La protezione oculare dalle radiazioni elettromagnetiche

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LA PROTEZIONE OCULARE DALLE RADIAZIONI ELETTROMAGNETICHE Filtri e lenti solari

e 200,00

ISBN: 978-88-31256-08-7


LA PROTEZIONE OCULARE DALLE RADIAZIONI ELETTROMAGNETICHE Filtri e lenti solari

Fabiano Gruppo Editoriale


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978-88-31256-08-7

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Coordinatore Luigi Mele

Autori Luigi Mele Medico Chirurgo Oculista Andrea Piantanida Medico Chirurgo Oculista Mario Bifani Medico Chirurgo Oculista

Contributors Luigi Campajola Fisico

Nicola Pescosolido Medico Chirurgo Oculista

Marcello Campajola Fisico

Roberto Russo Chimico

Marco Coppa Dottore in Chimica con indirizzo macromolecolare

Antonio Salzano Medico Chirurgo Cardiologo

Davide De Durante Medico Chirurgo Oculista Marco Del Boccio Medico Chirurgo Oculista Bruno Fumo Medico Chirurgo Oncologo Carla Gallenga Medico Chirurgo Oculista Pier Enrico Gallenga Medico Chirurgo Oculista Giulia Gerosa Ortottista Assistente in Oftalmologia

Marta Tranquillini Ortottista Assistente in Oftalmologia Pasquale Troiano Medico Chirurgo Oculista Luisa Trombetta Medico Chirurgo Neurologo Elena Scuro Ottico Gioacchino Gesmundo Ottico



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Introduzione Ciascuno di noi è esposto quotidianamente alle radiazioni solari in maniera differente a seconda della propria latitudine, occupazione o dei propri impegni. Il cambio dello stile di vita nei paesi industrializzati, la minor capacità di filtraggio delle radiazioni dannose da parte dell’ozonosfera, i rapidi cambiamenti climatici hanno di fatto aumentato l’esposizione dei nostri organi esterni alle radiazioni elettromagnetiche che compongono la luce esterna solare. E’ scientificamente provato che la quota di radiazioni ultraviolette che raggiungono la terra, non filtrate totalmente dall’atmosfera, sono collegate all’insorgenza di gravi danni cutanei che vanno dalle semplici scottature solari ai tumori cutanei. L’occhio non è scevro dall’essere anch’esso un obiettivo dei raggi ultravioletti e conseguentemente un possibile target di patologie causate dalle radiazioni elettromagnetiche. Cornea, cristallino e finanche retina in alcune situazioni particolari, possono subire gravi alterazioni e menomazioni se esposte ai raggi ultravioletti senza protezione: da qui la necessità di suggerire ai nostri pazienti l’utilizzo delle lenti da sole. Ma non tutte le lenti da sole sono uguali: esse sono caratterizzate da differenti filtri solari e differenti colori, possono essere più o meno scure, possono essere polarizzate o fotocromatiche con differenti gradi di scurimento. Per chiarire questa parte dell’oftalmologia erroneamente relegata ad un mero fatto commerciale ci è sembrato necessario intraprendere la stesura di questo nuovo testo che trattasse lo stato dell’arte dei filtri solari, focalizzando l’attenzione sulle loro caratteristiche tecniche, le indicazioni nella vita quotidiana e nelle diverse situazioni cliniche, nonché nelle varie età. La grande tradizione italiana sul design” attuale ed intramontabile” dell’occhiale da sole con i risultati più attuali sulla qualità delle lenti, ha reso possibile la realizzazione di un formidabile mezzo, che sa incidere sul gusto di tutti ed essere un vero e prorio “ausilio oftalmologico visivo e terapeutico” della cui conoscenza dettagliata ed approfondita il medico oculista, l‘ortottista assistente in oftalmologia nonché l’ottico non possono fare a meno. Ci auguriamo che questo terzo volume dedicato alle lenti da sole venga apprezzato come i precedenti dedicati all’ottica e rifrazione, ed alle caratteristiche delle lenti oftalmiche, e contribuisca ad aumentare l’attenzione verso un ausilio medico che risulta di fondamentale importanza nella pratica clinica quotidiana. Un sentito ringraziamento va ai contributors che hanno collaborato con professionalità alla stesura di alcune parti di questo manuale.

Luigi Mele Andrea Piantanida Mario Bifani



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Indice CAPITOLO 1 – Storia dell’ottica

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CAPITOLO 2 – Storia dell’elettromagnetismo

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CAPITOLO 3 – Le branche dell’ottica

Pag. 29

CAPITOLO 4 – Fondamenti di elettromagnetismo Introduzione 4.1 IL CAMPO ELETTRICO 4.2 IL CAMPO MAGNETICO 4.3 LE EQUAZIONI DI MAXWELL

Pag. 31

CAPITOLO 5 – La radiazione elettromagnetica Introduzione 5.1 LE EQUAZIONI DI MAXWELL E LE ONDE ELETTROMAGNETICHE

Pag. 41

CAPITOLO 6 – Lo spettro elettromagnetico Introduzione 6.1 ONDE RADIO 6.2 MICROONDE 6.3 INFRAROSSI 6.4 VISIBILE 6.5 ULTRAVIOLETTO 6.6 RAGGI X 6.7 RAGGI GAMMA

Pag. 57

CAPITOLO 7 – Fenomeni di propagazione dell’onda elettromagnetica Introduzione 7.1 FENOMENI DI PROPAGAZIONE 7.2 LA NATURA QUANTISTICA DELLA RADIAZIONE ELETTROMAGNETICA

Pag. 65

CAPITOLO 8 – Le interazioni radiazioni materia

Pag. 75

CAPITOLO 9 – Fotometria Introduzione 9.1 INTENSITÀ DELLA LUCE 9.2 FLUSSO LUMINOSO E INTENSITÀ LUMINOSA 9.3 ILLUMINAMENTO 9.4 LUMINANZA 9.5 SORGENTI DI LUCE STANDARD 9.6 IL COLORE DELLE SORGENTI LUMINOSE 9.7 LUCE MONOCROMATICA E POLICROMATICA 9.7.1 Gli spettri di emissione 9.7.2 Analisi degli spettri di emissione e di assorbimento 9.8 INTERAZIONE RADIAZIONE MATERIA 9.8.1 Energia interna delle molecole 9.8.2 Transizioni energetiche 9.9 SPETTROSCOPIA DI ASSORBIMENTO 9.9.1 Spettroscopia nel visibile e nell’ultravioletto 9.9.2 Legge di Lambert Beer 9.9.3 Applicabilità della legge di Lambert Beer

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CAPITOLO 10 – Colorimetria Introduzione 10.1 LA COMPOSIZIONE DEL COLORE 10.2 I DIAGRAMMI CROMATICI CIE 1931 E CIELAB (1976)

Pag. 107

CAPITOLO 11 – Lo spettrofotometro Introduzione 11.1 STRUTTURA GENERALE DI UNO SPETTROFOTOMETRO (UV-VISIBILE O IR) 11.2 SORGENTI 11.3 MONOCROMATORI 11.4 CELLE 11.5 RIVELATORI 11.6 SISTEMI DI ELABORAZIONE E PRESENTAZIONE DATI 11.7 TIPI DI SPETTROFOTOMETRO

Pag. 125

CAPITOLO 12 – La visione cromatica e la percezione dei colori

Pag. 133

CAPITOLO 13 – Classificazione delle radiazioni e dei loro effetti biologici Introduzione 13.1 RADIAZIONI IONIZZANTI 13.1.1 Sorgenti naturali delle radiazioni non ionizzanti 13.1.2 Sorgenti artificiali di RNI a bassa frequenza 13.1.3 Sorgenti artificiali di RNI ad alta frequenza 13.2 RADIAZIONI IONIZZANTI 13.3 EFFETTI DETERMINISTICI ED EFFETTI STOCASTICI

Pag. 139

CAPITOLO 14 – Effetti sul corpo umano dei campi elettromagnetici non ionizzanti Introduzione 14.1 EFFETTI A BREVE TERMINE 14.2 EFFETTI A LUNGO TERMINE 14.3 EFFETTI BIOLOGICI 14.4 EFFETTI SANITARI 14.5 POTENZIALE DI IONIZZAZIONE DEI CAMPI RF 14.6 FENOMENO UDITIVO DA MICROONDE

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CAPITOLO 15 – Effetti sul corpo umano dei campi magnetici ionizzanti Introduzione 15.1 EFFETTI BIOLOGICI 15.1.1 Danno chimico 15.1.2 Danno biomolecolare 15.1.3 Effetti biologici precoci e tardivi 15.1.4 Riparazione del danno da radiazioni 15.1.5 Fattori che influenzano l’effetto biologico delle radiazioni 15.2 EFFETTI SANITARI 15.2.1 Effetti somatici 15.2.2 Effetti teratogeni 15.2.3 Effetti genetici

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CAPITOLO 16 – Le interazioni delle radiazioni elettromagnetiche con l’apparato visivo Introduzione 16.1 Radicali liberi e scavangers nella patologia oculare

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CAPITOLO 17 – Danni oculari da radiazioni ultravuiolette Introduzione 17.1 CUTE PERIOCULARE E PALPEBRE 17.1.1 Fotobiologia cutanea 17.1.2 Melanogenesi cutanea

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17.1.3 Il fototipo 17.1.4 Effetti delle radiazioni UV 17.1.5 Fattori di protezione 17.1.6 Dermatite palpebrale 17.1.7 I tumori cutanei 17.2 CONGIUNTIVA E CORNEA 17.2.1 Trasmittanza della cornea alle radiazioni ultraviolette e patologia indotta 17.2.2 Alterazioni istopatologiche 17.2.3 Modifiche indotte dall’azione fotodinamica delle radiazioni ultraviolette sulle strutture molecolari corneali 17.2.4 Pinguecola 17.2.5 Pterigion 17.2.5 Cheratocongiuntivite attinica 17.3 CRISTALLINO 17.3.1 Radiazioni UV 17.3.2 Danno biologico da UV-A o da UV-B? 17.3.3 Importanza dell’ambiente 17.3.4 Tipo di cataratta indotta 17.3.5 Sede molecolare del danno 17.3.6 Cataratta 17.4 RETINA 17.4.1 Edema maculare cistoide CAPITOLO 18 – Danni oculari da radiazioni del visibile 18.1 SUSCETTIBILITÀ RETINICA AL DANNO DA LUCE VISIBILE 18.1.1 La visione come cascata di eventi fotochimici 18.2 DANNO TERMICO O FOTOCHIMICO? 18.2.1 Istologia del danno fotochimico 18.2.3 Danno fotochimico da radiazioni ultraviolette 18.2.4 Bersaglio molecolare del danno fototossico 18.3 MACULOPATIA

Pag. 261

CAPITOLO 19. Danni oculari da radiazioni infrarosse 19.1 CATARATTA E MACULOPATIE 19.2 CATARATTA E MACULOPATIA

Pag. 279

CAPITOLO 20. Danni oculari da microonde, radfiofrequenza e bassa frequenza 20.1 MICROONDE (MO) E RADIOFREQUENZE (RF) 20.1.1 Meccanismi del danno da MO e RF sul cristallino 20.1.2 Morfologia delle lesioni indotte sull’occhio 20.1.3 20.2 EXTREMELY LOW FREQUENCIES (ELF)

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CAPITOLO 21. Inquadramento legislativo in materia di lenti oftalmiche Introduzione 21.1 OCCHIALI DA SOLE 21.2 NORMA EN 166 21.3 ETICHETTATURA DELLE LENTI 21.4 TRASMITTANZA DEI FILTRI DA SOLE AD USO GENERALE SECONDO NORMA TECNICA ISO EN 12312-1 CAPITOLO 22. Le lenti filtrant Introduzione 22.1 CLASSIFICAZIONI DELLE LENTI FILTRANTI 22.2 CARATTERISTICHE FISICHE DEI FILTRI. 22.3 OBBIETTIVI DEI FILTRI. 22.3.1 Riduzione della diffondanza

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Pag. 309


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22.3.2 Riduzione dell’ abbagliamento 22.3.3 Riduzione dell’ autofluorescenza del cristallino 22.3.4 Riduzione dell’aberrazione cromatica 22.3.5 Effetto preventivo su alcune patologie oculari CAPITOLO 23. I filtri solari Introduzione 23.1 CONTRASTO E METAMERISMO 23.2 ASSORBIMENTO ED EQUILIBRIO CROMATICO 23.3 SPETTROMETRIA DEI FILTRI SOLARI 23.3.1 Filtri in vetro 23.3.2 Cr39 23.3.3 Policarbonato 23.4 IL FILTRO DA SOLE IDEALE

Pag. 325

CAPITOLO 24. I materiali dei filtri solari Introduzione 24.1 I VETRI UTILIZZATI IN OTTICA OFTALMICA 24.2 LE RESINE ORGANICHE 24.2.1 Cr-39 24.2.2 Policarbonato 24.2.3 Trivex 24.2.4 Materiali ad alto indice di rifrazione

Pag. 341

CAPITOLO 25. La coloritura delle lenti Introduzione 25.1 COLORITURA DELLE LENTI IN VETRO MINERALE 25.2 COLORITURA DELLE LENTI IN MATERIALE ORGANICO 25.3 NOMENCLATURA DEI TRATTAMENTI 25.4 LA SPECCHIATURA

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Cap 26. I trattamenti dei filtri solari Introduzione 26.1 IL TRATTAMENTO ANTIRIFLESSO 26.1.1 Origini del trattamento antiriflesso 26.1.2 I riflessi e i loro effetti 26.1.3 I principi fisici del trattamento antiriflesso 26.1.4 Produzione dell’antiriflesso 26.1.5 Materiali per l’antiriflesso 26.1.6 Tipologie di antiriflesso 26.1.7 Antiriflesso per lenti in vetro 26.1.8 Antiriflesso per lenti in organico 26.2 IL TRATTAMENTO INDURENTE 26.2.1 Trattamento indurente per le lenti in vetro 26.2.2 Trattamento indurente per le lenti in materiale organico 26.2.3 Verniciatura o Laccatura 26.2.4 Tecniche di verniciatura 26.2.5 Sublimazione 26.2.6 I test per il controllo della resistenza all’abrasione 26.2.7 Considerazioni sulla realizzazione di un trattamento indurente 26.3 IL TRATTAMENTO IDROREPELLENTE 26.3.1 Realizzazione dello strato idrorepellente

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CAPITOLO 27. Le lenti fotocromatiche Introduzione 27.1 GENESI DEL COLORE 27.2 GENERAZIONE DI CROMOFORI PER VIA REATTIVA

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27.2.1 Isomerizzazione trans-cis 27.2.2 Rotture di legami eterolitiche o omolitiche 27.3 SISTEMI FOTOCROMATICI 27.3.1 Sali di alogenuro d’argento 27.3.2 Molecole fotocromatiche organiche 27.3.3 Materiali Fotocromatici di Tipo-T 27.3.4 Materiali Fotocromatici di Tipo-P 27.4 LE LENTI FOTOCROMATICHE 27.4.1 Lenti fotocromatiche in vetro 27.4.2 Lenti fotocromatiche in materiale organico 27.4.3 Lenti organiche di Terza Generazione 27.2.4 Lenti fotocromatiche progressive 27.5 COMPORTAMENTO DELLE LENTI FOTOCROMATICHE NELLA STAGIONE FREDDA CAPITOLO 28. Effetti generali dei raggi ultravioletti in età pediatrica

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CAPITOLO 29. L’occhio e i raggi ultravioletti nel bambino

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CAPITOLO 30. La protezione dai raggi ultravioletti nel bambino: il ruolo dei genitori

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CAPITOLO 31. Le lenti da sole in età pediatrica

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CAPITOLO 32. Le montature da sole in età pediatrica

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Capitolo 1 – Storia dell’ottica

Lo studio dell’Ottica, inteso come studio della natura della luce visibile, ha origini antiche e lontane. Le prime applicazioni di quelli che oggi potremmo chiamare principi ottici, con riferimento all’uso di lenti per l’ingrandimento e metalli per ottenere superfici riflettenti, possono essere ricondotte all’Antica Grecia. Uno dei primi testi teorici pervenutoci ad oggi, è l’Ottica di Euclide (circa 300 a.C.). In effetti, non è così sorprendente che il padre della Geometria, abbia infatti fornito anche un’interpretazione geometrica della luce. Nel suo trattato, Euclide interpretava la luce come un cono di raggi luminosi emessi dall’occhio ed era in grado di fornire una spiegazione al fenomeno della prospettiva. Più tardi, intorno al 40 d.C. Erone di Alessandria riesce a mostrare geometricamente che il percorso di un raggio riflesso da un piano ad un punto di osservazione è il percorso più breve possibile che la luce possa percorrere, dato il vincolo che il raggio tocchi il piano. Oggi potremmo chiamare il risultato di Erone Principio di minima distanza, e notare l’incredibile somiglianza con il moderno Principio di Fermat. Erone, tuttavia, non aveva apprezzato che la luce viaggia a velocità diverse in mezzi diversi e che quindi, per una descrizione corretta, occorrerebbe minimizzare il tempo impiegato piuttosto che il percorso. Tra i filosofi greci che hanno dato un importante contributo all’ottica, va annoverato anche Tolomeo. Nel suo trattato sull’Ottica, Tolomeo include una sezione su riflessione e rifrazione, riportando una tabella con angoli di rifrazione corrispondenti a vari angoli di incidenza per le coppie aria-acqua, aria-vetro. Con la fine della civiltà greca, il progresso scientifico si sposta nella civiltà islamica. Basti pensare ai risultati ottenuti nel campo dell’algebra e nello sviluppo di metodi matematici. Ma tali progressi non riguardavano solo il campo delle scienze matematiche. Un contributo fondamentale allo sviluppo dell’ottica viene dallo scienziato Ibn Sahl (d.C. 940 - 1000). Nel suo trattato Sugli strumenti ustori, Sahl illustra il concetto di punto di fuoco di un fascio luminoso in specchi curvi e lenti. Il risultato più rilevante di Sahl consiste in una prima formulazione dettagliata di quella che oggi è conosciuta come la Legge di Cartesio-Snell. Un altro grande protagonista del progresso scientifico nel campo dell’Ottica fu il matematico Alhazen (d.C. 965 - c. 1040). Alhazen scrisse un trattato di sette volumi sull’ottica. Nel corso dei suoi lavori, condusse molti esperimenti sulla propagazione rettilinea della luce, e sui fenomeni della riflessione e rifrazione. Ma dal punto di vista dell’Ottica, possiamo ritenere che il suo contributo principale sia quello relativo ad una dettagliata descrizione dell’occhio umano. L’avvento dell’Illuminismo, o Età della ragione, segna la nascita di molti grandi pensatori che, con i loro lavori sui fondamenti della matematica e della fisica, hanno contribuito ad una maggiore comprensione della natura delle cose. In particolare, l’Illuminismo è stato periodo di grande fermento per lo sviluppo dell’Ottica con accese discussioni tra grandi scienziati su quale fosse la natura della luce. Tra i principali protagonisti della rinascita scientifica dell’Illuminismo, possiamo sicuramente annoverare Cartesio (1596-1650). Nelle sue opere sull’ottica, Cartesio elabora quella che oggi conosciamo come Legge di Cartesio-Snell, formulata in maniera indipendente dallo scienziato Willebrord Snellius (1580 - 1626). Gli studi di Cartesio inerenti l’ottica furono tanti. Sebbene prevedesse erroneamente che la luce viaggiasse più velocemente in un mezzo “più denso” (cioè un mezzo con un indice di rifrazione


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più elevato) aveva correttamente interpretato i fenomeni luminosi come una forma di propagazione ondosa. Un traguardo cruciale per l’ottica ondulatoria è stato fornito dal fisico olandese Christiaan Huygens (1629-1695). Huygens elaborò il ben noto principio secondo cui ogni punto di un fronte d’onda è sorgente di onde secondarie il cui inviluppo fornisce il fronte d’onda ad un istante successivo. Il Principio di Huygens rimane tutt’oggi un potente strumento nello studio della propagazione di un’onda. In controversia con l’interpretazione ondulatoria della luce, Isac Newton (1642 - 1727) suggeriva erroneamente che la luce avesse una natura corpuscolare. L’influenza intellettuale di Newton al culmine della sua carriera era tale che la teoria corpuscolare della luce tendeva a dominare rispetto ad altre interpretazioni. Ad ogni modo, i contributi di Newton nel campo dell’Ottica furono tanti. Nel 1666, Newton dimostrò la decomposizione della luce bianca nei colori dell’arcobaleno tramite la rifrazione di un fascio luminoso ad opera di un prisma. Quella di Newton. rappresentava una prima osservazione del fenomeno della dispersione della luce, dovuto alla diversa velocità con cui le componenti cromatiche della luce viaggiano in un mezzo. A Newton si deve anche il primo telescopio riflettore, che sfruttava specchi curvi per ottenere l’ingrandimento di un oggetto distante. Forse il contributo più significativo all’ottica geometrica dell’epoca illuminista, venne dal matematico francese Pierre de Fermat (1607 - 1665). Nel 1657, Fermat enunciò il noto Principio secondo cui il percorso effettivo di un raggio luminoso tra due punti risulta il tragitto che impiega il minor tempo. Quello di Fermat, era strettamente correlato al principio di Erone della minima distanza. Il dibattito sulla natura della luce fu ripreso quando Augustin-Jean Fresnel (1788 - 1827) presentò nel 1818 un documento all’Accademia delle scienze francese in favore della teoria ondulatoria della luce. Sebbene Fesnel sia stato una figura importante nello sviluppo dell’ottica ondulatoria, fu Young a fornire le prime prove sulla natura ondulatoria della luce. Nel suo famoso esperimento della doppia fenditura, Young dimostrò che la luce presenta chiaramente fenomeni di ‘interferenza’, un effetto totalmente inspiegabile dalla teoria corpuscolare. Fresnel riprodusse in modo indipendente il lavoro di Young, aggiungendo una sostanziale comprensione del fenomeno della diffrazione. A Fresnel si devono anche i primi studi sul fenomeno della polarizzazione. Sebbene diversi fisici illuministi avessero dimostrato in modo convincente la natura ondulatoria della luce, la relativa fisica richiedeva inevitabilmente il supporto dell’Elettromagnetismo per una sua formulazione completa e consistente. Quella dell’Elettromagnetismo è una vasta branca della Fisica che trae le sue radici dal lavoro di molti matematici e fisici. In questo capitolo daremo al lettore una panoramica degli scienziati che con i loro studi sull’elettromagnetismo hanno contribuito maggiormente allo sviluppo dell’Ottica. A Michael Faraday (1791-1867), dobbiamo la scoperta della legge dell’induzione elettromagnetica, fenomeno per cui un campo magnetico variabile induce a sua volta un campo elettrico. Il grande fisico scozzese James Clerk Maxwell (1831-1879) incorporò la legge di Faraday e le altre leggi dell’elettromagnetismo insieme ai suoi stessi contributi, in una serie di equazioni conosciute come equazioni di Maxwell. Maxwell fu quindi in grado di mostrare che queste equazioni prevedevano che i campi elettrici e magnetici si propagassero nello spazio e nel tempo come onde. Dalle equazioni di Maxwell, era inoltre possibile calcolare la velocità di queste onde in funzione delle sole costanti universali fondamentali, quali la costante dielettrica e la permeabilità magnetica nel vuoto. Ciò significa che anche la velocità delle onde elettromagnetiche doveva essere un valore costante. Quando Maxwell calcolò questo valore, scoprì, con grande sorpresa, che corrispondeva al valore misurato della velocità della luce. Da ciò, Maxwell poté concludere che la luce è, a tutti gli effetti, una forma di radiazione elettromagnetica.


1. Storia dell’ottica

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Qualche anno dopo, nel 1886, Heinrich Hertz (1857-1894) dimostrò con successo la generazione di onde elettromagnetiche prodotte attraverso la variazione del campo elettrico prodotto da una carica oscillante in un’antenna a dipolo. All’epoca, si credeva che la propagazione di tutti i tipi d’onda si dovesse svolgere in un mezzo fisico. Il mezzo preposto per la propagazione della luce era chiamato etere luminoso. Si supponeva, inoltre, che il valore della velocità della luce c fosse relativo all’etere. Nel 1887 Michaelson e Morley tentarono di misurare la velocità della luce in diversi punti dell’orbita terrestre attorno al Sole, usando un interferometro. Con grande sorpresa, Michaelson e Morley scoprirono che la velocità della luce non dipendeva dal moto relativo della Terra rispetto al Sole. Secondo la teoria della composizione dei moti relativi di Galileo, quello di Michaelson e Morley era un risultato sorprendentemente inspiegabile. Lorentz (1853-1928) rielaborò le trasformazioni di Galileo al fine di ottenere un insieme di relazioni che fosse consistente con i risultati legati alla teoria dell’Elettromagnetismo. Elaborò, quindi, un insieme di relazioni, note come trasformazioni di Lorentz, che permettessero di interpretare i fenomeni legati alla propagazione delle onde elettromagnetiche. Le trasformazioni di Lorentz, tuttavia implicavano risultati alquanto bizzarri: prevedevano, per un sistema in moto relativo rispetto ad un osservatore fisso, la dilatazione della dimensione temporale e la contrazione di quella spaziale. Fu Albert Einstein (1879 - 1955) nel 1905, col suo articolo sulla Relatività speciale a fornire una interpretazione delle trasformazioni di Lorentz rinunciando all’idea di “spazio e tempo assoluti. Se il XIX secolo era servito a porre la teoria ondulatoria della luce su solida base, le certezze scientifiche accumulatesi erano destinate a venire meno con l’avvento del XX secolo. La controversia sulla natura corpuscolare o ondulatoria della luce fu infatti ripresa con vigore, a causa delle difficoltà che la teoria ondulatoria presentava nel descrivere fenomeni di interazione della luce con la materia. Uno di questi problemi riguardava la comprensione della radiazione di corpo nero. Un corpo nero è un oggetto ideale che assorbe tutta la luce incidente su di esso ed emette radiazioni con una densità spettrale caratteristica della sua sola temperatura. Nel 1900, Max Planck annunciò in una riunione della Società della Fisica tedesca che era stato in grado di derivare correttamente lo spettro di radiazione del corpo nero, ma solo facendo la curiosa ipotesi che gli atomi emettessero luce in pacchetti di energia discreti piuttosto che in modo continuo. Nacque così il concetto di quanto di energia e di conseguenza la Meccanica Quantistica. Secondo Planck, l’energia E di un quanto di radiazione elettromagnetica era proporzionale alla frequenza ν della radiazione secondo la relazione E=hν, dove la costante di proporzionalità h è detta costante di Planck. L’ipotesi di Planck sembrava proporre di nuovo l’interpretazione corpuscolare della luce. Cinque anni dopo, nello stesso anno della pubblicazione della sua teoria della relatività speciale, Einstein, sfruttando l’idea di Planck, offrì una spiegazione dell’effetto fotoelettrico, ossia l’emissione di elettroni da una superficie metallica quando irradiata con la luce. Ma i problemi lasciati in sospeso dalla fisica classica agli inizi del 1900 erano tanti. Uno dei più urgenti riguardava la spiegazione della stabilità atomica. Secondo l’elettromagnetismo classico, un elettrone in orbita attorno a un nucleo dovrebbe perdere energia per irraggiamento e ‘cadere’ sul nucleo spiraleggiando. Il primo importante contributo che portò alla risoluzione di questo problema è dovuto a Niels Bohr, che nel 1913, incorporò il concetto di quantizzazione dell’energia nei processi di emissione e assorbimento della radiazione elettromagnetica da parte di un atomo. Sempre nel 1922, il modello dei quanti di luce venne in aiuto al fisico Arthur Compton, che fu in grado di spiegare la diffusione di raggi X su elettroni come collisioni di particelle tra i quanti di luce ed elettroni. Nel 1926, il chimico Gilbert Lewis suggerì per il quanto di luce, il nome “fotone” e da allora è stato così identificato.


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Il fatto che per una corretta descrizione dei fenomeni di interazione con la materia, sia necessaria un’interpretazione corpuscolare, potrebbe risultare fuorviante, facendo supporre che la formulazione classica dell’elettromagnetismo non sia corretta. A ben vedere, non possiamo affermare ciò. L’elettromagnetismo classico, ossia quello descritto dalle equazioni di Maxwell, è infatti in grado di predire numerosi fenomeni relativi alla propagazione della radiazione luminosa. Tuttavia, tale teoria va rivista alla luce dalla meccanica quantistica. Questo è quello che viene fatto nell’Elettrodinamica quantistica, la più completa ed esauriente teoria in grado di descrivere l’interazione tra luce e materia. I successivi anni del ‘900, sono stati teatro di numerosi progressi scientifici nel campo dell’Ottica, che continuano ancora oggi. Basti pensare alla teoria dell’emissione stimolata per il funzionamento dei LASER, lo sviluppo dei LED, la nascita della crittografia quantistica, e tante altre scoperte od invenzioni.

Figura 1. Linea temporale dei principali sviluppi nel campo dell’Ottica.

Bibliografia • M. P. Vaughan, Optics PY3101, University College Cork, 2014. • R. J. Weiss, A Brief History of Light and Those That Lit the Way, World Scientific Pub Co Inc, 1996. • E. Segre, Personaggi e scoperte della fisica classica, Biblioteca E.S.T., Mondadori, 1983.


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Capitolo 2 – Storia dell’elettromagnetismo

Nell’inverno del 1819 un professore, allora poco noto, dell’Università di Copenhagen, Hans Christian Öersted, eseguì un esperimento che cambiò completamente il corso successivo dello studio dei fenomeni elettrici e magnetici. In tale esperimento Öersted osservò la deflessione di un ago magnetico posto in vicinanza di un filo percorso da corrente, individuando un legame tra effetti elettrici e magnetici. Öersted teneva un corso su Elettricità, Galvanismo e Magnetismo. E’ interessante notare la denominazione del corso, che indica come all’epoca per elettricità si intendesse l’elettrostatica mentre i fenomeni legati alle correnti elettriche erano detti galvanici, in quanto non c’era ancora nessuna chiara idea sulla relazione tra cariche e correnti elettriche. Öersted pubblicò questa sensazionale scoperta in un lavoro dal titolo Experimenta circa effectum conflictus elettrici in acum magneticum (Copenhagen, 1820). Come a segnare il passaggio da un’epoca all’altra, questa è l’ultima memoria importante nel campo dell’elettromagneHans Christian Oersted tismo scritta in latino, e fornisce una idea della personalità di Öersted, che era ancora legato alla tradizione settecentesca. Immediatamente dopo la pubblicazione di questo articolo gli esperimenti furono ripetuti in tutta Europa e lo stesso articolo fu tradotto, nel giro di pochissimi mesi, in tedesco, in inglese e in francese. All’epoca era abitudine dell’Accademia di Francia tenere una riunione ogni mercoledì, per comunicare e discutere i risultati scientifici più importanti. Arago, presidente della Accademia, l’11 settembre 1820 presentò, ripetendola in pubblico, l’esperienza di Öersted. A questa riunione dell’Accademia era presente André-Marie Ampère. Ampère, nato nel 1775 era già membro dell’Accademia e professore famoso. Figlio di un ricco commerciante lionese, estremamente precoce, a 12 anni aveva letto tutta la biblioteca paterna, compresa l’intera Encyclopédie, di cui conservava ancora memoria da grande. È famoso un episodio di quando, a 12 anni, si recò presso la biblioteca di Lione per richiedere le opere di Bernoulli ed Eulero. Il bibliotecario gli rispose che erano opere di difficile comprensione e che, fra l’altro, erano scritte in latino. Ampere tornò dopo un mese e mezzo avendo imparato il latino e richiedendo il prestito delle opere. Fu professore di matematica, di filosofia e di fisica. All’epoca della presentazione dell’esperienza di Öersted da parte di Arago era professore di astronomia all’università di Parigi. Ampère fu estremamente colpito dall’esperienza e immediatamente pensò alla possibilità che oltre che tra correnti e magneti, ci potesse essere un effetto di interazione fra le correnti. Appena una settimana dopo, Ampère presentò e dimostrò l’esistenza degli effetti mutui fra le correnti in due successive sedute, il 18 e il 25 settembre. La presentazione ottenne un eccezionale successo. Di tale riunione si riporta un episodio in cui una persona del pubblico commentò il risultato di Ampère dicendo: “...ma cosa ha fatto di particolarmente importante Ampère? È evidente, tutto sommato, che se le correnti agiscono sugli aghi


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e l’ago per reazione agisce sulle correnti, le correnti agiscono fra di loro.” Arago, che presiedeva come sempre la riunione, si alzò e prese due chiavi di ferro che teneva in tasca. Avvicinò una delle chiavi all’ago della bussola (che ovviamente fu deflesso), poi pose la chiave vicino all’altra chiave e disse rivolgendosi alla persona che aveva mosso la critica “...adesso fammi attrarre le due chiavi fra di loro!”, dimostrando l’inconsistenza dell’argomento dell’accademico che era intervenuto. Subito dopo questa presentazione, Ampère iniziò una serie molto raffinata di esperienze. Nel frattempo, Biot e Savart, il 30 ottobre, comunicarono, e immediatamente dopo pubblicarono, la legge quantitativa del fenomeno scoperto da Öersted che, viceversa, si era limitato André-Marie Ampère ad una semplice illustrazione qualitativa. Ampere iniziò a lavorare a ritmi serrati sul fenomeno scoperto e nel ‘25 pubblicò la Mémoire sur la théorie mathematique des phénomènes electrodinamique uniquement déduite de l’experience, che ebbe risonanza e diffusione immediata e valse ad Ampère l’appellativo di “Newton dell’elettrologia”. In tale lavoro Ampère riuscì a ridurre tutti i fenomeni e le leggi dell’interazione elettromagnetica in termini puramente newtoniani, introducendo la famosa legge elementare di Ampere che fornisce l’interazione fra due elementi di corrente. Nella stessa memoria pose inoltre le fondamenta dell’altro grandissimo contributo dato all’elettrologia: l’interpretazione amperiana del magnetismo ovvero l’ipotesi che tutti i fenomeni magnetici fossero dovuti esclusivamente all’interazione tra correnti. In realtà i risultati ottenuti non erano stati dedotti completamente dall’esperienza in quanto Ampère introdusse l’ipotesi, tanto naturale nell’ambito di una visione newtoniana da essere considerata ovvia, che la forza fra i due elementi fosse diretta lungo la congiungente. Anche se oggi sappiamo che ciò non vero, nello studio condotto da Ampère era una ipotesi lecita, poiché fin quando si opera con circuiti chiusi il risultato che si ottiene è corretto, in quanto esistono infinite leggi elementari che conducono allo stesso risultato, se applicate a circuiti chiusi. Era stato ormai dimostrato che una corrente genera quello che noi oggi chiamiamo un campo magnetico e quindi agisce sia sulle altre correnti sia sull’ago magnetico. Era abbastanza naturale pensare che ci dovesse essere una simmetria e quindi che dovesse esistere un effetto dei campi magnetici sulle correnti elettriche. Ampère dal ‘27 in poi andò alla ricerca, inutilmente, di tale effetto. L’effetto fu infine trovato da un fisico inglese, Michael Faraday.

Michael Faraday

Faraday era figlio di un maniscalco. Autodidatta, ebbe la fortuna di essere messo a bottega dal padre in una legatoria. Il giovane Faraday oltre a rilegare i libri, li leggeva. In tal modo acquisì una preparazione scientifica di base. Ciò fu notato da un cliente di questo rilegatore, il quale gli procurò dei biglietti per assistere a delle lezioni alla Royal Institution, a Londra. A quell’epoca il presidente della Royal Institution era un famosissimo scienziato, nominato baronetto per i suoi meriti scientifici, Sir Humphry Davy. Faraday seguì con attenzione tutte la serie di lezioni di Davy e ne compilò degli appunti, che rilegò e presentò a Davy. L’accuratezza di questi appunti, che mostravano le capacità di comprensione di Faraday, colpirono Davy,


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che gli offrì un posto di assistente. L’anno successivo, nel ‘13, Davy portò Faraday con sé in un viaggio in Europa che durò quasi due anni. Questa esperienza permise a Faraday di entrare in contatto con la scienza europea, istituendo una serie di contatti scientifici. Successivamente Faraday entrò a far parte della Royal Institution, fu eletto alla Royal Society nel ‘24, diventò direttore del laboratorio alla Royal Institution l’anno dopo. Faraday è stato forse il più grande, certamente fra i più grandi, scienziati sperimentali di tutti i tempi. L’insieme dei suoi appunti di laboratorio, tenuti con scrupoloso ordine, sono il resoconto di oltre 17.000 esperimenti accuratamente registrati e furono la base di un famoso insieme di pubblicazioni, le Experimental Resource in Electricity, che ebbero un’influenza notevolissima su tutto lo sviluppo dell’elettrologia e in particolare sul lavoro di Maxwell. Il 29 agosto del 1831, Faraday scoprì il fenomeno dell’induzione elettromagnetica. La figura mostra la pagina del suo diario di laboratorio in cui è riportato l’esperimento. È rappresentato un anello di metallo, su cui sono avvolti due avvolgimenti. Faraday notò che variando il campo magnetico prodotto da una delle due correnti si otteneva un effetto di corrente indotta sull’altra. Il motivo per cui non si era riuscito ad individuare tale effetto era che tutti, fino ad allora, avevano effettuato esperimenti con campi stazionari; la chiave, viceversa, era proprio quella della variazione della corrente. In realtà il fenomeno dell’induzione elettromagnetica era stato già scoperto da Henry in America, il quale però pubblicò i suoi risultati con un anno di ritardo su una rivista americana. All’epoca pubblicare su una rivista americana significava non essere letti dalla scienza che contava, e la sua scoperta rimase praticamente sconosciuta. Questa esperienza fondamentale, di cui fra l’altro Faraday non enunciò le leggi quantitative, dette inizio agli sviluppi successivi. Un ulteriore contributo che Faraday apportò fu la dimostrazione della identità tra le correnti galvaniche e quelle dovute al moto di cariche. La dimostrazione che le cariche in moto hanno gli stessi effetti della correnti prodotte dalle pile permetteva finalmente di dire che tutti i fenomeni, sulla base dell’ipotesi amperiana, erano dovuti semplicemente a interazioni tra cariche in riposo o in moto relativo. Questo aprì, naturalmente, la possibilità di approntare una visione unificata dei fenomeni elettromagnetici. Successivamente lo stesso Faraday scoprì l’effetto giromagnetico, cioè l’esistenza di un effetto del campo magnetico sulla polarizzazione della luce, ed affrontò lo studio dei fenomeni di polarizzazione elettrica e magnetica. Ciò lo portò ad elaborare quel concetto di campo come un insieme di linee di forza che in qualche modo riempiono lo spazio e trasmettono le azioni, che sarà cruciale per gli sviluppi successivi. La concezione di Faraday modificava completamente la prospettiva con cui vedere le azioni elettromagnetiche: invece che azioni a distanza fra cariche in quiete o in moto, azioni trasmesse dal mezzo attraverso tubi di flusso che riempiono tutto lo spazio esercitando una azione sulle cariche. Probabilmente, l’origine di questa concezione è il ben noto esperimento delle linee di forza visualizzate con la limatura di ferro, riportato in figura. In realtà, la capacità immaginativa di Faraday andò ben oltre arrivando fino a formulare l’ipotesi che la luce fosse un fenomeno elettromagnetico dovuto alla perturbazione del campo, e addirittura a sperimentare la possibilità di individuare degli effetti gravito-elettrici, cioè effetti del campo gravitazionale sui fenomeni elettrici. Tali fenomeni sono in realtà esistenti (sono previsti dalla teoria della relatività generale), ma la loro rilevazione sperimentale va ben oltre le possibilità di quel tempo. Nonostante i contributi dati, lo sviluppo immediatamente successivo dell’elettromagnetismo non seguì la via proposta da Faraday, basata sul concetto di campo. La ragione fondamentale di ciò risiede da un lato nell’assoluto dominio del paradigma newtoniano nella fisica del tempo, dall’altro nel fatto che Faraday, non avendo una profonda base matematica, non fu capace di formulare le idee in un modo accettabile secondo i criteri elaborati per la fisica matematica, portati a sommi livelli dalla scuola continentale eu-


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Laboratorio di Faraday alla Royal Institution

ropea. La teoria dei fenomeni elettromagnetici fu sviluppata, pertanto, ancora in termini di azioni a distanza. Tale approccio fu formalizzato da due tedeschi, Neumann e Weber, i quali, ad un anno di distanza, elaborarono due teorie delle azioni elettromagnetiche semplicemente in termini di azioni a distanza fra particelle in moto. L’unica differenza cruciale rispetto alla meccanica classica era che queste forze non dipendevano solo dalla distanza ma anche dalla velocità e dall’accelerazione con cui le particelle si muovevano. Siamo quindi arrivati all’attore principale di questa storia: James Clerk Maxwell. Nato ad Edimburgo nel 1831, morto relativamente giovane nel 1879, apparteneva ad una famiglia della nobiltà scozzese, i Clerk, che acquisì l’ulteriore cognome di Maxwell a seguito di un’eredità che il padre aveva ricevuto. Maxwell visse la sua infanzia in un possedimento di campagna che i Clerk avevano a Glenlair, 100 Km circa a sud di Glasgow, fino a circa l’età di 12 anni. Studiò all’Università di Edimburgo, e successivamente a Cambridge. Quivi, ad appena 23 anni, affrontò con successo il terribile “tripos”, esame che era necessario superare alla fine della propria carriera a Cambridge per potersi laureare. Il termine deriva da un’antica tradizione, consistente nel sottoporre il candidato ad un esame farsesco da parte di uno studente anziano laureato, seduto, per l’appunto, su uno sgabello a tre piedi. La prova era di eccezionale difficoltà e consisteva nello sviluppare e discutere un argomento assegnato, che in genere equivaleva ad un nuovo risultato. L’esame fu poi abolito a causa della eccessiva severità, tale da spingere anche alla follia ed al suicidio i candidati respinti. Dopo aver affrontato il problema della visione dei colori, elaborando la teoria dei tre colori fondamentali su cui si basano tutti i processi di ricostruzione dei colori nei sistemi di telecomunicazione moderni, Maxwell spostò il suo interesse verso l’elettromagnetismo. Il lavoro di costruzione dell’elettromagnetismo da parte di Maxwell fu portato avanti in un tempo relativamente ristretto ed è tutto contenuto, sostanzialmente in tre memorie. La prima, On Faraday lines of force, fu letta alla Cambridge Society in due parti, il 10 dicembre del ‘55 e l’11 febbraio del ‘56, e subito dopo pubblicata. La seconda, On physical lines of force fu pubblicata in più parti, nel 1861 e nel 1862, ed è forse, come vedremo, la più importante delle tre. La terza: A dynamical theory of the electromagnetic field (1864), fu letta alla Royal Society l’8 dicembre 1864 e pubblicata l’anno successivo. Nella prima memoria l’obiettivo di Maxwell è dimostrare che le concezioni di Faraday non erano delle idee, più o meno qualitative, di un genio sperimentale privo di capacità matematiche, ma potevano essere formalizzate in un modo matematicamente ineccepibile e, quindi, accettabile come descrizione possibile delle interazioni elettrodinamiche ed elettromagnetiche. Per raggiungere questo obiettivo utilizzò una analogia


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con il moto di un fluido incomprimibile, privo di massa, soggetto a delle forze che lo mettono in moto e a delle forze resistenti proporzionali alla velocità. Applicando questo modello ai vari casi possibili Maxwell trovò, tramite le leggi del moto dei fluidi con opportuna identificazione delle velocità e delle forze, tutte le leggi dell’elettricità e del magnetismo, dimostrando che effettivamente era possibile un modello coerente in termini di campo di tutto ciò che all’epoca era noto. Ad esempio, nel caso della magnetostatica la velocità viene identificata con l’induzione magnetica, mentre le forze che mettono in moto il fluido sono rappresentate dal campo magnetico. Ne consegue che le forze sono irrotazionali mentre il vettore di induzione magnetica risulta essere solenoidale, in quanto il fluido è incomprimibile. Nel caso elettrostatico la velocità è identificata con l’induzione elettrica e la forza con il campo. Le forze risultano irrotazionali, mentre il campo non è più a divergenza nulla ma la divergenza è legata alle densità di cariche che danno origine al campo. Nel caso dell’elettrodinamica Maxwell dimostrò che tutta la formulazione di Ampère è equivalente a quella che noi oggi chiamiamo (impropriamente) legge della circuitazione di Ampère (ovvero che la circuitazione del campo magnetico intorno ad un conduttore fornisce la corrente che fluisce attraverso il conduttore). Maxwell notò inoltre che da questa equazione conseguiva che le correnti dovevano essere sempre “chiuse”, come diceva, ovvero a divergenza nulla. “Le nostre indagini sono quindi allo stato limitate alle correnti chiuse; di fatto conosciamo poco sugli effetti magnetici delle non chiuse”, su cui, fra l’altro, all’epoca non era stata fatta nessuna esperienza. Infine Maxwell introdusse un’altra innovazione: trattando l’induzione elettromagnetica dimostrò che la legge di Lenz-Neumann, che lega la forza elettromotrice indotta alla variazione di flusso concatenato, è equivalente ad introdurre un vettore, che oggi chiamiamo potenziale vettore, da cui dedurre l’induzione magnetica, e che la forza elettromotrice indotta non è altro che la derivata temporale di questo vettore. Maxwell interpretò il potenziale vettore come il vettore che descriveva un effetto fisico, ovvero lo “stato elettronico del mezzo”, un concetto anch’esso proposto da Faraday. La seconda memoria segue di circa sei anni la prima. In questo periodo Maxwell non pubblicò nulla sull’elettromagnetismo, occupandosi di altri campi di ricerca inerenti la teoria cinetica dei gas, e completò la teoria dei colori. Pubblicò, fra l’altro, un famosissimo lavoro sugli anelli di Saturno dimostrando che essi non potevano essere né solidi né gassosi ma dovevano essere costituiti da un insieme di particelle solide, utilizzando un approccio puramente dinamico e matematico. Il modello utilizzato nella seconda memoria partiva dalla considerazione dei sopra ricordati effetti giromagnetici, che suggerivano di associare al magnetismo una rotazione. Maxwell concepì il campo magnetico come dovuto a vortici la cui velocità era proporzionale al campo magnetico. La direzione dell’asse del vortice forniva la direzione del campo magnetico, come mostrato dalla figura, James Clerk Maxwell estratta dalla memoria. Naturalmente il fatto di avere tutti questi vortici paralleli pone immediatamente un problema meccanico: come fanno i vortici a girare se dove si toccano devono muoversi in senso opposto? Per permettere ai vortici di girare nella stessa direzione, fra un vortice e l’altro Maxwell inserì delle sferette che rotolano senza strisciare. In analogia al mec-


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canismo del differenziale, nel caso in cui tutti i vortici ruotano con la stessa velocità le sferette rimangono ferme, altrimenti vi sarà uno slittamento reciproco. Analizzando matematicamente questo modello, Maxwell riuscì immediatamente a dimostrare che c’era una relazione puramente cinematica fra la velocità con cui ruotano i vortici (cioè il campo magnetico) e la velocità con cui si spostano queste sferette (o meglio il numero di sferette che passa attraverso una superficie nell’unità di tempo). Interpretando il moto di queste sferette come corrente elettrica ottenne la legge di circuitazione di Ampere, ovvero dimostrò che la quantità di sferette che passa nell’unità di tempo attraverso una superficie è pari al rotore della velocità. Inoltre, supponendo che questi vortici non si muovessero a velocità costante nel tempo, e sfruttando il fatto che essi hanno una massa, assunta proporzionale alla permeabilità del mezzo, osservò che una variazione della velocità dei vortici esercita una forza sulle sferette. Interpretando questa forza come forza elettromotrice indotta ottenne la legge dell’induzione elettromagnetica. In questo modo il modello includeva tutti i fenomeni elettromagnetici riguardanti il magnetismo e le correnti indotte. Per descrivere i fenomeni elettrostatici Maxwell suppose che i vortici fossero costituiti da una materia elastica, in modo tale che se si agisce con una forza su queste particelle (ovvero sulle sferette) senza far girare i vortici, questi si deformano fino a quando la forza di richiamo elastica non equilibra la forza applicata. Interpretando la forza che agisce come campo elettrostatico e la deformazione elastica come l’induzione, Maxwell ottenne le leggi dell’elettrostatica. A questo punto Maxwell fece una osservazione di importanza fondamentale. Suppose di deformare il sistema, e studiò cosa accadeva dopo la deformazione lasciando il sistema libero di evolvere. Naturalmente i vortici, che sono elastici, tendono a ritornare nella posizione di equilibrio e quindi producono un movimento transitorio delle sferette. Ma un movimento di queste sferette deve produrre un campo magnetico. Ecco quindi che anche le correnti transitorie, dovute a variazioni di spostamento, devono produrre un effetto magnetico. Ciò significa che devono esistere degli effetti magnetici delle correnti di spostamento. Analizzò quindi che cosa accadeva se si deformava questo mezzo, ottenendo che, come conseguenza delle leggi della meccanica, si generavano delle perturbazioni elastiche, che si propagavano nel mezzo. Calcolando la velocità di propagazione di queste perturbazioni, trovò che essa era pari (nell’ambito dell’incertezza sperimentale) alla velocità della luce. Ebbe quindi il coraggio di fare un salto intellettuale enorme, ed affermare che la luce è un fenomeno elettromagnetico. Questo concetto, e la teoria elettromagnetica del campo, furono ripresi, questa volta senza far riferimento ad alcun modello, nella terza memoria. In questo lavoro Maxwell adottò solo le leggi della dinamica nella loro forma più generale, quella che noi oggi chiamiamo la forma lagrangiana. Postulò unicamente l’esistenza di un mezzo meccanico sede dei fenomeni elettromagnetici. Identificò i parametri fondamentali dinamici in termini elettromagnetici e sviluppò le equazioni fondamentali che oggi sono alla base dell’elettromagnetismo. Nella stessa memoria sviluppò a fondo la teoria elettromagnetica della luce non più, questa volta, deducendola da un modello ma dalle equazioni del campo elettromagnetico. Per la loro rilevanza storica si riportano le equazioni nella formulazione originale ottenuta da Maxwell, più complessa rispetto alla formulazione oggi utilizzata, derivata invece da Lorentz. Secondo le denominazioni date da Maxwell, abbiamo l’equazione delle correnti totali, l’equazione della forza magnetica, l’equazione delle correnti, l’equazione della forza elettromotrice, l’equazione dell’elasticità elettrica (il nome della relazione fra campo elettrico e induzione elettrica è l’unico residuo del modello meccanico utilizzato nelle memorie precedenti). Abbiamo quindi l’equazione di Ohm in forma locale, l’equazione dell’elettrostatica e l’equazione di continuità della corrente. L’evoluzione successiva, che ha portato alle equazioni di Maxwell così come oggi sono


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Equazioni di Maxwell nella forma originale

note, è consistita nell’eliminazione dei potenziali. Come già notato, questo passo non fu fatto da Maxwell. Ciò fu probabilmente dovuto al suo impegno morale nel cercare di dare interpretazioni matematiche e fisiche a tutte le idee di Faraday (e quindi voler conservare un senso fisico allo stato elettrotonico). I risultati ottenuti nelle tre memorie costituiscono la base del famosissimo Treatise on Electricity and Magnetism, pubblicato nel 1873. Nel 1879 Maxwell morì, mentre attendeva alla revisione della seconda edizione del trattato. Le idee di Maxwell stentarono ad essere accettate. Nel continente continuò l’approccio all’elettromagnetismo in termini di azioni a distanza. Mentre Maxwell pubblicava il trattato, von Helmholtz, che era lo scienziato più famoso dell’epoca nell’ambiente europeo, e poi Clausius, pubblicarono ulteriori trattazioni dell’elettromagnetismo raffinando le precedenti di Weber. Tali lavori erano tutti basati sul concetto di azioni a distanza, continuando a rifiutare l’approccio in termini di campo e anche alcune delle conclusioni rivoluzionarie che da questo approccio erano conseguite, come l’esistenza della pressione di radiazione. L’effetto più immediato della rivoluzione maxwelliana si ebbe non sull’elettrodinamica, bensì sull’ottica. Infatti, al contrario di ciò che era accaduto nell’ambito dei fenomeni propriamente elettromagnetici, dopo la pubblicazione del trattato partì subito la reinterpretazione dell’ottica in termini elettromagnetici, con i contributi fondamentali forniti da Lorentz e Fitzgerald, fra il ‘75 e il ‘78. Negli anni ‘80, in particolare per la prima volta nell’81 da Michelson in modo non sufficientemente accurato e poi nell’87 da Michelson e Morley, fu tenuta la famosa esperienza tendente a mettere in rilievo il moto della terra rispetto all’etere, sede della propagazione delle perturbazioni ottiche. Una delle conseguenze più impressionanti della teoria di Maxwell era, infatti, la previsione che le onde elettromagnetiche si muovessero con la velocità della luce. Era naturale pensare che tale velocità dovesse essere misurata rispetto all’etere, cioè rispetto al mezzo meccanico che supporta queste fluttuazioni. Doveva quindi essere possibile comporre la velocità della luce con quella della terra in movimento nell’etere e misurare la differenza di velocità relativa. Come ben noto, questa esperienza diede risultati negativi che determinarono poi conseguenze cruciali nella fisica. Tornando all’elettromagnetismo, l’affermazione della teoria di Maxwell e, in particolare, la dimostrazione dell’esistenza delle onde elettromagnetiche è dovuta ad Heinrich Hertz. Hertz, morto anche lui giovane, e anche lui di cancro come Maxwell, era di origine ebrea. In quanto ebreo non poteva accedere, pur essendo di famiglia nobile, alla carriera militare e quindi seguì la carriera scientifica. Hertz fu un personaggio di


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intelligenza eccezionale; parlava sette lingue correntemente, compreso arabo, italiano, greco, e latino, era un’escursionista (amava recitare Dante durante le escursioni sulle Alpi), ed esperto egittologo. Dopo aver iniziato i suoi studi a Monaco, Hertz, ancora molto giovane, si trasferì a Berlino dove fu allievo di Helmholtz. A Berlino iniziò le esperienze che portarono alla dimostrazione dell’esistenza delle onde elettromagnetiche. La prima esperienza, dell’ottobre dell’86, fu raffinata nell’anno successivo e pubblicata nell’87. Come si usava allora, Hertz mandò ad Helmholtz il manoscritto di cui si riporta la cartolina con cui Helmholtz rispose: ..ho ricevuto il manoscritto. Bravo! Mi affretterò a passarlo al tipografo giovedì (datato 7 novembre 1887). I risultati furono presentati in una serie di memorie dall’87 all’89, di cui si riporta una figura della prima memoria, che mostra il famoso oscillatore di Hertz, gli specchi paHeinrich Rudolf Hertz rabolici e tutti gli apparati sperimentali con cui dimostrò che le onde elettromagnetiche generate, questa volta, da correnti e non più da sorgenti ottiche, si comportavano come le onde luminose. In una memoria successiva compaiono per la prima volta dei disegni che mostrano l’andamento delle linee di forza del campo elettrico e magnetico irradiati da un dipolo elementare, chiamato, per l’appunto, dipolo hertziano. Heinrich Hertz fu il primo a dimostrare sperimentalmente le proprietà caratteristiche delle onde elettromagnetiche e che la loro velocità è uguale a quella della luce, fornendo validità alla teoria di Maxwell. Nei suoi primi esperimenti con un dispositivo da lui ideato, Hertz potè produrre molti dei più importanti esperimenti di ottica e ottenere importanti risultati. Nelle stesse esperienze egli compì alcune osservazioni su di un fenomeno nuovo e misterioso, che in seguito sarebbe stato chiamato effetto fotoelettrico. Inconsapevolmente, quindi, Hertz evidenziò un fenomeno fisico che avrebbe messo in crisi la teoria elettromagnetica della luce, che egli stesso aveva abilmente verificato. In questo modo egli pose una base empirica alla teoria dei quanti e al la fisica moderna. Nel 1887 nei suoi primi esperimenti per dimostrare l’esistenza delle onde elettromagnetiche, Hertz utilizzò un rocchetto di Rumkorff e un paio di micrometri per scintille. Collegò uno dei micrometri ad una bobina ad induzione e l’altro ad una spira metallica. Mediante il rocchetto produsse una scarica a scintilla nella bobina ad induzione e usò questa come primitivo trasmettitore. Riuscì ad osservare una scintilla indotta in una spira adiacente che funzionò, quindi, come un semplice ricevitore. Hertz intuì che le oscillazioni si liberavano dal circuito, quando si raggiungeva la tensione di innesco, propagandosi nell’ambiente circostante. Il micrometro collegato alla spira fu usato per misurare la lunghezza della scintilla indotta, che seguì la scarica attraverso le sferette della bobina ad induzione. Il sistema si poteva assimilare ad un dipolo elettrico oscillante: infatti con lo scoccare della scintilla aveva origine una scarica oscillante di frequenza? e pulsazione ? =2p?. Durante un periodo la corrente che andava da un estremo all’altro si invertiva due volte e due volte si annullava, mentre tra un annullamento e l’altro il suo valore assoluto passava per due massimi. Quando la carica accumulata era massima la corrente era nulla: nelle immediate vicinanze dell’oscillatore il campo elettrico era massimo, il campo magnetico non si produceva. L’opposto succedeva 1/4 di periodo più tardi quando la corrente era massima: le cariche erano nulle, non si


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formava campo elettrico e il campo magnetico raggiungeva il massimo d’intensità. In un saggio intitolato Le forze delle oscillazioni elettriche trattato in accordo con la teoria di Maxwell, Hertz tracciò il campo elettrico delle onde elettromagnetiche per intervalli di tempo pari a T/4. Queste oscillazioni generavano nello spazio un campo elettrico e magnetico di uguale periodo ed uguale fase. Hertz variò le dimensioni della spira adiacente per ottenere un massimo per la scintilla indotta, riuscendo a calcolare la frequenza di risonanza per una assegnata induttanza e capacità della spira. Sebbene questi calcoli implicassero molte approssimazioni, Hertz trovò una frequenza di circa 100 MHz. Questi valori permisero di misurare onde con lunghezza d’onda inferiore a quelle precedentemente determinate. Il primo esperimento di Hertz fu fatto per migliorare il trasmettitore di scintille e per misurare la frequenza di risonanza nel ricevitore. Pubblicò il suo lavoro nel 1887 in un articolo intitolato Oscillazioni elettriche molto rapide, nel quale compare il diagramma del dispositivo usato. Dalla bobina ad induzione A le scintille furono scaricate attraverso le sferette B, rafforzate dalla presenza dei conduttori C e C’ che ne aumentarono la capacità. La distanza di questi conduttori, superiore a 3 m, determinò la frequenza delle oscillazioni e permise loro di comportarsi come una antenna radiante. Ciò provocò scintille più forti fra le due sferette M della spira ricevente dove il micrometro fu sistemato per misurare la lunghezza delle scintille. Hertz ottenne la curva di risonanza nella quale sulle ordinate pose la lunghezza delle scintille (in millimetri) in funzione della lunghezza della spira (in centimetri). Variando le dimensioni della spira Hertz riuscì a calcolare una variazione di frequenza da circa 50 MHz a 500 MHz. Con il dispositivo progettato per i suoi esperimenti, Hertz cominciò ad analizzare l’induzione delle scintille quando la spira ricevente veniva posta a distanze crescenti e superiori a 12 m dalle scintille primarie. Interpretò questo fenomeno spiegando che doveva essere il risultato della propagazione delle onde elettromagnetiche come preannunciato da Maxwell e che come egli stesso asseriva “sarebbe stato confermato se qualcuno fosse riuscito a dimostrare la finita velocità delle onde nell’aria”. Nell’autunno del 1887 condusse una serie di esperimenti per osservare gli effetti di interferenza tra onde in un filo metallico collegato ad un oscillatore e onde propagate nell’aria. Il fenomeno di interferenza tra questi due tipi di onde si spiegava solo con velocità prossime a quelle della luce. Hertz fu così incoraggiato a semplificare la sua apparecchiatura; eliminò completamente il filo metallico e misurò la lunghezza d’onda nell’aria direttamente riflettendo le onde per ottenere onde stazionarie. Alla fine del 1887, Hertz cominciò le prime misure dirette della lunghezza d’onda (e quindi della velocità finita delle onde elettromagnetiche) in un’aula universitaria lunga circa 15 m. Posizionò la bobina a induzione trasmittente a 2 m da un muro con i conduttori e le sferette dell’interruzione posti verticalmente. Ricoprì il muro opposto con una lastra di zinco per una migliore riflessione. La spira ricevente e l’interruzione avevano 35 cm di raggio e furono montati in una struttura di legno per l’isolamento. Quando nell’aula fu fatto il buio le scintille furono così forti da essere viste da alcuni metri e le onde stazionarie furono evidenziate dalle variazioni delle scintille ottenute muovendo la spira. Facendo interferire le onde incidenti prodotte dall’oscillazione con quelle riflesse da una parete metallica, ottenne un sistema stazionario di onde elettromagnetiche, con nodi e ventri fissi, in modo da poterne misurare le relative lunghezze d’onda. Essendo la parete impenetrabile alle oscillazioni elettriche di brevissimo periodo alla sua superficie vi era un nodo; per avere dunque la misura della semilunghezza d’onda bastava misurare la distanza tra due nodi. Da ciò mediante la relazione v=?? valutò anche la velocità di tali onde.


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In questi esperimenti calcolò i nodi dell’onda stazionaria distanziati circa di 4,8 m con una lunghezza d’onda di 9,6 m ad una determinata frequenza di 35,7 Mhz, ottenendo una velocità di 3,4×108 m/sec confrontata col valore per la velocità della luce 2,99×108 m/sec L’incertezza di questo risultato era dovuto alla presenza di altri oggetti nella stanza e alle sue dimensioni piccole rispetto alla lunghezza d’onda che alteravano l’onda stessa. Fu notato anche un errore nel calcolo della frequenza da parte di Henri Poincaré che valutò una frequenza corretta di 50 MHz così che la lunghezza d’onda avrebbe dovuto essere di circa 6 metri. Questi esperimenti di riflessione furono completati nel marzo del 1888 e pubblicati nel suo saggio intitolato Le onde elettromagnetiche nell’aria e loro riflessione. Negli esperimenti di Hertz il fattore limitante era quello di osservare la sottile scintilla nella spira ricevente. Per cercare di migliorare la visibilità della scintilla, egli arrivò a qualcosa di inaspettato e misterioso: “In modo occasionale racchiusi la scintilla del ricevitore in una scatola scura in modo da osservarla più facilmente, e così osservai che la lunghezza massima della scintilla diveniva più piccola rispetto a prima. Rimuovendo successivamente le varie pareti della scatola, vidi che l’unica parete che causava questo strano effetto era quella che schermava la scintilla del ricevitore dalla scintilla del trasmettitore. Tale parete mostrava questo strano effetto non solo quando era nelle immediate vicinanze della scintilla del ricevitore, ma anche quando essa era posta tra il trasmettitore e il ricevitore a grande distanza dallo stesso ricevitore. Un fenomeno così notevole richiedeva una ulteriore indagine”. Allora Hertz cominciò una analisi approfondita. Egli trovò che: – la scintilla indotta nella spira ricevente era più intensa o rafforzata (come misurata dal micrometro per scintille) quando la luce della scintilla più lunga della bobina ad induzione illuminava la scintilla indotta, e lo stesso effetto si osservava usando la luce proveniente dalla combustione del magnesio; – le scintille delle due bobine si rafforzavano quando la luce di ciascuna scintilla illuminava l’altra; – questo effetto poteva essere bloccato o ridotto interponendo tra le due scintille materiali tipo vetro o legno, mentra era indisturbato se si interponeva quarzo o gesso. Per cui Hertz usò un prisma di quarzo per scomporre nelle sue componenti la luce proveniente dalla combustione del magnesio e, accurato come sempre, fece una analisi dello spettro. Scoprì che la lunghezza d’onda che produceva la scintilla più intensa nella spira ricevente era nella regione dell’ultravioletto dello spettro del magnesio, e formulò le sue conclusioni: “La luce ultravioletta. facilita l’aumento della lunghezza della scintilla in un apparato ad induzione.… Mi sono limitato, attualmente, a comunicare i risultati ottenuti, senza tentare alcuna teoria rispetto alle cause che hanno determinato i fenomeni osservati”. Le osservazioni di Hertz riguardo i fenomeni descritti apparvero nel suo articolo Gli effetti della luce ultravioletta in una scarica elettrica pubblicato nel giugno del 1887. L’elettromagnetismo è ormai diventato lo studio dei campi elettromagnetici che si propagano sotto forma di onde. Le conseguenze di ciò hanno cambiato completamente l’evoluzione non soltanto della fisica, ma anche della vita di tutti i giorni. Nel ‘95, cioè dopo appena sette anni dalla dimostrazione dell’esistenza delle onde elettromagnetiche, Marconi faceva le sue esperienze di telegrafia senza fili. Dieci anni dopo Einstein, nel 1905, risolveva il problema dei risultati negativi dell’e-


2. Storia dell’elettromagnetismo

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sperienza di Michelson e Morley, sovvertendo completamente il punto di vista, e rinunciando alla dinamica newtoniana per una dinamica in cui, in qualunque sistema di riferimento, le equazioni di Maxwell, e non le equazioni Newton, conservavano immutata la loro forma. A questo punto il cerchio si chiude, e le stesse equazioni di Maxwell, nate da un modello meccanico, distruggono ogni modello meccanico dell’etere. Le conseguenze di tali equazioni costringeranno, da Einstein in poi, ad abbandonare ogni concezione meccanica del campo elettromagnetico. La storia del cammino verso le equazioni di Maxwell fornisce un meraviglioso esempio del modo in cui la Scienza si sviluppa e del complesso rapporto fra teoria ed esperienza. Per quanto l’esperienza spesso indirizzi lo sviluppo delle teorie e, a volte, costringa a modificarle o a svilupparne di nuove, il caso delle equazioni di Maxwell (come quello della rivoluzione copernicana) mostra come innovazioni teoriche cruciali possano essere il prodotto di un diverso modo di guardare agli stessi fenomeni, alternativo rispetto al paradigma dominante e frutto, in ultima analisi, di istanze “metafisiche”. L’immagine naive di una scienza che procede per accumulo di esperienze e generalizzazioni teoriche è profondamente sbagliata. Nessuna teoria può essere logicamente dedotta da un numero finito di esperienze perché ogni teoria, per definizione, comprende infinite possibilità e, quindi, trascende l’esperienza. Per la stessa ragione nessuna teoria può mai essere confermata, perché nessuno può mai logicamente escludere che il giorno dopo una nuova esperienza la metta in crisi. Lungi dall’essere un difetto, è proprio questa falsificabilità che distingue la scienza dalla metafisica e chiarisce il ruolo dell’esperienza, insieme levatrice ed assassina delle teorie. Noi costruiamo teorie e le manteniamo fino a quando l’esperienza non ci costringe ad abbandonarle. Da questo punto di vista la teoria del campo elettromagnetico è certamente una delle più ampie e robuste che siano mai state sviluppate. Da essa, in pochi anni, è nato un universo completamente diverso, nonché la previsione di un numero di fenomeni enormemente maggiore rispetto a quelli che erano stati alla base degli sforzi di Maxwell per elaborare la teoria stessa. Questo è quello che distingue le teorie importanti da quelle secondarie o transitorie. Le teorie che si limitano a sistemare ciò che si sa già hanno vita breve. Sono le teorie che vanno oltre i fenomeni noti e ne fanno prevedere di completamente nuovi quelle che sono destinate ad avere rilevanza nella storia della scienza e della nostra immagine del mondo.

Bibliografia • E. Segre: Personaggi e scoperte della fisica classica, Biblioteca E.S.T., Mondadori,1983. • E. Whittaker:A History of the Theories of Aether and Electricity, Dover,New York,1989. • J.L. Heilbron: Alle origini della fisica moderna: il caso dell’Elettricità, Il Mulino,1984. • M. Pera: La rana ambigua: la controversia sulla elettricità animale tra Galvani e Volta, Einaudi, 1986. • C. De Marzo: Maxwell e la fisica classica, Laterza, 1978. • E. Agazzi: Introduzione al Trattato di Elettricità e Magnetismo , i classici della Scienza,UTET,1973 • O.M. Bucci. Dall’Elettromagnetismo alle Onde Elettromagnetiche: la genesi delle equazioni di Maxwell Estratto dagli atti del ciclo di conferenze sulla storia della scienza tenutosi presso l’Università di Napoli “Federico” II



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