Un Volontariato che nasce dal cuore - Storia n. 31 Tratta da "Storytelling di Volontariato"

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Per ripartire Insieme Storia nr.31



incontri UN VOLONTARIATO CHE NASCE DAL CUORE Sono nato Volontario Sono nato 76 anni fa ad Acqui Terme (Al) e già dai tempi dell’asilo aiutavo spontaneamente i bambini più piccoli che piangevano chiamando la mamma. Questo mi portò ad essere molto apprezzato dalle Suore che mi incaricarono di badare ai miei piccoli compagni: Iniziai quindi ad essere VOLONTARIO a tre anni! La mia vocazione all’aiuto e agli altri continuò anche alle scuole elementari; in seconda il maestro mi chiamò in disparte e mi disse “Visto che sei proprio bravo ho pensato di metterti nel banco con Vittorio che è un ripetente, aiutalo e lascialo copiare perché ne ha molto bisogno”. Lo feci volentieri: Vittorio era magrolino, pallido, non si sapeva se a casa sua riuscisse a mangiare, perché era l’ultimo figlio di una famiglia poverissima e numerosa, probabilmente le prendeva da tutti, infatti a volte veniva a scuola con dei lividi. Passiamo agli anni delle scuole superiori, Istituto per ragionieri, ove ero considerato sempre “bravo, giudizioso e disponibile”. In quegli anni delle superiori nacque il mio vero volontariato. Non molto distante da casa mia vi era la Sede della CROCE ROSSA ed a 16 anni mi presentai chiedendo se e come avrei potuto essere utile durante le vacanze estive. Un responsabile mi disse “sei abbastanza grande e forte per fare il barelliere nei trasporti ordinari”; così cominciai a prestare servizio su ambulanze che erano vecchi modelli Fiat 1100 privi di quasi tutto. L’addestramento fu veloce: un medico ci illustrò le minime conoscenze necessarie, ma fu sufficiente per permettermi, operando sulle ambulanze, di crescere e maturare vedendo da vicino le sofferenze e a volte purtroppo anche la morte. Avevo già chiesto informazioni e, compiuti da poco i diciotto anni, un medico della Croce Rossa mi disse di andare in Ospedale perché mi avrebbe fatto un prelievo per vedere se ero idoneo alla donazione di sangue! Risultai gruppo “zero negativo” quindi ero un donatore universale, cioè il mio sangue poteva essere trasfuso a tutti! Infatti in un caldo pomeriggio, estate 1963, passeggiavo nel centro di Acqui quando arrivò, velocemente, in bicicletta un amico donatore che, conoscendo il mio gruppo sanguigno, mi stava cercando. Mi disse di correre velocemente al reparto maternità dell’Ospedale, 143


incontri dove in una cameretta vidi una giovane signora con gli occhi chiusi e pallidissima; aveva avuto una grave emorragia post parto. Mi fecero sedere a fianco al suo letto ed il medico mi prelevò una boccetta di sangue, che subito venne trasfusa alla signora; il tutto venne ripetuto! Finite le due trasfusioni mi sedetti su una sedia in corridoio; dopo circa 45/50 minuti, siccome la signora si era ripresa, mi fecero entrare nella stanza perché voleva ringraziare il donatore. Bisogna ricordare che, in quei tempi, due donazioni contemporanee erano un fatto eccezionale. Nel 1963 presi servizio all’allora Istituto Bancario San Paolo di Torino e anche qui mi adoperai per donare il sangue, ma non solo, con altri colleghi donatori creammo il Gruppo Aziendale Donatori di Sangue della Banca (Ora INTESA SANPAOLO), perché ci accorgemmo che era meglio costituire scorte e donare prima di un’eventuale emergenza, per non dover correre con affanno alle richieste della Banca del Sangue. Ho smesso di donare sangue nel 2013 la settimana prima di compiere 70 anni, con 177 donazioni registrate e se aggiungo anche quelle non registrate supererei le 200 per circa 90 Kg in totale. Mi sono stati assegnati numerosi riconoscimenti tra cui l’Onorificenza di Cavaliere dell’Ordine Al Merito della Repubblica Italiana nel dicembre 2012. I minuti di attesa sono lunghi ma gli anni volano. Fu così che a fine millennio scorso mi trovai pensionato. Sempre sulla nomea di essere un “bravo e disponibile amico” mi ritrovai in poco tempo ad essere coinvolto in 7 o 8 Associazioni e gruppi diversi. Avevo l’agenda sempre piena ma non mi piaceva proprio, solo materialità ma niente per le persone. Appena possibile ridussi il tutto a due: Donatori di Sangue e servizio in Duomo per la Santa Sindone. Poi, anche per respirare ancora un po’ di aria San Paolo, mi avvicinai all’Ufficio Pio; il servizio in Duomo nel 2016 finì. Ora ho solo i Donatori ed il Pio. Sono due tipi di volontariato completamente diversi dal lato operativo, ma accomunati da un’unica importantissima “forma mentis”: mettere da parte noi stessi e farci carico dei problemi altrui. Ho avuto modo di constatare quanti problemi sommersi ci siano nella nostra società; ho assistito singoli, famiglie con o senza figli, giovani, meno giovani, anziani. Ogni caso è una storia propria, ma l’unica cosa che accomuna l’approccio è avere la pazienza di 144


incontri ascoltare. Quando l’assistito racconta la sua vita, sembra che si liberi un poco e chieda la condivisione del suo stato. Dai tanti colloqui avuti ho compreso meglio il significato della parola “condividere”: il bene passa a più persone ed il male diminuisce per ognuno. Ricordo i tanti grazie sentiti ed i sorrisi nei miei confronti, quasi imbarazzato mi sforzavo di far capire di aver fatto solo il passacarte. Vivo è il ricordo della gratitudine di una signora che mi ringraziò per aver rispettato la sua dignità, consegnandole i soldi per pagare le spese condominiali, in modo che l’Amministratore non sapesse del suo momento di difficoltà. Questo episodio mi ricorda una frase del Tesauro scritta nel suo lavoro sui Primi 100 anni della Venerabile Compagnia di San Paolo in Torino (1663): egli descrive i “poveri vergognosi” con queste parole “pallidi per fame arrossiscono a dichiararsi tali” Ultimamente partecipo al Gruppo delle pratiche CARL, cioè degli anziani, soli, invalidi e poveri in carico “stabilmente” all’Ufficio Pio. Circa la metà abita nelle “case popolari” e nelle visite domiciliari passo dalla “piccola bomboniera” al non so che cosa dire di quell’alloggio. Tuttavia le signore hanno la casa sempre più presentabile, a volte anche solo con un fiore finto. La povertà dell’anziano è una brutta cosa, molti sono “scivolati” lentamente, ma tanti hanno combattuto tutta la vita e sono stanchi. Ho sentito casi così tristi, difficili, provati da ogni male e cattiveria che mi hanno fatto capire ancor di più come la mia vita sia stata fortunata, quasi mi viene da chiedermi perché a me Dio ha dato tanto bene e ad altri così tanto male. La risposta è che Dio non preferisce l’uno all’altro, ha donato ad ognuno l’intelletto per distinguere il BENE dal MALE ed agire di conseguenza. C’è chi fa del bene e chi del male, infatti esaminando le storie che mi sono state raccontate si evince come il male sia nato perché queste persone involontariamente si sono trovate ad avere a che fare con altre persone, anche in famiglia, veramente cattive, sia per indole, ignoranza, povertà estrema, abbrutimento, condizioni ambientali. Quale Delegato sono stato solo lo strumento operativo, il merito è dell’Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo; è anche possibile che un altro delegato avrebbe potuto fare più e meglio di me, comunque ho cercato di operare secondo le mie possibilità e mia coscienza. Ma, come direbbe qualcuno: “non finisce qui”, infatti sono stato al servizio dei pellegrini in tutte le Ostensioni della S. Sindone, poi 145


incontri in servizio alle Olimpiadi Invernali 2006, cerimonia di apertura e Palaisozaki, e, per terminare, volontario per i 150 anni dell’Unità d’Italia nel 2011. Vorrei concludere con un grazie a mia moglie Luigina perché, dal fidanzamento in poi, senza la sua pazienza, il suo aiuto e la sua collaborazione nulla sarebbe stato possibile. Giuliano Giorgio Briano UFFICIO PIO Compagnia di San Paolo Volontario un dono che ricevi con il dono che offri Il primo luglio di quest’anno avrò 70 anni, data la mia età è evidente che sono figlia degli anni del “cambiamento”, quello VERO. Già da ragazza mi fu chiaro che per cambiare bisogna vivere il cambiamento e non solo manifestare e poi tornare tranquillamente a casa. A 19 anni, dopo il liceo, decisi anche grazie ai miei genitori che mi compresero e non mi ostacolarono, di vivere sola senza aiuti economici mantenendomi lavorando e per alcuni anni mi sono potuta permettere solo una stanza ammobiliata in condivisione con un’altra persona e con il bagno in comune. Ricordo che mio padre mi disse: “Per te avevamo altri progetti, ma so che le tue scelte sono meditate e soprattutto inderogabili”; Lui, partigiano, aveva fatto la guerra sulle montagne piemontesi e la famiglia di mia madre aiutava e nascondeva i partigiani. All’inizio degli anni ‘70 mi si presentò la possibilità di un viaggio di lavoro in Algeria ad Annaba, nessuno voleva andare così mi offrii io. Quel giorno iniziai la mia carriera di trader in prodotti siderurgici, viaggiai molto in Nord Africa e Medio Oriente, lavorai anche con Iran, Venezuela ed altri paesi. Viaggiare per lavoro ti mostra la vera faccia di un paese, anche se vedi solo uffici e stanze d’albergo, la tua relazione con le persone, superata la prima diffidenza iniziale, diventa reale e sincera. Mi è capitato di trovarmi allo scoppio di una guerra civile, o camminare tra le macerie di una città devastata, nella quale non ho avuto il coraggio di scattare neppure una foto. I ricordi a volte riaffiorano vividi, come quando, in una mostra alla Reggia di Venaria, vidi le immagini della devastazione di Beirut 146


incontri del fotografo Basilico, piansi, seduta su una panca ignorando i visitatori che passavano e mi guardavano stupiti. Anche se sei solo una spettatrice e non puoi condividere, puoi però comprendere ed imparare a non giudicare, ma ad accogliere. Quando mio padre morì decisi che sarei stata di più accanto alla mamma, che la mia vita sarebbe cominciata a cambiare, che avrei viaggiato meno; avrei così potuto dedicarmi ad un progetto sociale. Un amico, operatore dell’Ufficio Pio, mi parlò di un nuovo progetto che stava appena nascendo: “IL TRAPEZIO”; un progetto che si occupa di persone e nuclei famigliari la cui vita, prima in equilibrio, è messa in difficoltà, con rischio della povertà, da un evento destabilizzante: la separazione, la morte, la malattia, la perdita del lavoro. Sentii che in quel progetto avrei potuto essere utile, feci un colloquio con la coordinatrice che accettò la mia domanda. Ci sono persone che criticano il volontariato accusando, chi lo fa, di farlo solo per se stesso; il volontario lo fai e basta, è un dono che ricevi con il dono che offri, è uno scambio bellissimo. Sono felice quando riesco ad aiutare una persona o una famiglia ad uscire dal momento di difficoltà e sono felice quando, anche dopo anni, le persone che ho accompagnato mi chiamano per raccontarmi qualcosa o per farmi gli auguri di Natale. Ho molto creduto e credo in questo tipo di progetti, ho collaborato anche ad un altro progetto della stessa area; credo nel volontariato come offerta di una mano ferma che trasmetta la compassione per chi affronta momenti tragici, di difficoltà, ma soprattutto possa mettersi accanto per offrire un appoggio sicuro sul quale poter contare. Il mio cuore può piangere, ma tu che stai soffrendo non hai bisogno delle mie lacrime perché hai già le tue ed il tuo dolore conta più del mio. Cito alcuni brani tratti da un discorso di Barbara Spinelli sulla mitezza, virtù secondo me fondamentale per noi volontari. “Virtù sociale perché non nasce da un accordo ma si offre gratuitamente, unilateralmente. Mite diverso dall’ umile perché umile è testimone di questo mondo mentre il mite è anticipatore di un mondo migliore. Il mite attraversa il fuoco senza bruciarsi poiché sta in mezzo alla fiamma non come carne che brucia ma come pane che cuoce. La mitezza è la potenza dell’impotente, non è statica ma un vento in movimento, non è il sole nero della malinconia e ancor meno il 147


incontri risentimento ma piuttosto serietà con allegria, conosce umanità e crea silenzio dentro per schiudere la porta.” Maria Teresa Chiomio UFFICIO PIO Compagnia di San Paolo Vulnerabili sempre Mi chiamo Angelo Gigliotti vivo da sempre a Piossasco ed è qui che è iniziata la mia storia da volontario: nell’AGESCI, come delegato dell’Ufficio Pio, passando poi per l’associazione con cui ho adottato i miei due figli, sempre accompagnato da innumerevoli compagni di viaggio che con me hanno condiviso l’impegno verso il prossimo. Negli anni ho maturato la convinzione che tra me e chi mi sta di fronte non c’è poi quella grande differenza che in certi momenti vorrei che ci fosse. Forse in questo momento chi mi sta di fronte è più vulnerabile ed è quindi giusto che io gli dia una mano, ma alla fin fine siamo tutti vulnerabili, e il volto di chi mi si presenta davanti potrebbe essere il mio stesso volto. Per spiegare questa sensazione di vulnerabilità che ogni essere umano incarna, ho pensato di scrivere un breve racconto nel quale, attraverso situazioni, persone, accadimenti anche personali emerge questo essere in fondo vulnerabili, preda del mondo e delle cose che ci accadono intorno, senza riuscire, a volte, a porre rimedio alle situazioni di disagio. Essere volontari non vuol dire essere dei super eroi, ma uomini che hanno dentro di sè la coscienza di poter dare un piccolo contributo al bene di tutti, partendo anche dalla loro stessa vulnerabilità e dai loro stessi problemi. Il gioco è semplice: in auto per le vie di Torino, nell’autoradio un pezzo di musica che in quel momento ti piace, quindi cercare tra le persone che intravedi, magari per pochi secondi, quella che più si adatta alla tua musica. Ecco che le fermate dei pullman diventano una scena da guardare, che le persone sedute che aspettano un tram, dei volti che possono andar bene per quella canzone così come non entrarci per nulla. Anche quel pomeriggio, saranno state le sei e mezza, finita la riunione in Piazza Bernini, decisi di giocarci, tanto dovevo attraversare tutta Torino e il traffico non mancava; in macchina, cintura, retro e sono nel controviale, dall’autoradio le note di Everybody Hurts dei REM. 148


incontri Vediamo, senza fretta, se necessario la facciamo andare 10 volte, ma voglio trovare qualcuno che sia proprio la canzone: semaforo, ragazze che escono dal Berti; troppo giovani, troppo convinte che tutto andrà bene. Forse quella rimasta da sola un po’ più indietro, ma no, non ha nulla a che fare con questa musica. Rotonda, tribunale, un pullman si affianca. Una variante del gioco è guardare per qualche secondo i volti delle persone su autobus e tram, un po’ come nella scena finale del Dottor Zivago, anche se questa volta sei tu ad essere fuori dal tram. La signora bionda di mezza età, forse dei paesi dell’est, probabilmente torna dal lavoro, magari a far da badante a qualche anziano, forse con qualcuno a casa che l’aspetta o forse sola. Qualche secondo e passerà, non la rivedrò più, ma bastano pochi secondi per comprenderla? Bastano pochi secondi perché il suo volto si imponga alla mia vita, alla mia musica? Non è lei, non va bene, forse un pezzo diverso, forse un momento diverso, forse emozioni diverse. Corso Orbassano, oramai il pezzo è alla terza passata, ma ancora nulla, ancora non ho visto nessuno che sia parte di questa musica. Che cosa mi deve dire questo volto? Che cosa renderebbe questa persona quella giusta? Viva, gettata nel mondo come se non lo avesse scelto, un po’ stanca o forse molto stanca di quello dentro cui vive, con la paura di pensare che le cose potrebbero andar male, o per meglio dire potrebbero andare così male da pensare che il male di oggi non sia poi così terribile. Vulnerabile come quella bicicletta che sta attraversando davanti al tram. Fermata del 5, semaforo rosso. 60 secondi utili perché sono proprio di fronte alla fermata, eccolo: la persona che cercavo, il volto che deve aver visto chi ha scritto questa canzone: avrà sui 45 anni, abbastanza magro anche se gonfio di vestiti. Una giacca a vento grigia, di quelle non certo all’ultima moda, di quelle che compri a 20 €uro in un discount, pantaloni scuri e scarpe da tennis, in mano una busta del supermercato con dentro qualcosa. Non è vestito male, ma neanche bene, sono vestiti impersonali, vestiti di chi la vita la sta vedendo andar via e che non ricorda neanche cosa sognava da ragazzo, ma senza rabbia, solo con una preoccupazione sul volto che ogni istante che passa si avvicina sempre più alla rassegnazione. 149


incontri E poi il volto: non so cosa sia, se i capelli scuri, gli occhi lenti, la barba appena accennata di chi non si è sbarbato questa mattina, oppure le occhiaie accentuate, ma è un volto che ci sta, è quello giusto. Che cosa avrà visto e cosa starà vivendo? Magari torna anche lui dal lavoro, abiterà in un qualche palazzo della periferia: tre camere e servizi, mutuo da pagare, magari una moglie, due figli da mandare a scuola, da portare a calcio anche questa sera. Due ragazzi a cui non è possibile spiegare che dal prossimo mese la fabbrica per cui lavora il papà chiuderà e in casa per qualche mese arriverà solo l’assegno della disoccupazione, ma che se non si trova qualcosa come fare con il mutuo, la scuola, il calcio, la pizza la domenica sera? E il mondo ti passa a fianco. Avevi smesso di sognare per te, ma almeno sognavi per i tuoi figli; ora è difficile sognare anche per loro, troppa la preoccupazione, troppo il grigio, troppo il freddo. Colpo di clacson, i 60 secondi sono passati. Accelero, ho trovato il volto che cercavo, o forse non sono io che l’ho trovato, è lui che mi si è messo davanti, che si è imposto con la sua presenza. Autostrada, oramai è buio, per le sette mezza sarò a casa, ma devo ricordarmi prima di cena di pulire la tettoia della baracca degli attrezzi, le foglie stanno marcendo e in cinque minuti tutto sarà a posto. Arrivo, posteggio, entro in casa, mi tolgo giacca, camicia e cravatta, mi metto una maglia e vado in giardino, prendo la scala, salgo sul tetto del capanno, inizio a ramazzare le foglie. Mi torna in mente l’uomo della fermata. Cosa farà ora? Cena, oppure già al campetto per l’allenamento dei figli? Ne avrà parlato con la moglie, oppure si sarà tenuto tutto per sè nella speranza che magari la cosa si sistemi, che l’azienda trovi lavoro? Se trova lavoro lui è a posto perché ha sempre dato il meglio di sé, non si è mai tirato indietro. Mi viene in mente la signora del tram, la ragazza rimasta indietro e tutti quei volti che ho incrociato sapendo che sarebbero scomparsi. Sono sul tetto, continuo a pulire, spazzo le foglie: e quella crepa tra le tegole del capanno che pensavo semplicemente di aggirare, ecco che di colpo si è aperta facendomi cadere. Il sangue in faccia, un occhio da cui non ci vedo, il braccio che pende come quello di una bambola rotta. Angelo Gigliotti UFFICIO PIO Compagnia di San Paolo 150


incontri Volontario perché bisognoso degli altri Raccontare della propria vita non è mai semplice e raccontarla perché possa essere di qualche utilità agli altri è un’impresa un po’ ambiziosa e assai rischiosa, ma al tempo stesso stimolante. Io sono un po’ presuntuoso ed inizio col dirvi che la mia vita sembra essere stata indirizzata al volontariato sin dai miei primi anni: persi il padre a giugno (non avevo ancora sei mesi) e mia madre dovette lasciare la Liguria e tornare da suo padre nel Veneto; nel frattempo era scoppiata la guerra, e nella casa di mio nonno trovarono “rifugio” per cinque anni sette adulti e nove bambini. Una babele da cui si esentavano ogni giorno il nonno che in bicicletta, percorrendo ventun chilometri, andava a lavorare allo zuccherificio, e mia mamma che con le due zie andavano a servizio presso delle famiglie agiate. La fine della guerra fu una “fortuna” per mio nonno che vide partire quattro figlie in cerca di lavoro, che dopo un anno tornarono e si ripresero i rispettivi figli, con il nonno rimasero un figlio maschio ed una femmina …e io, il nonno infatti, tra le lacrime, aveva reclamato: ”Ma come, mi portate via tutti i bambini? Lasciatemi almeno Dario”. E Dario ero proprio io. Avevo sei anni e frequentavo la prima elementare, sostituii i miei cugini ai compagni di classe ed iniziarono le prime amicizie; la mia vita fu piena di esperienze nuove, tra scuola e giochi con gli amici, e anche in compagnia del mio nonno. Pian piano imparai a capirlo e a ricambiare l’amore che aveva per me; lo aspettavo tutte le sere al ritorno molto tardi dallo zuccherificio, lo abbracciavo e c’incamminavamo verso casa senza proferir parola. Si, perché il nonno non parlava quasi mai, si esprimeva con i gesti, con il contatto fisico e con gli occhi, aveva “mangiato” tanto dolore da non riuscire a spiegarlo, per cui preferiva tenere la bocca chiusa. Venne anche il mio turno di ricongiungermi alla famiglia, ma avrei preferito non andar via: piansi tanto abbracciato al mio vecchio nonno, che ogni sera, mi porgeva un sacchettino di melassa facendomi segno di metterlo in tasca perché era per me, solo per me. Non lo rividi più, perché dopo sei mesi morì, e la mamma pensò di non dirmelo, perché non avrebbe saputo spiegarmi né la morte e né dove fosse finito il mio carissimo nonno. A Torino, al posto della vita in famiglia dove la mamma lavorava e nessuno poteva assisterci a casa, a me e alle mie sorelle ci aspettavano 151


incontri anni di collegio: tre di elementari al collegio Cottolengo e altri tre dai salesiani al Colle Don Bosco. In collegio fu tutto molto difficile e complicato, ne uscii a tredici anni e mi rimase per mesi un senso di confusione, mi sentivo un pesce fuor d’acqua che non sa più identificarsi nell’ambiente che è cambiato. Iniziai, per mia fortuna, subito a lavorare, questo mi cambiò la vita, mi diede punti di riferimento certi e rassicuranti: l’impegno, l’orario di lavoro, i colleghi, il proprietario e le sue esigenze e…il salario a fine mese. La mia vita, l’avrete intuito, mi aveva fatto incontrare tante persone alle quali avevo dovuto adattarmi e relazionarmi, contemperando le mie esigenze alle loro. Un cammino che, fatto alla mia età, era stato molto complicato per la mancanza di riferimenti, soprattutto affettivi. Per qualche anno dimenticai tutte le usanze del collegio: la messa quotidiana, la preghiera ed il colloquio con il Direttore, non avevo risentimenti avevo solo bisogno di fare punto e a capo. Fatto il punto, capii che avevo bisogno degli altri, avevo bisogno di tornare a confrontarmi e a condividere esperienze di vita. In famiglia, con tre femmine, non avevo risposte, sul lavoro ognuno badava a sè stesso escludendo intromissioni pericolose. Giocavo a calcio in una squadra e poi diventai arbitro, impegnato il sabato e la domenica, in campi di calcio a cui arrivavo con combinazioni di treno e pullman che mi portavano via tanto tempo. Ero solo e mi mancavano gli altri: decisi di porvi rimedio. Andai dal Direttore dell’Oratorio Agnelli vicino a casa, e gli chiesi se aveva bisogno di me per far giocare i bambini. Saputo che ero arbitro di calcio, mi affiancò ad un sacerdote e da lì ripartì la mia vita da volontario che mi permetteva di vivere a contatto con la gente e con i suoi problemi. Mi sposai, ebbi due figli, cambiai casa, ma la parrocchia fu sempre un punto di riferimento, anche perché, nel frattempo, seppi dare una risposta a tutte le Messe, le preghiere e ai consigli del Direttore che mi avevano angustiato in collegio: ora Parrocchia, Caritas, poveri, Assistenti sociali, diventavano parti integranti della mia vita, insieme al lavoro e la vita familiare. Da un’adozione temporanea di un bambino di otto anni a cui io e mia moglie avevamo dato l’assenso, iniziò un percorso e un’amicizia con un Assistente sociale. L’adozione ebbe termine, ma grazie all’amicizia che si era creata, 152


incontri l’Assistente mi chiese se potevo seguire una famiglia marocchina che aveva preso casa da poco a Moncalieri per accompagnarla nella conoscenza del territorio. Erano gli anni delle prime immigrazioni ed ai nostri poveri si erano aggiunti altri poveri con in più il disagio ambientale e relazionale. Dissi di si, non sapendo bene a ciò a cui andavo incontro, solo perché mi sembrava giusto, mi ero cacciato in un’esperienza “diversa” dove il diverso ero io, ma non me ne resi subito conto. Padre, madre e tre figli erano persone molto premurose nei miei confronti, ma tutto ciò che dicevano e facevano aveva un linguaggio diverso dal mio; mi ci volle tanta pazienza e costanza per cercare di capire e farmi capire; onestamente, non lo so fino a che punto ci sono e ci siamo riusciti, ma alla fine ci davamo disinvoltamente del “tu”. Quando la fabbrica di carpenteria metallica dove lavorava il capo famiglia si spostò in Marocco, proprio a Casablanca da dove provenivano, fummo tutti felicissimi, anche io perchè ripresi possesso di me stesso: quest’esperienza mi aveva un po’ messo a disagio perché i problemi degli altri non sono mai i tuoi e, a volte, non basta la buona volontà per sentirti a tuo agio e mettere gli altri al proprio. Vado in pensione ci sono tante cose da sistemare, gli altri, per adesso sono i parenti, gli amici e tutti coloro che “rompendo”, vengono sempre più numerosi a suonarti al campanello per avere un obolo. Tutto qui? Si tutto qui, finché, mi succede il fatto... Vado al supermercato, sono di corsa, controllo la lista e decido che può bastare, passando davanti alla rastrelliera dei carrelli, noto appollaiato su di essi un giovane extracomunitario e penso: ”Mi spiace caro, ma ho il gettone”. Lo penso e glielo dico, ma lui mi dice: ”Capo, Virginia mia bimba ha freddo”. Questo non me l’aspettavo proprio e rimango a guardarlo imbambolato, infilo la mano in tasca, monete non ce ne sono, tiro fuori una banconota e gliela porgo: mi fissa, sorride, dice: ”Grazie, capo” e mi si defila dallo sguardo. Penso che si sia fatto la giornata e m’infilo in auto, avvio il motore e lui ricompare e mi chiede un passaggio fino all’autobus, lo faccio salire. Si chiama Vasili, è romeno ha 26 anni, è sposato con Tania ed hanno Virginia di otto mesi, nata in Ungheria mentre tentavano di raggiungere l’Italia; strapazza allegramente l’italiano ed è in cerca di lavoro. Senza un lavoro, vivono in una stanza senza riscaldamento perché la bombola è finita: ”Ho bisogno di bombola, no me, no Tania 153


incontri noi forti, ma piccola Virginia”. Noto subito un’analogia con un certo episodio di 2000 anni fa, anche lì non trovavano una stanza dove far nascere un bambino? Son parole che per me credente e buon cristiano, ti arrivano dritte allo stomaco. Quasi per proteggermi dico che in Romania adesso c’è lavoro perché tante ditte, anche italiane, hanno fatto fabbriche laggiù e che forse in Romania…Ma lì pagano poco e poi non hanno i soldi per tornare, li hanno spesi tutti per venire Italia”. Strada facendo gli dico che gli darò i soldi per scaldare Virginia, Vasili, guardando i negozi ricolmi di ogni bene, mi dice che Virginia ha poco da mangiare perché lui non riesce a trovare un lavoro; poi mi guarda sorridente, gli è venuta un’idea lo si vede dagli occhi luminosi: ”Capo, tu fare battezzo per Virginia”. Un momento di sconcerto mi assale, il groppo sale in gola e faccio fatica a mettere in ordine le cose: cosa c’entra il battesimo di Virginia col supermercato, i carrelli, la bombola, l’autobus e, soprattutto con me? Non puoi evitare di guardarlo negli occhi e celiare la commozione dicendogli che non sei capo, e per il battesimo, neanche prete. Vasile insiste: “OK tu no pope, tu padrino…tu e moglie”, capisco che è ortodosso e gli dico che sono cattolico, ma siamo figli dello stesso Dio. Imperterrito Insiste “OK tu e moglie buoni fare padrini, Virginia contenta”. Gli scrivo su un fogliettotto il mio numero di telefono e lo saluto assicurandolo che l’avrei aiutato nel cercare di inserirsi nel quartiere dove abitava. Nel frattempo avevo conosciuto Angelo, un Delegato dell’Ufficio Pio della Compagnia di S. Paolo, al quale raccontai la vicenda, lui mi disse che potevo diventare Delegato anch’io, così la prossima volta il problema me lo risolvevo da solo. Accettai e mi accompagnò dal Direttore dell’Ufficio Pio il quale, sentendo le mie esperienze di volontariato, mi promosse sul campo. Contattai il Delegato che operava nella zona di Vasili, combinai un incontro con lui, ci scambiammo le ultime novità di vita e lo presentai al Delegato che si annotò la sua situazione e promise di farsene carico. Di Virginia non parlammo e per mia fortuna non uscì più la richiesta di farle da padrino, altrimenti mi avrebbe messo in crisi. Tornando a casa mi vennero in mente i miei due figli e tre nipotini, più fortunati di Vasili, di Tania e di Virginia. Ecco la storia di Natale: viviamo il nostro tempo con tutte le sue e nostre contraddizioni, ma Lui, Virginia, Ivan, Gianluca, Chiara, Andrea, continuano a venire 154


incontri al mondo, al freddo o al caldo, affamati o sazi, piangenti o radiosi, ma tutti ci domandano e ci interpellano:” Dove sono gli uomini di buona volontà? Chi è pronto ad emozionarsi e ad agire per far sì, che qualunque parte del mondo, dove siamo chiamati a venir all’esistenza, sia godibile ed accogliente? Marcenta Dario UFFICIO PIO Compagnia di San Paolo Sostiene le persone e le famiglie in difficoltà

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