Pensiero e immagini

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Quaderni del volontariato

Pensiero e immagini Antologia di racconti e poesie Concorso il Corimbo Ed. 2009

Autori Vari

Il Cesvol svolge le sue attività con risorse del Fondo Speciale per il Volontariato amministrato dal Comitato di Gestione dell’Umbria e alimentato dalle seguenti Fondazioni bancarie: Fondazione Cassa Risparmio Perugia, Fondazione Monte Paschi Siena Fondazione Cassa Risparmio Terni e Narni, Fondazione Cassa Risparmio Spoleto Fondazione Cassa Risparmio Foligno, Fondazione Cassa Risparmio Orvieto Fondazione Cassa Risparmio Città di Castello, Fondazione Cariplo, Compagnia di San Paolo

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Pensiero e immagini Antologia di racconti e poesie

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Quaderni del volontariato

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Quaderni del volontariato

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Autori Finalisti

Pensiero e Immagini Antologia di racconti e poesie Concorso “Il Corimbo� Edizione 2009


Cesvol Centro Servizi Volontariato della Provincia di Perugia Via Sandro Penna 104/106 Sant’Andrea delle Fratte 06132 Perugia tel.075/5271976 fax.075/5287998 www.pgcesvol.net pubblicazioni@pgcesvol.net cesvol@mclink.it

Pubblicazione a cura di

Con il patrocinio della Regione Umbria

Progetto grafico e videoimpaginazione Chiara Gagliano

Š 2009 CESVOL ISBN 88-96649-05-3


I QUADERNI DEL VOLONTARIATO, UN VIAGGIO ATTRAVERSO UN LIBRO NEL MONDO DEL SOCIALE

Il CESVOL, centro servizi volontariato per la Provincia di Perugia, nell’ambito delle proprie attività istituzionali, ha definito un piano specifico nell’area della pubblicistica del volontariato. L’obiettivo è quello di fornire proposte ed idee coerenti rispetto ai temi di interesse e di competenza del settore, di valorizzare il patrimonio di esperienze e di contenuti già esistenti nell’ambito del volontariato organizzato ed inoltre di favorire e promuovere la circolazione e diffusione di argomenti e questioni che possono ritenersi coerenti rispetto a quelli presenti al centro della riflessione regionale o nazionale sulle tematiche sociali. La collana I quaderni del volontariato presenta una serie di produzioni pubblicistiche selezionate attraverso un invito periodico rivolto alle associazioni, al fine di realizzare con il tempo una vera e propria collana editoriale dedicata alle tematiche sociali, ma anche ai contenuti ed alle azioni portate avanti dall’associazionismo provinciale. I Quaderni del volontariato, inoltre, rappresentano un utile supporto per chiunque volesse approfondire i temi inerenti il sociale per motivi di studio ed approfondimento.

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Indice

Introduzione Luigi Lanna Presidente Cesvol Perugia

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Testimonianza Claudio Ricci Sindaco di Assisi

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Testimonianza Bruno Brunori Direttore Umbria Settegiorni

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Introduzione Angelo Veneziani Presidente Associazione Culturale “Il Corimbo”

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FINALISTI NARRATIVA

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Claudio Ferrata Romanzo Giallo

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Pierino Pini Cipolle

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Franco Fiorucci Dimmi che mi ami

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Lelio Vallati Il colore dell’amore

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Vincenzo Gunnella Sorelle

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Chiara Checcaglini La ragnatela celeste

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Cirano Andreini La leggenda del Gobbo di Pistoia

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Indice

Vittoria Menghini Tra le righe di una favola

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Luciana Baruzzi Carezze d’aglio

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Marco Cucchi Prodere

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FINALISTI POESIA

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Lelio Vallati Non dirni

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Armando Bettozzi Alzheimer

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Nello Cicuti Dialogo (versione dialettale) Dialogo (versione italiana)

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Cinzia Corneli In casa

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Agnese Verdi Appuntamento

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Ornella Guerrini Il non viaggio

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Tosello Silvestri Nò èmme tredicianni (versione dialettale) Noi avevamo tredici anni (versione italiana)

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Giuseppina Palombi Non c’è più scampo

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Indice

Claudio Francescaglia L’orazzione (versione dialettale) L’orazione (versione italiana)

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Catia Rogari Limpide giornate estive

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Introduzione Luigi Lanna

È volontariato ogni azione che un uomo offre agli altri con spirito di gratuità, senza attendere corrispettivo. Una relazione interpersonale che arricchisce soggetti che comunicano e accrescono il capitale sociale di una comunità. Gli autori “non noti” che hanno partecipato al concorso del Corimbo offrivano la propria sensibilità agli altri per la elementare esigenza di stabilire un rapporto, una relazione intersoggettiva più densa di significati emozionali. Il Cesvol è pronto a favorire con ogni strumento la moltiplicazione di interrelazioni personali che rinsaldano il senso di “civitas” su una base minima di solidarietà anche emozionale come soltanto il linguaggio universale della poesia sa generare.

“Agli autori non noti gli auguri di diventare noti” Luigi Lanna Presidente Cesvol Perugia

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Testimonianza Claudio Ricci

Ho avuto il “privilegio” di partecipare, da Presidente onorario, al premio letterario “Il Corimbo, Pensieri e Immagini”. Un privilegio perché l’invito è arrivato da una associazione che promuove la “cultura vivente”, la vera cultura, con iniziative semplici, “in punta di piedi”, con la gente e per la gente “normale” abituata a misurasi con la bellezza ma, anche, con le complessità quotidiane dello straordinario “cammino della vita”. “Pensieri e Immagini” hanno caratterizzato un premio letterario i cui autori, avvolti nel loro “spirito poetico”, hanno riversato, nell’iniziativa, le emozioni, i sogni e la passione di chi ha “intuito” il vero senso della vita. I Racconti e le Poesie, da Pensieri si sono trasformate in Immagini, soprattutto quando gli autori, il giorno delle premiazioni, con occhi lucidi di “vera commozione”, ci hanno raccontato, ma credo di poter dire “ci hanno fatto vedere”, le immagini della loro Poesia. Si, le immagini, perché la Poesia è la “rappresentazione del nostro animo”, attraverso parole che “contengono” immagini immateriali. Forse nessuno di loro finirà nei libri di storia della Poesia e nemmeno in quelli di letteratura. Forse dei loro scritti si perderanno, negli anni, le tracce. Forse ma è certo che tutti i Poeti e gli Autori hanno “vissuto momenti di speranza” con la loro Poesia che, gratuitamente, ci hanno donato, regalandoci la gioia di vivere e guardare “oltre”.

Claudio Ricci Sindaco di Assisi Presidente Città e Siti Italiani Patrimonio Mondiale UNESCO

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Testimonianza Bruno Brunori

La funzione dei Premi Letterari è quella di premiare – per le opere pubblicate – quelle che le giurie ritengono le più valide e che – in quanto tali – vengono proposte all’attenzione dei potenziali lettori. Ma i premi letterari hanno anche un altro, nobile, importante scopo: quello di scoprire, attraverso scritti di narrativa o di poesia, talenti in nuce, nascosti ma che sono pronti a sbocciare solo se l’attenzione viene posta su di loro. In questo senso un grande valore ha il concorso “Il Corimbo” “Pensiero e immagini” che con il Patrocinio del Comune di Perugia – Assessorato al Turismo si svolge annualmente , sviluppandosi nelle sezioni di Narrativa – Poesia – Pittura – Scultura. Al sottoscritto, quest’anno, è toccato l’onore di presiedere la giuria del Premio Letterario “Bruno Dozzini”, che ha impegnato anche una Giuria Popolare, Presidente Onorario Claudio Ricci – Presidente Nazionale Siti dell’Unesco e Sindaco del Comune di Assisi; Giovanni Zavarella, critico letterario e artistico; Guido Buffoni, Direttore di telePerugia; Angelo Veneziani, Presidente dell’Associazione Culturale “Il Corimbo”. Il lavoro dei giurati non è stato facile, perché le opere in concorso erano tutte valide e meritevoli di un riconoscimento, ma spesso sono i dettagli, le sfumature, il tocco d’intelligenza e di cultura che fanno di uno scritto un’opera di maggior valore. O almeno un’opera che merita un riconoscimento più alto. E in questa edizione le opere con “qualcosa di più” sono state diverse, ponendosi con forza all’attenzione dei giudici. In alcune di queste opere si individuano autori che meritano attenzione, perché attraverso i loro “racconti” si intravedono ricchezze culturali e patrimoni di solida fantasia che potrebbero “sbocciare” solo che lo studio ed il perfezionamento venissero opportunamente curati. Mi auguro che tra gli autori che sono stati premiati e segnalati in questa edizione del concorso “Il Corimbo” Pensiero e Immagini tra qualche anno si possano applaudire autori di pubblicazioni meritevoli di attenzione e di considerazione. Bruno Brunori Direttore Umbria Settegiorni

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Introduzione Angelo Veneziani

Il 13 settembre 2009 presso la Sala del Dottorato del Museo Capitolare di Perugia si è celebrata la VII edizione del Premio Letterario Il Corimbo “Pensiero e Immagini”. È stata la festa della parola, quella degli scrittori e dei poeti, che sempre interpretano, indagano e amano l’uomo, ma anche la festa dell’uomo, perché narrazione e poesia sono incontro con l’uomo e se riflettiamo un istante, ci rendiamo subito conto che tutte le altre feste sono solo dei clamori che risuonano senza vita, sono degli schiamazzi che suscitano curiosità o applausi, ma la cui eco dura brevemente. Ogni parola scritta nella narrazione o nella poesia è un frammento della nostra mente e della nostra anima e se noi perdessimo queste verità, queste realtà ci ritroveremmo certamente più poveri. La ricchezza vera infatti è quella che scopriamo dentro di noi, quella che il tempo non modifica, non sconvolge e non annulla, quella che gli altri non possono mai toglierci e che ci accompagna in ogni istante della nostra esistenza. Questa pubblicazione antologica vuole essere una testimonianza della presenza di tanti autori, che forse non rappresentano l’Olimpo dei poeti o degli scrittori storici, ma nemmeno posizioni marginali o secondarie. Tutti appartengono all’unica categoria del linguaggio letterario, dei poeti e dei narratori, qualcuno veramente dotato di buoni mezzi espressivi, tutti meritevoli di una dignitosa vetrina, lasciando ai lettori una classificazione, che magari può liberamente andare oltre l’indicazione fornita altrettanto liberamente da una giuria tecnica e da una giuria popolare ai cui si sono già sottoposti. Crediamo che nella società dell’immagine, dell’apparire e non sentire, in cui tutto fugge e nulla resta o poco riusciamo a trattenere è importante proporre una lettura di riflessione. Questa antologia ha il modesto intento di offrire alla lettura racconti e poesie più vari, che rappresentano testimonianze di vita e di amore, urgenze interiori e motivazioni umane. Alcuni a sfondo psicologico, altri a sfondo sociale, alcuni brillanti o intriganti, altri scritti con un linguaggio raffinato ed elegante, piano e godibile, tradizionale o di taglio moderno. Questa antologia rappresenta anche un giusto compiacimento per il buon livello di frequentazione del Concorso Il Corimbo “Pensiero e Immagini”, giunto ormai brillantemente alla sua settima edizione. Un Concorso che quest’anno sperimentalmente è divenuto contenitore di vari linguaggi espressivi, comprendendo un Premio Letterario suddi14


Introduzione Angelo Veneziani

viso in Narrativa e Poesia e un Premio Artistico suddiviso in Pittura e Scultura. Il Premio Letterario è intitolato al grande poeta umbro Bruno Dozzini, primo e insostituibile Presidente della Giuria Tecnica che è recentemente scomparso, mentre il Premio Artistico è da sempre intitolato al nostro grande scultore Artemio Giovagnoni anch’egli da poco scomparso. Questa Edizione ha visto come Presidente Onorario Claudio Ricci, Presidente Nazionale dei Siti dell’Unesco, nonché Sindaco del Comune di Assisi e come Presidente della Giuria il Direttore della rivista Umbria Settegiorni Bruno Brunori. Membri di giuria i Prof. ri Giovanni Zavarella Critico letterario, Guido Buffoni Direttore di TelePerugia, Angelo Veneziani, Presidente dell’Associazione organizzatrice del Premio.

Angelo Veneziani Presidente Associazione Culturale IL CORIMBO “Pensiero e Immagini”

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Finalisti Narrativa

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Romanzo Giallo

ROMANZO GIALLO di Claudio Ferrata Assisi Sul dove non aveva dubbi. L’aveva comprato alla fiera dei Morti, l’unica tra le fiere del circondario a ospitare i banchi dei bouquinistes. L’incertezza riguardava il quando, non era sicuro se l’acquisto risalisse a uno, due o tre anni prima. D’altronde gliene erano capitate di cose in quegli anni, comprensibile qualche confusione nelle date. Ricordava che ad attirarlo erano stati la rilegatura, un ruvido telato nero con lettere impresse sul dorso, la goffratura a nido d’ape e, soprattutto, lo spessore esiguo della costa, un incentivo per chi, come lui, non leggeva mai un libro che superasse le ottanta, al massimo cento pagine. Il titolo di copertina. Vittima designata, in gocciolanti lettere scarlatte – era passato in second’ordine, il sottinteso intreccio giallo della trama aveva tutt’al più spazzato l’ultima remora all’acquisto, legittima visto il latrocinio di prezzo incollato sul retro. Lo avevano sempre appassionato i gialli, sin dagli anni del liceo. Al contrario dei compagni, affascinati da Hemingway, Faulkner, Lawrence, qualche secchione dei primi banchi da Musil, ad accendere i suoi interessi letterari erano gli scritti di Wallace, Queen, Doyle, autori ricorrenti nella collana di polizieschi presenti ogni quindici giorni in edicola. Interessi, manco a dirlo, osteggiati da genitori e insegnanti, preoccupati com’erano dell’influenza negativa che letture, diciamo così, cruente, nelle quali l’esempio delittuoso diveniva non solo ossatura del racconto ma modello ispiratore di pratiche criminali, potessero esercitare su un carattere fragile o, comunque, in formazione. Balle. Se influenza c’era stata, essa stava nell’acquisita certezza che il giallo fosse una partita a scacchi fra scrittore e lettore, dove il vantaggio del primo di conoscere le mosse si misurava con l’abilità del secondo nell’intuirne la sequenza; e che come in qualsiasi gioco, l’aderenza alla realtà si riduceva al sottile filo dell’inventiva, nella fattispecie rappresentato dal dipanarsi degli eventi secondo uno schema predisposto dall’autore. Appoggiò il libro sul tavolino, si versò due dita di gin, aggiunse coca e ghiaccio, assaporò il piacere della pigrizia mentre, bicchiere in mano, osservava lo spandersi sul vetro della condensa. Possibile – si chiese – che per tre anni avesse dovuto

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Romanzo Giallo

mettere in gioco se stesso, i propri affetti, le persone destinatarie dei propri affetti – Laura soprattutto, ma anche Giuliano, capace di attenzioni fraterne nei suoi riguardi – per rivalutare l’importanza di semplici piaceri come lo starsene lì, sul bordo della sua piscina, a riempirsi le orecchie di silenzio, a osservare i frammenti di sole a dondolo sull’acqua, a leggere qualcosa di diverso dal solito resoconto bancario, dai soliti diagrammi di Borsa, dal solito listino dei titoli, a pregustare qualcosa di diverso dal solito appuntamento d’affari? Allungò la mano verso il libro resistendo alla tentazione di guardare l’orologio. Ma in attendere è gioia più compita, scriveva un poeta di cui gli sfuggiva il nome. E senza arrovellarsi la mente alla ricerca del nome, si coccolò l’attimo in cui una frenata d’auto giù, all’ingresso della villa, seguita dallo sbattere della portiera, dallo scricchiolio dei passi sulla ghiaia, dal delicato spargersi di un profumo alle rose, avrebbe trasformato l’eccitazione del momento nel preludio di un’appagante intimità. Con Laura, ne era certo, stava tornando tutto come prima. Sarebbe occorso un po’ di tempo per sanare le cicatrici, ristabilire un clima di fiducia, dimenticare quei tre anni in cui l’indifferenza l’aveva fatta da padrona, ma il peggio era passato. E poi, quale relazione non conosce incrinature, quale relazione pretende di basare la sua continuità su un’assenza di attriti, come se i sentimenti non abbiano bisogno anch’essi di un’oliata ogni tanto? Certo, tre anni per rimediare agli sbagli sono troppi. Ma chi faceva un mestiere come il suo, chi si ritrovava sballottato per quindici, sedici ore al giorno tra i flutti della speculazione finanziaria, sapeva quanto fosse facile smarrire la rotta, lasciarsi incantare dalle sirene del profitto, sprofondare nei gorghi del malaffare, diventare schiavi di una logica che antepone l’interesse al sentimento. Posò il bicchiere, si girò a pancia sotto, manovrò il parasole a protezione della nuca, aprì il libro e, a dispetto della calura che, complice il gin, venava di sudore la sua pelle, non poté trattenere un brivido quando lesse la prima riga. Tanto da distogliere gli occhi e strofinarli con un lembo dell’asciugamano, convinto che solo un momentaneo disturbo della vista o un pirotecnico scherzo dell’immaginazione potessero causare quel bizzarro allineamento di lettere. Ma quale disturbo, quale scherzo? Appena riportò lo sguardo sulla pagina, la frase era là, reale e immutabile, a gelargli la schiena con l’assurdità delle sue implicazioni.

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Romanzo Giallo

Sul dove non aveva dubbi. L’aveva comprato alla fiera dei Morti, l’unica tra le fiere del circondario... .Si alzò e fece ricorso al gin, liscio stavolta, e senza aggiunta di ghiaccio, per scrollarsi di dosso la sensazione che quella frase fosse l’estemporanea trovata di uno spirito balzano. “Ma va’ là...”. Il realismo gli tornò al secondo sorso, unitamente a un verdetto di condanna nei confronti della sua puerile tendenza a vedere fantasmerie in ogni situazione al di fuori della norma. Possibilissimo, certo, che una forma letteraria potesse coincidere con il prodotto concettuale di una mente senza che quella mente si sentisse autorizzata a evocare chissà cosa. Giudicò soddisfacente la disamina e si premiò con una terza razione di gin. E poi andiamo, aveva letto appena una riga, troppo poco per azzardare ipotesi che escludessero una semplice coincidenza. Cercò sul frontespizio il nome dello scrittore, curiosità doverosa a quel punto, ma trovò solo una pagina in bianco. Nessuna notizia che riguardasse lui, la casa editrice, la tipografia, l’anno di stampa, niente, solo un titolo in copertina e un altro sul dorso, come se l’anonimato fosse stato una pregiudiziale alla pubblicazione del libro. E dagli con le fantasie, si rimproverò. Continua a leggere piuttosto, o non ne hai il coraggio? Attribuì al caldo l’insorgere di certi interrogativi, al caldo e ai fumi dell’alcol che alzavano cortine di mistero anche dove il mistero si esauriva nell’assenza di un frontespizio con tutta probabilità sacrificato a esigenze di rilegatura. Ricominciò dall’inizio. Sul dove non aveva dubbi, l’aveva comprato alla fiera dei Morti, l’unica tra le fiere del circondario a ospitare i banchi dei bouquinistes. L’incertezza riguardava il quando, non era sicuro se se il fatto risalisse a uno, due o tre anni prima. D’altronde gliene erano capitate di cose in quegli anni... . Non si rese conto dell’improvviso scatto delle mascelle né della morsa nella quale gli serrarono la lingua. Continuò a leggere, a leggere, a leggere, senza più intermezzi di gin, incurante dello scorrere del tempo, delle screziature di tramonto dipinte sull’acqua, delle ombre che si allungavano capovolte in superficie, dello strepito serale delle rondini, della pelle d’oca sul suo corpo nudo; sensibile solo ai messaggi di allerta che, pagina dopo pagina, l’inconscio trasmetteva alla sua mente; attento a rinnegare, riga dopo riga, quanto passava al vaglio della vista; incerto fra repulsa e attrazione verso quell’alter ego che, passo dopo

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passo, sembrava guidarlo verso la pazzia; consapevole, a poche pagine dalla fine, della identità di gesti, riflessioni, stati d’animo che univano lui a ciò che l’estro affabulante di un ignoto aveva trasformato in copia del suo Essere; smettendo di leggere solo quando il sapore del sangue gli allegò i denti e un paio di gocce calde colarono dal mento a imbrattare la pagina, lì allargandosi in piccoli cerchi vermigli, e la mascella finalmente allentò la presa strappando alla gola un urlo liberatorio. Provò a respingere l’urlo nella speranza di separare la dimensione del presente dalle allucinanti previsioni di uno scrittore folle – folle, sì, ma previdente al punto da nascondere nell’anonimato il documento della sua follia – che di quella dimensione aspirava a essere il complemento, se non addirittura il parallelo. Riuscì a respingerlo, come pure a rifiutare la realtà del sangue che, staccandosi dal percorso descrittivo, scendeva concretamente dal mento a macchiare la carta; ma non riuscì a impedire che l’urlo degenerasse in rantolo quando, spostati gli occhi sul paragrafo successivo, trovò scandite, una per una, in identica successione, le formulazioni appena elaborate dalla sua mente. Provò a respingere l’urlo nella speranza di separare... .Riuscì a respingerlo, come pure a rifiutare la realtà del sangue che...ma non riuscì a impedire che l’urlo degenerasse in rantolo quando...le formulazioni appena elaborate dalla sua mente. Intuì d’aver intrapreso un viaggio senza ritorno. S’era sempre appassionato ai gialli, è vero, però stavolta era diverso, stavolta più il racconto s’avvicinava alla conclusione – mancavano due pagine, il suo indice indugiò sotto la prima – e più lui ne rifiutava l’evidenza, come se a fronte di un canovaccio scipito, oggettivamente incapace di un pur minimo contagio emozionale, fosse emersa una diabolica finalità. Non si meravigliò, voltata la penultima pagina, di vederci specchiato il lessico dei suoi pensieri, la loro ossessiva espressione grafica, si limitò ad appaiarli all’orrore per quel finale di cui avvertiva ormai la vicinanza e che, ignorando le norme deontologiche a tutela della suspence, e non solo, violentando la sua indole indagatrice, ebbe la tentazione di scoprire buttando l’occhio sull’ultima pagina. Glielo impedì una fitta improvvisa, violenta ma, tutto sommato, prevedibile, “Sì, prevedibile”. Più che una riflessione il suo fu un lampo percettivo, una presa di coscienza destinata a soccombere sotto l’onda dolorosa che dal petto si

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propagò al braccio, alla mano e, giù giù, alle dita, costrette ad allentare la presa, aprirsi, mollare il libro dentro cui l’indice tentava fino all’ultimo di mantenere il segno, in ciò soccorso dall’altra mano che, uncinando un pizzo della copertina, ne trattenne per un attimo la caduta prima di annaspare anch’essa in cerca di sostegno. “L’avresti trovato, eccome, il sostegno,” – cadendo recepì il messaggio di un io tornato a esprimersi in piena autonomia – “avevi tempo e modo di raggiungere il tavolino, prendere le pillole, là, quel tubetto accanto al secchiello del ghiaccio, ingoiarne una e tirare avanti, magari fino all’arrivo di Laura. Poi, come si dice, que sera sera. D’altronde era la raccomandazione di Giuliano. Tieni sempre a portata di mano il cardiotonico, gli diceva, Non ti salverà la vita ma al bisogno te l’allunga. Impresa fattibile, certo, se in uno sprazzo di inutile caparbietà, non avesse indirizzato lo sguardo su quell’ultima, squadernata pagina in bilico tra recto e verso, tra i fogli da un lato e la terza di copertina dall’altro, oscillante qua e là secondo i ritmi della brezza. Una copia di quella pagina si era impressa nella sua retina. La morte, è risaputo, fotografa sempre gli istanti che la precedono, magari per illudere di un supplemento di vita. Supino, il volto deformato dagli spasmi, centellinando le ultime gocce di respiro, visualizzò l’anticipazione della sua fine, una fine evitabile, – vide scorrere nelle palpebre – se in uno sprazzo di inutile caparbietà... . Il resto non gli interessava. Le dieci righe finali sfuggite a una vista in procinto di spegnersi proprio quando, ironia della sorte, si attivavano le luci a tempo dei lampioni, avrebbero aggiunto la beffa al danno. L’avremmo ucciso noi in quel caso...cominciava così la prima riga. Un delitto, ecco cosa raccontavano le dieci righe finali, un delitto. Ma chi sarebbe stato ucciso? E come? E perché? L’arrivo di Laura, – glielo annunciò la frenata di un’auto giù all’ingresso, lo sbattere della portiera, il picchiettio dei passi sulla ghiaia, lo spandersi di una fragranza alle rose temperata da un’altra non ben definita essenza – un fatto che qualche minuto prima avrebbe accolto come una benedizione, gli parve l’ulteriore presa in giro di un destino a dir poco sadico. Già, come altro definire quella catena di eventi solo all’apparenza casuale che di lì a poco – Laura era vicina, sentiva la sua voce alternarsi a un’altra nel chiamarlo – gli avrebbe invelenito l’agonia con la presenza di una per-

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Romanzo Giallo

sona cara? Anzi, di due persone care. Perché era di Giuliano l’altra voce, come aveva fatto a non capirlo? Suo il profumo dolciastro di cui si sentiva invase le narici, profumo di dopobarba al muschio, probabilmente quello che gli aveva regalato per il suo trentacinquesimo compleanno. Laura e Giuliano, le due facce complementari dell’amore, una improntata a passione, emozione, conflittualità, un’altra a confidenza, affetto, fiducia. Accomunate adesso da un’angoscia inutilmente camuffata da indifferenza. “È morto?” chiede Laura, e subito le dita di Giuliano a tastargli il polso, il collo, rapide com’è normale che si comportino le dita di un medico, non importa se troppo rapide per essere le dita di un amico. “Sì” dice Giuliano. Il quale non sa, e come potrebbe? pure la scienza ha i suoi paletti, non sa che un’anima in trasloco sfrutta il più a lungo possibile i sensi per aggrapparsi a chi le ha fatto da contenitore per tanti anni, quarantuno nel caso suo. “E adesso?” chiede ancora Laura. Non avverte groppi nella sua voce, solo un neutrale punto di domanda. “Avverto la polizia” dice Giuliano. Lo dice senza una particolare intonazione, come se il paziente appartenga alla fluttuante schiera dei suoi mutuati. “Perché la polizia?” si preoccupa lei. “È la prassi in questi casi”. “Casi? Quali casi?”. “Casi di morte poco chiara”. “Più chiara di così...”. “Infarto, lo vedo anch’io, ma dovrà essere il medico legale a chiudere la pratica”. Una pratica, per loro è diventato una pratica da chiudere alla svelta, neanche si chiedono come, quando e chi l’abbia aperta, o perché toccasse a lui il ruolo di vittima designata, si chiedono solo se il disbrigo possa avvenire in tempi rapidi. “Ho il rimorso di non averglielo detto prima” sussurra Laura. “L’avremmo ucciso noi in quel caso” spiega Giuliano. L’avremmo ucciso noi in quel caso... . Chi, come, perché. Tutto chiaro adesso, fin troppo chiaro. La constatazione gli stacca una volta per tutte l’anima dal corpo, un urlo silenzioso e subito dopo il nulla sotto forma di brandelli via via più fitti di buio. E tra un brandello e l’altro, ecco scorrergli nelle palpebre il finale. “Cos’è?” chiese Laura indicando il libro. Giuliano lo scorse alla svelta. “Un giallo direi, i gialli sono sempre stati la sua...”. S’interruppe con gli occhi sbarrati. “Leggi qua” disse. Lei gli tolse il libro di mano. “Qua dove?”. L’indice di Giuliano tremò indicando le righe finali nelle quali, parola dopo parola, era stampata la trama del loro misfatto, come se

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Romanzo Giallo

l’autore del romanzo avesse iniziato a srotolare una spirale di vendetta nei loro confronti, a inondarli con un flusso di angosce destinato a corrodere le loro esistenze. Ci fu uno sbalzo di corrente, le luci dei lampioni ammiccarono e l’attimo dopo... . “Chi ha spento le luci?” gridò Laura.

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Cipolle

CIPOLLE di Pierino Pini Brescia No, la zia malata no! Tutto, ma non la zia malata! Mi sentivo umiliato: anche nelle scuse esiste una gerarchia. Per le persone che interessano davvero si cerca di inventare qualcosa di inedito e credibile. A me era stata propinata la più banale. Avevo conosciuto Irene ad una cena con amici comuni. Non mi era per niente dispiaciuta, così avevo parlato a lungo con lei, scoprendo che avevamo numerosi interessi comuni. Prima di salutarci le chiesi il numero di telefono. Non la chiamai subito l’indomani: avrei dimostrato troppa fretta. Attesi quindi due giorni, se avessi aspettato di più lei avrebbe fatto in tempo a dimenticarsi di me.Iniziai la telefonata con una serie standard di convenevoli convogliandola, con una tattica magistrale, verso il vero scopo della chiamata: un appuntamento. Ovviamente non proposi una data precisa: sarebbe stato facile per lei dichiarare di avere già un impegno, ma le chiesi di uscire una sera qualsiasi della settimana a sua scelta. Ci mettemmo d’accordo per giovedì sera: una pizza ed un giro per le birrerie dei Navigli. Niente di troppo complicato, ma ampio spazio alle chiacchiere e alla musica fino a tardi, allorché le donne diventano più vulnerabili.Così giovedì sera stavo tornando dal lavoro tutto contento, pronto per andare a farmi una doccia e vestirmi di tutto punto, quando il telefonino squillò (si fa così per dire, in quanto il suo suono è la “Marcia turca” di Mozart, roba da raffinati). Risposi e, quando sentii la voce di Irene, pensai: “Ci siamo, è andata buca!”. Infatti lei molto cortesemente si scusava di non poter uscire quella sera (e fin qui eravamo all’interno dei normali rapporti predatore-preda della nostra società) perché (e qui arrivòla doccia gelata metaforica che si sostituì a quella bollente reale che avevo in programma) le era giunta inaspettata la visita di una zia malata che non vedeva da tempo. Immediatamente mi sentii violentato nel più intimo del mio orgoglio: potevo io credere ad una scusa così sciatta? Chiusi in fretta la telefonata. Non avevo alcun dubbio: ero stato scaricato prima ancora di essere imbarcato. Una zia malata precludeva definitivamente qualsiasi ulteriore tentativo di approccio.

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Cipolle

Fu con questo stato d’animo, fra il depresso e l’umiliato, che entrai nel piccolo supermercato sotto casa per comprare qualcosa per una cena solitaria e tristissima. Non so se fu per una specie di sordo desiderio di rivalsa o per un tentativo di superare tale stato d’animo con un tuffo nei ricordi infantili, che il mio occhio cadde sul sacchetto di cipolle. Da piccolo, mia madre le metteva sempre nelle insalate miste che erano la mia passione. Poi con l’adolescenza, e la conseguente necessità di mantenere i contatti sociali, avevo smesso di mangiarle. Ma in quel momento mi venne un fortissimo desiderio di mangiare un’insalata con le cipolle. Passai oltre col carrello, ma il mio pensiero ritornava fisso a quel sacchetto pieno di succulenti bulbi rosacei, dal sapore inconfondibile. Per la prima volta in vita mia compresi i desideri sfrenati delle donne incinte. Daltronde la mia serata sarebbe stata irrimediabilmente solitaria, avevo ben diritto di soddisfare una mia piccola voglia. Acquistai il sacchetto, entrai in casa e mi preparai uno splendido insalatone come non ne avevo mangiato da anni. Insalatiera gigante, pane, bottiglia di birra, sul divano, televisore acceso. Insalata divorata, birra tracannata, reazione gastrica incontenibile. Marcia turca. Risposi al telefono rintuzzando un rutto. Irene. Parlai tenendo la bocca lontana dalla cornetta: il mio alito era talmente pesante che temevo si trasmettesse via etere. Lei mi diceva che sua zia era già tornata a casa, e che era molto (e calcò la voce su quell’avverbio) disponibile per quel giro naviglioso già in programma. Lapidaria risposta: fra mezz’ora sono da te. Doccia frenetica, spazzolata di denti colossale al limite della lavanda gastrica e corsa in automobile per essere puntuale (la puntualità al primo appuntamento è fondamentale). Ma già in macchina il sapore del dentifricio era andato scomparendo, sostituito dal ritorno dell’alito cipollente (o cipolloso, boh?). Cosa potevo fare? Passai in rassegna tutte le possibili ipotesi: mangiare un chewing-gum sarebbe stato maleducato: non potevo condurre una conversazione ai limiti del colto masticando continuamente la cicca. Tenermi lontano, respirare solo dal naso, parlare con la mano sulla bocca: erano tutti espedienti che potevano essere validi per la prima parte della serata. Ma poi? Quando saremmo giunti sotto casa sua, e io avrei spento il motore, e l’incontro sarebbe stato estremamente ravvicinato? 27


Cipolle

Cosa potevo fare? Tirarmi indietro? Mai! Farla diventare cianotica con un’alitata velenosa, che avrebbe reso quel primo bacio assolutamente indimenticabile, ma per tutt’altri motivi che quelli voluti? Non riuscivo a venir fuori da questa terribile situazione in cui la mia ingordigia mi aveva lasciato. Farmacia aperta, frenata immediata, suoni di clacson vari. Entro a razzo. Manco a farlo apposta c’è una farmacista carinissima. Le chiedo se ha qualcosa contro il cattivo alito. Che vergogna! Mi fa vedere un prodotto nuovo, quasi miracoloso: funziona con tutti i tipi di alito pesante, tranne che per aglio e cipolla. Lo compro imprecando contro la malasorte. Lo mastico, fa schifo e non serve a niente. Giuro che dedicherò il resto della mia vita alla ricerca di un farmaco che tolga il sapore di cipolla in bocca. Ma ora mi serve qualcosa di immediato.Sono arrivato. Suono il campanello. Irene arriva: è splendida. Io mi tengo lontano. In macchina continuo a guidare attaccato al finestrino dalla mia parte. Lei mi fissa con gli occhi fuori dalle orbite. Ogni tanto le sorrido. Limito la conversazione al minimo, mi fingo concentrato sulla guida. L’abitacolo della macchina è saturo, l’arbre magique puzza anch’esso di cipolla. Abbasso il finestrino. Fuori sono quaranta sotto zero. Irene non dice niente, si stringe nel giubbettino, tanto sexy quanto leggero.Arrivati, parcheggio come un maiale di traverso sul marciapiede, l’importante è uscire dalla macchina. All’aria aperta la situazione è più facile. Entriamo in un locale. Musica brasiliana, birra irlandese, cameriere marocchino, proprietario pugliese. Aria fumosa, irrespirabile, l’ideale per me. Ma dopo un po’ Irene dice che c’è troppo fumo, che lei non lo sopporta. Andiamo in un altro locale: enoteca, musica celtica, vociare sommesso, tavolini molto intimi. Troppo, siamo vicinissimi. Dico che non mi piace quel tipo di musica. Cerchiamo del jazz. Camminiamo per un po’ all’aria aperta. Mi tengo sempre più lontano da lei. Irene mi lancia certe occhiate che paiono dire: che serata del menga. Faccio la figura del frocio, ma sarebbe peggio la mia superfiatata alla Superciuk. Visto che mantengo le distanze, è lei a prendere l’iniziativa. Mi prende sottobraccio. Mi accarezza la mano. Più esplicitadi così non potrebbe essere. Fa freddo, si vede il fiato, in questo modo posso controllarlo e dirigerlo dove fa meno danno. Poi lei si stringe un po’ di più. Io, dentro di me, piango dalla rabbia e intanto sostengo una conversazione con 28


Cipolle

controllo di direzione di fiato che interessante più di tanto non può essere. Ma il fatto è che stiamo superando lo stadio delle parole. Irene dice che ha un po’ di fame, mi propone un locale New Age in cui fanno anche da mangiare. Accetto. Andiamo. Atmosfera rarefatta, musica tibetana, bonzi che servono piattini con contenuti indefinibili e ciotoline con brodaglie immonde. Ci sediamo. Non si può ordinare: devi mangiare quello che ti danno. Irene sorride, si vede che lì è più a suo agio che negli altri locali. Non parla, i suoi occhi dicono tutto. È bellissima, scintillante come una donna che vuole essere amata. E io sono lì, davanti a lei, pronto ad amarla: e fra di noi c’è una cipolla! Il bonzo ci serve quelle pietanze inquietanti, con delle posate mai viste. Osservo Irene. Non voglio fare la figura di chi non conosce quel tipo di cucina. Ora lei prende una specie di spatola, spalma una salsina marrone su di una galletta di soia e, incredibile a dirsi, la mangia di gusto. Io la imito, prendo la galletta che sembra polistirolo, stendo quella specie di stucco con l’arnese misterioso e, dopo essermi raccomandato lo stomaco a Dio, ne mangio un pezzetto. Mai sapore fu più squisito di quello, mai assaporai una tale inebriante ambrosia: cipolla, quella roba disgustosa era a base di cipolla! Ora finalmente eravamo pari, non temevo più nulla. Mentre Irene mi spiegava come veniva preparato quel piatto, macinando finemente la soia e mischiandola con i cuori di cipolla e con lo zenzero, tutto rigorosamente proveniente da colture biologiche, io la guardavo incantato, perdendomi nel suo viso, nei suoi occhi. La riaccompagnai a casa. Guidai normalmente e con i finestrini abbassati. Sotto il suo condominio, spensi la macchina. I nostri due aliti avevano completamente appannato i vetri. Situazione ideale.! Mi avvicinai, si avvicinò, ci guardammo e poi... . E poi, scusate, ma sono fatti miei!

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Dimmi che mi ami

DIMMI CHE MI AMI di Franca Fiorucci Perugia Dopo un profondo respiro, Silvia schiacciò il pulsante dell’ascensore. La porta si aprì al 5° piano. Percorse un corridoio e, con la mano tremante, bussò alla camera N. 19. Una voce femminile rispose di attendere. Quando la porta si aprì l’infermiera uscì. Stefano sedeva in poltrona. La sorpresa gli arrivò come un dono dal cielo. Colse, negli occhi di lei, una struggente felicità. Un abbraccio tenero e infinito, senza parole. Noncuranti che qualcuno potesse entrare all’improvviso. – Come stai? – Gli domandò, con la voce rotta dell’emozione. – Un inferno! Ho creduto di morire! Ti sezionano come un animale da laboratorio. Ti scrutano nella memoria! Prima che arrivassi tu mi sentivo distrutto. Ma adesso che sei qui... Gli si riempirono gli occhi di lacrime. – Andrà tutto bene. Vedrai! – – Stammi vicina, ti prego! Questa malattia è senza scrupoli. Sta infrangendo tutti i miei sogni. Il dolore ti arriva a ondate come una tempesta. Ti infilano una siringa di narcotici e poi...buio! – – Pensiamo solo ai momenti felici. Alle nostre passeggiate all’ombra dei pioppi, allo scorrere del fiume col suo riflesso nel cielo. Ma soprattutto alla nostra “soffitta”! – – Già, la nostra “soffitta” ora è vuota! – – Ti assicuro che non è così. La tua chitarra è in attesa che tu torni. I nostri ricordi, le nostre canzoni sono lì che ci aspettano. – Stefano, commosso, le accarezzò il ventre. – E...lui...come sta? – – È una lei. L’ho saputo ieri ed eccomi qui! – Un radioso sorriso illuminò il volto di Stefano. – Dimmi che mi ami! – Sussurrò accarezzandola con i suoi dolci occhi verdi. – Ti ho sempre amato, lo sai! – Stefano la prese tra le braccia. Il bacio fu di una dolcezza che fermò, per un istante, il tempo. Poi si abbandonò sul seno di lei e tra le lacrime pronunciò il suo nome, con la voce ridotta a un sussurro.

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Dimmi che mi ami

– Le parlerai di me? Di noi? Di quanto ci siamo amati? Sai, io...non ho più...molto tempo! – – Ho percorso ottanta chilometri per correre da te, non certo per ascoltare questi discorsi. Devi solo avere pazienza e fiducia! – – Ho bisogno di te, Silvia. Dimmi che mi ami! – – Sono qui per darti tutto quello che ho! – Si rannicchiò sulla poltrona, vicino al suo letto, decisa a trascorrere la notte accanto a lui. ...Verso mezzanotte fu aggredito da forti dolori e febbre a quaranta. Le infermiere di turno gli somministrarono dei sedativi. Dopo circa mezz’ora la febbre iniziò a diminuire, mentre Silvia gli asciugava il sudore dalla fronte. Spossato e sfinito, Stefano si addormentò. Lei posò una mano sopra il suo cuore e chiuse gli occhi. Al mattino alcune stelle, piccole e tremanti, continuavano a brillare nel delicato chiarore dell’alba. Dalla stanza della clinica, Silvia guardava attraverso i cristalli dell’ampia finestra. La città dormiva, ancora, sfavillante di luci. Il campanile della chiesetta, adiacente alla clinica, suonava. Era domenica. Una giovane e bella infermiera si affacciò alla porta della camera. – Mi scusi, devo fare una puntura. Silvia lo salutò con la mano e uscì. Si sedette su una sedia, rigida e fredda, della sala d’attesa. Tanti pazienti, dal colorito spento, attendevano con gli sguardi appesi alla speranza. Alcuni uomini avevano perso i capelli. Ma gli amici sostenevano che sarebbero ricresciuti in fretta e molto più vigorosi. Due giovani signore conversavano. Il male le aveva erudite. Sapevano tutto sui linfociti, leucociti, monociti, basofili. Una signora, sulla cinquantina, portava la parrucca, ma il parere della sua amica confermava quanto le stesse bene! Il taglio e il colore, proprio azzeccati! Quel male si era accanito su un bambino rom. Sedeva accanto alla madre, con la mascherina e i grandi occhi neri spalancati nella nebbia di quel purgatorio. Poi, un silenzio infinito. Ognuno pensava alla propria croce. Silvia rifletteva. Quali pietose menzogne per ingannare tanti poveri cristi! Quando l’infermiera uscì, dalla stanza di Stefano, entrò una sua collega con il carrello dei medicinali. Dopo una buona mezz’ora a Silvia fu concesso di entrare. Stefano si era rasato. Indossava un candido dolcevita sotto una soffice tuta in pile gialla. Al braccio destro, la flebo.

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– Come va la chemio? – – Una nausea terribile! Si ha una tregua, dai venti ai trenta minuti. Dopo posso alzarmi, passeggiare e andare al bar. – ...– Com’è il cibo dell’ospedale? – – Uno schifo! Sembra un’altra chemioterapia! – Una dottoressa entrò e Silvia dovette, nuovamente, uscire. – Vado al bar. Ci vediamo più tardi! – Una violenta ondata di nausea sconvolse il fisico di Stefano. La dottoressa gli rimase accanto. Dopo la crisi di vomito si abbandonò sul cuscino. – Posso andare al bar? C’è la mia amica che mi aspetta! – – Si, ma attenzione all’asta. Si ricordi che ha la flebo in vena! – – Ormai io e Camilla siamo diventati amici inseparabili. – – Camilla? – – Visto che mi tiene sempre compagnia, l’ho chiamata Camilla! – La dottoressa gli regalò un sorriso. Stefano raggiunse il bar. Silvia lo aspettava seduta a un tavolo. – Io prendo un cioccolata calda e tu? – – Anch’io, grazie. – Dopo la cioccolata tornarono in camera. – È venuto qualcuno a trovarti, in questi giorni? – – Mario. Il mio amico prete. – – E...nessun altro...voglio dire... – Stefano cercò invano una risposta delicata, ma non ci riuscì. – Nel pomeriggio arriva mia moglie con i ragazzi. – Una lunga pausa rimase sospesa nell’aria. – Silvia, amore mio, non sai quanto sia difficile per me... – – Tranquillo. Me ne vado da qui, ma non dal tuo cuore! Tu sei la mia luce, la mia forza! – – Devi fartene una ragione. Silvia, il mio male è un avvoltoio che non dà speranze. Il medico è stato chiaro. Questo ciclo di terapia è l’ultimo tentativo. Se non funzionerà mi rimarranno tre mesi...forse quattro. Non ce la farò a conoscere nostra figlia! Questo è il mio più grande tormento! – Silvia non riuscì a ingoiare la frase. Scoppiò in lacrime. – Perché! Perché! Sono certa che si sbagliano! Io so che tu guarirai! –

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– Se questa è la tua certezza, allora ti prometto che, una volta guarito, sistemerò tutto. Potremo amarci senza più nasconderci, alla luce del sole. Ma ora smetti di piangere, ti prego! – – Non ti permetterò di sfasciare la tua famiglia. Credimi Stefano! Ho pregato tanto perché tutto questo non accadesse! Soltanto adesso mi rendo conto che non potrò mai più fare a meno di amarti. Sono disposta a rimanere nell’ombra e aspettarti, quando potrai, nella nostra “soffitta”! – – Silvia, amore mio, continua...continua a pregare! – – Dio non ci perdonerà! – – Dio perdona sempre. Ricordalo Silvia...sempre! Vorrei tanto veder nascere la nostra creatura...e...dopo... – – Dopo cosa? – – Non lo so. – – Dimmi che mi ami! Stefano! Dimmi che mi ami! – Silvia gridò tra le lacrime. – Vieni qui. – Le asciugò le lacrime con tanti piccoli baci. La strinse in un abbraccio nascondendo la trave del suo dolore. – Ora devo andare. Mi chiamerai? – – Certo, tesoro. – Silvia se ne andò con gli occhi arrossati e il cuore in frantumi. Trascorsero alcuni giorni. Silvia gironzolava per la stanza, in attesa della telefonata. Avevano acquistato insieme quel monolocale, all’ultimo piano di un edificio. Lo avevano arredato con cura e buon gusto, scegliendo mobili e suppellettili dai toni caldi. Soffici cuscini, morbidi tappeti, tremule candele e luci soffuse. Quella stanza era diventata la loro alcova, il loro nido. Un tango, un bacio, un caffè e poi l’amore. Si staccò da quei ricordi. Aprì la finestra. Era notte e la luna proiettava luci e ombre sull’acqua del fiume. In lontananza i lampioni della città luccicavano. Pochi istanti dopo il telefono squillò. – Pronto? – – Signorina Silvia? – – Si!? – – Sono don Mario. Amico di Stefano. Purtroppo...mi dispiace...Stefano ha voluto che fossi io...a...mi...creda...è difficile trovare le parole...– – Stefano!!! Dov’è Stefano? –

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– A casa. E...stanotte... – – Non continui...la prego! Basta così! – – No, aspetti! Devo consegnarle un biglietto! Stefano ci teneva! – Silvia abbassò la cornetta. Si accasciò sul tappeto. Appoggiò la testa tra le mani e raccolse le ginocchia sul petto. Lottò contro il dolore, con un lungo, disperato, respiro. Si sentì derubata di quella parte che le spettava. L’eco dei suoi gemiti risuonavano per la stanza, finché le palpebre, stanche, si chiusero. Stefano era partito, per il viaggio senza ritorno, da una settimana. E Silvia, da una settimana, era rimasta sola nella loro “soffitta” a leggere e rileggere il suo biglietto: “Perdonami se non sono riuscito a darti ciò che meritavi. Sei entrata nella mia vita come un raggio di sole. Dove era il buio, hai portato la luce. Mi hai nutrito di dolcezza e di speranza. Ti lascio un ricordo: nostra figlia. Amala più di quanto l’anima possa sperare. Grazie per questi due anni felici! Stefano.” Ora, nella “soffitta”, i suoi pensieri si accavallavano confusi. L’acqua veniva giù tutta del cielo. Sdraiata sul sofà ricordava il battito incessante del loro cercarsi. Il desiderio di stringersi a lui si rinnovava. La tentazione, il turbamento di un vero, grande amore lontano. Era li, su quella stanza, che ricordava quanto già vissuto, per accendere il sogno nato da emozioni luminose. Era lì che nutrivano il loro amore e tutte le speranze di conservarlo struggente nel tempo. Quelle ore, trascorse insieme a lui, lasciavano intatta la pace e la ricchezza di una storia senza catene. Le attese coraggiose di un nuovo giorno felice, per cedere allo stupore del cuore. Quegli istanti significavano “assorbire” la vita. Rubare, con forza, i ricordi e farne un cuscino per le notti lontane. Quella stanza era diventata la “soffitta” per combattere il silenzio. La custode nei giorni interminabili della separazione. Al mattino il temporale era cessato. Uscì. Alla guida della sua 4x4 si mise in marcia. Il piccolo cimitero sorgeva in collina. S’inerpicò lungo i tornanti accompagnata da un tiepido sole. Raggiunse di corsa il sorriso luminoso e giovane di Stefano, incorniciato da tralci di fiordalisi e lillà. S’inginocchiò sopra la lapide. Vi posò una gardenia e pianse tutte le lacrime che le erano rimaste. Rovesciò il dolore acuto e intollerante fino a quando avvertì un battito provenire dal suo ventre. Poi un altro e

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Dimmi che mi ami

un altro ancora. La Vita che palpitava, dentro di lei, aveva una voce. Ora il dolore non era più un filo spinato, ma una sensazione di conforto. Non era facile trovare una risposta. Durante la strada del ritorno Silvia capì che, veramente, Dio perdona sempre. Era lì, da quel momento e, con quella voce, che doveva ricominciare con: “Dimmi che mi ami!” Una campana suonava lontano.

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Il colore dell’amore

IL COLORE DELL’AMORE di Lenio Vallati Firenze Quand’ero piccola, mio padre mi prendeva spesso sulle ginocchia. Lui era alto, robusto. Una folta barba incorniciava il suo viso scarno. Era buono mio padre, sapeva sempre farmi sorridere e i suoi occhi grandi avevano il colore del mare. Anche le sue parole erano onde sul far della sera, quando, accarezzandomi dolcemente i capelli, mi diceva: “Ricordati, piccola mia, non permettere a nessuno di farti ciò che non vuoi. Tu sei una principessa!”. Poi tante cose accaddero, mio padre sparì in una sera d’estate ed io rimasi sola con la mamma. Non avevo tempo per piangere, dalla mattina alla sera dovevo pensare ai miei tre fratelli e alla locanda sul mare. Tanti uomini bruciati dal sole e dal sale venivano a rifocillarsi sotto quella veranda, e uno di loro fu il mio nuovo padre. Forse ero ancora troppo piccola, o troppo secca perché, dopo aver abbondantemente bevuto, si occupasse di me. La mamma non c’era quasi mai, era sempre a letto malata. Aveva dei segni strani sul corpo e sul volto, e spesso la vedevo piangere. Divenni grande, e conobbi Zorad. Lui era alto ma longilineo, occhi neri e sfuggenti. Credetti di aver trovato in lui l’amore. In fondo non desideravo altro che una vita tranquilla nel mio piccolo paese d’Albania, e di poter tirare avanti la locanda insieme al mio uomo. Ma Zorad un giorno mi disse che bisognava partire, non vedi, mi disse, con la locanda non si vive, non viene più nessuno, dobbiamo emigrare, andare in Italia dove ci sono tante possibilità di lavoro. Lo seguii. Niente più, se non l’amore per quelle case basse, allineate alla spiaggia, e per quei quattro muri dove avevo vissuto mi legava alla mia terra. Anche la mamma era morta, e i miei fratelli se n’erano andati in cerca di fortuna chissà dove. Ma una volta arrivati in Italia le cose non andarono molto bene. Promesse, soltanto promesse, il lavoro non si trovava, e i pochi soldi che ci eravamo portati dietro, frutto della vendita della locanda, stavano finendo. Eravamo riusciti solo, grazie ad un amico, a trovare due vecchie stanze dove abitare. Un giorno Zorad mi disse che avrei dovuto vendere il mio corpo se volevamo andare avanti. “Lo devi fare, capisci? Non ci sono altre alternative!”.

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Il colore dell’amore

Gli risposi di no, per nessuna cosa al mondo lo avrei fatto, meglio morire. “Torniamo in Albania” proposi. Zorad si arrabbiò. I suoi occhi divennero ancora più cupi, le sue mani mi colpirono più volte. Non l’aveva mai fatto. Mi ritrovai così sulla strada, una sera, vestita di una gonna cortissima e di una camicetta che lasciava intravedere tutto. Al mio fianco pendeva una borsa di pelle nera. C’era una lunga fila di macchine. Una di esse di fermò, un uomo mi chiese quanto, io risposi cinquanta euro, come mi era stato ordinato di dire. Le sue mani sudate, il fiato sul collo, l’ansimare della sua bocca vicino alla mia. Non era la prima volta che facevo all’amore. L’avevo già fatto con Zorad e mi era sembrato bellissimo. Quella volta, invece, provai solo disgusto e un desiderio infinito di morire. Poi tutto diventò abitudine, si succedettero altri uomini, grassocci mariti stanchi delle proprie mogli, ragazzini in cerca della prima esperienza, vecchi. Ogni volta chiudevo gli occhi per non vedere, lasciavo trascorrere il tempo sperando che tutto finisse, come in un film. Ma niente finisce, se non la speranza di avere una vita normale. Avrei voluto scappare, ma dove? Zorad mi avrebbe ammazzato se avessi tentato di farlo. E se anche fossi fuggita dove sarei andata? Mi accorsi ben presto che Zorad aveva sotto di se altre donne. Venivano anche loro dall’Albania, e lui ci portava ogni sera sulla strada per venire a riprenderci a notte fonda. Solo una misera parte di quello che guadagnavamo ci veniva lasciato. D’altronde a cosa mi sarebbe servito il danaro? Zorad ci teneva segregate per timore che scappassimo. Ma una sera accadde qualcosa di diverso. Una macchina si fermò davanti a me, un ragazzo giovane mi chiese quanto, cinquanta euro, risposi macchinalmente. Poi, una volta raggiunto il solito posto, mi abbassai la gonna e attesi che venisse su di me. Ma il ragazzo non si mosse. “Che fai?” gli dissi “guarda che ho altri clienti!”. Il ragazzo annuì, ma rimase fermo a guardarmi. “Non ti preoccupare” proferì “io ho pagato e posso utilizzare il mio tempo come voglio”. Trascorsero dieci minuti, poi ritornammo di nuovo sulla strada. Il ragazzo tornava puntualmente ogni due-tre sere, e ogni volta si limitava a guardare il mio volto. “Sei bellissima” mi disse una sera. Una volta mi prese le mani, un’altra mi chiese se poteva accarezzarmi i capelli. Accettai, mi sembrava il minimo che potessi concedergli. Perché si comportava così? Agli uomini che avevo conosciuto non inte-

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ressavano certo gli sguardi, le carezze, era soltanto quella che volevano, ed erano disposti a pagarla a caro prezzo. Lui no, lui mi osservava come se io non fossi una prostituta, come se qualcosa di umano fosse rimasto ancora in me. No, non ero irritata per quel suo comportamento, anzi, ero contenta non appena lo vedevo arrivare. Era come se una lucciola fosse arrivata a rischiarare con la sua fioca luce l’antro nero della mia esistenza. Ma non osavo chiedergli spiegazioni, temevo che se l’avessi assillato di domande non sarebbe più tornato, e con lui se ne sarebbe andata ogni mia residua speranza. Fu all’improvviso, una sera, che mi accorsi che aveva gli occhi grandi e azzurri come il mare. Come avevo fatto a non notarlo prima? Mi guardava fissa. Anch’io lo guardai fisso, e vidi riflesso nel suo sguardo un altro sguardo proveniente da un mondo lontano, che credevo perduto per sempre. Rividi me bambina, e il volto di mio padre, e sentii di nuovo quelle parole: “Ricordati, piccola mia, non permettere a nessuno di farti ciò che non vuoi. Tu sei una principessa!”. No, non avrei permesso ad un altro uomo di approfittarsi di me. Finalmente avevo trovato il motivo giusto per fuggire. Abbracciai forte quel ragazzo e gli dissi grazie. Ecco, è l’ora. Sento il cuore che batte forte, e le gambe che mi tremano. Porto con me soltanto la borsetta con pochi soldi, mi guardo attorno per sincerarmi che non ci sia nessuno, brancolo nel buio, sposto sedie. Un’ultima occhiata alla cucina, ancora piatti e bicchieri sparpagliati sul tavolo, tazze e pentole sul lavello. Sto per raggiungere la porta, afferro la maniglia, spingo in basso. “Ehi tu, dove credi di andare?”. È Zorad “Volevi fuggire, eh?” e così dicendo mi afferra per il collo, e stringe forte con le sue mani scarne. Io mi divincolo, ma Zorad è forte, non ce la faccio, mi manca il respiro, forse grido. Intravedo sul tavolo un lungo coltello da cucina, lo raggiungo e con tutta la forza che mi rimane lo spingo dentro Zorad. Un fiotto di sangue, “sei pazza?”, neppure il tempo di rendermi conto se sta morendo e via, oltre la notte, oltre l’oscurità. Non so se troverò oltre quella porta il ragazzo che si accontentava di guardarmi, che mi accarezzava dolcemente i capelli, non so se riuscirò a sopravvivere, so solo che nessuno potrà più farmi quello che non voglio, adesso che ho conosciuto il colore dell’amore.

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SORELLE di Vincenzo Gunnella Perugia Una rocca medievale tra cielo e acqua. Uno scenario incantevole, unico, con rocce a picco sul mare e spiagge di sabbia dorata. Dintorno la struggente sensazione di tornare indietro nel tempo tra vecchie armature, mura che trasudano storia e torri merlate esaltate dall’intenso smeraldo degli oleandri. Indietro, in un’immersione simbolica nel passato, quel passato a lei tanto caro. I ricordi? Unica consolazione, dato che il presente non era roseo e dal futuro (il cuore scarnito e gli spifferi del vicino dicembre della vita...) ormai non si attendeva più oltre. Sì, proprio un castello, un antico castello sul mare riadattato ad albergo, sulla punta più a sud della Sicilia. Un moderno albergo a quattro stelle, confortevole e dotato di tutti i servizi più efficienti, a Portopalo di Capo Passero. Un sogno per Iris, (perché “i sogni aiutano a vivere” si ripeteva lei nei sempre più ricorrenti momenti bui), un vecchio sogno finalmente realizzato: visitare l’isola più bella del Mediterraneo e nel contempo bagnarsi nelle fresche acque prospicienti l’Africa. L’opportunità? Colta al volo quando una collega di lavoro aveva parlato di tornare a quella “perla” incastonate tra il verde e le rocce. Alla incantata descrizione del luogo, al brillare degli occhi di Enza, all’esaltazione che tradiva la sua voce, non aveva saputo resistere. “Vengo anch’io!” E le aspettative coltivate in tant’anni no davvero, non erano andate deluse. Uno splendido mare color cobalto, un cielo raffaelliano, e, dalla sua camera, una ringhiera sull’infinito, la serenità unica di un orizzonte da favola, il fascino, il mistero, il silenzio di un’isola nell’isola. Sì, quello era proprio il rifugio incantato, la nicchia di pace che aveva da sempre agognato. E, comunque, nell’intraprendere quel viaggio, aveva il latente sentire che quella fuga nell’isola del sole, l’avrebbe in qualche modo cambiata o forse resa più libera. Sul posto, una cordialità spontanea, una ospitalità squisita, condita da sorrisi e pietanze esaltanti e genuine (una

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vicina azienda agricola forniva al ristorante dell’albergo gli ingredienti per le prelibatezze del luogo) e giù caponate, piatti a base di pistacchio, pesce spada e pomodorini, granite di gelsi e dolci di pasta di mandorla e l’eccezionale, mitica cassata siciliana (Iris ci andava proprio matta da quando un amico l’aveva iniziata a quella “ducizza” di origini arabe). Un incanto, ahimè, infranto già al terzo giorno quando nella frescura delle ore mattutine, un formicaio brulicante la concitazione, nell’albergo si era diffusa la notizia di uno sbarco notturno di extracomunitari. Un barcone di un centinaio di disgraziati aveva riversato sul porto vicino alla vecchia tonnara la miseria più nera, la desolazione di volti sconvolti da giorni e giorni di navigazione, di occhi scuri e spalancati, distanti anni luce dalla speranza che li aveva spinti a quella terribile avventura. La voce più insistente dava per probabile che quel manipolo di sbandati provenisse dal Marocco. “Ma come era possibile – si chiedeva Iris – da così lontano?”. “E per quanto tempo erano stati in balia delle onde?”. Era incredibile e sconvolgente! Doveva essere gente fortemente motivata per affrontare l’inferno di questa traversata senza certezze, tra cielo e mare, tra fame e abbandono, tra rischi e marosi e, in un certo senso, tra vita e morte. Tante volte lei aveva letto sui giornali o sentito alla TV di questi sbarchi, ma trovarsi lì a due passi da quell’accadimento, le aveva causato una strana agitazione, una inconsueta frenesia. Si rendeva conto che, fino ad allora quel “problema” l’aveva riguardato relativamente poco, perché, in qualche modo avvertito “lontano” e mai aveva sentito prima quel sentimento di partecipazione, di coinvolgimento emotivo. Così decise subito, con un’urgenza inusitata e saltando perfino le fragranti brioche della colazione, di andare al porto, di andare a vedere di persona, di dare finalmente una precisa, viva connotazione alla rappresentazione dell’umana umiliazione che tante volte, in quella situazione aveva solo larvatamente immaginato. Senza pensarci su due volte e prendendo le giuste indicazioni, si era avviata di corsa lì dove si diceva erano stati ammassati quei “fantasmi”, affamati, smunti e qualcuno perfino agonizzante (così, almeno, diceva, la gente) che nella foschia della notte agostana si erano materializzati su quel braccio di porto delle coste più meridionali della Sicilia. 41


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Marocco...Marocco...ma suo padre non era stato a lavorare per conto di un’impresa umbra e per parecchi anni a Rabat in Marocco? Sì, proprio in Marocco... . All’improvviso gli scalini che dal castello adducevano al porto le sembrarono di sapone e le gambe di ricotta e la sua testa una girandola al vento, madida di sudore si dovette fermare: era come se il mondo, le case, gli alberi, l’acqua del mare vicino, girassero attorno a quella parola a carattere cubitali: “M A R O C C O”; come un flash nel cervello, uno squarcio nel cuore, un vortice che la riportava a quando, da ragazzina, il padre appena tornato dall’Africa, spinta da giovanile curiosità, rovistando in un armadio, aveva ritrovato dentro una tasca ben nascosta di una lisa sahariana una foto. Una piccola foto seppiata dal tempo e dall’usura che ritraeva una giovane donna mulatta abbracciata ad una bella bambina dagli stessi lineamenti ambrati e sensuali. Ecco, la barra del timone del tempo, ancora una volta per lei si era orientata verso il passato, si era aperta così quella remota rotta della memoria e, in quella scia... lei era lì con quella foto di nuovo tra le mani tremanti...”Madre e figlia” aveva pensato come allora e ancora: “Perché mio padre si era portato dietro quella foto dall’Africa?” Ora ricordava. Le grida improvvise e perentorie di sua madre che la chiamava le avevano fatto sparire dalle dita la foto (ma dove l’aveva riposta?) e, ne aveva in quel preciso frangente la nozione piena, avevano completamente rimosso l’accaduto dalla sua mente, fino a quel momento, in quella strana, inattesa, epifanica situazione, in quel luogo, su quella lingua di terra quasi africana, immaginario spartiacque tra un mare e l’altro, tra ieri e oggi, tra realtà e memoria, tra serenità e dramma. Si, quell’immagine era rimasta per decenni, anche dopo la morte del padre, celata nella sua coscienza di “brava figlia”. La bambina della foto, quasi sua coetanea, forse ora era madre...una madre disperata costretta a fuggire per mare dalla sua terra per cercare di assicurare un’esistenza meno cruda ai suoi figli...forse... . Adesso Iris, come se uscita dallo stato di trance, si sentiva più leggera, come realmente liberata da un greve peso, con le ali ai piedi, la testa in tumulto, nel cuore una speranza...”e se una delle madri – coraggio arri-

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vate quella notte d’angustia fosse la figlia di suo padre, sua sorella? Quella sorella che, nel profondo dell’animo, le era mancata e aveva sempre desiderato!?!” Certo, era assurdo pensare che fra tanti milioni di donne marocchine, proprio in quel gruppo di persone, in quella inimmaginabile circostanza, in quel recondito lembo del mondo, potesse esserci lei, sua sorella... .Ma da tempo Iris era convinta che i limiti dell’assurdo erano piuttosto labili e che a comandare sulle nostre esistenze fosse il Destino attraverso i campi di influenza dell’Armonia e della Disarmonia. E, dunque, in quella circostanza era come se l’Armonia avesse preso il sopravvento su tutto: sulle persone, sugli animi, sui tempi, sui luoghi. Come luce di una nuova alba, il sentimento di fratellanza del quale si sentiva invasa non poteva non essere una componente essenziale dell’Armonia. Si, ne era sicura. Da quel momento lei si sarebbe sentita sempre partecipe e vicina alle esistenze di tutti i diseredati del mondo, di quei fratelli (e sorelle) che per qualsiasi necessitato motivo lasciano la propria terra in cerca di miglior ventura per sé e i propri figli. E poi solo perché diversi da noi: di altra cultura, di altra razza, di altro colore della pelle e per di più meno ricchi e meno fortunati, solo per questo dovevano subire discriminazioni e ingiustizie? No, ne era profondamente convinta. Adesso, nel tepore del sole mattutino, Iris poteva finalmente correre e correre verso il porto, ad incontrare, forse, sua sorella, ma certamente ad abbracciare la comprensione e dare il suo contributo per accogliere con umanità quei fratelli disperati. Era l’Armonia che così aveva disposto. Era lei che lo voleva.

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LA RAGNATELA CELESTE di Chiara Checcaglini Perugia Marco continuò a raccontare ad Elena. Era una notte estiva come tante, con la ragnatela celeste, quando iniziò il suo racconto. Non si sarebbe mai aspettato di trovarsi in una situazione del genere. Era rimasto sconvolto quando Rebecca l’aveva chiamato ed era riuscito solo a sentirla piangere dall’altro capo del cellulare, prima che si interrompesse la comunicazione. Aveva subito avuto il presentimento che fosse successo qualcosa di grave. Conosceva Rebecca da tredici anni ormai; la conosceva in ogni più piccolo tratto del suo carattere. Poteva addirittura affermare di conoscerla meglio di quanto lei avrebbe mai conosciuto sé stessa. L’aveva vista piangere solo due volte nella sua vita: quando era morto suo padre per un attacco cardiaco fulminante, due giorni dopo il suo diploma, e quando era stata licenziata dal lavoro che le serviva a pagarsi gli studi; non era una donna dalla lacrima facile e quel pianto rumoroso lo terrorizzò. Era così in ansia che non riusciva a stare fermo un secondo. Vanessa, sua fidanzata ormai da tre anni, l’aveva subito notato. “Marco, che ti prende? Sembri una trottola impazzita!”: erano queste le esatte parole che gli aveva rivolto. Lui le aveva subito detto la verità, e lei non l’aveva affatto presa bene. “Mi sembra logico: ogni volta c’è Rebecca di mezzo. Tu fai tutto quello che ti chiede...anteponi sempre lei a tutto!”. Inutile spiegarle quello che le aveva detto già un centinaio di volte, che era solo la sua migliore amica, che la conosceva da tredici anni, che stava per sposarsi con un uomo molto più ricco e bello di lui che aveva anche una bambina piccola, che da parte di nessuno di loro c’era mai stato qualcosa che concernesse al di più della semplice amicizia: Vanessa non gli credeva, e da come sarebbero andate le cose non poteva dire che avesse torto. Non aveva tempo di discutere con lei, doveva rintracciare Rebecca in qualche modo. La casa del suo futuro marito era vuota; provò a richiamarla, ma il cellulare era staccato. Sentendosi completamente impotente era tornato a casa e non aveva aperto bocca

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per tutta la serata dato che Vanessa era chiusa nel più serrato mutismo. Si era ripromesso che la mattina seguente sarebbe andato a cercarla al lavoro, dato che lei lavorava in un giornale vicino a casa sua, ma non era nemmeno lì. Fortunatamente intravide Renata, una collega di Rebecca che conosceva di vista, e chiese notizie sulla sua improvvisa sparizione. Renata sgranò gli occhi dalla sorpresa. “Ma come? Non ti ha ancora detto niente? Pensavo foste molto amici, voi due.” “Infatti. Cos’è successo?” Quella donna lo stava seccando e cominciava seriamente a trovarla antipatica. Perché lei sapeva tutto e lui no? “Non hai saputo di Enrico? Ieri sera è uscito in macchina nonostante le strade fossero tutte ostruite per la neve e per il ghiaccio, dato che doveva partire per non so quale fondamentale convegno con i suoi amici avvocati. È uscito di strada...” “No...E dov’è lei ora?” “Sempre in ospedale...Non si è mai mossa...Penso che anche Cecilia sia con lei.” “Grazie, Renata!” Aveva coperto la distanza che lo separava da lei con il cuore in gola ed i battiti accelerati in non più di venti minuti. Quando era arrivato faticava a tenersi in piedi, ma non sentiva dolore. Lei aveva bisogno di lui. Aveva sentito dire che più le persone arrivano in alto più è brusca la discesa. Dopo una vita di sofferenze, pensava che finalmente lei fosse riuscita a trovare un equilibrio, il posto in cui doveva stare. Ma il destino aveva deciso in modo diverso... . La trovò seduta con Cecilia in braccio. Fortunatamente non sembrava più essere sconvolta, anche se le lacrime le rigavano ancora il volto. “Oh, Becca.” Era riuscito a dire solo questo. Lei si era appoggiata sulla sua spalla ed erano rimasti in silenzio per quelle che a lui parvero ore intere. Inaspettatamente era stata lei a parlare per prima. “Sai Marco...Immaginavo che fosse troppo bello per essere vero. Arrivare a morire dalla felicità. Era troppo...Davvero troppo. Enrico era così perfetto per me. L’unico che mi abbia mai amato davvero. Lo amavo anch’io, sai. Dovevamo aspettare che sua figlia...Che Cecilia

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fosse pronta. Io l’ho amata subito, sai Marco? Ora la considero un po’ anche come mia. La mia più grande paura adesso... . Non è quella di affrontare tutto senza di lui. Sono sempre stata sola, prima che lui arrivasse... Sono sicura di una cosa, però. Non mi permetteranno di tenere Cecilia con me. Io e Enrico non eravamo ancora sposati.” “Non sei mai stata sola, Becca. Non lo sarai mai.” “Marco, non ci sarai per sempre. Avrai una tua famiglia, prima o poi.” “Io non ti abbandono, Becca. Vedrai che troveremo una soluzione.” “Quale? Io non sono sua parente, Marco. Non sono neppure sposata. A volte penso che sarebbe più giusto farla adottare da una famiglia, ma non penso che avrei mai il coraggio di lasciarla a degli estranei. Se poi la maltrattassero? Sai quanto tempo mi ci è voluto perché si fidasse di me? La perderei per sempre.” “È un bel problema.” “Sono senza possibilità, Marco. Ne dovrò parlare con Cecilia... Dimmi come devo fare. È stata qui tutta la notte, chiedendo di Enrico. Non sa ancora niente. Come glielo dico? Suo padre non tornerà mai più e si dovrà separare da me, forse per sempre. Come faccio, Marco?” Marco l’ammirava. In quella tempesta lei, che avrebbe potuto abbandonarsi al dolore, era la più forte. Cercava soluzioni. Non aveva ancora elaborato il lutto e già si preoccupava per la sua creatura. Avrebbe voluto fare qualcosa per loro, ma era completamente impotente. “Becca...Vorrei davvero fare qualcosa per te.” “Scusami, Marco. Così faccio deprimere anche te. Basta stare qui senza fare niente.” Si era rialzata con Cecilia in braccio, provando a sorridere. “In ogni caso, proverò a tenerla con me. Se proprio non potrò farlo... Me ne farò una ragione.” “Dove vai, adesso?” “Devo incontrare quelli dell’agenzia funebre. Dobbiamo iniziare a metterci d’accordo sul... Sul...” “Ho capito. Vuoi che venga con te?” “Grazie, ma preferisco andare da sola. Ehi, Marco... Fatti vedere, per favore...” Lui l’abbracciò forte. Certo che si sarebbe fatto vedere! Lo considerava davvero così poco legato a lei? O forse era lui che si attribuiva un

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posto esagerato nella sua vita? Era venuto a sapere della situazione grazie a Renata... . “Becca, ascoltami. Qualunque cosa succeda... Non importa se ci sposeremo, avremo dei figli, o se capiteranno altre disgrazie. Qualunque cosa succede, io sono qui.” “Marco... cavoli, lo sai che ti voglio un bene dell’anima?” L’aveva baciato sulla guancia e si era dileguata. La compativa. Si sarebbe trovata tra le fauci di Sebastiano e Marianna, i due proprietari delle pompe funebri, che l’avrebbero inondata di frasi di circostanza. Aveva una morsa al cuore per lei e per Cecilia. Quella bambina di nemmeno sette anni... . Prima aveva perso la madre per un cancro, ora il padre. Aveva faticato ad accettare Becca i primi tempi, ora invece sarebbe stato particolarmente doloroso e difficile separarle. Non concepiva come non potessero restare insieme, nonostante lei non avesse qualcuno accanto. Cecilia non aveva altri parenti che potessero prendersi cura di lei e Rebecca avrebbe dovuto essere la scelta più ovvia e naturale. Vanessa percepiva quanto ultimamente Marco fosse inquieto e arrabbiato, ma esplose quando lui dimostrò di non ricordarsi minimamente che il giorno seguente ci sarebbe stata la mostra dei suoi ultimi quadri. “Come sarebbe a dire, NON POSSO VENIRE? Te ne sto parlando da oltre tre mesi!” “C’è il funerale di Enrico, Vane. Non posso saltarlo per andare a vedere i tuoi quadri. Li vedo sempre. Viviamo insieme”. “Viviamo insieme perché stiamo nella stessa casa, ma non viviamo “insieme”, Marco. Ti rendi conto che non trovi nemmeno il tempo per venire ad una mostra? Forse dovresti cercare di capire chi conta davvero per te, Marco”. “Che vuoi dire?”. “Voglio dire che se domani non vieni alla mostra, io me ne vado”. Elena lo guardò con fare interrogativo. Evidentemente si aspettava che lui proseguisse il racconto. Era molto stanco per parlare, ma voleva soddisfare la sua muta curiosità. Ovviamente Marco era andato al funerale. Quando era tornato a casa sua di Vanessa non c’era più traccia. Dopotutto se l’aspettava e non ne provò un grande dolore. Era da qualche tempo, ormai, che l’amore per

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Vanessa, che eppure l’aveva un tempo travolto, si era così affievolito da andare avanti per pura abitudine, non certo per la forza del sentimento. Ormai si era reso conto che la sua vita ruotava sempre di più verso un’altra direzione. La signora Elena annuì, per fargli capire che lo stava ascoltando, ma lui non la vide. Era crollato in un sonno profondo. Quando si svegliò di colpo, lei era ancora lì che aspettava pazientemente. Evidentemente sentirlo parlare era l’unica distrazione che aveva in quel momento. La capiva: la preoccupazione per i figli doveva essere troppa; anche se lui, se ci fossero state loro, non sarebbe riuscito a chiudere occhio... . “Mi scusi, signora Elena...” “Figurati, capisco quanto tu possa essere stanco. Per favore, continua. Mi sto appassionando.” Marco era andato a casa di Enrico, dove ancora abitava Rebecca, senza un apparente motivo. L’enorme giardino era illuminato solo dalla fioca luce di alcune piccole lampade cinesi. Rebecca e Cecilia erano sedute insieme. Gli sembrava che stessero guardando le stelle, proprio nella stessa posizione in cui le avevano guardate lui e Rebecca quando lui era stato costretto a partire un anno per Parigi. Entrambi erano inconsolabili alla separazione: non avevano mai vissuto più di due giorni senza vedersi. Marco immaginò che Rebecca stesse raccontando anche a Cecilia della ragnatela celeste, proprio come lui aveva fatto con lei tanti anni fa. Non riuscì a non origliare. “Guarda, Cecilia. Non ti sembra che le stelle formino una grande ragnatela?”. “Hai ragione!”. “Vedi quella più grande e luminosa? Si chiama Venere, come la dea greca della bellezza. Sai, sono sicura che tuo padre si trovi già lì e ci stia aspettando. Non importa che la sua attesa sia lunga, lì le ore passano come se fossero secondi. Ricordati di quello che ti dirò, Cecilia: se mai io e tuo padre ti mancheremo, devi promettermi che tu guarderai quella stella e penserai a noi. Il cielo è lo stesso da qualunque parte del mondo lo si guardi”. “Sì...lo farò”. Marco si era allontanato. Non gli sembrava giusto continuare a violare la loro intimità, tanto più che ormai aveva già preso una decisione che era sicuro che Rebecca non avrebbe mai potuto rifiutare. Intimamente 48


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aveva già preso coscienza di quello che sentiva per lei. Anche prima che Enrico se ne andasse la preoccupazione per lei era sempre stata costante; se non aveva notizie di lei da troppo tempo correva il rischio di diventare matto. L’aveva sempre trovata molto bella, come molti altri del resto; ma gli altri si accorgevano che i suoi occhi verdi, se venivano feriti dal sole, si tingevano di azzurro? Che dietro la sua ostinazione, i movimenti sempre rapidi e decisi, c’era la più grande insicurezza e fragilità? Che, senza i suoi tacchi da quindici centimetri, era talmente piccola che anche una folata di vento poteva portarla via? Che i suoi capelli non erano semplicemente biondi ma del colore del grano? Che quando si muoveva sembrava un uragano di vita e attraeva tutti nella sua orbita? La conosceva da tredici anni, praticamente da una vita. Sapeva tutto di lei, sapeva indovinare ciò che pensava prima ancora che lo dicesse. Dietro la compostezza che ostentava al funerale lui sapeva cosa si celava: un dolore lacerante. Avrebbe voluto condividerlo, prendersene sulle spalle almeno la metà per alleviarla un po’. In quel momento aiutarla gli sembrava l’unica cosa che dovesse veramente fare. Si sentiva legato a lei a doppio filo e non poteva fare a meno di pensare che il destino di loro due era nelle sue mani. Forse era innamorato di lei dalla prima volta che l’aveva conosciuta. Ci aveva solo messo troppo tempo a capirlo. Sapeva che lei non avrebbe mai provato lo stesso: aveva amato troppo Enrico perché potesse di nuovo aprire il suo cuore, era troppo presto. Forse non avrebbe mai più amato qualcuno così tanto. Eppure, nonostante avesse la più solida certezza di non poter essere ricambiato, lui sentiva che doveva tentare almeno di aiutarla: questo glielo doveva. L’amava troppo per non provare a fare quella proposta. Sapeva cosa avrebbe fatto la mattina seguente con una sicurezza che quasi lo spaventava. La signora Elena aveva sgranato gli occhi, sorpresa. “Hai capito tutto così, di botto?”. “In cuor mio l’ho sempre saputo, immagino. Penso di aver nascosto tutto a me stesso. Enrico era una bravissima persona, eppure io l’ho sempre trovato antipatico. Quante energie quella poveretta ha speso per provare a farmelo piacere...”. “Alla fine cosa hai deciso?”

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Marco aveva le idee sorprendentemente chiare in proposito. Era andato a casa di Enrico determinato eppure appena la vide perse immediatamente tutta la grinta. “Ehi, Marco! Cosa fai qui? Non c’era una mostra di Vanessa, oggi?” “Non...non vado più alle mostre di Vanessa...” “Davvero? Perché?” “Perché...non funzionava tra noi, ecco...” “Davvero? sembravate così... non so...” Era tutta intenta a sistemare dei girasoli in un vaso che rovesciò di colpo a terra quando Marco le disse di getto quello che andava rimuginando dalla giornata precedente. “Cosa... cosa hai detto?” “Che se vuoi, solo per procura.... Io ti sposo. Davvero, anche subito. così potrai adottare regolarmente Cecilia...” “Ma...perché lo fai?” “Perché...sono il tuo migliore amico. È l’unico modo che hai, Becca. Non possiamo fare altrimenti, lo sai anche tu. Sarebbe solo per procura, ed io potrei aiutarti in modo concreto...” Elena alzò pericolosamente il tono della voce. “Cioè, le hai chiesto di sposarti? Non era terribilmente indelicato nella situazione in cui si trovava? Era appena morto l’uomo che doveva sposare...” “Mi sembrava di non avere scelta, signora Elena... Non ho mai preteso di prendere il posto di Enrico, o di imporle la mia presenza. Volevo solo darle la mia garanzia per un atto formale... Mi avrebbe avuto vicino se e quando avesse voluto. Ecco ciò che le ho detto”. “Non hai accennato a ciò che provavi?” “Non sono pazzo. Avrebbe rifiutato perentoriamente. Il mio obiettivo era solo quello di darle una mano...” “Non c’era davvero un secondo fine?” “No. Io le voglio bene davvero, Elena.” “Ti credo. Lei poi cosa rispose?” “Che era troppo per me, che non era giusto nei miei confronti... Che solo per il fatto che lei fosse infelice, non voleva dire che dovessi esserlo anch’io. Le ho ripetuto almeno una ventina di volte che non lo sarei stato, dato che Vanessa non costituiva più un impedimento. Eppure lei

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si preoccupava per il mio futuro, come se davvero potessi, prima o poi, amare qualcun’altra al di fuori di lei. Quando si ama troppo una persona, si corre il rischio di non innamorarsi più.” “Marco...Forse lei non aveva tutti i torti. Saresti stato davvero pronto a sacrificarti?” “Lo sono anche ora, signora Elena. Se lei fosse qui, la sposerei anche in questo momento.” “Dopo cosa successe?” “Disse che aveva bisogno di tempo per riflettere con calma e che sarei dovuto passare quando mi avesse telefonato. A questo punto entra in gioco lei, signora Elena. La reporter televisiva... Mi spiace di non essere stato in grado di proteggerla, ma quello mi ha colto alla sprovvista...” “Dispiace a me, se non ti avessi mai chiesto di aiutarmi con la busta della spesa...” “Inutile piangere sul latte versato... Ascolti... Sta tornando...” Si trovavano ancora legati stretti e quasi non riuscivano a muoversi. Il sequestratore stava tornando, e dai suoi passi furiosi non sembrava avere buone intenzioni... Era strano. Se l’avesse visto passare per strada, Marco non avrebbe mai detto che Gianni Tozzi fosse un uomo capace di sequestrare una donna sola e due ragazzine: aveva degli occhi molto gentili e regalava soldi ai mendicanti, non spiccioli, ma banconote di piccolo taglio; era conosciuto come una persona dedita al lavoro ed amante dei bambini... Rebecca non si sarebbe mai lasciata ingannare dalle apparenze. Aveva sempre fatto molta più attenzione alla sostanza che alla forma... .Come aveva fatto a non notare che quell’uomo nascondeva una pistola? Era stato così terribilmente stupido da non accorgersi di niente... . Il fatto che ci fosse anche lui era stato un grosso impaccio, ma alla fine era riuscito a metterlo fuori gioco... . “Dunque, signora Elena, le va di parlare un po’?” “Perché ci hai chiusi qui?” “Voglio far sapere qualcosa.” Mentre lo sentiva parlare e la signora Elena annuiva condiscendente mentre ascoltava attentamente, Marco si accorse che la sua storia era terribilmente simile a quella di Rebecca. Si accorse di quanto rancore aveva accumulato, di come la lontananza di un bambino che si amava

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fosse devastante. Rebecca non avrebbe mai raggiunto quei livelli, ma avrebbe potuto compiere gesti molto sconsiderati per quanto riguardava lei stessa... Doveva almeno provare a convincere Tozzi a lasciarli andare. “Signor Tozzi, sa che questa cosa sta succedendo anche ad una mia carissima amica? Ne sta soffrendo quanto deve avere sofferto lei...” “Cosa?” Sembrava interessato, così decise di proseguire. “Si ricorda di Rebecca Adinolfi? La ragazza bionda della villa di fronte a casa sua? Ecco, l’uomo che doveva sposare e che è morto poco tempo fa aveva una bambina che lei ama molto. Non hanno fatto in tempo a sposarsi e molto probabilmente gliela porteranno via. La piccola non ha altri parenti, quindi molto probabilmente la faranno adottare.” “Davvero...” Sembrava toccato dalla cosa. Tanto valeva provare ad insistere. “Se non torno per darle una mano, succederà lo stesso anche a lei. Mi serve l’aiuto della signora Elena...” “Ma...lei deve aiutare me...” “Lo farà. Signora Elena, promette di aiutare entrambi, vero?” “Certo.” Elena ebbe solo il tempo di ringraziarlo che Marco era già schizzato via come una freccia. Aveva una risposta che lo attendeva e voleva sapere. Lei stava preparando il sugo per la pasta. Aveva un grembiule sorprendentemente candido e guardava fissa nel vuoto. Appena lo vide arrivare lasciò cadere il cucchiaio di legno. “No, cavolo! Ora dovrò pulire la moquette...” “Becca... Guarda che la proposta che ti ho fatto è ancora valida... Ho affrontato un sequestratore per venire a ribadirlo...” “COSA?” L’aveva guardato con tanto d’occhi e si era messa una mano sul cuore. “Dio, Marco, non puoi fare a meno di cacciarti nei guai? Se avessi perso anche te? Sono una calamità per tutti quelli che mi sono vicini...non posso permetterti di farlo, Marco...” “Invece lo farai. Io...non potrò mai amare nessuna donna, perché...” Rebecca lo stava guardando così fissamente che doveva per forza trovare una scusa plausibile entro pochi secondi. 52


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“Perché sono omosessuale! Ecco, dopo tutti questi anni finalmente riesco a dirlo a qualcuno...” “Oh, Marco...perché non me l’hai mai detto?” L’aveva stretto in un abbraccio che gli aveva mozzato il respiro. “Allora va bene, accetto. Non saprò mai come dirti grazie.” Non avrebbe mai potuto dirglielo, ma il suo volto sorridente era già una ricompensa più che sufficiente. Qualche anno dopo, Marco si era ritrovato al bar con la signora Elena. Lei stava sorseggiando un tè, lasciando a lui i pasticcini che le avevano portato come contorno. Stava raccontando la sorte che era toccata a quel povero rapitore: dopo che lei gli aveva fatto fare un appello televisivo, era riuscito a mettersi in contatto con la bambina e le aveva mandato un mazzo di fiori con le sue più sentite scuse. “Me lo sentivo che non poteva fare del male ad una mosca, ma ero molto preoccupata per le mie figlie e per te. Con Rebecca come andò poi a finire?” Quando raccontò l’espediente che aveva usato ci mancò poco che Elena non si strozzasse con il tè tanto si era messa a ridere. “Cioè, le hai detto che eri gay? Ma sei incredibile!” “Lo crede ancora. Grazie a questo, ho sempre vissuto con lei e la piccola, facendo sempre in modo di essere discreto. Non credo che le dirò mai che la amo.” “Perché mai, scusa?” “Forse ha cominciato a farsi piacere di nuovo qualcuno, dopo sei anni non voglio intralciarla, e poi...dirglielo rovinerebbe tutto, credo.” “Almeno promettimi che ci penserai, Marco. Credimi, te la meriti una possibilità. Dopotutto si tratta sempre di tua moglie.” “Forse...forse lo farò. Dopotutto, non si sa mai nella vita...”

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La leggenda del Gobbo di Pistoia

LA LEGGENDA DEL GOBBO DI PISTOIA di Cirano Andreini Pistoia Arcigna gran facciata di bozze di macigno del palazzo. Gran portale sormontato dallo stemma nobiliare della casata con le due spade incrociate e corona principesca. Enorme il portone di quercia borchiato di ferro e a lesene e pannellature scolpite a scene epiche. Grand’inferriate a lance acuminate di ferro battuto in aggetto ai finestroni. E tutto è ad inculcare un monito, un altolà al restante sia degli edifici che degli abitanti stessi della intera città. “Io sono io – pareva dire – e tu edificio o passante che mi guardi, o non sei affatto o – tutt’al più – sei di molto ma di molto inferiore e da meno di me. E comunque scostati dal mio cospetto che sei di mio fastidio. E anche il conte padrone che lo abitava a quei giorni era così. Quasi l’architettura del palazzo avesse generato l’abitante di ora. Proprio – come si dice – faccia “la forte immaginazione (che) suscita l’evento immaginato” così l’architetto del XVI secolo doveva aver modellato la pietra del palazzo onde fosse consona alla psiche e al diportamento del suo padrone di ora. Il padrone era un conte dai, almeno, tre o quattro cognomi come De Altamura, De Pazzi, Degli Usbergo o altro ancora. Ma quando il suo cocchio a due cavalli passava in città al piccolo trotto, tutti dicevano “Fatti in là che passa il Frusta... . Il conte Frusta”. Sapendo bene che il suo cocchiere non ci metteva tanto a schioccare frustate a destra e a manca se niente niente qualcuno avesse indugiato a far largo al suo passaggio. Era un bell’uomo d’imponente corporatura e altero di portamento. E mai nessuno l’aveva visto camminare a piedi se non alle cerimonie solenni dell’aristocrazia in piazza de’ Signori con spadino al fianco, cimiero con le piume e gran cipiglio. Ma questa città del Granducato non era certo solo quel palazzo né i suoi abitanti erano tutti come il conte Frusta, i suoi festini e i suoi fasti. E a cominciare da un chiassettolo laterale al palazzo, dov’erano le scuderie padronali, c’era la botteguccia, d’un gobbino calzolaio che da mane a sera stava lì a guadagnarsi pane e alloggio battendo suole di cuoio e cucendo tomaie di povere

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scarpe logore. Stava lì quasi a marcare il gran contrasto ravvicinato fra nobiltà e miseria, fra il ludico e il prosaico. Eppure il conte Frusta che mai avrebbe dato il saluto per primo a chicchessia e men che meno a uno di rango inferiore, usava per quel ciabattino gobbo un atroce riguardo: un garrulo ticchio, un vezzo inveterato, di routine quotidiana. Come il ripulirsi la gola e lo sputare in terra e aggiustarsi ben bene la falda del cappello onde assumere l’estro del pavone che uscendo dal palazzo muove alla conquista dello spazio. E, sia in estate quando il poveretto tirava il bischetto sulla soglia per risparmiare sulla candela, sia nell’inverno quando lavorava rintanato nel suo antro, il conte al ciabattino gli lanciava un lazzo, un epiteto mordace, un apparente saluto amicale, ridanciano, del padrone al suo giullare di corte. Imbelle per dovuta sudditanza. “Hooo! O gobbo! Salve gobbo, salve!” E, come liberatosi da quel suo primo adempimento giornaliero dovuto al suo rango, il conte tirava di lungo verso la sua carrozza. Che l’aspettava lì a pochi passi con la portiera aperta, il lacchè impalato allato e il cocchiere già a casetta, redini in mano, pronto a toccare i cavalli con la frusta. Delle volte – inoltre – quando il conte passava attorniato dalle sue cortigiane, sempre giovani avvenenti ed elegantissime, allo sventurato ciabattino toccavo ancor di peggio. “Haooo! Guardate guardate... il gobbino del signor conte! Che bello, che bello, che fortuna” dicevano quelle “Sì sì – diceva il conte – certo che porta fortuna, eccome! Toccategli il gobbone al mio gobbino”. Confermava e rincarava il Frusta. E giù tutti a toccare la gobba del poveretto e a sbellicarsi dalle risa. Il gobbo – orecchie a punta e grifo bruttino di coniglio – pensando che così era la sua vita e così sia, quando intento alla lesina e al trincetto sentiva piovergli sul capo quelle attenzioni, si portava prontamente la mano al berretto e ancor più alla svelta rispondeva: “Buongiorno signor conte, buongiorno vostra signoria. Riverisco assai signor padrone. Servo vostro”. E lo ripeteva un paio di volte per essere ben certo che il suo ossequio fosse stato ben udito dal conte. Poi, dopo aver sentito rotolar via la carrozza gli montava il groppo alla gola. Ma lui lo trangugiava aiutandosi tossendo. E si metteva a lenire il suo segreto dolore a rammemorare gli effetti delle ultime tirannie dal

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conte perpetrate. La sguattera Laudomia, vecchia, vedova, sola e senza casa – ora alla porta delle chiese – cacciata via da lì a lì per aver rotto un vassoio neanche di gran pregio... E il cantiniere Meo che – incolpato d’aver trafugato un fagiano dalla dispensa – non resse all’accusa e andò a morire all’ospizio il giorno prima che la carcassa del fagiano, maciullata dai denti del bracco da caccia del conte, fosse rinvenuta nella sua cuccia. E si faceva coraggio e sopportazione così. Sentendosi anche per quel giorno al coperto e fortunato d’esser ancora tenuto lì. Così durò, per il ciabattino gobbo, per tutt’i santi giorni che sono contenuti in trent’anni. Tutti fatti di “salve o gobbo” del conte e di “Buongiorno vostra signoria” dello sciagurato. Poi una mattina tutto finì di colpo. Che niente a questo mondo è fisso e stabile. Fu il lacchè, vedendo che il conte Frusta tardava alquanto, pur non avendo udito alcunché, gli andò incontro di quei pochi passi che c’erano fra la carrozza e la botteguccia del ciabattino, che per primo vide arrivato il dopo del conte Frusta, e dei trent’anni d’insulti al gobbo ciabattino. Lui, il gobbo, riera seduto al suo bischetto: zitto, calmo, sguardo fisso al palmo della sua mano destra vuota del trincetto. E il trincetto... Era infisso nell’addome del conte lì supino sul selciato. Per ben tre anni non fu trovato in tutto il Granducato un avvocato che se la sentisse di prendere a difendere quel gobbo, tanto efferato era quel delitto; tanto era smisurata la sproporzione sociale fra l’assassino e l’assassinato e tanto... Inesistenti i ducati dei cliente per pagare la parcella dovuta alla difesa. Poi, inopinatamente, si fece avanti un certo Annibale Becherini avvocato forse sì forse no. Male in arnese anche a vederlo. Sconosciuto affatto al mondo forense. E del quale qualcheduno – e questo può dare un suo tratto – lo diceva “il Beverini” anziché il Becherini. Comunque la Gran Corte, onde finalmente sortirne e poter procedere all’attesissimo processo non lo rifiutò. Quando il carro trainato da un mulo, proveniente dal carcere duro del Mastio delle Stinche, con l’assassino rinchiuso dentro, sbucò sulla piazza del tribunale dovette fendere la folla, che subitamente ammutolì. Era il carro nero e chiuso, ben noto, che conduceva i condannati alla forca e aveva il frate cappuccino che già sedeva a cassetta accanto allo sgherro postiglione. Mentre uno stuolo di gendarmi a cavallo e sciabo-

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la in aria gridavano “Fate largo alla legge, largo, largo!” E nel pesante silenzio fu sentito lo scatenacciare dei ferri che tenevano legato mani e piedi il gobbo quando, arrivato il carro alla loggia del Bargello, lo fecero scendere per avviarlo subitamente alla sbarra. Ché la corte al completo era già insediata e il salone era traboccante di popolo gia da ore. Il gobbo assassino, già piccino di natura sua, ora appariva ancor più rimpicciolito e mai si reggeva sulle gambe. E, se possibile, era ingobbito ancor di più al buio della cella in quei tre anni da avere la gobba più alta della sua testa incanutita da coniglio. E un sommesso brusìo si levò dalla folla: “ooh...ooh”. L’udienza fu aperta, ebbe svolgimento e durò pochissimo. L’esito era tanto scontato da ritenersi quel processo una pura formalità di legge; “Per un omicidio a ciel sereno, fulmineo, a sangue freddo di questa fatta; commesso su persona tanto altolocata a perbene; da un assassino che dall’assassinato era stato addirittura assistito, alloggiato, protetto e benvoluto” – come declamò con eloquio teatrale e voce stentorea il togato della Pubblica accusa – “di verdetti ce ne possono essere uno e uno solo: la forca, la forca!” Del resto alla Fortezza medicea il patibolo, il boia, il giorno e l’ora dell’esecuzione erano già predisposti da tempo . Cioè la mattina subito seguente il verdetto. E la carrozza nera era lì fuori ad aspettare col cancello aperto. Escusso tutto quello che la procedura giudiziaria prescriveva, mancava solo l’arringa della difesa. È vero. Ma l’ometto dell’apposito scranno – scarmigliato e ancora senza toga – non pareva affatto preoccuparsi d’alzarsi per dire qualcosa in dìfesa del suo cliente. Né, tantomeno – se qualche parola come “Mi rimetto alla clemenza della corte” doveva pur dirla, che doveva dirla ora o mai più. Tutti pensarono alla sua rinuncia: troppo indifendibìle quel gobbo assassino lì in gabbia... . Invece no. L’avvocatuccio finendo d’infilarsi la toga dopo che era balzato nel centro dell’aula, si sfilò calmissimo l’orologio a catena dal taschino e lo tenne nel palmo della mano. Zitto assunse un’aria di grande flemma e cominciò a camminare a testa eretta e a passi lenti in circolo guardando uno ad uno tutt’i componenti del collegio giudicante. Nessuno fiatava. La suspense del popolo e dei togati era massima. Mah... Che aspettava ora quell’azzeccagarbugli del Beverini...

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Era rincitrullito? Era già il secondo giro che faceva camminando sempre più vicino agli scranni della corte e dalla sua bocca non era uscita neanche una parola che è una parola. Il giudice presidente, con la sua burbanza, prima col gesto della mano e poi – seccato assai – con la voce lo esortò. “Avvocato, dite, dite, entrate nel merito, prego!”. Ma quello si limitò ad alzare solo l’indice come a far capire che aveva inteso benissimo. E per inchiodare, con quel dito, l’attenzione di tutta la corte e in specie di lui: del Presidente in ermellino, gorgiera di seta e tòcco rosso e oro. E volle fare in quel modo – zitto, a dito puntato e a passo più lento – un altro giro. E solo ora – fissando il Presidente – finalmente, con voce sussiegosa disse “Eccellenza signor Presidente, signori della corte!” E si chetò di colpo iniziando un altro giro ancora ancora più lentamente sguardo a tratti all’orologio che teneva stretto nel palmo della mano. Del tutto incurante del bisbiglio del popolino e del bofonchiare del Presidente con i suoi giudici ausiliari. E quando di nuovo fu vicino al suo scranno, sempre con fare suadente, dalla sua bocca uscì ancora: “Eccellenza signor Presidente, signori della corte!” E basta. Il giudice Presidente, ora non ne poté più. Rosso scarlatto in viso balzò in piedi. Scompostamente smaniava, urlava con gli occhi fuori dell’orbita. “Avvocato! Avvocato! Ora basta. Dite, dite o vi tolgo la parola!” E aveva ragione, l’abnorme era palese. Altro che la teatralità d’avvocato era quella turlupinatura, vilipendio della corte era... E in primis di Lui personalmente e del Suo ermellino e del Suo tocco rosso e oro. Ma quello, il Beverini, non se ne diede per inteso. Tornò zitto e a girare in tondo piano piano. Ai gendarmi grandi e grossi e con alabarde lì in servizio d’ordine, lampeggiavano gli occhi. Un solo gesto del Presidente e l’avrebbero afferrato come un fuscello quel briaco del Beverini: per arrestarlo per fragrante insulto alla corte; per toglierlo di peso da quel cospetto; per mettergli i ferri; per picchiarlo anche semmai... E il gesto venne, ci fu. Ma prima che arrivassero a toccarlo l’avvocato difensore Annibale Becherini piazzò ancora una volta sul muso del Presidente quel suo “Eccellenza signor Presidente...”. A questo punto successe un pandemonio. Il parossismo del Gran togato toccò il diapason: smaniava, urla-

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va, sputava parole scomposte, offese inconsulte e pure schizzi di saliva. Quasi come taluni rettili schizzano i loro veleni ai loro aggressori. Ma al Beverini bastò che l’afferrassero per le braccia perché gli si sciogliesse di repente la lingua. Lo stupore da colpo di scena agghiacciò la gente in un assoluto silenzio. I gendarmi ristettero. “Io – attaccò ora sciolto e benevolo l’avvocatuccio consultando l’orologio – eccellenza signor Presidente, sono solamente tre minuti che mi rivolgo a Voi dandoVi dell’eccellenza e... . Voi vi siete ridotto a codesto supremo stato di furia collerica da ordinare la violenza dei gendarmi su di me: mettermi le mani addosso, arrestarmi, picchiarmi, incatenarmi, imprigionarmi...! Ebbene – continuò girandosi verso l’intero mondo dei presenti – il mio cliente, che ho l’onore e l’onere di difendere in pura perdita, è stato insultato ininterrottamente per ben trent’anni con l’epiteto più atroce e più vile che la perfidia umana possa escogitare: la contumelia riferita all’anomalia che egli ha ricevuto – suo malgrado – da madre natura: quella d’essere gobbo. Irrimediabilmente gobbo. Signor Presidente, signori della corte la difesa ha finito il dire a Voi, ora, il fare. Il fare giustizia!. E il Becherini – Beverini – avvocato forse sì e forse no – nel gran clamore di popolo che era scoppiato per il ribaltamento copernicano del processo da lui provocato, si sfilò la toga e sgattaiolando sparì.

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TRA LE RIGHE DI UNA FAVOLA di Vittoria Menghini Corciano ...Dolcissimi Alessandro e Massimiliano “C’era una volta una bambina che si chiamava...”. ...Una collana di perle, coralli rossi prendono forma dalle mie parole. ...Un filo di emozioni riannoda lacerazioni di tempo spezzato, frammenti di attimi sciolti in angoli remoti, bagagli dimessi nei ripostigli dell’anima. ...Sto giocando con i miei nipotini e tornano i miei giochi d’infanzia. ...Gioca la mia memoria con il tempo, s’intreccia con una collana di ricordi. ...Dal comodino di mia madre avevo preso quelle pietre per ornare il mio collo, volevo somigliare ad una vera principessa. ...E davanti allo specchio della camera mi vedevo già grande. ...Poi avevo avuto un’altra idea, trasformare quel monile in una minestrina per la cena e cuocerla nelle mie pentole, ciotole di latta ricavate da vecchi barattoli inutilizzabili. Con un martello iniziai a battere su quei chicchi preziosi che mi sembravano troppo grandi, ne ricavavo tanti altri più piccoli, tanto altro materiale per giocare, tante altre porzioni da servire. ...Non potrò mai dimenticare lo sguardo di mia madre che era arrivata troppo tardi. ...Niente si era salvato. ...Una minestra non cucinata era ciò che le rimaneva del ricordo della sua mamma. ...E della mia una donna dalla figura statica, senza parole, senza gesti, senza rimproveri, senza reazione. ...Ancora sulla soglia l’immagine di quel momento. ...Insieme a quella di quando era con mio padre al lavoro nei campi e capitarono dei soldati tedeschi. ...Altre volte erano giunti a casa nostra e la mia mamma aveva preparato loro sempre da mangiare. ...Si era alzata anche in piena notte per farlo, quando erano arrivati anche molto tardi.

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Tra le righe di una favola

...Mi diedero delle zollette di zucchero, avevo poco più di cinque anni, e pensai bene di comportarmi come una persona adulta. ...Ma non sapevo cucinare e li accompagnai nella cantina dove sapevo che mio padre teneva le scorte di prosciutti, salami, capocolli, vino, olio... . ...Non sapevo che dovevano restare nascoste. ...Presero di tutto, li vedevo riempire avidamente le loro sacche ed uscire dallo scantinato soddisfatti intanto che mi brillavano sempre più gli occhi verdi, contrastati da capelli nerissimi e morbidi. ...Con le guance sempre più rosse su di un colorito olivastro, mentre quegli uomini, che ora mi appaiono come poveri ragazzi disperati e affamati, per gioco mi tiravano le treccine con cui mia madre anche quella mattina aveva sistemato i miei capelli. Sorridevo a quegli scherzi, e sempre felice succhiavo gli zuccherini mentre li vedevo allontanarsi con gli zaini traboccanti del cibo che gli avevo messo a disposizione. ...Cominciai a seguire il loro cammino. ...La giornata era bella e arrivai fino in cima alla collina, dove si apriva una distesa di terra molto chiara e fina, quasi a sembrare il piazzale di una maestosa Cattedrale. ...Intorno un piccolo bosco dove io mi divertivo ad osservare i voli di numerosi uccellini e, spesso, le corse delle lepri. ...Dove anche la mia fantasia non aveva più confini. ...Ma i soldati mi avevano distanziato e, quasi intristita, abbassai lo sguardo. ...Che subito si posò su tre barattoli della grandezza di quelli dei pomodori pelati da mezzo chilogrammo. ...Particolari e curiosi perché oltre ad essere corredati di una piccola catenella, metà monetina, così sembrava, usciva da un loro lato. ...Era come se avessi trovato un tesoro. ...Meravigliata per la sorpresa iniziai subito a giocarci. ...Mettendoli in fila ed unendo le catenelle con un pezzetto di legno creavo un trenino, collocandoli uno sopra l’altro sfidavo l’equilibrio, distanziandoli quanto bastava per correrci in mezzo realizzavo un vero percorso ad ostacoli. ...Comunque per me così preziosi da essere toccati sempre delicatamente. 61


Tra le righe di una favola

...Mi chiamò la mamma che era ora di pranzo. ...Dovevo nascondere quella mia ricchezza e l’unico posto sicuro che mi venne in mente fu l’incavo di un vecchio ulivo dal tronco spaccato. ...Rivedo ancora la sua corteccia, ne sento il profumo, un colore bianco che sfumava fino al nero. ...Mi dovetti arrampicare e mi scorticai pure un braccio, ma non sentii nemmeno dolore: ce l’avevo fatta! ...Poi per mesi sono salita sulla collina più volte al giorno per giocare anche solamente pochi attimi con quei nuovi oggetti, addirittura anche solo per guardarli. ...Fino a quando arrivò l’estate, con un caldo torrido. ...Quel pomeriggio i miei genitori riposavano all’ombra di un gelso da cui potevo gustare frutti bianchi e neri. Anche se squisiti non li colsi e nemmeno mi accostai a quell’albero, ne approfittai invece per correre ancora in cima al colle. ...Me ne stavo seduta in terra, attorniata dai miei giochi quando all’improvviso iniziò a grandinare. ...Chicchi enormi, tuoni dal rumore spaventoso. ...Senza avere tempo per riporre i barattoli. ...Corsi verso casa con le mani in testa e mi accorsi che un ruscello d’acqua scura mi accompagnava durante la discesa. ...Era sempre più ingrossato, trascinava con sé foglie, ramoscelli, piccole pietre, terra. ...Giunsi a casa completamente bagnata, gli abiti appiccicati addosso. ...Mentre salivo a fatica le scale vidi uno dei miei barattoli che, trascinato dalla corrente, finiva la sua corsa nell’acquitrino del nostro orto. Non riuscivo a ripescarlo e nei giorni successivi osservavo le galline bere là dentro, giocare con quell’acqua. ...Le odiavo, quel gioco era solo mio. Tutto mio. Un regalo inaspettato. ...Perché solo una volta avevo avuto un vero regalo, acquistato dai miei genitori alla fiera. ...Un enorme sacrificio per loro, per fare una sorpresa alla più piccola di sette figli. ...Un palloncino rosso che ha vissuto pochi minuti tra le mie mani ed è volato via subito. ...L’ho contemplato fino a che era diventato invisibile, l’ho aspettato giorni interi senza vederlo più scendere. 62


Tra le righe di una favola

...Ho sperato che tornasse da me insieme alla pioggia, ma inutile, la gioia di quel piccolo dono era durata ben poco. ...Pagata con il dolore di averlo visto andarsene. ...Ad Agosto mio padre ripuliva la pozza nell’orto. ...Io a pochi metri di distanza, mentre con ansia aspettavo di riprendere il mio tesoro. ...All’improvviso uno scoppio, un boato tremendo, pezzi di ferro che mi cadevano anche in testa. ...Mio padre a terra, esanime, fango mischiato a carne ferita, sangue ovunque. ...Io immobile, pietrificata. Nel momento in cui lo sentii chiedermi aiuto con un filo di voce scappai terrorizzata a piedi nudi. ...La terra arida e screpolata, dura e tagliente, un sole cocente e la disperazione. Correvo senza meta, fuggivo verso il niente. ...Mi trovarono a tre chilometri di distanza dei cacciatori che, oltre a riportarmi a casa, portarono mio padre in ospedale. ...Poi anche mia madre, già fragile, con troppi figli e troppe difficoltà. ...Morì pochi anni dopo, era il 12 giugno 1948. ...Mi prendevo carico delle faccende domestiche, tra cui la legna per la grande stufa di terracotta rossa, l’acqua da riportare con i secchi dal fosso. ...E poi di nuovo al fosso per lavare i panni, con le mani per ore a bagno nell’acqua gelida. ...Diverso era il tempo della mietitura, una gran festa sotto al sole. ...Il grano raccolto nei campi e poi la trebbiatura nell’aia, tra tanta polvere che rendeva l’aria irrespirabile. ...Là in mezzo quasi mi tuffavo a servire acqua e vino a quei lavoratori dalle bocche riarse che mi accoglievano con un sorriso, per me la gran gioia di essere utile. ...Ed altre incombenze, come pascolare le pecore e scartocciare il granoturco. ...Ripulita dalle foglie intorno, rimaneva una bellissima pannocchia gialla. ...Molti chicchi di mais erano destinati alle galline, ma altri ne mangiavamo noi, dopo che la spiga veniva lessata o arrostita. 63


Tra le righe di una favola

...Allo stesso tempo continuavo ad andare a scuola, cinque chilometri a piedi tutti i giorni. ...Strada percorsa con le scarpe in mano, non potevo rovinarle e le calzavo solamente all’arrivo in paese. ...Ruscelli da attraversare saltellando su pietre, il ghiaccio insidioso dell’inverno. ..Se mi bagnavo un piede avevo freddo fino al ritorno, fino al caldo del focolare domestico. Che mi proteggeva anche dalle bacchettate nelle mani che prendevo durante le lezioni. ...Io porgevo il palmo, la maestra voleva il dorso e mi diceva “Gira queste mani”. ...Come anche Don Giuseppe. ...Divenivo sempre più gracile e mio padre pur di farmi studiare pensò di farmi entrare in un collegio di suore. ...Ma non era più facile così la mia vita. ...Tutte le mattine alle 6,30 la Santa Messa, la domenica ben tre, cantate. ...Mangiavo un pezzetto di pane lasciato dalla sera ed intinto nel latte in polvere. ...E subito con il coro, avevo una voce tra le più belle. ...Una domenica d’estate è come fosse ieri, oggi. Tutte le compagne intorno, il caldo, la fame, l’odore della cera, il cantare, il profumo dei fiori, l’incenso, la Chiesa piena di fedeli. ...Mi reggevo a fatica, sentivo mancarmi le forze e anziché stare in ginocchio in posizione eretta, cercavo di appoggiarmi nella panca dietro me. ...Subito Suor Vincenza mi riprendeva, io ubbidivo intimorita. ...Svenni e mi trovai nel piazzale fuori, tra donne che mi schiaffeggiavano ed un forte odore di aceto. ...Anche dalle suore venivo punita, in ginocchio sopra ai ceci che, di nascosto, rosicchiavo crudi e sporchi dalla gran fame che avevo. ...Quando se ne accorsero li sostituirono con dei sassolini, così appuntiti che quasi si conficcavano nella carne. ...Mia sorella maggiore si accorse del mio deperimento fisico, del mio morale a terra e con l’aiuto di un medico riuscì a portarmi via da lì...

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Tra le righe di una favola

...Un torrente di acqua torbida alternato ad acqua cristallina, il tempo che scorre trasportando la mia vita. ...“Bimbi, la storia è finita...” ...Ho appena terminato di leggere il racconto di Biancaneve, persa tra le righe di un libro che non mi era stato mai letto, tra fiabe che non mi sono state mai raccontate, tra storie che hanno lasciato un segno sottile e tagliente. ...Adesso state guardando le previsioni del tempo. ...Nei vostri occhi le nuvole ed il sole, nei miei una bacchetta che spesso oscura ogni cosa. ...Vi ho promesso una pizza, di quelle con la mozzarella filante. ...Ma questa sera, tra le mie mani, il barattolo dei pomodori trema. ...Si è riaperta una ferita, è lo squarcio di ciò che resta del passato. ...È la lacerazione delle bombe a mano che non guarisce, il gioco che avevo amato di più. ...Che richiama tutti gli altri ricordi, è da tempo che sono grande, ma adesso sono tornata piccola anch’io. ...Le vostre scarpette si confondono con le mie, un unico paio che indossavo da troppo larghe a troppo strette. ....I vostri vestitini sono appesi con il mio, quello della domenica e delle feste. ...I vostri stampini da riempire con il pongo sono insieme alle mie ciotole di latta e terra. ...I vostri cartoni animati sparsi tra le mie sere ravvivate dal bagliore di una candela… ...Un camino acceso...le provviste di cibo di cui un anno avevamo fatto a meno e mio padre che non aveva avuto parole per sgridarmi, che non aveva saputo spiegarmi cos’era la guerra, che non aveva voluto dirmi dei pericoli intorno. ...Il vostro sorriso, le mani che sollevano formaggio gustoso, la gioia di essere nonna. “Questa sera non facciamo i capricci per mangiare, è buonissima questa pizza! Ma nonna perché piangi?”.

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CAREZZE D’AGLIO di Luciana Baruzzi Ravenna La mia era una famiglia benestante. E numerosa: c’erano nonno Gianita, sua sorella Teresiona, nonna Giannina, nove zii, i miei genitori, quattro miei fratelli e tanti cugini che non era facile contare. Zia Pia, viaggiava su una Topolino amaranto, rara negli anni cinquanta, che parcheggiava in un garage comunicante col pollaio, vicino alla legnaia. Un posto da topi che, rubate le granaglie alle galline, si annidavano nella catasta di fascine e di qui, attraverso la capote bucata, s’infilavano dentro. Noì bambini, per paura dei topi, ci rifiutavamo di salire nella Topolino, perché, appena dentro, li sentivamo arrampicarsi su per le gambe. I cuscini dell’auto avevano grosse molle e i topini, rodendo l’imbottitura, entravano e passeggiavano in galleria. Noi, allora, allargavamo i buchi per far uscire gli intrusi che, ribelli, si rifugiavano in difesa nel motore. La festa finale alla Topolino, già disfatta dai topolini, la fece zia Billa che aveva preso a guidarla e sbatteva in tutti i muri. Noi preferivamo andare in calesse, una vettura rustica con due ruotacce dai cerchioni in ferro, che cigolavano. Dai momento che indossavamo pantaloni corti anche d’inverno, i genitori ci coprivano con una coperta verde militare che pizzicava sulle gambe, ma non scaldava nessuno perché ce la tiravamo di qua e di là. Era meglio, comunque, stare al freddo in calesse che essere assaliti dalla banda dei topolini. Incuranti della modernità di zia Pia, gli uomini continuavano a spostarsi in calesse, ma soprattutto a cavallo. A far eccezione fu zio Nino che comprò una Gilera 500 Saturno, il primo motore comparso a casa mia, al Cantone. Un giorno, mentre girava su questa grossa cilindrata nell’aia, anziché togliere il gas, lo diede e finì dentro un pagliaio. Accorsero in aiuto i contadini che, per estrarre lo zio assieme alla Gilera, dovettero affettare il pagliaio con le tagliole. Lui non si fece quasi niente, ma non volle più saperne di motori e di macchine. I miei familiari continuarono, così, a usare il cavallo per varie necessità e per raggiungere, su strade impervie, le nostre tenute. Paolo, mio futuro padre, per andarvi era solito fare il viaggio assieme al cugino Tonino,

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che aveva proprietà confinanti. Passavano per strada, affiancati, su cavalli scelti, in tenuta da cavallerizzi, con un bel portamento. Facevano un figurone. Erano i più bei giovani del paese, tanto che Rosina, una ragazza mora dagli occhi scuri si fermava, incantata, a guardarli. E, uno sguardo dopo l’altro, s’innamorò di Paolo. Capofamiglia era nonno Gianita. Alto più di due metri, con due baffoni neri da far paura, intimidiva tutti i contadini e, a volte, li rimproverava in modo cosi severo e minaccioso che questi correvano da nonna Giannina a informarla. Con un pretesto, allora, lei si recava, subito, là e lo accompagnava a casa, colmandolo di affettuosità. I rapporti coi contadini ritornavano, così, normali. Molti si ricordano ancora la famosa, forte, arrabbiatura che il nonno, fanatico per la caccia, prese un giorno. Era partito a piedi da casa col bel tempo, ma, arrivato al capanno sulla collina, trovò un forte scirocco che impediva agli uccelli di fermarsi. Innervosito al massimo per l’inutile fatica fatta, prese il fucile e «Toh!» disse. Poi «pani, pam, pam» cominciò a sparare in aria, al vento, urlandogli parole di infamia. Alla morte del nonno, prese il comando della famiglia sua sorella Teresiona. Alta come il nonno, i capelli corti, pareva un omaccio. Aveva baffi vistosi e una voce maschile, tanto che, quando cantava a Messa, faceva rimbombare tutta la chiesa. Era una zitellona e anche una gran tirchia, cosicché nonna Giannina, quando faceva il pane, era costretta a cuocere le pagnotte per i poveri, all’insaputa della cognata che non voleva dare niente a nessuno. La nostra casa aveva due custodi: Biribessa e sua moglie Angiolina che, non avendo figli, vivevano quasi sempre con noi. Lui era anche il cocchiere. Era alto, magro, baffuto. Lei, la domestica, piccola e tanto grassa che faceva fatica a passare dalle porte. Biribessa, accompagnava a fiere e mercati gli uomini di casa e, quando tutti avevano bevuto in allegria, al ritorno era il cavallo a comandare il calesse e a riportarlo a destinazione. «M’aracmand, Biribessa, portine ona bela forma» gli disse Angiolina, un giorno, sapendo che andava alla fiera a Palazzuolo, dove vendevano formaggi pecorini speciali. Lui l’accontentò e posò la forma, ben avvolta nelle foglie di noce, nel calesse. Lo zio, Michele, inosservato, in vena di scherzare, sostituì al formaggio una forma in ferro da calzolaio, ben accartocciata nelle foglie. 67


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«Ecco Angiolina la tua forma» disse Biribessa alla moglie. «Te la do io, adesso, la forma!» rispose lei, dopo averla liberata dalle foglie. E la tirò dietro al marito, sfondando la propria porta di casa. Uno dei nostri contadini, Bepino, si fermava spesso a casa nostra per giocare a carte. E giocando, fumava la pipa. Nonna Giannina, amante degli scherzi, come molti in famiglia, una sera, prese di nascosto la sua pipa di terracotta, poi, con una scusa si allontanò. Tolto un po’ di tabacco, vi mise un bel pizzico di polvere da sparo, usata per preparare le cartucce da caccia. Era una polvere rossa, detta l’Americana, poco potente e lenta nello scoppio, ma scelta perché meno cara. La nonna, dopo averla ben stesa, la ricopri di tabacco e, quando Bepino accese la pipa, la polvere esplose e “pim, pum, pam”, gli bruciò baffi e capelli. `Stavolta, padrona ve la faccio pagare’ disse, fra sé, Bepino. La cappa del focolare in cucina era molto grande e nonna Giannina era solita starci sotto, seduta nello scarand, un seggiolone di paglia molto alto, sotto al quale metteva uno scaldino per tenere calde le gambe. Bepino, pian piano, senza farsi vedere, mise in mezzo alle braci roventi dello scaldino sette-otto marroni, che “piripin piripon, piripin, piripon”, cominciarono a scoppiare in aria, come fosse in prima linea. E bruciacchiarono le gambe della nonna. Oltre al gusto degli scherzi, in casa mia, prevaleva la passione per i cavalli e per la caccia, trasmessa da generazioni, di padre in figlio. A casa, noi bambini cavalcavamo da soli, alla presenza di babbo che ci insegnava: «Fate così, fate così». Lui ci portava anche con sé, sul suo cavallo, quando andava dai contadini. Un giorno comprò Furia, una cavalla nera, purosangue, di grande brio, ma imprevedibile. Oltre a babbo, la cavalcavo solo io, perché non avevo paura di niente. Neanche del diavolo. Un giorno, nei pressi di un filare, lei parti di scatto. Mi accorsi, subito, del pericolo, mi chinai con prontezza e passai sono il filo di ferro che collegava le viti. Per un pelo non mi tagliai il collo. Un’altra volta, mentre tornavamo a casa, Furia, vedendo la porta aperta della stalla, s’infilò dentro di corsa. Con prontezza mi aggrappai all’asta di ferro della lunetta e la lasciai entrare da sola. Con Furia ho fatto voli indescrivibili e se non mi sono ammazzato con lei, non muoio più. La passione per i cavalli, al Cantone, si accompagnava a quella per la caccia. Quando i familiari andavano al mercato, noi bambini prende-

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vamo i loro fucili, che sapevamo già usare e, in quattro e quattr’otto, mettevamo fuori le gabbie dei richiami, improvvisavamo un capanno con qualche ramo, poi, sparavamo agli uccellini che, in tanti, si posavano sugli alberi. Come un turbine, facevamo, poi, sparire tutto prima del ritorno dal mercato. Nessuno, allora, metteva in dubbio l’importanza della caccia. C’erano maestri che erano i più esperti cacciatori dei paese. Anche iI mio maestro, Vittorio, era un cacciatore accanito. Appena mi vedeva al mattino, mi chiedeva quanti uccelli avevamo preso il giorno prima e, quando si rendeva conto che non avevo studiato la lezione, con un misto di rimprovero, comprensione e rassegnazione, diceva: «Sei stato a capanno ieri. Eh!». La passione per la caccia aveva coinvolto anche reverendi, come monsignor Poggi che possedeva una propria tesa, attrezzata di reti per catturare gli uccelli. Aveva anche un operaio, Tullio, che portava con sé i propri richiami e stava tutto il giorno nel capanno. 11 canonico arrivava a cavallo, poi, si sedeva a leggere il breviario, mentre Tullio sparava dalla bocchetta. Ai cacciatori che si vantavano di aver ucciso fagiani, don Giovanni di San Ruffillo faceva notare che lui, i fagiani, invece, li allevava nel cortile della canonica. Esotici, appariscenti, con lunghe code dai riflessi cangianti, dorati, metallici. Non mancava di elogiare anche la squisitezza della loro carne, specie se cotta allo spiedo dalla perpetua Virginia. Don Giovanni ci teneva, inoltre, a offrire ai cacciatori di passaggio il suo vino speciale: «Virginia, per favore, ci porti da bere!». «Adesso vengo, signor curato» «Virginia ci porta da bere? Si o no?» «Non abbia paura. Arrivo, subito, reverendo». Virginia arrivava, zoppicando, a forza ed dei. Era piccola e robusta tanto da superare il quintale. Arrivava, ma non portava il vino speciale richiesto da don Giovanni. Da tirchia com’era, ne serviva uno più scadente. Comandava lei, non il reverendo. Don Luca era appassionato di fringuelli per i quali preparava uova sode e petto di pollo, pestati regolarmente con la mezzaluna, e d’inverno, per proteggerli dal freddo, teneva le gabbie in camera. Per lasciare liberi i cacciatori di domenica, celebrava la Messa il sabato. Altri sacerdoti,

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invece, la dicevano molto presto nei giorni festivi e consentivano ai cacciatori di entrare col fucile scarico in spalla. Anche babbo andava a questa Messa, per recarsi, dopo, nella nostra tesa della Canovaccia. Situata vicino a un piccolo valico, sulla cresta di una collina, la tesa lasciava godere una bella vista sul torrione di monte Battaglia, sulla vallata del Santerno e sull’Appennino. Seminascosto, dietro a tre boschetti, c’era il grande capanno, composto di due stanze e una torretta, attrezzata con leve per abbassare le reti e catturare gli uccelli. E fu proprio in questo capanno che Paolo portò Rosina durante quello che avrebbe dovuto essere il viaggio di nozze. Dopo un breve soggiorno a Roma, col pretesto che gli avevano fatto mangiare tante banane da star male, disse che preferiva andare a Monte Battaglia in luna di miele. Rosina non si oppose. Il marito non era abituato ai viaggi. Amava i suoi monti. La caccia. Il suo mestiere. Lasciarono così Roma, per andare entrambi nella tesa della Canovaccia, dove, nel mese di ottobre, c’era il massimo passaggio degli uccelli. Stare nel capanno era piacevole. Lassù non mancavano mai una damigiana di sangiovese e una di albana. Apprezzate da tutti, ma da alcuni più degli altri. Una mattina, quando il babbo arrivò nella tesa, s’accorse che la porta del capanno era aperta. Il suo pensiero fu per i richiami: Senz’altro, li hanno rubati. Accidenti. Avrei dovuto portarli via tutti’. Ma le cose non stavano così. I richiami erano proprio lì, in gabbia. Il ladro non aveva toccato niente, tranne le damigiane. Scomparse entrambe. A differenza del ladro, i cacciatori, apprezzavano il vino della tesa, gustandolo con calma sul posto. A un amico del babbo, piacque tanto che, nel tornare a casa sul suo Galletto, un motore Guzzi 175, non prese la prima curva, tirò dritto e finì dentro un fosso. «Stavolta il Galletto è diventato una gallina» disse il babbo, in vena di scherzare. «Smetti di parlare! Cavami, piuttosto, da sotto questo motore» rispose, arrabbiato, l’amico. Fu necessario ricorrere ai buoi del contadino per tirare su il Galletto. E, infine, fu sollevato il cacciatore. Oltre alle damigiane, nel capanno, c’erano sempre, attaccati al soffitto un prosciutto e una resta di cipolle, che mangiavamo, al mattino presto,

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con la polenta. A mezzogiorno pranzavamo, invece, con gli uccellini, cotti nello spiedo a casa. Il momento più divertente della giornata era, però, nel pomeriggio, quando gli adulti si appisolavano, perché allora noi bambini usavamo, di nascosto, i loro fucili. Erano fucilini Beretta da capanno, di piccolo calibro. Un giorno ci mettiamo a tirare ai sassi. Facciamo a turno a lanciarli e a spararvi sopra con cartuccine. Quando tocca a me, miro troppo basso e impanino la vespa di mio cugino Alberto, appoggiata lì vicino. «Come facciamo adesso a dirlo a mio babbo?» chiede lui, preoccupato. «Ah! É semplice. Non glielo diciamo!». «E poi?» «La sporchiamo tutta, in modo che non si vedano i buchi dei pallini». E così la passiamo liscia. Nella tesa non mancavano, mai, gli amici di famiglia, che arrivavano a piedi a casa nostra, poi facevano il resto del viaggio con babbo. Ce n’era uno, Luigi, col cappello sempre in testa e la doppietta che toccava terra, tanto era piccolo. Compariva all’alba e, lasciato nell’ingresso il tascapane, andava a scaldarsi vicino al fuoco della cucina, acceso giorno e notte. Curiosando, avevamo scoperto che questo tascapane, all’interno, aveva una retina per riporre la selvaggina uccisa. E fu proprio questa rete a ispirarci uno scherzo. Di sera portammo in casa, dal capannone, un crine da fieno, poi, tentammo dí catturare il nostro gatto che, con un balzo si diede alla fuga nella stalla dei cavalli dove, disorientandoci, saltava da un mucchio di fieno all’altro. Riuscimmo, infine, ad acchiapparlo e a metterlo sotto il crine, già pronto per il mattino. All’alba, mentre uno dei miei fratelli teneva aperto il tascapane, in due cercammo di infilare, a tutti i costi, dentro la retina il malcapitato che si rifiutava, graffiandoci e miagolando, come fosse condannato a morte. Messolo dentro, infine, chiudemmo il tascapane e, via, tornammo tutti a letto. Li, al buio, il gatto stava fermo, ma, quando Luigi lo apri, il recluso, ridotta in pezzi la rete, balzò fuori, con un salto improvviso, quasi da cavargli gli occhi. Fu mamma a mettere fine alla burla con un rovescio di scapaccioni. La mia vita trascorreva spensierata quando, già in agguato, c’era la scuola, pronta a guastarmi divertimenti e allegria. Raggiunta l’età prevista, mi rifiutai di frequentarla.

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«Voglio andare a caccia» dicevo, disperato, con insistenza, a babbo, sperando nel suo appoggio. Non, certo, quello di mamma, contraria da sempre alla caccia, per i figli. Scappavo. Piangevo con stizza. Ne facevo di tutti i colori. Non volevo sentir parlare di scuola. Dovetti, in ogni modo, arrendermi. La scuola non mi piaceva. Non ero capace di star fermo. Non sopportavo di stare, là, chiuso. Una mattina di primavera m’incamminai a piedi, di malavoglia, con la cartella in mano. Mamma, già in allarme, perché durante la colazione avevo mostrato segni d’insofferenza, mi segui per strada a distanza, senza farsi vedere. Arrivato all’imbocco della strada provinciale, invece di dirigermi verso la scuola, presi la direzione, opposta. Non l’avessi mai fatto. Mamma, che era alta, magra, agile, m’insegui, mi raggiunse e me le diede di santa ragione. Altre volte, invece di andare a scuola, andavo a capanno, sgattaiolando al mattino presto, prima che i genitori si alzassero. A scuola, quando ci andavo, ero tremendo. Non avevo voglia di far niente. Il mio voto più alto, nelle materie, era quattro e, nell’intera pagella, quello in condotta. «Andate a Pagnano» ordinò, un giorno, a noi cinque figli, mamma Rosina, arrabbiata per il nostro profitto scolastico e risoluta, da far paura. Ci fece accompagnare dalla domestica in canonica, dove vivevano don Enrico e sua sorella Luisa, maestra in pensione, per un aiuto nei compiti a casa. Don Enrico, un sacerdote molto alto che, col passare degli anni, si era curvato tanto da toccare quasi col naso per terra, era temuto dai parrocchiani per il suo caratteraccio. Luisa, alta e magra come il fratello, era, invece, una donna dolce. Noi non eravamo parenti, ma ci comportavamo come se lo fossimo. Ogni pomeriggio, giunti in canonica, entravamo in un salone che era dominato da un pappagallo dalle penne color verde sgargiante, legato con una lunga catenina a un alto trespolo, vicino al focolare. E, proprio in questo salone, facevamo i compiti su un’enorme tavola, in compagnia della maestra Luisa, che ce le dava tutte vinte, e del volatile che ripeteva, spesso, con voce rauca: «Vat a ca’ tova» «Vat a ca’ tova». Noi, allora, di nascosto, scuotevamo il trespolo e lui, con sguardo torvo, faceva dei gran versacci: «Aaaahhh», «Aaaahhh».

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«Che cosa fate, bambini?» chiedeva con un filo di voce, accorrendo, la maestra che, di tanto in tanto, si allontanava. Non avevamo nessuna certezza su chi avesse insegnato al pappagallo, a dire agli ospiti, con sgarbo, di tornarsene a casa. Ma, solo, forti sospetti sui reverendo. Prima di andarcene, però, ci sfogavamo, tirando all’uccellaccio palle di carta che lo facevano diventare sempre più ostile. Fuori noi, il pappagallo ritornava libero e svolacchiava su una porta sempre aperta della sala. A un certo momento, però, si ammalò, morì e fu imbalsamato, tanto bene da sembrare vivo. Fini, così, questa nostra storia col pappagallo, ma non furono senza conseguenze le sue provocazioni. In pagella avemmo voti disastrosi, scritti con inchiostro rosso fuoco. Un giorno, per sfogarmi di un torto fattomi dalla maestra, con un elastico prendo di mira le sue gambe, incrociate sotto la cattedra. «Zig» fa la pallina di carta pressata e, al suo arrivo, lei si mette a strillare come una sirena. Chiama, poi, mia mamma che, ascoltate le lamentele, ne approfitta per criticare le punizioni della maestra. Ma la storia non finisce lì. A casa, mamma si sfoga, su di me, col nerbino, un frustino fatto con nervi di bue, che iniziano con un certo spessore e si assottigliano sempre più. Mamma non scherza. È proprio severa. Non pensa mica “Poverino, poverino”. Me le dà e basta. Mentre noi fratelli non facciamo altro che giocare e scherzare, mamma e la domestica Angiolina, di tanto in tanto, devono fare il bucato con la cenere, un lavoro lungo e pesante. Noi sappiamo, però, trasformarlo in una nuova occasione per divertirci. Al ritorno dal fiume, dove mamma e Angiolina hanno risciacquato i panni, mentre loro ci precedono, reggendo la grande catinella, uno di noi, adagio adagio, solleva la gonna della domestica e, con una molletta di legno da bucato, gliela attacca alla cintura del grembiale. La sorpresa sconvolgente è che lei non porta i mutandoni lunghi fino alle caviglie, come si usa. Non porta proprio niente. E noi, a ridere da morire. L’inventore dello scherzo, però, smette presto di ridere, perché si busca un’abbondante dose di scappellotti. Mamma, che non ho mai visto così arrabbiata, arrivata a casa, per sfogarsi, corre a raccontare l’accaduto a nonna Giannina che, da gran burlona com’era, invece di scandalizzarsi, scoppia a ridere come una matta.

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Se mamma, in aggiunta ai lavori di casa, è impegnata nel far fronte all’esuberanza di noi figli, babbo è chiamato, spesso, per interventi da veterinario. E, a volte, c’è bisogno del suo aiuto anche al Cantone. Abbiamo un cane, bianco e nero, Bric, nato da Diana, una nostra cagnolina bianca, e da Mussolini, un cagnaccio del vicino, nero carbone. Il nome affibbiato a questo cane incuriosisce e fa ridere molti, perché il suo padrone va per i boschi e lo chiama, urlando: «Mussolé, veri a que!». «Chi ciamle, lu là?» dice la gente che lo sente, senza capire chi sia quel matto che chiama Mussolini, là nel bosco. Un giorno, Bric, figlio di questo Mussolini, si getta su una lepre, mentre un cacciatore spara, e resta impallinato, ma babbo, che è un veterinario nato, lo salverà, tenendolo desto col caffè per tutta notte ed estraendogli tantissimi pallini dal corpo. Bric riprende, poi, a cacciare le lepri, ma ha imparato bene la lezione: una volta stanatane una, resta immobile finché non ha sentito lo sparo. Tralasciando la passione per la caccia, un altro aspetto che distingueva la nostra famiglia era la religiosità. La devozione segnava tutta la nostra giornata. Prima di sederci a tavola, in piedi, ci facevamo il segno di croce. Prima di cena, poi, mentre noi bambini dicevamo una certa quantità di preghiere, gli adulti dovevano recitare un intero rosario. Ogni sera del mese di maggio, inoltre, davanti al pilastrino della Madonna di casa nostra, avveniva la grande recita del rosario a cui partecipava tantissima gente che si disponeva fin sulla strada. Fra i contadini c’era Nunzieda che si sedeva sempre sul margine di un fosso, ma, per stanchezza, si addormentava durante la recita delle litanie. Le vicine, appena se ne accorgevano, la svegliavano. Lei, di soprassalto, allora, mentre noi tutti ripetevamo «Ora pro nobis», diceva «Un os, un os, un os», poi si riaddormentava. E noi bambini a ridere da morire. Un giorno, mio cugino Franco e io nascondiamo, nel campo dí grano vicino, due secchi d’acqua. Quando sentiamo Nunzieda dire «Un os, un os, un os», ciascuno di noi prende un secchio e «broom» glielo rovescia addosso. La bagniamo, così, dalla testa ai piedi. Ma quante botte prendiamo! Per sentirle di meno, ci rifugiamo ìn camera sotto le coperte. E mamma dietro. Arrivano tante botte davvero.

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Certe sere, dopo cena, la badante ci mandava subito in camera. Una volta a letto, passava nonna Giannina a sfregarci uno spicchio di aglio in faccia e sul petto. La sentivamo arrivare al buio, pregando. Era talmente religiosa che girava sempre con la corona in mano. Sentendo il bisbiglio delle sue preghiere, il rumore dei suoi passi e della corona che, passando, sbatteva nelle porte, fingevamo subito di dormire. Nessuno sapeva perché lei ci strofinasse l’aglio. Capivamo però che la nonna lo faceva con amore e, per lei, era come un’affettuosa carezza. Divenuti più grandi, ci divertivamo ancora come fossimo bambini. Spesso, la sera, quando il babbo ci conduceva in paese, giocavamo a tuta e andavamo a nasconderci anche lontano dal centro. Una sera, ero di guardia, vicino alla torre dell’orologio, in un punto da cui si vede un arco e una stradina che congiunge due vie. Quella sera, nella penombra, non lontano dall’arco, mi parve di vedere due miei amici. Partii di corsa e ne toccai uno di gran spinta. «Stavolta a tò ciapè» urlai. «A te deg mé: a tò ciapè» rispose lui e mi arrivò un pugno nel naso che mi buttò d’innaz indrè. Che fatto pugno! Finii steso per terra col sangue al naso. Quelli non erano i miei amici, ma due innamorati che si scambiavano tenerezze. Li riconobbi, poi, nonostante fossi là in terra. Lei, era una delle ragazze più belle del paese, tanto che fu scelta, in seguito, per sfilare sul carro allegorico del Cantone, Rumagna, tirato dai nostri buoi, tutti addobbati a festa. Sul carro c’era una grande conchiglia che, davanti alla giuria, si aprì e comparve questa ragazza che, nel fiore degli anni e della sua bellezza, indossava, un incantevole abito di velo rosso, lungo fino ai piedi. Tutti rimasero senza parole. Affascinati. Erano bei tempi, quelli. Ma volavano. Purtroppo. La tuta e gl’innamorati, i topi nella Topolino amaranto, lo struscio dell’aglio, la Vespa impallinata, il gatto in rete e il Galletto nel fosso, Nunzieda con la molletta da bucato e le secchiate d’acqua, i marroni nello scaldino e la polvere da sparo nella pipa, mi strappano, ancora oggi, tante risate e mi riportano alla spensieratezza dell’infanzia. Una spensieratezza che negli anni si é affievolita sempre più. Per scomparire.

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Prodere

PRODERE di Marco Cucchi Perugia L’ho fatto ancora. L’ho fatto di nuovo. L’acqua bollente mi scivola sulla pelle. Sui capelli, sulle spalle, sul petto, sulla schiena, sulle braccia, sulle natiche, sulle gambe. Lenta e purificatrice. La schiuma è tanta che mi copre i piedi sul piatto-doccia quadrato. La cabina piccola e il vapore mi tolgono il respiro, mi aumentano il battito cardiaco ma continuo a sfregare con forza, a frizionare con la spugna. Il sapone negli occhi mi punge come piccole scariche elettriche, ma lo sopportano il dolore; anzi ogni volta che, dopo, mi faccio la doccia, non aspetto altro che questo momento, non aspetto altro che mi vada il sapone negli occhi, in modo che mi svegli, che mi desti. Molti assassini si lavano dopo aver commesso il delitto. Il sapone è scomparso dal mio corpo ma continuo a far cadere l’acqua sul viso che odora ancora di lei, della sua saliva, del suo sudore, dei suoi umori. Mi annuso la punta delle dita delle mani e ancora violento il profumo di lei, mi stordisce e vorrei tornare sul letto e averla di nuovo sotto di me che geme, con i capelli lunghi appiccicati al viso che gli finiscono in bocca. Un brivido lungo la schiena mi ricorda che non posso toccarla ancora, che non posso nemmeno riguardarla negli occhi. Chiudo l’acqua e, gocciolante, esco dalla doccia; non mi asciugo, non voglio usare la sua biancheria da bagno. Rimango a fissarmi sul grande specchio attaccato al muro. Il mio fisico è ancora integro, eppure ho la sensazione che si stia per rompere, per cadere a pezzi. Forse è solo la stanchezza dovuta al sesso. Il senso di colpa che stressa i miei muscoli. L’ansia è presente e cerco di fare dei profondi respiri con il petto che si gonfia. Appoggio l’orecchio alla porta per sentire se lei è ancora sveglia. Spero si sia addormentata. Dio quanto è tardi. Non sento rumori o fruscii di lenzuola. È ancora sul letto e probabilmente si è addormentata; in fondo sono in bagno da più di mezz’ora. Apro la porta lentamente e mi dirigo con velocità in camera dove lei è

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stesa in un piacevole dormiveglia ed è bellissima in questa posizione che mi ricorda quella che assume sempre la donna che mi sta aspettando a casa, la donna che promette ogni giorno di amarmi sempre di più, che promette di non lasciarmi mai. Resto immobile, sto bagnando il pavimento. Mi appoggio alla parete di fronte al letto e sento in bocca il sapore del whisky che ho bevuto prima, che adesso mi disgusta. Ne ho bevuto troppo e mi accorgo che la testa mi fa male. La luce dei lampioni che entra dalla finestra mi da fastidio. Ce n’è proprio uno davanti al vetro che si deve essere appena acceso, perché prima, non l’avevo notato. Raccolgo i vestiti sparsi sul pavimento e me li infilo lentamente perché non voglio che lei si svegli. Voglio sparire senza che mi saluti o che mi chieda di rivederla perché non voglio rivederla e voglio dimenticare questo appartamento, queste lenzuola, voglio dimenticare il suo indirizzo e spero che l’alcool faccia il suo dovere in questo senso. I vestiti si sono bagnati, s’attaccano alla pelle e avverto il freddo pur essendo una delle estati più calde che io ricordi. Mentre sono in fuga, mi giro un’ultima volta a guardarla e mi accorgo che ha aperto gli occhi e mi sta fissando. Non dice niente ma il suo sguardo è cristallino: non mi ricordo neppure il suo nome mentre lei ricorda il mio; sa che non mi dovrà neppure salutare il giorno che casualmente mi incontrerà per strada. Mi difendo con l’arroganza. Le sorrido. Esco in strada e devo sforzarmi di ricordare dove ho messo la macchina. Comincio a camminare e la cerco tra il caos dei parcheggi selvaggi anche a quest’ora di notte. Ma non la trovo e improvvisamente mi ricordo che sono venuto con lei, che mi ha trascinato nella sua auto e portato qui. Inizio a camminare velocemente perché il tempo è mio nemico in questo momento. Devo cominciare a pensare alla scusa che dovrò raccontare. Nuova, l’ennesima. Incrocio un uomo che mi guarda accigliato. Forse ha notato i miei capelli fradici. Ha due grandi sopracciglia che sembra intendino dire che ha capito da dove vengo e dove vado. Io non avverto nemmeno l’acqua che mi entra nel colletto della camicia. Prendo il pacchetto di sigarette in tasca e me ne accendo una che viene subito bagnata da una goccia d’acqua che scende dalla mia testa. Dio quanto è buono il fumo, quanto mi conquista ogni volta che

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lo assaporo e in momenti come questi non vorrei smettere di fumare mai; una dietro l’altra fino a che la mia gola, completamente secca, non chieda perdono e un bicchiere di latte. È mezzanotte e un quarto e non è così tardi come la fretta di andar via da quella casa mi aveva fatto credere. Rallento l’andatura e inizio una sorta di passeggiata che vuole rilassarmi; ogni quattro passi una boccata di fumo. Pian piano sento gli indumenti asciugarsi e i capelli che svolazzano leggermente alla brezza notturna estiva. Lei è stata grande a letto... Lei è stata grande a letto... . Non riesco a levarmi dalla mente l’immagine dei suoi capelli che mi passano sul petto, fradici, il sudore mescolato, la sua mano che cerca la mia sempre, anche durante l’orgasmo, forse anche quando ero sulla soglia della porta per andarmene. La mia mano tiene la sigaretta per effetto di gravità, penso, perché non ha più la forza di stringere niente e nessuno; non pronta alle minime funzioni prensili. Non voglio più toccare nessuno in quel modo, non voglio più sfiorare la pelle con le dita. Mi sfrego il viso con i palmi per cercare di capire se ho ancora il senso del tatto e la sigaretta mi cade sull’asfalto caldo, puzzolente e nauseabondo. Ne accendo subito un’altra e ecco di nuovo l’amico che mi abbraccia e mi conforta e mi sostiene e mi dice che non c’è più nessun problema perché tanto c’è lui che mi protegge e mi proteggerà da qualsiasi pericolo incombi su di me. Sorrido per la gioia di sapere che c’è qualcuno che mi toglierà da queste situazioni difficili, che mi vieterà di ricaderci ancora. Mi analizzerà, mi scruterà la mente e manterrà i miei segreti, chiuderà il mio corpo ad ogni avanzare della tentazione e sospenderà i miei sensi fino a che la mattina dopo mi alzerò e la disgustosa oppressione nei miei polmoni sarà il sigillo che non dovrò rompere mai. Continuerò a fumare finchè avrò vita, finchè il mio corpo sarà chiuso. Sono ancora lontano dalla mia auto e forse è meglio che io faccia una telefonata per avvertire che sto tornando a casa. Il cellulare spento è nella tasca dei pantaloni. Lo accendo e non c’è nessuna chiamata. Compongo il numero e lei risponde col tono di chi stava dormendo e sorride. Non si preoccupa né dell’ora tarda, né del fatto che io stia passeggiando da solo per strada. Mi aspetta a letto e chiude lei la telefona-

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ta. Sono fermo sul marciapiede di fronte ad un negozio di fiori dove sull’insegna c’è il numero di telefono per consegne urgenti. Magari adesso lo chiamo e le mando un mazzo di margherite perché lei è innamorata di me e si merita margherite; si merita lo staccare di ogni petalo per giocare al m’ama o non m’ama e il giardino della sua casa natale di cui va tanto fiera. I fiori nella vetrina sono esposti impeccabilmente e li vorrei comprare tutti. Riflessa sul vetro appare improvvisamente una donna che cammina sull’altro lato della strada ed è bionda. Mi giro per osservarla meglio e cerco di non avere la postura del maniaco. Anche lei si gira a guardarmi e si ferma. Sull’altro lato. Sul marciapiede. Passano i secondi e nessuno dei due fa il minimo movimento fisico; il fumo della mia sigaretta è l’unica essenza terrena che ha movimento in questa strada dove non passano auto o dove non si sente nemmeno un televisore acceso. Poi lei attraversa la strada senza guardare né a destra né a sinistra. Si avvicina e mi chiede una sigaretta. Gliela do senza pronunciare verbo e gliela accendo, pure. Mi aspetto che se ne vada e invece resta davanti a me a gustarsi il sacro tabacco attenta a non mandarmi il fumo in faccia e il suo rossetto rosso acceso macchia il filtro. La fuma lentamente che mi sembrano secoli quelli che stanno passando invece che secondi. Rimaniamo immobili; io la guardo soddisfatto di aver fatto conoscere il mio migliore amico ad una perfetta sconosciuta che si è sentita subito a proprio agio con lui. Poi la sigaretta finisce e butta il mozzicone per terra e lo faccio anch’io dato che la mia mi brucia le dita, tanto è consumata. La donna chiede se voglio un po’ di compagnia e credo che la mia fiera interdizione sia sfacciata perché lei fa una smorfia imprecisa. Ha la voce roca di chi fuma da sempre e di chi conosce benissimo il mio migliore amico. Un po’ di compagnia in un locale qui vicino dove preparano ottimi long drinks, ci facciamo due chiacchiere e poi decidi tu se vuoi continuare la serata da un’altra parte, io comunque ho una voglia matta di bere, come se non lo facessi da anni. Il mio silenzio la spazientisce un po’, è evidente, e compie una giravolta verso la direzione che percorreva poc’anzi. Mi guarda un’ultima volta e poi si rincammina, più velocemente di prima. Io comincio a seguirla a due o tre metri da lei. Sente i miei passi dietro ma non si volta. Mi guida e accen-

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do un’altra sigaretta. Questo è un altro momento importante della mia vita, uno di quelli dove mi spingo oltre il possibile, oltre il mio corpo chiuso. Arriviamo dopo pochi minuti ad un piccolo bar dove entrando lei viene salutata da un barman giovane che evidentemente conosce bene dato il gesto poco più che accennato e confidenziale. Si siede al bancone ed è la prima volta che vedo una donna seduta al bancone. Mi siedo accanto a lei e guardo le sue mani che tirano fuori il pacchetto di sigarette dalla borsa, la prova del suo adescamento e che ne accendono una come se fossimo in cima ad una scogliera colpita dal vento. Le chiedo se è una prostituta ed è quasi insolente farlo dato che è l’unica spiegazione possibile ad un approccio simile. Non risponde e ordina un qualche cocktail che non conosco per tutti e due. Bevo questa misteriosa pozione blu che mi è stata servita e subito riavverto l’alcool che si mescola col fumo nella mia bocca che vuole una sigaretta, un’altra. Lei me la offre senza che gliela chieda e finalmente mi sorride per la prima volta. Non è bellissima, non corrisponde al genere di donna a cui di norma mi rivolgo e non mi attrae particolarmente. Il mio corpo chiuso la sta respingendo. Alza il bicchiere come per fare un brindisi con me, alla mia salute, ma io non raccolgo e finisco il mio in un solo sorso. La sigaretta la tengo in mano spenta. Noto che la camicetta leggera nasconde due spalle molto larghe e due braccia decisamente muscolose per una donna. Con le dita nuovamente energiche, le sfioro la spalla. Mi dice, senza che le chieda niente, che pratica la boxe perché col lavoro che fa non si sa mai. Gli uomini sono delle bestie quando si parla di sesso o soldi e non sanno contenersi, tanto più quando si trovano a trattare con una puttana bionda. Che ci vuoi fare, bisogna adattarsi se si fanno delle scelte ben precise. Poi, se vuoi avere una prospettiva più ampia, puoi pensare che il mio fisico formato può servire anche a proteggerli, a ripararli da loro stessi. Credo che il vero lavoro di noi donne sia proprio questo, preservare gli uomini dalle loro paure e garantire loro la stabilità. Le parole le escono di getto e così sicure che non posso fare a meno di adorare questa donna che tanti chiamerebbero disgraziata ma che a me da il senso della chiarezza e della rettitudine, anche se poi non trovo un vero filo logico nel suo discorso. Pare abituata a pronunciarla spesso tanto è l’automaticità con cui ha formulato la frase.

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Non importa. In questo momento le voglio far credere di aver capito. Mi sento partecipe della sua intera esistenza e di nuovo quella sensazione si fa avanti, il mio corpo lentamente si riapre, il brivido che sento ogni volta che l’attrazione fisica rompe ogni schema di bellezza e di amore. Mi porto fisicamente più vicino a lei avvicinando il mio sgabello al suo e le appoggio la mano sulla gamba tonica ma lei non reagisce. La accarezzo e butto la sigaretta che non ho mai acceso. Non mi va più... . È meglio se te ne vai...non hai bisogno di adattarti a me in questa maniera....non sono come le altre... . Una sequenza di parole connesse l’una all’altra in una melodia che annichilisce il momento che avevo deciso di intraprendere e non mi guarda nemmeno mentre le pronuncia. Ordina un altro bicchiere di non so cosa e sposta il suo sgabello lontano da me, dalla mia mano e dal mio alito sul collo. Poi cambia idea poiché disdice la sua ordinazione, paga le nostre consumazioni, si alza e se ne va in uno scatto felino. Credo che la mia bocca si sia aperta e sia rimasta tale per diverso tempo perché il barman mi guarda con un mezzo ghigno. Lentamente mi alzo e l’equilibrio è un po’ precario ma raggiungo l’uscita dando un ultimo sguardo ai personaggi all’interno di questo piccolo posto e vedo solo due coppie, sedute allo stesso tavolo, che stanno conversando normalmente interrotte da qualche sporadica risata. Niente di più normale, niente di più consueto. Riprendo la strada verso l’auto con l’ultima sigaretta del pacchetto in mano, spenta, con la certezza che non berrò mai più alcool in vita mia e col mio corpo ancora più serrato di prima, impaurito. Di lei non c’è più traccia; neanche la cerco per la strada. Si è allontanata il più possibile da me e dalla mia immodestia. È tardi e devo tornare a casa. Non si accorgerà dell’ora, quando mi infilerò sotto le lenzuola perché la sveglia accanto al letto non funziona, non porta orologio da polso e le potrò inventare qualsiasi ora della notte. Non voglio fare l’amore. Non voglio nemmeno che me lo chieda. Lei lo dovrà accettare senza che le dia una ragione plausibile. Dormirò abbracciato a lei per tutta la notte e anche per tutto il giorno che verrà, ma, per adesso, non aprirò di nuovo il mio corpo perché non credo che riuscirei a concederlo di nuovo. Io sono un uomo. 81



Finalisti Poesia

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Non dirmi

NON DIRMI di Lenio Vallati Firenze Non dirmi che la tela si scolora mentre nel vento corrono le foglie. Se c’è un riflesso bianco tra i capelli sarà il sole che gioca a nascondino tra le chiome del cielo, se le mani mostrano solchi assetati come campi d’agosto e vene scure sarà il rinnovarsi della nuova stagione che chiede altra linfa. E non voglio sentire questa sera parole d’abbandono mentre ti accarezzo dolcemente il viso e ti guardo negli occhi. Se una nube scura li attraversa saranno stormi di liberi pensieri diretti in volo verso l’imbrunire, se una lacrima compare sulla soglia del tuo volto ancora di bambina sarà una perla caduta questa sera dal forziere dorato delle stelle a rischiararci la strada del domani.

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Alzheimer

ALZHEIMER di Armando Bettozzi Roma Come tela di ragno avvolge lentamente e inesorabile preme meschina, per la resa dell’indifesa vittima e tutto annulla e toglie anche il decoro. E la mente ricopre di impalpabile nebbia che addensa pian piano e ne fa muro e quello che v’è inciso lo cancella. E avida scava intorno una trincea per la lunga prigionia che sfianca e svuota e rende, inconsapevole, pronto il corpo – ormai dimenticato – ad impietosa e solitaria agonia. Nel tuo deserto senza orizzonti, senza ormai storia, va alla deriva senza un’emozione quel tuo bel navigar, senza più approdo.

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Dialogo versione dialettale

DIALOGO di Nello Cicuti Perugia (versione dialettale) E tu chi sé? Dice n vecchio camino ta n’antenna che jonno miss a fianco. Io sò l progresso e tu nun saprò manco quanto fò divertì grand e cinino. Sò la modernità, l divertimento, porto notizie e la gent ascolta, adesso nunn’è più come na volta che sentivono sol a fischià I vento. L camino j’arispose: Car’antenna tu parli ma nn’aseolti ta la gente, parli soltanto e nun senti niente stè mpalata e l vento te tentenna. Io nvece ntol silenzio de la sera sento che vengon su dal focolare parol a volte dolci a volt amare secondo de comè l’atmosfera. A volte sento anche che I più vecchio arconta belle fiabe ai nipotini e qualca volta du fidanzatini se dicono te amo ta l’orecchio. Alora tu nun sé na meravija ma sé n pezzo de ferro senza core, io nvece mandando l mi calore tengo vicina tutta la famija.

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Dialogo versione italiana

DIALOGO di Nello Cicuti Perugia (versione italiana) E tu chi sei? Dice un vecchio camino ad un'antenna che le hanno messo a fianco. Io sono il progresso e tu non sai neanche quanto fo divertir grande e piccino. Son la modernità, il divertimento, porto notizie e la gente ascolta, adesso non è più come una volta che sentivano solo fischiare il vento. Il camino rispose: Cara antenna tu parli ma non ascolti la gente, parli soltanto e non senti niente, stai li fissa e il vento ti dondola. Io invece, nel silenzio della sera sento venir su dal focolare parole a volte dolci, a volte amare secondo di come è l’atmosfera. A volte sento il più vecchio raccontar fiabe ai nipotini e altre volte due fidanzatini si dicono ti amo sull’orecchio. Allora tu non sei una meraviglia ma un pezzo di ferro senza cuore, io invece con il mio calore tengo vicina tutta la famiglia.

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In casa

IN CASA di Cinzia Corneli Corciano (Pg) Cosa vuoi che ti dica adesso. Ora che non c’è più motivo per piangere che non ha più senso correre per averti in una strada senza direzione dove so che non t’incontrerò mai né dirti di un tempo che avanza pressando la vita. Tutto è come prima il cancello dipinto di verde i panni stirati la casa riassettata anche se la brocca non è più lì perché così ho deciso. E altre cose non troveresti al loro posto che un tempo fissavano il tuo sguardo solo ieri ancora mio.

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Appuntamento

APPUNTAMENTO di Agnese Verdi Bologna Una foglia e una farfalla s’inseguono. Foglia di declinante estate svola. Farfalla creatura d’amore l’accompagna. L’una come la vita al tramonto l’altra come anima traspare dentro il fragile involucro di una crisalide. Idillio e Consunzione in un ultimo vortice.

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Il non viaggio

IL NON VIAGGIO di Ornella Guerrini Perugia Per il non viaggio non serve prenotazione, si parte senza denaro perché i sogni non hanno prezzo, senza meta, senza bagagli, senza data, inutile affannarsi. Si viaggia con gli occhi della mente per trovarsi rapiti su una spiaggia deserta di fronte ad un mare di un blù intenso, oppure ai piedi di una montagna con il suo cappello di nebbia o dinnanzi ad un paesaggio coperto da un manto nevoso o davanti ad un albero maestoso, che ha superato tante stagioni, ma i cui rami sono ancora braccia protettive dove trovare rifugio assieme all’elfo a cui svelare segreti. Il non viaggio non cerca compagni d’avventura, non ne ha bisogno, né luoghi affollati o piazze di città tutte uguali nella mancanza d’amore. Il non viaggio ha il sapore amaro del sale o di cibo e bevande sconosciute, di sesso donato e subito dimenticato. Il non viaggio ascolta silenzio o vento che soffia piano in mezzo ad una foresta tropicale accarezzandola, il canto triste di una allodola che chiama il suo compagno, sorvolando veloce la valle. Il non viaggio non ha foto perché il suo tempo non si conta.

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Nò èmme tredicianni

NÓ ÉMME TREDICIANNI Tosello Silvestri Perugia (versione dialettale) Nó c’ émme tredicianni, gimme a scòla; fu l primo amore e fu la prima fiamma! M’ arcordo com’adè de q’la fiòla, che se chiamava come la mi mamma. Gni sera ntól fa bujo la cercavo; in via dell’Acquedotto, de vedetta, da sopra i parapetto io guardavo si fosse scesa già ntla piazzetta. Tal su balcone i davo na sbirciata e c’ évo na gran fifa, sò sincero, ché si i su babo 1’ésse richiamata, toccava daje retta, era severo! No sguardo ci abastava, c’era intesa; nó ce ncontramme sempre ntón ella via, dietro la siepe a fianco de la chiesa, giungevo io per primo e dopo lia. Ntra l silenzio e la penombra dia sera, n abbraccio stretto, stretto e prolungato, lia mi diceva: “T’amo!”. Era sincera, j’ arispondevo: “Anch’io!”, ero beato. De colpo la campana che sonava, diceva eh’ era l’ora de gi via; la voce dla su mamma, la chiamava, finiva n altra volta la magia.

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Noi avevamo tredici anni

NOI AVEVAMO TREDICI ANNI Tosello Silvestri Perugia (versione italiana) Noi avevamo tredici anni, andavamo a scuola; fu il primo amore e fu la prima fiamma! Mi ricordo come adesso di quella figliola edicianni che si chiamava come la mia mamma. Ogni sera al tramonto la cercavo, in via dell’Acquedotto di vedetta da sopra il parapetto io guardavo se fosse scesa già nella piazzetta. Nel suo balcone davo una sbirciata e avevo una gran fifa, son sincero, perché se suo padre l’avesse richiamata toccava dargli ascolto, era severo! Uno sguardo ci bastava, c’era intesa ci incontravamo sempre in quella via dietro la siepe a fianco della chiesa, giungevo io per primo e dopo lei. Tra il silenzio e la penombra della sera un abbraccio stretto stretto e prolungato, lei mi diceva: “T’amo”. Era sincera. Le rispondevo “Anch’io”, ero beato. Di colpo la campana che suonava diceva che era l’ora di andare via; la voce di sua madre la chiamava, finiva un’altra volta la magia.

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Non c’è più scampo

NON C’È PIÙ SCAMPO di Giuseppina Palombi Umbertide (Pg) Non c’è più scampo per le farfalle dalle ali contaminate non hanno più forza di volare: inermi soccombono fra gli artigli del mostro di velluto. Piange la carne ferita, immolata ad altari di piaceri perversi, ma questo tempo ciarlatano troppo impegnato a mercanteggiar successi su pulpiti dorati, ascolta e guarda dal balcone della dignità poi, nascosto dietro al fumo delle sue promesse, noncurante con la valigia piena di sé in fretta va verso la nullità.

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L’orazzione

L’ORAZZIONE di Claudio Francescaglia Perugia (Versione dialettale) ‘L mi por babo, che’n famija je dicevno Checchino per esse poco più de ‘n’ucellino, m’arcontava che quaan’era cinino la su’ mamma ‘l portava a San Lorenzo a la funzione quann’era l’ora dia divozzione. Lu’ ce giva senza fasse pregà ch’i capitava d’rado con tutt’ qui fratelli che c’eva ch’la su’ mamma potesse coccola. «Per biventà bono come ‘n angiolino è da dì l’orazzion ta la Madonna che sta `ntl’altarino, me raccomando così smett’d’esse brichino». Lu’ zitto zitto faceva ‘l segno dla croce e s’arcomandava ‘n ginocchione come i’eva ‘nsegnato a fa’ la sera ‘ntol coltrone. Quan che le garognole erno amaccate contro legno duro dla panca s’alzava `ncla faccia stanca saltava ‘n po’n qua ‘n po’ nlà a zoppagalina da na macchia a n’antra, ch’emo i disegni dle vetrate ‘n terra, s’avicinava ta la porta grande e, adio mamma!, armarrò brichino ma è ‘l mi diritto d’esse ‘n fiol cinino!

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L’orazione

L’ORAZIONE di Claudio Francescaglia Perugia (Versione italiana) Il mio povero babbo, che in famiglia chiamavano Checchino perché era poco più di un uccellino, mi raccontava che quando era piccino la sua mamma lo portava a San Lorenzo alla funzione quando era l’ora della devozione. Lui ci andava senza farsi pregare perché gli capitava di rado con tutti quei fratelli che aveva che sua madre lo potesse coccolare. «Per diventare buono come un angiolino devi dire l’orazione alla Madonna. che sta sull’altarino, mi raccomando cosi smetti d’essere birichino». Lui zitto zitto faceva il segno della croce e si raccomandava in ginocchio come gli aveva insegnato a fare la sera sulla coltre. Quando le ginocchia erano ammaccate contro il legno duro della panca si alzava con la faccia stanca saltava un po’ qua un po’ là a zoppagallina* da una macchia all’altra, erano i disegni riflessi delle vetrate in terra, si avvicinava alla porta grande

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L’orazione

e, addio mamma, rimarrò birichino ma è il mio diritto d’essere un bambino piccolo! * zoppagallina: procedere saltando alternativamente su una gamba e sull’altra, come sembrano fare a volte le galline, quando si fermano con una zampa alzata.

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Limpide giornate estive

LIMPIDE GIORNATE ESTIVE di Catia Rogari Perugia Limpide giornate estive che mi parlate al cuore vestite di colori luminosi baciate la pelle con aliti caldi e, m’avvolge questa calda quiete portandomi ai languidi ozi gustati sdraiati su rive assolate di mari lontani di baie complici alle nostre emozioni non piÚ represse ma espresse in mille e mille baci e tenere carezze. O limpide giornate estive che mi parlate al cuore...

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