesco di Paola e dei confratelli che lo avevano accompagnato in Francia, allorché chiamato alla Corte di Re Luigi XI. Il Re Luigi XII, dopo venti anni di matrimonio, per timore di uno smembramento del Regno, aveva ripudiato Giovanna de Valois, figlia di Luigi XI, per sposare Anna di Bretagna di Beaujeu, vedova del Re Carlo VIII. Così dopo il ripudio , con l’aiuto di Padre Dionisio e di S. Francesco, il “buon uomo eremita”, come lei Lo chiamava, si ritirò a Bourges, dove piamente visse (1464-1505) e fondò l’Ordine dell’ Annunziata, divenendo suora e madre delle stesse penitenti. Si racconta che quando il popolo che
assisteva numeroso in Chiesa alla lettura della sentenza di annullamento del 1499 di Papa Alessandro VI Borgia da parte del cardinale di Luxemburj, ritenendo un delitto questo ripudio, all’uscita aggredirono verbalmente i giudici della Chiesa, perché come Erode e Pilato, avevano condannato una Santa Donna. Ma lei nella circostanza esclamò: “Dio sia benedetto…ora potrò servire meglio… E’ lui (= il Re) che ha voluto infrangere le mie catene”. Padre Dionisio Sacco aveva sempre conservato questa Sacra Reliquia, finchè nel 1523, decise di rivedere l’Italia, andare a Loreto e poi a Roma per arrivare sino alla sua patria in Calabria. Così, posto a capo di una legazione per dare maggiore lustro e prestigio al suo viaggio in Italia, gli fu affidato l’incarico di far presente al papa Leone X che la Francia non aderiva alla controriforma di Martin Lutero e che quindi era al suo fianco per la lotta contro i luterani, suggerendo altresì l’apertura di un Concilio Generale. Durante i preparativi del viaggio fra Dionisio pensò di donare, a suo ricordo, la sacra spina al Convento del suo paese di Santa Maria delle Grazie, oggi detto della “S.S. Spina di Petilia Policastro”. Accadde però che a Bologna fu assalito da una strana febbre, a seguito della quale, avendo intuito che era ormai giunta la sua ora, si sentì in quei momenti rammaricato di non poter più portare personalmente il cannello d’oro al suo paese. Ma successe che proprio tre giorni prima di morire, miracolosamente, andò a trovarlo un suo nipote, Padre Ludovico de Albo, figlio di Camillo, policastrese, che aveva saputo del viaggio dello zio in Italia. Così Padre Dionisio, prima di morire, potè dare a suo nipote la spina, raccomandandogli di farla pervenire, dopo la sua morte, ai monaci del Convento del suo paese. La “Sacra Spina” fu pertanto consegnata ai frati di Petilia Policastro il 24 agosto 1523. Si racconta anche che nel 1573 il Vescovo Antonio Santoro, della Diocesi di S. Severina, avocato a sé tutti i religiosi innanzi alla Chiesa per verificare la miracolosità della “Spina”, pensò di buttarla nel fuoco di un braciere. La Spina non si bruciò e la prova fu ripetuta senza risultato per la Ciminiera 29
Santa Spina
tre volte di seguito. Altri riferiscono che furono alcuni frati a porre la spina in un “bacile” pieno di “brascia” ardenti, ma essa schizzò fuori senza farsi sfiorare dalle braci incandescenti. Comunque ritengo che il Vescovo Antonio Santoro fosse tanto intelligente da non arrivare a questa prova del fuoco per credere nella forza miracolosa della sacra reliquia. Infatti Santoro era molto amico del Cardinale Carlo Borromeo, Arcivescovo di Milano dal 1564, tanto è vero che quest’ultimo, il 1 settembre 1566, gli aveva inviato, per un parere, una copia della decisione del Concilio Provinciale del Sinodo Diocesano, presieduto dallo stesso Borromeo, nella quale vi era la rappresentazione della riforma restauratrice scaturita nel Concilio di Trento dopo i disordini della riforma protestante con l’indicazione delle norme e delle massime a cui i vescovi dovevano attenersi. Si ha documentale conoscenza che nelle lettere degli anni 1575 e 1576 Santoro aveva sciolto e risolto all’esimio Cardinale parecchi dubbi e quesiti. Nel Sinodo Diocesano del 30 dicembre 1573, invece, celebratosi in S. Severina, venne approvato il Culto della Santa Spina. Ma a questo punto ci si chiede: ma quale frammento della corona che poggiò sul 30 la Ciminiera
capo di Gesù Cristo è veramente una sacra reliquia e quali, invece sono da ritenersi, come tante, un falso simbolo, nel quale bisogna credere solo per fede? E poi: cosa successe dopo la morte di Gesù per conoscere il vero iter che fece la Sua corona di spine? La Storia racconta che sul luogo della Resurrezione fu collocata una statua di Giove, mentre i pagani, sempre per eliminare ogni traccia del S. Sepolcro e quindi della Resurrezione ed anche per allontanare i cristiani da quel sito, cancellandone la memoria, riempirono di terra la grotta del S. Sepolcro. Sopra vi costruirono un tempio dedicato a Venere, posizionandovi anche una statua della dea in marmo. L’imperatore Costantino, invece, fece abbattere la statua ed il tempio di Venere e sulle rovine fece costruire un Tempio cristiano. L’esecutrice di quest’opera volle essere la Madre S. Elena. Così nel 326 iniziarono gli scavi e si arrivò tanto in profondità che si giunse sino all’interrato S. Sepolcro. Ivi, come si narra, furono rinvenute sepolte tre croci: quella di Cristo e quelle dei due ladroni. Così una parte della croce di Gesù fu posta in una cassa di argento e fu data al vescovo di Gerusalemme perché
la custodisse per il futuro, mentre l’altra metà la spedì al figlio Costantino con i chiodi della Crocifissione che erano stati già distaccati. La Corona invece che aveva cinto il capo di Gesù restò custodita per parecchi secoli nella Basilica Patriarcale di Costantinopoli e lì restò devotamente esposta al pubblico. Quando il 23 marzo 1237 morì Giovanni di Brienne, re di Gerusalemme ed imperatore di Costantinopoli, Baldovino II, figlio di Pietro di Courtenay , gli successe allorché si trovava in Francia per reclutare nuovi crociati che dovevano difendere il S. Sepolcro. Avendo bisogno di urgenti somme per il pagamento di questi “crocisignati” si rivolse a S. Luigi IX, Re di Francia, dal quale ebbe, in cambio della Contea di Namur, la somma di lire cinquantamila. Grato per il prestito ricevuto, oltre perché parente del Re, e sapendo di fare cosa gradita al Re Luigi IX, molto pio e religioso, gli offrì in dono la corona di spine. Luigi IX subito inviò Fra Giacomo e Fra Andrea, dell’Ordine dei Predicatori, in compagnia di un delegato di Baldovino II e con l’autorizzazione di quest’ultimo, andarono a Costantinopoli nella Basilica Patriarcale a ritirare il sacro cimelio. Ma i baroni dell’Impero, per poter sostenere l’assedio della Città Costantinopoliana, in cambio di un’ingente quantità di denaro, avevano promesso ai finanziatori veneziani che se non avessero restituito la somma versata entro una certa data, la corona si riteneva come venduta agli stessi veneziani. Conseguentemente i due monaci decisero di far portare la Corona a Venezia, chiusa in una cassa e trattare direttamente per la consegna con i veneziani. E così in attesa di definire ogni cosa, la Corona fu custodita nella Cappella di S. Marco. Pertanto, sia Baldovino, che Luigi IX mandarono a Venezia ambasciatori e pagarono il debito contratto dai baroni per l’assedio di Costantinopoli ed in cambio gli emissari francesi ritornarono in Francia con la sacra Corona. La Corona, posizionata prima in un vaso d’oro e poi chiusa in una Cassa d’argento, fu portata a Troja di Champagne, dove veniva attesa dal Re, dai prelati e dai baroni. Intanto il Re aveva fatto costruire a Parigi
un grande tempio, che fu chiamato della “Santa Cappella”, dove, in gran pompa, la preziosa corona fu definitivamente trasferita in questa Cappella Reale. Lì ogni giorno il Capitolo Diocesano doveva pregare. Ciò dimostrerebbe con quanta facilità e semplicità la Regina Giovanna di Valois abbia potuto staccare da quella Corona una spina col sangue di Gesù, per poi farla inserire in un cannellino d’oro e donarla in un momento successivo a Fra’ Dionisio Sacco. Il cannellino d’oro, di particolare fattura, non poteva essere stato fatto da un frate e questo dimostrerebbe ancora che il cannellino lo portava sempre con sé la Regina, finchè non pensò di donarlo a Fra Dionisio. La Corona di spine, che per una serie di motivazioni botaniche e territoriali, contrariamente a quanti alcuni avevano sostenuto, non era di giunco marino, perché questo tipo di pianta era troppo distante dal mare e dal luogo dove erano avvenuti questi sconvolgenti avvenimenti, doveva perciò essere una corona improvvisata e non preordinata. Infatti doveva servire per dileggiare Gesù Cristo, perché doveva sostituire una vera regale Corona ed anche
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perché aveva soprattutto la funzione di dare maggiore tormento conficcando le spine nel Suo capo. Comunque se la Spina sia vera o sia falsa, o sia stata data dalla Regina Giovanna o meno va comunque venerata come sacro Simbolo della Passione di Cristo. A Petilia Policastro la sacra Spina fu racchiusa in una sfera d’argento con raggi solari e posizionata tra due cristalli con un “cardilletto” in oro che non consentiva più la sua apertura. Con l’arrivo della Spina nella Chiesa, che fu affidata al guardiano Fra’ Cola di Mauro, la frequenza e le donazioni dei fedeli di tutto il Marchesato e della Calabria aumentarono, per cui la Chiesa acquistò prestigio e dignità, con apporti di paramenti sacri e di “fabriche”. Si narra che moltissimi furono i miracoli, come pure molti furono i ciechi che videro e gli ossessi che furono liberati nel loro corpo dal maligno. La Spina fu venerata grandemente dal popolo per la sua miracolosità e quando su quel territorio si diffuse la peste, o vi furono periodi di siccità e di calamità varie, fu portata con grande fede e devozione in processione dalla Comunità Ecclesiale. Per un completamento delle informative storiche, vi è un’altra versione, forse meno attendibile, nella quale si racconta che una Regina di Napoli, che era in possesso di questa Spina, abbia ordinato a tre Cavalieri di uscire dalla Città Partenopea, lasciando ampia libertà al cavallo di andare dove volesse finchè non si fosse fermato e rifiutato di andare oltre. Nel punto dove si
sarebbe ostinatamente fermato, lì si sarebbe dovuto costruire un convento e lasciare in custodia una “Spina” della Corona di Cristo. E così avvenne. Ancora oggi questa Chiesa esiste ed è anche molto bella, anche se meriterebbe di essere restaurata, curata e protetta. Infelicemente, oggi questa Spina non esiste più, perché anni fa fu trafugata e non fu più restituita alla devozione dei fedeli. Questo racconto potrebbe essere l’occasione per far sì che nell’occasionalità della lettura, il detentore di questa Reliquia possa restituirla al Sacro Tempio dal quale, con mani sacrileghe, era stata sottratta alla cristiana devozione, anche se la Chiesa di Roma, per mantenere la devozione, fece pervenire un’altra spina. della famosa Corona nella stessa Chiesa di Petilia Policastro
Bibliografia - Calabria Letteraria = “Illustri Prelati di Petilia Policastro” di Franco Filottete Rizza - Soveria Mannelli - Anno XXXIV - N° 10-11-12 - ottobre-novembre-dicembre 1986. - da “Santi, Streghe e Diavoli” = Sansoni Editore - Anno 1971. - “Siberene - Cronache del Passato” per la Diocesi di Santaseverina, Crotone,Cariati - edizione a cura di Giovanni Battista Scalise - Frama Sud - Chiaravalle Centrale - 1976.
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Come abbiamo già detto in precedenti articoli, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, sia Hitler che Goebbels avevano deciso di dare il via alla costruzione delle cosiddette Vergeltungswaffen, ovvero “armi di rappresaglia”, identificate dalla sigla “V” seguita da un numero progressivo. Chiunque abbia studiato un po’ di storia contemporanea non può non conoscere i primi due progetti, V1 e V2, specialmente il secondo, che di fatto diede vita al primo missile balistico della storia; quasi nessuno invece è a conoscenza dell’esistenza di un terzo progetto, mai completato, di tipo completamente diverso: il V3.
Il super cannone Il V3 Hochdruckpumpe (HDP), ovvero la pompa ad alta pressione, è un prototipo di super-cannone realizzato dalla Germania durante le ultime fasi della Seconda guerra mondiale. La sigla V3 sta per Vergeltungswaffe 3 (“arma di rappresaglia 3” dal tedesco), data l’idea di Joseph Goebbels di cambiare nome ad alcune armi per fini propagandistici. L’arma era stata progettata per poter sparare granate da 60 chilogrammi, dalla fortezza di Mimoyecques nei pressi di Calais, dove si stava progettando il V3, sulle coste francesi, fino a Londra. L’idea alla base non era rivoluzionaria, come per le altre “armi della vendetta”. L’arma utilizzava la polvere da sparo per fornire la di Raoul Elia spinta necessaria affinché il proiettile uscisse dalla canna del cannone con la velocità necessaria per raggiungere l’obiettivo. Niente di eccezionale, dunque. La spinta avveniva gradualmente, facendo esplodere le granate al fianco della canna. Si trattava di una soluzione abbastanza economica, ideale nella fase finale della guerra, con la Germania in difficoltà nell’approvvigionamento delle risorse. L’arma fu progettata dalla ditta RöchlingEisenundStahlwerke di Lipsia, che presentò l’idea a Speer. Questi, incuriosito, ne ordinò uno studio di fattibilità alla ditta Saar Roechling. Il cannone avrebbe avuto una lunghezza della canna di 130 metri e una capacità di sparare granate di 140 kg anche a 165 km di distanza, ma, durante i test, non si raggiunse mai una tale distanza, neanche di striscio. Il progetto comunque convinse non solo Speer ma anche le alte sfere, dato che lo studio di fattibilità si trasformò ben presto in un piano di sviluppo. Fu inizialmente realizzato un piccolo prototipo nell’isola polacca di Wolin, nei pressi di Miedzyzdroje, il quale venne utilizzato per una dimostrazione (non del tutto riuscita) nell’aprile-maggio 1943. Subito si iniziarono quindi gli scavi delle gallerie, necessarie per la costruzione dell’imponente cannone nel litorale nord della Francia, andando a costituire quindi la terza arma di terrore dopo la V-1 e la V-2. Il programma originale prevedeva la collocazione di ben venticinque di queste armi a Marquise-Mimoyecques Uno dei primi esperimenti, notare le camere tra Calais e Boulogne; queste, una volta ultimata la fase di progettazione, avrebbero dovuto lanciare 200 di scoppio laterali ancora poste a 90°
Il V3, il super cannone nazista
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granate all’ora (ma dopo aver effettuato dei test a Hillersleben nell’autunno 1943 e a Miedzyzdroje nel gennaio 1944, si decise che si poteva aumentare la cadenza di fuoco del 50%). I Nazisti e la fisica I problemi nella fase di realizzazione però dovettero essere notevoli, anche per le continue indecisioni dei progettisti. Inizialmente, i proiettili dovevano essere dotati di tre pinne direzionali le quali si dovevano aprire non appena il colpo fosse fuoriuscito dalla canna; poi si pensò invece di costruirli privi di questa alette. Alle velocità previste, però, i proiettili erano poco stabili, per cui si decise di riportare il santo indietro e di dotarli di piccole alette di 2,5 cm a raggiera sull’affusto per la stabilità (solo vent’anni dopo i canadesi ripresero l’idea nella serie di Martlet). Si progettò di dare ai questi proiettili un peso di 120 kg; poi si passò a 85 kg ed infine a 130 kg, per cui, ogni volta, si rese necessaria un’infinità di lavori per modificare la canna e adattarla alle nuove dimensioni dei proiettili. Questi erano però “disobbedienti”: a volte esplodevano prima, frantumando le canne del cannone, altre subito dopo, oppure non esplodevano affatto. La velocità massima di uscita teorica doveva raggiungere i 1.700 m/s con angolazione del cannone a 39°, durante i test però non superò mai i 1.170 m/s. La fine del supercannone (?) La costruzione fu iniziata nel settembre del 1944 dall’Organizzazione Todt, che stava costruendo nei pressi anche siti di lancio per V1 e V2; le ricognizioni aeree alleate rivelarono però i lavori e vari attacchi aerei cominciarono a bersagliare il sito. Questi bombardamenti ebbero scarso effetto, perché gli alloggiamenti erano protetti da una cupola in cemento spessa 5,5 m, con un portello di acciaio all’apertura. Il 6 luglio 1944, però, venne condotto dagli Alleati un nuovo bombardamento con l’utilizzo di bombe ad alta penetrazione, le cosiddette “Tallboy”, che provocarono la distruzione di un alloggiamento e gravi danni al tunnel sotterraneo del sito, portando all’abbandono della costruzione. Davanti all’avanzata alleata, in seguito al D-Day, la base fu definitivamente abbandonata. Nel 1945 fu fatta esplodere dal genio inglese per evitare un possibile uso anti-inglese (la demolizione riguardò tutte le basi tedesche situate nel nord della Francia). 34 la Ciminiera
La storia del progetto V3, però non finisce qui: il Generale delle SS Hans Kammler prese il controllo del progetto ed ordinò la costruzione di due armi più piccole, con canna da 50 m, da posizionare a Lampaden, vicino a Treviri, per bombardare il Lussemburgo e le Ardenne; con il fallimento dell’offensiva delle Ardenne , però, i due cannoni furono abbandonati, dopo avere sparato alcuni colpi con scarso effetto. Un altro tentativo fu compiuto in Alsazia in concomitanza con l’Operazione Nordwind per la riconquista dell’Alsazia-Lorena, ma l’offensiva fallì prima che le armi fossero pronte. Dopo la fine Come si evince, i dati sul super cannone V3 sono poco utili a comprenderne le dinamiche. Secondo il saggista inglese David Irving, il sistema dei V3 deriva dagli studi di Lyman e Haskell sull’incremento di gittata per i cannoni di difesa costieri tramite “una seconda camera di scoppio con innesco a pressione”. A confermare questa tesi il fatto che i primi esperimenti sul V3 a Hillersleben si basavano su camere di scoppio laterali a T (90°) e non a Y (45°) come invece vennero montate a Marquise-Mimoyecques. I proiettili, come si è detto, erano muniti di alette per aumentarne la stabilità e tale idea fu poi ripresa nella serie dei Martlet canadesi 25 anni più tardi.
Multimedia Video del bunker del V3 https://youtu.be/69Bcce-ogQQ
La sezione principale del V3
Accade in Italia di Lino Natali
Il primo Book & Bed a Napoli per chi ama dormire tra i libri. E’ statisticamente provato che nel mondo si legge molto meno dei tempi passati e in special modo il libro stampato non attira che pochi estimatori. Si pone dunque il quisito “Come proporre e far riconsiderare il libro stampato come una gradevole e piacevole avventura?”. Nella caotica Tokyo il riposo si può fare con una montagna di libri intorno in alberghi appositamente attrezzati a questo scopo. Vengono chiamati Book&Bed e sembra che vanno per la maggiore. Forte di questa esperienza nella altrettanto caotica Napoli viene riproposta l’esperienza giapponese per la gioia di chi è amante della lettura e del profumo della carta stampata. E’, ad oggi, il primo Book&Bed italiano. I promotori di questa iniziativa sono i responsabili della libreria Mondadori e del Mook Palace che si trova al piano superiore. Illustrano così l’iniziativa: “Abbiamo eseguito, così come ogni nostra iniziativa imprenditoriale, studi di fattibilità chiedendo ad un campione di oltre 1500 lettori del Vomero, quartiere che dalle inizi ci accoglie e ci sostiene con calore ed entusiasmo, cosa avrebbero voluto stravolgere e cosa invece avrebbero voluto confermare dell’idea giapponese. L’esito della ricerca ci ha pertanto condotti alla realizzazione di un format diverso, più ricercato, dal taglio suite» (Antonio Serpe, Ceo di Mooks). Tanto per avere il piacere di sapere cosa troveremo insieme a pregevoli mobili di antiquariato, ci informano della presenza di ben 4000 titoli che partono dal 1741 (provenienti da collezioni private) a volumi più contemporanei. In chiusura permettetemi di esternare una piccola perplessita: chi come me ama la carta stampata e il libro come farà a dormire tranquillo se non finisce di dare, almeno una occhiata, a tutto quel bendidio?
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Valter Parrillo “Ricordati che polvere sei e polvere ritornerai� 36 la Ciminiera