Premio di Laurea Cesvol 2017 1
Cesvol Centro Servizi Volontariato della Provincia di Perugia Via Campo di Marte n. 9 06124 Perugia tel 075 5271976 fax 075 5287998 www.pgcesvol.net pubblicazioni@pgcesvol.net
Edizione marzo 2018 Coordinamento editoriale di Stefania Iacono Stampa Digital Editor - Umbertide
tutti i diritti sono riservati ogni produzione, anche parziale, è vietata ISBN 9788896649763
Presentazione Il volume è la pubblicazione del premio di laurea “Cesvol”, che si inquadra nell’ambito di una convenzione siglata tra il Centro Servizi Volontariato di Perugia ed il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Perugia. Il bando prevede la pubblicazione della tesi e vi possano concorrere studenti che abbiano conseguito la Laurea Magistrale in Sociologia e politiche sociali, Comunicazione pubblica, digitale e d’impresa, Scienze della politica e dell’amministrazione. Il premio si inquadra nell’ambito di una più ampia collaborazione istituzionale, che prevede anche la possibilità di svolgimento presso il Cesvol Perugia del tirocinio di formazione ed orientamento di studenti e/o laureati dell’Ateneo perugino. Il formale rapporto di collaborazione siglato da Cesvol Perugia e Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Perugia prevede infine la promozione di varie attività che consentano esperienze di partecipazione a pieno titolo nel volontariato e nel non profit, finalizzandole ad una riflessione sulle varie dimensioni delle realtà sociale. Per il primo anno d’istituzione del premio, la tesi premiata è quella di Conteh Jessica, dal titolo: Storie di richiedenti asilo: i percorsi all’interno dell’approccio biomedico in un’Italia multietnica (relatrice: prof.ssa Fiorella Giacalone), che si è laureata nella Magistrale di Sociologia e Politiche Sociali, nel Dipartimento di Scienze Politiche.
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Questa la motivazione della commissione istituita per la scelta della tesi: La dott.ssa Conteh ha svolto una tesi che ha come oggetto il percorso sanitario dei richiedenti asilo, con particolare riferimento alla realtà umbra. Si tratta di un tema quanto mai attuale, di cui si occupano sia le strutture periferiche del Ministero degli Interni (prefetture), sia il sistema di seconda accoglienza, che coinvolge Amministrazioni comunali e cooperative sociali (SPRAR). In merito a questa presenza nel territorio nazionale, si sono sviluppati da parte dell’opinione pubblica una serie di allarmi sociali, a cominciare dai problemi sanitari e di sicurezza urbana. La dott.ssa Conteh, attraverso una ricerca diretta, ha intervistato medici e infermieri che si occupano dello screening sanitario dei richiedenti asilo, ma anche diversi operatori sociali che lavorano in associazioni sul territorio e che lavorano nelle strutture di accoglienza. Ha anche svolto dei colloqui semi-strutturati ai giovani africani ospitati dalle associazioni, mettendo a confronto la percezione degli operatori sanitari e quella dei giovani ospitati, rilevando diverse concezioni attinenti il corpo, la salute e la malattia. Ne emerge un quadro composito, articolato, che mette in luce i diversi punti di vista, le reciproche diffidenze, la necessità di una conoscenza maggiore delle differenze culturali, che possono creare ostacoli alla comprensione. Il merito del lavoro della Conteh è di aver esplorato, senza pregiudizi e con competenza, la difficoltà dell’incontro e le possibili aperture tra italiani e richiedenti asilo, fornendo riflessioni utili per altre organizzazioni del terzo settore che si trovano ad operare sui temi dell’accoglienza.
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Storie di richiedenti asilo: i percorsi all’interno dell’approccio biomedico in un’Italia multietnica
di Jessica Conteh
A Freetown, cittĂ libera Ai miei genitori e a tutto quello che mi hanno insegnato
INTRODUZIONE La volontà di approfondire la tematica sull’integrazione sociosanitaria dei migranti in Italia, nasce dal desiderio di porre in evidenza un problema, che sovente quando si parla di immigrazione viene sottovalutato. Il superamento del confine geografico, non sempre comporta un superamento delle barriere culturali che caratterizzano le diverse società; e queste differenze possono condurre a problematiche serie qualora si a che fare con la salute delle persone. In Italia, si ha ancora qualche difficoltà a pensare e ad accettare la differenza, a rispettarla ed inscriverla nelle nostre abitudini e all’interno dei sistemi pubblici, compresi quelli sanitari. La medicina, così come la psicoanalisi o la psichiatria, ha il compito di riportare all’ordine della normalità operosa il disordine della sofferenza che isola, contesta e disattiva; non c’è gruppo umano che non abbia messo a punto dei dispositivi di ritualizzazione della devianza per riportare il disordine all’ordine stabilito dalla propria cultura.1 Ogni individuo acquisisce la propria cultura sin dalla nascita, la cultura infatti non è innata, ma viene acquisita dai membri di una società attraverso l’inculturazione dai grandi ai più piccoli. La famiglia, come incubatore antropopoietico per eccellenza, è la cinghia di trasmissione fondamentale in tutte le culture, che trasferisce ai neonati i principi ordinatori del gruppo, iniziandoli a uno specifico modo di esserci nel mondo. Chi se ne 1 Piero Coppo, 2013,” Le ragioni degli altri” Raffaello Cortina Editore, Milano, pag.54.
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prende cura trasferisce al neonato una massa di informazioni che iniziano a costituirlo non solo come umano generico, ma come umano specifico, appartenente cioè a quel determinato gruppo e a quella determinata cultura. 2 Come soggetto della mia ricerca ho scelto i richiedenti asilo, in quanto ritengo che per coloro costretti a lasciare la propria terra, ed impossibilitati a tornarvi, sia particolarmente problematico l’impatto con un Paese culturalmente differente dal proprio. Inoltre la componente multietnica dell’Italia odierna, è data principalmente dall’aumento dei richiedenti asilo, verificatosi a seguito dell’emergenza profughi iniziata nel 2012. Il dover sottostare a normative come il trattato di Dublino, che impongono al rifugiato il Paese nel quale vivere indipendentemente dalla sua volontà, ed il ritrovarsi in mezzo a logiche assistenziali e metodi di cura, non sempre compresi dal beneficiario, aumentano la difficoltà che si costituisca un integrazione sociosanitaria reale ed efficace. Il carattere misto dei flussi inoltre, impone sfide di primaria rilevanza ai sistemi di ricezione e asilo degli Stati più interessati dal fenomeno. I flussi degli ultimi anni, si connotano per una natura diversa, rispetto anche solo a poco più di un decennio fa, con massicci arrivi di persone, in fuga da guerre e persecuzioni ed in cerca di protezione, che creano un’enorme pressione verso gli Stati di frontiera dell’Europa. Le ragioni dell’aumento di persone giunte via mare e della conseguente crescita delle domande di protezione internazio2 Piero Coppo, 2013,” Le ragioni degli altri” Raffaello Cortina Editore, Milano, pag.95-98.
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nale, sono da ricercarsi prevalentemente nelle guerre in corso in Siria ed in Iraq, e nei violenti conflitti e nella brutalità dei regimi presenti in alcuni Paesi dell’Africa, quali ad esempio la Libia. L’Italia essendo da sempre prevalentemente terra di emigrazione, ha finora gestito le grandi ondate migratorie degli ultimi anni, impreparata e comandata da una logica emergenziale, che ha rappresentato un grave deficit di fronte ad un fenomeno strutturale come quello delle migrazioni forzate. Occorre inoltre anche considerare la grande differenza tra i migranti che arrivano oggigiorno ed i migranti che arrivavano in Italia prima degli anni 2000; la differenza oltre ad essere numerica, concerne anche gli obiettivi e la composizione. Nel 2000 gli immigrati erano il 2,5% della popolazione mentre oggi arrivano quasi al 6%; agli inizi del 2000 inoltre la componente maggioritaria extracomunitaria era composta da marocchini, seguiti a livello comunitario dagli albanesi, mentre al giorno d’oggi provengono prevalentemente da Stati dell’Africa subsahariana. Precedentemente il migrante era per lo più un migrante economico, che lasciava la propria terra in cerca di condizioni economiche e lavorative migliori, e con l’idea o di ritornare nel proprio Paese una volta raggiunta una disponibilità economica sufficiente o di ricongiungersi ed inserirsi con la propria famiglia nel nuovo Stato. La maggior parte dei migranti odierni invece, sono persone che non potendo più rimanere nel loro Paese, giungono in Italia in quanto essendo al confine, è uno dei Paesi di ingresso in Europa, e sono tenuti a rimanerci non sempre per scelta loro ma, per accordi internazionali superiori. 11
La componente immigrata oggigiorno è caratterizzata principalmente da ragazzi giovani e senza famiglia al seguito, con la volontà di costruirsi una nuova vita ed una propria famiglia nel nuovo Paese e di stabilirvisi definitivamente. Vi è la necessità perciò che il tema dell’integrazione in Italia, sia affrontato in una prospettiva organica e di lungo periodo, nei vari settori che coinvolgono la vita degli individui, cercando di garantire ai nuovi arrivati di potersi inserire nella nuova società e di costruirsi un futuro dignitoso. La sanità è uno degli aspetti più importanti nella vita di un individuo, la salute e la cura del proprio corpo sono le basi per un’esistenza appagante e serena. Per una guarigione efficace è essenziale però riuscire a comprendere non solo la patologia, ma soprattutto la metodologia di cura e condividerla. Non sempre tra il personale sanitario e i pazienti si stabilisce una totale e sincera comprensione né della malattia riferita dal paziente né del trattamento che ne segue; suddetto problema è particolarmente avvertito qualora il paziente appartenga ad un’altra cultura, e non sia abituato alla struttura burocratica della sanità italiana. Le descrizioni della sofferenza infatti variano in funzione delle diverse culture ed è per questo che vi è la necessità che il personale sanitario comprenda l’importanza di tenere in considerazione come la persona vive la patologia rispetto alla sua cultura, e soprattutto sia in grado di rispettare i metodi di cura altrui ed i diversi significati attribuiti alla malattia. Questo è l’obiettivo della mia ricerca, ovvero far emergere le problematiche maggiori che i richiedenti asilo incontrano qualora si relazionano con il personale sanitario italiano, e 12
quanto la cultura incida nella cura della loro salute sia a livello del corpo che della salute mentale. Ho scelto di collaborare per la mia ricerca con due associazioni di Perugia: la cooperativa sociale Perusia e l’associazione Cidis Onlus, in quanto sono due realtà del territorio, che si sono distinte negli anni, per il loro impegno nella gestione dei migranti, in particolare modo nel periodo dell’emergenza profughi. Entrambe le associazioni inoltre, sono impegnate nella gestione dei servizi Sprar in Umbria, e questo permette loro di seguire i propri utenti, in maniera più continuativa e di costruire con essi un percorso volto al loro inserimento sociale e lavorativo. Ho effettuato in totale 13 interviste, tra i richiedenti asilo, il personale sanitario italiano e un’operatrice che lavora con i ragazzi da me intervistati. A fine libro ho riportato quattro delle interviste svolte, considerate da me particolarmente significative, per le questioni emerse durante lo svolgimento del colloquio.
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CAPITOLO 1 LO STATUS DI RIFUGIATO 1.1 Le migrazioni forzate. 1.2 Storia del rifugiato. 1.3 Normativa nazionale ed europea. 1.5 La protezione umanitaria e la protezione temporanea nell’ordinamento italiano. 1.1 Le migrazioni forzate. La popolazione mondiale è arrivata nel 2015 a sette miliardi e mezza di persone; di queste circa 244 milioni sono migranti secondo le stime presentate nel World Population Prospects redatto dall’ Organizzazione delle Nazioni Unite nel 2015.3 Dal 1990 ad oggi lo stock di migranti verso il Nord del mondo è cresciuto all’incirca di 58 milioni, con un incremento annuo di circa due milioni, eccetto nel 2008, a seguito dell’avvento della crisi economica mondiale che ha portato ad una modesta riduzione. A livello intercontinentale 76 milioni sono i migranti solamente in Europa, su una popolazione totale di 742 milioni di persone4. Per migrante si intende colui che risiede per più di un anno in un Paese diverso da quello nel quale è nato. Il migrante si suddivide in due tipologie ovvero il migrante volontario, colui che decide volontariamente di partire per ragioni economiche, o familiari, sperando di migliorare le 3 Il dato è reperibile presso il sito www.onu.org/ World Population Prospects: The 2015 Revision. 4 Dati reperibili presso il sito www.integrazionemigranti.gov.it
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proprie condizioni, o il migrante forzato, cioè colui che è costretto a lasciare la propria terra in seguito ad eventi quali ad esempio guerre, conflitti politici, etnici e catastrofi naturali. Una volta arrivato nel Paese di destinazione il migrante è regolare, se risiede nel Paese con un permesso di soggiorno rilasciato dall’autorità competente in materia, e può quindi soggiornarvi liberamente nel rispetto delle norme giuridiche e sociali. Migrante irregolare è invece una persona che è entrato in un altro Paese, da quello in cui risiede regolarmente, evitando i controlli di frontiera, oppure vi è entrato regolarmente, per esempio con un visto turistico, ma vi rimane anche dopo la scadenza del visto, o non lascia il Paese di arrivo anche dopo che questo ha ordinato il suo allontanamento dal territorio nazionale. Il dislocamento territoriale che compiono i rifugiati rientra all’interno delle migrazioni forzate, e una volta che giunti nel Paese di destinazione fanno domanda di asilo, sono legittimati a insediarsi nel territorio. Qualora gli viene riconosciuto lo status di rifugiato viene rilasciato loro un permesso di soggiorno regolare, che in Italia ha durata di cinque anni. Con il termine rifugiato si intende un individuo che, per ragioni essenzialmente politiche, ma anche economiche e sociali, è costretto ad abbandonare lo Stato di cui è cittadino e dove risiede, per cercare protezione in uno Stato straniero.5 Nel linguaggio comune l’espressione rifugiato viene sovente sostituita dal vocabolo profugo, i due termini però nonostante 5 Dardano Maurizio,2000, “Nuovissimo dizionario della lingua italiana”, Armando Curcio editore, Milano.
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siano simili presentano delle differenze. L’enciclopedia Treccani definisce il sostantivo profugo un termine usato in modo generico, che deriva dal verbo latino profugere, «cercare scampo», composto da pro e fugere (fuggire). Aggiunge inoltre che il rifugiato è colui che ha lasciato il proprio Paese, anche solo per il timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità e appartenenza politica, e ha chiesto asilo e trovato rifugio in uno Stato straniero (Convenzione di Ginevra 1951), mentre il profugo è colui che per diverse ragioni (povertà, fame, calamità naturali, ecc.) ha lasciato il proprio Paese ma non è nelle condizioni di chiedere la protezione internazionale. Anche se di fatto i due termini vengono spesso sovrapposti, è quindi lo status di rifugiato l’unico sancito e riconosciuto nel diritto internazionale. Per ottenere lo status di rifugiato occorre che l’individuo arrivato nel Paese straniero faccia richiesta di asilo, divenendo così prima ancora che rifugiato, un richiedente asilo. Il richiedente asilo è un cittadino straniero o apolide che avendo lasciato il proprio Paese, cerca protezione fuori dal paese di provenienza, ha manifestato la propria volontà di chiedere asilo ed è in attesa di una decisione definitiva dalle autorità competenti su tale istanza; in Italia è la Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato. Dal 2002 inoltre sono state istituite le Commissioni regionali per le richieste di asilo, con le stesse funzioni della Commissione nazionale. La persona è un richiedente asilo e ha diritto di soggiornare 16
regolarmente nel Paese, anche se è arrivato senza documenti d’identità o in maniera irregolare.6 Appena arrivato nel Paese di destinazione il richiedente asilo è sottoposto alla fase d’identificazione, nella quale si registra la persona, vengono prese le sue impronte digitali e le si forniscono i documenti necessari per la sua permanenza in Italia. Qualora al richiedente asilo viene riconosciuto lo status di rifugiato, la Commissione rilascia al cittadino un permesso di soggiorno con durata quinquennale e rinnovabile. Vi è un altro status riconosciuto a livello internazionale, ovvero quello di beneficiario di protezione internazionale. Questa specifica protezione si attiva qualora l’individuo non è riconosciuto come rifugiato, in quanto non è vittima di persecuzione individuale nel suo Paese ma ha comunque bisogno di protezione e/o assistenza perché particolarmente vulnerabile sotto il profilo medico, psichico o sociale o perché se fosse rimpatriato rischierebbe di subire violenze, maltrattamenti o gravi violazioni dei diritti umani. La protezione internazionale permette il rilascio di un permesso di soggiorno anch’esso con durata quinquennale, per ottenerlo occorre presentare domanda alla Questura, la quale dopo aver effettuato gli accertamenti necessari ed aver verificato che non sussistano gli estremi per il diniego, concede al richiedente la possibilità di rimanere nel Paese. Le norme europee definiscono questo tipo di protezione anche con il termine sussidiaria, le domande per questo tipo di protezione internazionale sono state, solo nel 2014-2015, più 6 UNHCR, SPRAR, ASGI, ANCI, MINISTERO DELL’INTERNO (a cura di), 2007, “La tutela dei richiedenti asilo. Manuale giuridico per l’operatore.”, s.n.t. pag.8
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di novantamila in Italia. 7 Un’ulteriore distinzione va fatta infine dalla protezione umanitaria, della quale beneficiano coloro che pur non rientrando nelle categorie sopra elencate di rifugiato e beneficiario di protezione sussidiaria, vengono reputati comunque soggetti a rischio per gravi motivi di carattere umanitario, quali ad esempio donne incinte non in grado di tornare nel proprio Paese, o persone con gravi malattie non curabili nel luogo da cui provengono. Questo permesso dura un biennio, viene rilasciato dalla Questura su richiesta della Commissione territoriale ed in seguito può essere convertito in permesso di soggiorno per lavoro. L’umanitaria è la forma di protezione più presente in Italia, più dell’80% delle richieste vengono infatti accordate come permessi di soggiorno sulla base della protezione umanitaria.8
1.2 Storia del rifugiato Il dovere di disciplinare la questione dei rifugiati si affacciò sulla scena europea all’inizio degli anni 20 del ‘900, quando un gran numero di persone provenienti in massima parte dalla Russia e dai territori soggetti alla sovranità dell’Impero ottomano si vide costretto all’esilio, sotto la pressione dei capovolgimenti politici seguiti alla Prima guerra mondiale e alla Rivoluzione russa.9 I primi strumenti internazionali furono elaborati, nel quadro della Società delle Nazioni, nel tentativo di rispondere a situazioni di crisi particolari, fu il Consiglio della Società delle 7 www.internazionale.it 8 UNHCR, SPRAR, ASGI, ANCI, MINISTERO DELL’INTERNO (a cura di), 2007, “La tutela dei richiedenti asilo. Manuale giuridico per l’operatore”, s.n.t. pag.30 9 www.Treccani.it
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Nazioni che adottò infatti per la prima volta una risoluzione comune sui rifugiati. Il 26 febbraio 1921 e successivamente, il 27 giugno dello stesso anno, la Società delle Nazioni decise di costituire un Alto commissariato per i rifugiati, affidandone l’incarico a Fridtjof Nansen che si occupò principalmente dei rifugiati russi, armeni e greci, per i quali si adottò il Passaporto Nansen, primo esempio di documento di viaggio internazionale per i rifugiati. Nel corso degli anni ‘30 il flusso dei rifugiati fu ulteriormente alimentato dall’avvento di regimi autoritari in alcuni Paesi europei, ma l’approccio usato rimase invariato. Al termine della Seconda guerra mondiale, le potenze alleate crearono l’UNRRA (United Nations Rehabilitation Relief Agency), che si occupò, fino al 1947, del rimpatrio dei prigionieri di guerra e di determinate categorie di rifugiati. In seguito all’avvento dell’ONU, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite trasferì le competenze dell’UNRRA e dell’Alto commissariato istituito nel 1939, all’Organizzazione internazionale per i rifugiati, con mandato limitato fino al 1952.10 Ancor prima dello scadere di tale termine, l’Assemblea generale diede vita nel 14 dicembre 1950 all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, con il compito iniziale di assistere i cittadini europei fuggiti dalle proprie case a causa del conflitto mondiale. Il 1° gennaio 1951, alcuni mesi prima dell’approvazione della Convenzione di Ginevra del 51’, cominciò ad operare l’appena costituito Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR). 10 Ibidem.
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Nei decenni che seguirono la Convenzione di Ginevra è rimasta il pilastro normativo sul quale si è basata l’opera intrapresa dall’agenzia per assistere e proteggere circa 50 milioni di rifugiati nel tempo. L’organizzazione opera attivamente da più di 66 anni in tutto il mondo, nonostante fosse stata creata con un mandato triennale ha continuato a svolgere il suo lavoro, ed a lottare per il sostegno alle persone costrette alle migrazioni forzate, ampliandosi ed incrementando le proprie attività in base ai bisogni delle popolazioni che sono emersi nel corso degli anni. Inizialmente aveva il compito di occuparsi solamente dei rifugiati, ma con il tempo le mansioni dell’UNHCR si sono ampliate ed ora i beneficiari oltre i rifugiati sono gli sfollati interni, i richiedenti asilo, gli apolidi e i rimpatriati. È nel 1956 che l’UNHCR affronta la sua prima emergenza importante: l’esodo che fa seguito alla repressione della rivoluzione ungherese da parte delle forze armate sovietiche, segue poi negli anni 60’ la decolonizzazione in molti Stati dell’Africa, che porta anche all’esodo di masse ingenti di persone. Nel corso dei due decenni successivi l’UNHCR si è impegnato nella gestione dei numerosi spostamenti forzati di popolazione in Asia e America Latina, a seguito di eventi quali ad esempio il colpo di stato di Pinochet nel 1973 in Cile, o il colpo di stato argentino del ’76. Verso la fine del secolo invece l’UNHCR si è occupato dei nuovi esodi di rifugiati in Africa, ma anche in Europa, a seguito delle ondate di persone in fuga dai conflitti balcanici degli anni ‘90. Ha continuato poi ad operare in tutti i conflitti in cui gruppi 20
ingenti di persone erano costrette ad abbandonare le loro case come ad esempio in Afghanistan, Somalia, Siria e in molti Stati africani come la Repubblica democratica del Congo, la Somalia o il Ruanda. Oggigiorno l’Agenzia delle Nazioni Unite è non solo una necessità ma anche una certezza nel mondo, sono ad oggi infatti 126 i Paesi in cui è presente, con un personale di 9.700 persone, 802 dei quali stabili di base nel quartier generale di Ginevra.11
1.3 Normativa nazionale ed europea. Il 28 luglio 1951 le Nazioni Unite in una conferenza tenutasi a Ginevra in Svizzera, sottoscrivono la Convenzione di Ginevra, un trattato che definisce chi è il rifugiato, quali sono i suoi diritti e le responsabilità delle nazioni che lo accolgono. Nel 1967 l’Onu, spinto dalle dimensioni globali del problema dello sradicamento delle popolazioni, ha esteso il raggio d’azione della Convenzione, la quale era nata principalmente per proteggere i rifugiati europei provocati dalla seconda guerra mondiale, con un protocollo. Il protocollo venne sottoscritto a New York, il 31 gennaio 1967 ed è composto da undici articoli, con i quali vengono ampliati i possibili beneficiari della Convenzione del 1951. Ispirata ai principi della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948, la Convenzione di Ginevra si basa sui principi di non discriminazione, sull’eguale dignità di tutti gli esseri umani, sui diritti di ogni individuo alla vita, alla sicurezza sociale ed alla libertà di espressione, religione, opinione. 11 Dati reperibili presso il sito www.unhcr.org
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La Convenzione è il principale strumento giuridico relativo alla protezione e all’assistenza dei rifugiati, a disposizione della comunità internazionale, ed è composta di 46 articoli suddivisi in sette capi. La Costituzione italiana, entrata in vigore il primo gennaio del 1948, venne creata dall’Assemblea costituente a seguito del referendum del 1946, che aveva dichiarato la repubblica la forma di Stato voluta dai cittadini italiani. A disciplinare la legislazione prima della Costituzione era stato la statuto albertino ideato da Cavour nel 1848, concesso dal re Vittorio Emanuele II sotto il regno piemontese, e successivamente con l’Unità d’Italia esteso a tutta la penisola. In quanto Costituzione flessibile poteva essere modificata ed è quello che fece in seguito Benito Mussolini una volta acquisito il potere, istituendo leggi anche contrarie a quanto definito nello statuto, tra cui ad esempio l’istituzione di un unico partito e la fine della libertà di espressione ed opinione. Il clima in cui si forma la Costituzione vigente oggi, è caratterizzato perciò dalla voglia di riscatto dal ventennio fascista, dalla volontà di ripristinare le libertà che erano state violate e garantire i diritti fondamentali a tutti gli individui, sulla base anche della scia mondiale di uguaglianza e libertà, che in seguito agli eventi della seconda guerra mondiale stava affermandosi. La Costituzione è composta di 139 articoli suddivisi in quattro sezioni: Principi fondamentali (articoli 1-12); Parte prima: “Diritti e Doveri dei cittadini” (articoli 13-54); Parte seconda: “Ordinamento della Repubblica” (articoli 55-139); Disposizioni transitorie e finali (disposizioni I-XVIII).12 12 Mauro Volpi, 2011, “Costituzione della Repubblica italiana” Graphic Masters, Perugia.
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L’articolo che tratta la condizione di rifugiato è il numero 10 e rientra tra i principi fondamentali della repubblica italiana e recita: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici”. Un ulteriore articolo che trova applicazione nella questione dei rifugiati è l’art. 3 sul divieto di discriminazione, uno degli articoli cardine della Costituzione italiana, il quale cita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” Per quanto riguarda le normative italiane che trattano nello specifico l’immigrazione ed il diritto di asilo sono state tre le principali: la legge Martelli, la legge Turco-Napolitano e la legge Bossi-Fini. Nel 1990, la Legge Martelli (L.39/90) ha abolito la riserva geografica alla Convenzione di Ginevra del 1951 che limitava il riconoscimento dello status ai rifugiati provenienti dall’Europa, ampliando e definendo lo status di rifugiato senza limiti territoriali. Nel 1998 la legge Martelli è stata poi sostituita dalla Leg23
ge Turco-Napolitano (D. Lgs. n. 286/98) sull’immigrazione, che, tuttavia, non ha apportato modifiche sostanziali in materia d’asilo, ma ha istituito i C.I.E, ovvero i centri di identificazione ed espulsione, dove vengono trattenuti gli stranieri senza documenti prima del loro rinvio nel Paese di origine.13 Nel settembre del 2002, la normativa è stata nuovamente modificata con l’entrata in vigore della Legge Bossi- Fini n. 189/2002, pienamente attuata solo nell’aprile del 2005 (D.P.R. 303/2004). Tale legge ha influito notevolmente in materia d’asilo, anche attraverso la decentralizzazione della procedura di asilo e l’istituzione di Commissioni Territoriali, che hanno il compito di esaminare le istanze di riconoscimento della protezione internazionale. Tali commissioni sono composte da un funzionario della carriera prefettizia, con funzioni di presidente, da un funzionario della Polizia di Stato, da un rappresentante di un ente territoriale designato dalla Conferenza Stato-città ed autonomie locali e da un rappresentante dell’UNHCR. Esse sono indirizzate e coordinate dalla Commissione Nazionale per il Diritto d’Asilo, un tempo unica titolare delle funzioni loro conferite.14 La legge Bossi-Fini è stata una delle leggi più criticate non solo a livello nazionale ma anche internazionale, in quanto aveva introdotto misure per regolare la gestione degli immigrati e dei richiedenti asilo che non rispettavano in toto i diritti umani fondamentali. Tra queste vi è la violazione del principio di non refoulement (non respingimento) che vieta di rimpatriare o espellere forzatamente i richiedenti asilo verso Paesi in cui essi potrebbe13 www.unhcr.it 14 Ibidem.
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ro essere a rischio di gravi abusi dei diritti umani. L’ art. 14 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo recita che “Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni”, questo principio fu totalmente ignorato dalla legge Bossi-Fini, che ammetteva i respingimenti al paese di origine in acque extraterritoriali, grazie ad accordi presi con altri Stati tra cui la Libia, uno dei principali Paesi di partenza dei migranti. L’obiettivo era quello di fare in modo che i barconi non potessero attraccare sul suolo italiano e che l’identificazione degli aventi diritto all’asilo politico o a prestazioni di cure mediche e assistenza, avvenisse direttamente in mare, prima che essi entrassero nel territorio italiano ed il governo fosse tenuto ad assisterli. Questo ha portato molti individui a buttarsi a mare rischiando la vita a un passo dalla loro meta, pur di non dover tornare indietro. Quella dei respingimenti in mare è stata una delle questioni più discusse come ho già detto anche in ambito europeo: l’idea che tra i migranti a bordo delle barche intercettate vi fossero dei profughi in cerca di protezione internazionale e il respingimento senza prima una verifica attenta, viola l’articolo 18 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea, che recepisce a sua volta il principio stabilito dalla Convenzione di Ginevra, secondo cui gli Stati non possono rinviare i rifugiati in Paesi dove questi sono perseguitati e rischiano la vita. Con il tempo sono state apportate delle modifiche alla legge Bossi-Fini, anche a seguito dell’obbligo di introdurre nella legislazione italiana alcune direttive europee riguardanti il diritto di asilo; manca tuttavia ancora una legge organica in 25
materia che sostituisca quest’ultima. Con il cambio di governo del dicembre 2016, il nuovo ministro dell’Interno nominato da Gentiloni, Domenico Minniti ha attuato un nuovo piano per l’immigrazione, ratificato con il decreto legge num. 13 del 17 febbraio 2017. Tale decreto è nominato “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale“, e propone: la trasformazione dei Cie ( Centri di Identificazione ed Espulsione) in Centri Permanenti per il Rimpatrio (CPT), suddivisi nella penisola in 21 centri da 1600 posti complessivi, lontano dei centri urbani; la possibilità dei richiedenti asilo di lavorare su base volontaria e gratuita in lavori di pubblica utilità; l’adozione di misure idonee ad accelerare l’identificazione dei cittadini stranieri; di effettuare i rimpatri in maniera più efficace e veloce, diminuendo anche le possibilità di ricorso al giudizio della Commissione; e potenziare i canali legali di ingresso in Italia, onde evitare che la procedura d’asilo sia strumentalizzata, in quanto unico canale per entrare in Italia.15 Tra le critiche maggiori a tale decreto vi è che il timore che un’eccessiva accelerazione delle procedure non garantisca la tutela effettiva del richiedente asilo, ed allo stesso tempo che sia utopico pensare di poter risolvere il problema dei rimpatri e della conseguente immigrazione clandestina, senza dei programmi di rinserimento nel Paese di provenienza del cittadino, che rendano più auspicabile per l’immigrato stesso, il ritorno nel suo Paese. Inoltre non si può in alcun modo legare il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria, al pre15 www.gazzettaufficiale.it
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supposto di un lavoro del richiedente o del suo impiego in lavori socialmente utili, ne rendere il lavoro socialmente utile obbligatorio ai fini di un’accoglienza. Questi sono principi incompatibili con le normative internazionali e nazionali. L’Italia in quanto stato membro dell’Unione Europea ha ratificato negli anni molte delle direttive europee, tra queste le principali riguardano i trattati di Dublino, il regolamento CE num. 2725/2000, ed anche il decreto legislativo n. 142 del 18 agosto 2015. La Convenzione di Dublino è un trattato internazionale multilaterale firmato nel 2003, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato competente per l’esame della domanda di protezione internazionale. Tale domanda viene presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo o da un apolide, nell’ambito della Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951.16 Il regolamento di Dublino è il documento principale adottato dall’Unione Europea in tema di diritto d’asilo. È stato sottoscritto anche da Paesi non membri, come la Svizzera, il Liechtenstein, la Norvegia, e l’Islanda. Le origini del regolamento di Dublino risalgono al 1990, quando fu istituito dalla omonima Convenzione, firmata a Dublino in Irlanda il 15 giugno 1990. Il regolamento di Dublino II, detto anche regolamento numero 343/CE, fu adottato invece nel 2003 e sostituì la convenzione di Dublino in tutti gli Stati membri dell’UE, ad eccezione della Danimarca, la quale inizialmente si era opposta per quel che riguardava le disposizioni in materia di spazio, 16 www.meltingpot.org
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di libertà, sicurezza e giustizia.17 Successivamente però nel 2006 insieme all’Islanda ed alla Norvegia, anche la Danimarca estende con un protocollo il nuovo regolamento tra le proprie normative. Nel giugno 2013 infine è stato approvato il Regolamento di Dublino III in sostituzione del precedente regolamento pur mantenendone però i presupposti fondamentali. Secondo ciò che è stato deciso nella conferenza di Dublino il richiedente asilo non può presentare domanda di asilo in più di uno Stato membro, e prevede che la domanda la esamini lo Stato dove il richiedente ha fatto ingresso per la prima volta all’interno dell’Unione Europea. I richiedenti asilo hanno diritto a rimanere nel Paese di arrivo anche se non hanno regolari documenti d’ingresso ed hanno diritto a essere assistiti. Se la richiesta d’asilo viene respinta, il richiedente può fare appello e rimanere nello Stato ove si trova fino al nuovo responso della Commissione. Lo Stato competente ha l’obbligo di accettare il richiedente asilo che abbia presentato domanda in altro Stato membro se è invece è di sua competenza, o di riprenderlo nel suo territorio se si trova irregolarmente in un altro Stato membro e, di condurre a termine l’esame della domanda.18 Gli Stati membri hanno poi l’obbligo di procedere a scambi reciproci riguardanti la legislazione nazionale e i dati statistici relativi al numero dei richiedenti asilo; di comunicare a qualsiasi altro Stato membro che ne faccia domanda le informazioni di carattere personale, necessarie per determinare lo Stato competente per l’esame della domanda e l’esecuzio17 www.meltingpot.org 18 www.internazionale.it
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ne degli obblighi derivanti dalla Convenzione; inoltre previo consenso dell’interessato, lo Stato qualora richiesto deve esplicitare i motivi invocati dal richiedente a sostegno della domanda e le conseguenti motivazioni dietro la decisione presa nei suoi confronti. Le problematiche emerse in seguito all’adozione di questo regolamento sono che il sistema attuale non riesce a fornire una protezione equa ed efficiente ai richiedenti asilo, costretti ad aspettare anni prima che le loro richieste siano esaminate. Il sistema inoltre tiene poco conto del ricongiungimento familiare e comporta una pressione maggiore sugli Stati membri del sud dell’Europa, in quanto principali Paesi d’ingresso nel continente. L’Europa, per facilitare l’identificazione delle tante persone che arrivano nel suolo europeo, ha adottato, tramite il regolamento CE n.2725 del 2000, il sistema Eurodac. Per Eurodac si intende un archivio comune delle impronte digitali dei richiedenti asilo, usato dalla polizia per controllare se sono state presentate più domande in diversi Stati o se un richiedente asilo è entrato irregolarmente nel territorio dell’Unione. Il sistema comporta un’unità centrale gestita dalla Commissione europea, una base centrale automatizzata di dati sulle impronte digitali, e dei mezzi elettronici di trasmissione tra i paesi dell’UE e la base di dati centrale.19 Le impronte sono rilevate per le persone di età non inferiore a 14 anni e vengono inviate all’unità centrale tramite punti nazionali di accesso. Per i richiedenti asilo, i dati sono conservati per dieci anni, 19 www.lex-europa.eu
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salvo se l’interessato ottiene la cittadinanza di uno dei paesi dell’UE; in tal caso i dati che lo riguardano devono essere immediatamente cancellati non appena ottenuta la cittadinanza. Per i cittadini stranieri fermati in relazione all’attraversamento irregolare di una frontiera esterna, i dati sono conservati per due anni a decorrere dalla data alla quale le impronte digitali sono state rilevate. Essi vengono invece cancellati immediatamente, prima dello scadere dei due anni, se lo straniero: •ottiene un permesso di soggiorno; •ha lasciato il territorio dell’Unione; •ha acquisito la cittadinanza di un paese dell’UE. Oltre alle impronte digitali, i dati trasmessi dai paesi dell’UE includono: •il paese dell’UE d’origine; •il sesso della persona; •il luogo e la data della domanda d’asilo o dell’arresto della persona; •il numero d’identificazione; •la data in cui sono state prese le impronte digitali; •la data in cui sono stati trasmessi i dati all’unità centrale Per quanto riguarda la protezione dei dati a carattere personale, i paesi dell’UE che inviano dati a Eurodac devono garantire che le impronte siano rilevate nel rispetto della legalità e che, sempre nel rispetto della legalità, avvengano tutte le operazioni relative al trattamento, la trasmissione, la conser30
vazione o la cancellazione dei dati stessi. Nella penisola italiana inoltre tra il 2005 e il 2008, con il recepimento della normativa europea in materia di asilo, prende avvio la più importante riforma legislativa sull’asilo dalla creazione della legge Martelli. Di seguito le tappe principali: Nel 2005 viene recepita la direttiva comunitaria n.9 del 2003 recante norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri. Questa direttiva viene definita “Direttiva Accoglienza” e stabilisce le norme sull’accoglienza degli stranieri richiedenti il riconoscimento dello status di rifugiato nel territorio nazionale, in linea con gli standard europei e con il diritto internazionale dei rifugiati (in particolare, con la Convenzione di Ginevra del 1951). In seguito alla direttiva “accoglienza”, è stata la volta della cosiddetta Direttiva “Qualifiche” (2004/83) “recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta”, la quale è stata successivamente aggiornata con la direttiva qualifiche del 2011 n. 95; e della Direttiva Procedure 2005/85/CE “recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato”. La direttiva qualifiche, recepita nel nostro ordinamento con il Decreto legislativo n. 251/2007, stabilisce i criteri che gli Stati membri dell’Unione Europea devono utilizzare per decidere se un richiedente asilo ha diritto alla protezione in31
ternazionale e quale forma di protezione debba ricevere, ad esempio se lo status di rifugiato o una forma di protezione sussidiaria. Oltre a ribadire i principi che ispiravano la Direttiva 2004/83/ CE, la nuova Direttiva Qualifiche del 2011 cerca di realizzare un maggiore ravvicinamento a livello europeo delle norme relative al riconoscimento dello status di rifugiato e all’individuazione degli elementi essenziali della protezione internazionale.20 La Direttiva Procedure invece attuata con il D.lgs. n.25/2008, introduce norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato. 21 I due decreti modificano in maniera sostanziale le normative sull’asilo, abolendo, ad esempio, il trattenimento per lunghi periodi, dei richiedenti asilo nei centri di identificazione creati dalla Legge Turco-Napolitano, ed introducendo l’effetto sospensivo del ricorso contro il diniego della domanda d’asilo –con alcune categorie per le quali l’effetto sospensivo non è automatico- e la possibilità, anche per coloro cui è stata concessa una protezione sussidiaria, di ottenere il ricongiungimento familiare. Queste sono alcune tra le normative europee in materia di diritto di asilo che sono state introdotte nei singoli Stati europei, e di queste la più criticata dai vari Paesi negli anni è stata sicuramente quella che concerne il regolamento di Dublino. Non è stata infatti l’Italia l’unica nazione fortemente colpita dalle disposizioni del regolamento di Dublino. 20 www.eu-lex.europa.eu 21 www.meltingpot.it
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Durante la crisi europea dei migranti del 2015, l’Ungheria infatti venne sommersa dalle domande di asilo di profughi provenienti dall’Asia i quali però, non avendo intenzione di permanere nel suolo ungherese una volta arrivati, proseguivano il loro viaggio verso la meta europea designata. A partire dal 23 giugno 2015 però l’Ungheria, sulla base degli accordi di Dublino, ha iniziato a ricevere indietro i migranti che, entrati in Ungheria attraverso la Serbia, avevano successivamente attraversato i confini verso altri paesi dell’Unione europea. 22 Un altro Paese principalmente colpito dall’emergenza profughi è stata la Grecia, a causa della sua posizione geografica favorevole agli sbarchi e vicina alla Turchia ed alla Serbia, si calcola siano arrivati in totale negli ultimi due anni più di 800mila migranti.23 Un Paese che ha adottato invece una politica propria nei confronti dei rifugiati, è stata la Germania, la quale anche rischiando di andare contro le direttive europee, il 24 agosto 2015, ha deciso di sospendere il regolamento di Dublino per quanto riguarda i profughi siriani e di elaborare direttamente le loro domande d’asilo. Altri stati membri, come la Repubblica Ceca, l’Ungheria, la Slovacchia e la Polonia, hanno di recente negato la propria disponibilità a rivedere il contenuto degli accordi di Dublino e nello specifico, ad introdurre quote permanenti ed obbligatorie di rifugiati per tutti gli Stati membri. Successivamente l’emergenza profughi, a seguito dei numerosi reclami e scontenti riguardanti il regolamento di Dublino, la commissione europea ha deciso di adoperarsi formulando 22 Ibidem. 23 www.istitutoperglistudidipoliticainternazionale.it
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un direttiva che attenuasse i problemi emersi. In Italia suddetta direttiva è stata attuata con il Decreto Legislativo n. 142 del 18 agosto 2015, esso nasce proprio dalla volontà e dalla necessità di regolamentare la questione dei rifugiati attraverso una normativa uniforme ed accettabile in tutti gli Stati. Il decreto si compone di tre capi, il primo è composto di 24 articoli nei quali vengono dichiarate le norme di attuazione della direttiva EU 2013/33 sull’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, norme che si applicano ai richiedenti protezione internazionale presenti sul territorio nazionale, comprese le frontiere, le zone di transito e le acque territoriali. Il secondo capo invece tratta le norme di attuazione della direttiva 2013/32 sulle procedure per il riconoscimento e la revoca dello status di protezione internazionale ed è composto da 3 articoli. Infine l’ultimo capo esamina le disposizioni finali ed anch’esso è formato da tre articoli.24 Nonostante i cambiamenti intervenuti, per regolare l’intera materia d’asilo e apportare un miglioramento sostanziale alla situazione dei rifugiati e richiedenti asilo, si vede sempre più necessaria una legge organica. L’Italia è ancora l’unico tra i paesi dell’Unione Europea a non avere una legge organica e completa, che garantisca a quanti chiedono protezione nel nostro Paese l’accesso ad un sistema strutturato e funzionale, basato su assistenza ed integrazione, che riduca le difficoltà operative per le amministrazioni locali, il volontariato, le forze di polizia e tutti gli operatori del 24 www.programmaintegra.it
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settore. Oltre alle lacune di carattere legislativo, in Italia continuano a mancare politiche organiche e un sistema nazionale di accoglienza, protezione e integrazione anche per quanto riguarda la gestione effettiva dei rifugiati da parte delle associazioni private o pubbliche che se ne occupano ed il sostegno delle associazioni stesse, in una logica non piĂš emergenziale ma di assistenza strutturata.
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CAPITOLO 2 I NUMERI DEI RICHIEDENTI ASILO IN ITALIA 2.1 I richiedenti asilo in Italia e nel Mondo. 2.1.1 Grafici relativi ai rifugiati in Italia e in Europa 2.2 I rifugiati in Umbria 2.2.1 Grafici rifugiati in Umbria. 2.1 I richiedenti asilo in Italia e nel Mondo. Gli individui che richiedono protezioni internazionali, rientrano all’interno della categoria più ampia degli sfollati. Per sfollato si intende generalmente colui che è costretto ad allontanarsi dalla propria residenza abituale per scopi cautelativi.25 Nel 2015 il numero degli sfollati nel mondo è cresciuto fino a 65,3 milioni, secondo le stime dell’UNHCR il più alto numero mai registrato.26 Questa cifra comprende 3,2 milioni di persone che erano in attesa di asilo e 21,3 milioni di rifugiati ufficiali oltre a 40,8 milioni di persone che sono ormai senza una dimora, ma ancora dentro i confini dei loro paesi d’origine. A livello globale una persona ogni 113 è un richiedente asilo, 25 Dardano Maurizio, 2000,” Nuovissimo dizionario della lingua italiana” Armando Curcio editore, Milano. 26 Il dato è reperibile presso il sito www.unhcr.org
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sfollato o rifugiato27, e più della metà dei rifugiati nel mondo sono bambini. Lo Stato europeo con il maggior numero di rifugiati è la Germania, Paese anche con la più alta richiesta di protezione internazionale all’interno dell’Unione; si stima che siano arrivate a fine 2015, a 441.800, pari al 43,8,4% del totale europeo. I paesi del mondo che producono la maggior parte dei rifugiati esistenti sono: la Siria con 4,9 milioni, l’Afghanistan 2,7 milioni, l’Iraq 2 milioni e mezzo e la Somalia con 1,1 milioni.28 Senza considerare la popolazione palestinese, di cui si occupa l’agenzia dedicata dell’Onu, l’Unrwa, la maggior parte dei rifugiati sono quindi siriani: già nel giugno 2014 erano oltre tre milioni e rappresentano ora il 23% di tutti i rifugiati assistiti dall’Alto commissariato di Ginevra. Seguono poi i 2,7 milioni di rifugiati afgani, una comunità storica per trent’anni al vertice di questa drammatica classifica: la situazione in cui moltissimi vivono è tale da oltre cinque anni, soglia dopo la quale il rifugiato viene considerato “di lunga data”. I rifugiati di lunga data sono circa 3,2 milioni di persone, in larga parte residenti negli Stati Uniti di America ed in Europa. Negli ultimi anni il numero di rifugiati nel mondo è aumentato così tanto da far nominare questo fenomeno “emergenza profughi” data la vera e propria emergenza che si è verificata sia da parte dei migranti costretti a scappare in massa da guerre, carestie o motivi umanitari, sia da parte dei Paesi ospitanti 27 Ibidem. 28 Dati reperibili presso il sito www.unhcr.org
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che si sono trovati a dover accogliere e assistere numeri sempre più crescenti di stranieri nel loro territorio, in un breve periodo. Secondo i dati Unhcr, tra il 1 gennaio e il 31 dicembre 2016 sono sbarcate in Europa 361.678 persone, di cui 181.405 in Italia e 173.447 in Grecia. Si tratta di un dato inferiore del 64% rispetto a quello del 2015, quando erano arrivate un milione di persone29 In Italia sono arrivati via mare nel 2016 più di 180.315 persone, rispetto agli arrivi via mare dell’anno precedente calcolato nello stesso periodo i quali erano 140.987, il numero è aumentato notevolmente, così come anche il numero dei morti in mare, nel 2015 all’incirca 2.925 mentre nel 2016 si è arrivati a 5.022.30 Secondo i dati Unhcr, tra il 1 gennaio e il 28 febbraio 2017 sono sbarcate in Italia 13.437 persone, un dato significativamente superiore a quello dello stesso periodo del 2016, quando arrivarono 9.101 persone (+48%). Da gennaio 2017 ad oggi (Marzo 2017) invece sono già più di 500 i morti in mare. Il numero di rifugiati presenti in Italia nel 2015 è di 118.047, di questi la maggior parte proviene dalla Nigeria (il 21%), dal Mali (il 12%), dalla Siria (il 10%), dall’Eritrea (il 9%), dal Pakistan (il 7%) dal Gambia (il 6%) e dalla Somalia (5%).31 I principali Stati dai quali partono per affrontare il viaggio che li conduce in Italia sono invece Libia, Egitto e Turchia. Nonostante sia per molti il primo Paese di arrivo in Europa, rispetto ad altri Stati l’Italia è tra gli ultimi posti per incidenza 29 Dati reperibili presso il sito www.unhcr.globaltrends.it 30 Centro studi e ricerche Idos, 2016, “Dossier statistico immigrazione”, Imprinting srl, Roma. 31 Dati reperibili presso il sito www.interno.gov.it
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dei rifugiati sulla popolazione totale; sebbene sia opinione comune l’idea di un’invasione, le stime la smentiscono, vi sono infatti all’incirca due rifugiati ogni mille abitanti, mentre un Paese come la Svezia arriva ad avere quasi 15 rifugiati ogni mille abitanti. Il 16% dei rifugiati che arrivano in Italia sono minori non accompagnati, il 14% donne e il 70% uomini, per la maggior parte giovani adulti.32 Nell’anno 2016 sono state 547.530 le persone che hanno fatto domanda di asilo per la prima volta, negli Stati membri dell’UE; di queste le richieste d’asilo inoltrate in Italia sono state 123 mila e quelle ad ottenere il diniego da parte della commissione sono state quasi 65.000 ovvero più della metà. Sicilia, Lazio e Puglia sono le tre regioni con la percentuale più alta di istanze di asilo presentate: 18% 12% e 10% sul totale delle istanze presentate in Italia. Oltre il 70% dei migranti sbarcati in Italia fino al nel 2016 arrivano come primo approdo in Sicilia, si stima che di media a Lampedusa arrivano circa 500 persone al giorno33. Da questi dati in costante aumento si evince l’importanza di disciplinare tramite norme e accordi l’emergenza profughi sia per quel che riguarda l’accoglienza e l’integrazione dei nuovi arrivati, sia per la necessità di tutelare lo Stato ospitante.
32 Dati reperibili presso il sito www.cir-onlus.org 33 Dati reperibili presso il sito www.ilfattoquotidiano.it
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2.1.1 Grafici relativi ai rifugiati in Italia e in Europa
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2.2 I richiedenti asilo in Umbria. L’Umbria è una piccola regione del centro Italia di 890.936 abitanti, suddivisi 662.110 nella provincia di Perugia, capoluogo della regione, e 228 836 a Terni, la seconda provincia umbra.34 Essendo l’Umbria una regione di modeste dimensione, si nota maggiormente rispetto a regioni con città più popolate, come sia cambiata nel corso di pochi anni la struttura della società. Oltre il fenomeno del forte invecchiamento che sta caratterizzando la regione, è sempre più evidente l’aumento della popolazione immigrata; oggigiorno infatti anche camminando in piccoli paesini è facile incontrare qualche volto straniero, cosa che fino a poco tempo fa non era così frequente. Questo cambiamento avvenuto in pochi anni, fa sì che spesso la percezione della presenza di immigrati rispetto al numero degli abitanti, sia maggiore di quanto in realtà i numeri di34 Dati reperibili presso il sito www.regioneumbria.it
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cono, e porta la gente a sviluppare più facilmente sentimenti di intolleranza, paura di una fantomatica invasione, se non anche una vera e propria xenofobia. Il forte aumento di persone immigrate è legato principalmente all’emergenza profughi verificatasi negli ultimi anni, che ha portato migliaia di persone a sbarcare nelle coste italiche, e poi ad essere distribuite nelle varie regioni della penisola. I dati relativi ai rifugiati in Umbria rilevano che in totale a fine 2016 si è arrivati alla cifra di 2.900 richiedenti asilo e che l’Umbria in base alle divisioni regionali ha l’obbligo di ospitare l’1,8% dei migranti che sbarcano nelle coste italiane.35 La maggior parte dei rifugiati risiede nella provincia di Perugia si stima infatti che, sempre a fine 2016, vi siano 2214 rifugiati nella provincia perugina e 686 stiano nella provincia di Terni. Per quanto riguarda il progetto Sprar l’Umbria si è impegnata dal 2015 a fornire accoglienza a 370 possibili beneficiari, negli anni però con l’aumento del numero di sbarchi e di richiedenti asilo, è aumentata anche la disponibilità numerica per i posti dei soggetti inseriti all’interno degli Sprar umbri. Attualmente infatti sono 204 soggetti sono inseriti nel sistema Sprar di Terni, e 240 in quello di Perugia.36 Sono stati realizzati grazie al sistema Sprar negli ultimi anni, 11 progetti attivi di cui 6 per categorie ordinarie, 3 per minori non accompagnati, e 2 per persone con disagio mentale o disabilità, finalizzati all’integrazione dei rifugiati all’interno della comunità. I comuni umbri nei quali sono presenti i progetti Sprar sono 35 Dati reperibili presso il sito www.rifugiati-anci.it 36 Dati reperibili presso il sito www.rifugiati-anci.it.
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undici e sono: Perugia, Terni, Narni, Spoleto, Panicale, Foligno, Gubbio, Todi-Marsciano, Castel Ritaldi, Massa Martana, Montefranco. In totale a Marzo 2017, le persone con disponibilità di accesso ai vari Sprar sono 444 persone, e di queste 29 sono i minori non accompagnati e 11 gli individui con disagio mentale o disabilità. Le caratteristiche socio-demografiche dei beneficiari accolti nei progetti della rete Sprar dell’Umbria rispecchiano in gran parte quelle dei beneficiari accolti nel Sistema nazionale, e dei richiedenti asilo in generale. Anche in Umbria le persone accolte sono prevalentemente uomini singoli di età compresa tra i 18 e 27 anni, che rappresentano il 53,9% degli accolti, seguiti da uomini con età compresa tra i 28 e i 45 anni (21,7%). La componente femminile, nella provincia di Perugia costituisce il 5,3% del totale, mentre nella provincia di Terni il 3%37. La prevalenza della componente maschile e giovane è dovuta probabilmente alle difficoltà del viaggio che i migranti compiono per poter arrivare in Italia, i quali vengono stipati in barconi con una capienza di gran lunga inferiore rispetto al numero di persone che vi salgono e, lasciati in balia del mare per giorni con cibo e acqua insufficienti. Un’ulteriore motivazione è il forte patriarcato che vige in molti Paesi di provenienza dei profughi, che fa sì che sia l’uomo in quanto capo della famiglia a partire, sperando di trovare una sistemazione migliore e poter poi ricongiungersi con la propria famiglia. Più del 80 % dei richiedenti asilo sono di religione islamica 37 www.rifugiatianci-umbria.it
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(con proporzioni tra sunniti e sciiti equiparate), il restante 20 % è costituito, per la maggior parte da cristiani, suddivisi al loro interno in cattolici, protestanti e ortodossi, ed infine vi è anche una piccola parte costituita da animisti.38 Per quanto riguarda i Paesi di provenienza in entrambe le Province si registrano tra le prime cinque nazionalità maggiormente presenti: la Nigeria, dalla quale provengono la maggior parte delle donne, il Gambia, il Pakistan, il Senegal e il Mali. Nella Provincia di Perugia i Nigeriani rappresentano il 28% del totale, i Gambiani il 21%, i Pakistani il 12%, i Senegalesi il 9% e i Maliani il 7%. Nella Provincia di Terni le stesse nazionalità sul totale dei presenti in percentuale sono così suddivise: i Nigeriani e i Gambiani il 24%, i Senegalesi il 15%, i Maliani e i Pakistani l’8%. 39 Da notare la quasi totale assenza di profughi siriani, nonostante la Siria sia uno dei principali Paesi di provenienza dei rifugiati nel mondo, ciò probabilmente a conferma della decisione della Germania di prendersi carico dei profughi siriani, ma anche della non volontà di molti immigrati di rimanere in Italia qualora gli si prospetta la possibilità di raggiungere altri Paesi europei.
38 www.perusiasociale.org 39 www.rifugiatianci-umbria.it
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2.2.1.Grafici rifugiati in Umbria
www.rifugiatianciumbria.it
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www.rifugiatianciumbria.it
Anno 2016
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CAPITOLO TRE PERCORSI D’ INTEGRAZIONE SOCIO-SANITARIA DEI RICHIEDENTI ASILO 3.1 Percorsi giuridici in ambito sanitario 3.2 I rischi dell’approccio biomedico 3.3 La tutela giuridica del paziente: il diritto al consenso e al dissenso informato 3.4 Dal colonialismo africano alla clinica multiculturale in Occidente. 3.1 Percorsi giuridici in ambito sanitario. La Repubblica italiana disciplina il diritto alla salute nell’Art. 32 della Costituzione italiana, che recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”40 Il diritto alla salute è uno dei diritti inviolabili della Costituzione, si sostanzia nel diritto all’integrità fisica e psichica, ed è inteso sia nel senso di poter accedere a trattamenti medici di prevenzione e cura, sia nel senso di poter godere di un ambiente di vita e lavoro salubre. 40 Mauro Volpi, 2011, “Costituzione della Repubblica italiana” Graphic Masters, Perugia.
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La tutela della salute in Italia è sancita dunque, come “fondamentale diritto dell’individuo”, il quale non è vincolato da requisiti di cittadinanza; da questo principio deriva la legislazione attualmente in vigore, che sancisce il diritto di qualunque cittadino straniero in Italia, di usufruire dei servizi sanitari pubblici, a prescindere dalla sua situazione amministrativo-giudiziaria e dal suo status di regolarità o irregolarità di residenza nel suolo italiano. La normativa alla quale si deve il regolamento da applicare per l’assistenza sanitaria agli stranieri è la legge Turco-Napolitano (legge num.40 del 6 Marzo 1998), la quale disciplina l’immigrazione e la condizione dello straniero in Italia. Il Governo, in ottemperanza a quanto contenuto nella delega prevista all’art. 47 comma 1 della L. 40/1998, ha emanato il D. Lgs. 286/1998, contenente “il Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, sulla base della legge Turco-Napolitano.41 Il relativo Regolamento d’attuazione al suddetto decreto legislativo è il D.P.R n. 394/1999; questo complesso di normative propongono per la prima volta un corpo giuridico moderno, volto a superare in ambito sanitario un approccio legato all’emergenza, garantendo il diritto di inclusione ordinaria degli stranieri, compresi i richiedenti asilo, nel sistema di tutela della salute di tutti i cittadini. Per quanto riguarda i richiedenti asilo, non potendo lavorare, in attesa del riconoscimento dello status di rifugiato o beneficiario di protezione umanitaria, la compartecipazione è affidata agli Enti gestori, i quali per le necessità mediche, usufruiscono dei contributi economici che lo Stato suddivide 41 www.camera.it
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a livello nazionale tra i vari Enti. Agli stranieri non iscritti al Ssn, o perché migranti a breve termine, o perché non in regola con le norme di ingresso e soggiorno, viene affibbiato un codice denominato STP (Straniero Temporaneamente Presente), grazie al quale possono accedere a prestazioni sanitarie anche i migranti cosiddetti clandestini. Le prestazioni sanitarie effettuate indiscriminatamente sono le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali per malattia ed infortunio e sono estesi i programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva. Sono, in particolare, garantiti: a) la tutela sociale della gravidanza e della maternità, a parità di trattamento con le cittadine italiane; b) la tutela della salute del minore in esecuzione della Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989; c) le vaccinazioni secondo la normativa e nell’ambito di interventi di campagne di prevenzione collettiva autorizzati dalle regioni; d) gli interventi di profilassi internazionale; e) la profilassi, la diagnosi e la cura delle malattie infettive ed eventuale bonifica dei relativi focolai.42” Il Testo unico ha rappresentato un momento di svolta perché ha influenzato direttamente i successivi Piani sanitari nazionali e ha dato un input significativo anche alle politiche regionali e locali che, nella realtà quotidiana, sono di fatto le protagoniste della reale offerta sanitaria ai migranti. La legge che istituisce il Sistema Sanitario Nazionale italiano è precedente alla legge Turco- Napolitano, ed è la legge n. 833 del 23 dicembre 1978. 42 www.camera.it.
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Tale legge identifica nel Sistema Sanitario Nazionale l’insieme delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione, senza distinzione di condizioni individuali o sociali, e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio. L’attuazione del Servizio Sanitario Nazionale compete allo Stato, alle regioni e agli enti locali territoriali, garantendo la compartecipazione dei cittadini. A livello comunitario invece il diritto alla salute è contemplato all’interno della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, sia all’art. 35 inteso come diritto alla prevenzione sanitaria ed alle cure mediche, sia all’art.3, che disciplina una serie di principi in materia, tra i quali, ad esempio, quello del rispetto del consenso informato.43 Gli elevati flussi migratori degli ultimi anni hanno comportato un notevole aumento degli stranieri in Europa e soprattutto in Italia, uno degli Stati di confine nel quale sono sbarcati più migranti. Tutto ciò ha reso necessario dei cambiamenti per quanto riguarda i modelli operativi, che le strutture pubbliche sanitarie erano solite seguire con i profughi, cambiamenti dati dall’incremento della mole di lavoro, visto il gran numero di persone e, dalla necessità di velocizzare anche i tempi di diagnosi e di cura, dato il pericolo di trasmissione e diffusione delle malattie. In Umbria, nel due febbraio 2015, la giunta regionale ha attuato la delibera num. 106 riguardante le “Procedure operative per l’assistenza sanitaria ai migranti e la tutela della salute 43 www.europaparlamentare.eu
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pubblica- flussi migratori non programmati.” Nel quale vengono indicate le procedure da seguire all’arrivo dei profughi, che sono: - 1) Comunicazione - 2) Identificazione questura - 3) Prima visita medica.44 La prima visita medica – sebbene gli immigrati vengano sottoposti ad accertamenti sanitari al momento dello sbarco al fine di escludere gravi malattie- ha lo scopo di escludere effettivamente la presenza di gravi patologie trasmissibili; questo al fine di prevenire la diffusione di malattie infettive che possono costituire un rischio per gli altri profughi, per gli operatori della struttura e più in generale per la comunità che dovrà accoglierli, nonché di affrontare eventuali quadri clinici che necessitano di un trattamento improcrastinabile. Il Gestore del centro di accoglienza dove sono stati trasferiti i migranti provvederà a presentare al Servizio Anagrafe Sanitaria copia della ricevuta della richiesta di asilo, timbrata e sottoscritta dalla Questura competente che sarà rilasciata nel più breve tempo possibile ai fini di una celere iscrizione al Servizio Sanitario Regionale. I Gestori dei centri di accoglienza inoltre, debbono collaborare con il Servizio ISP e con i Distretti competenti per territorio per la gestione dello stato di salute dei migranti. In particolare essi devono: - garantire la presenza, al momento della prima visita, di un mediatore culturale e/o di un ope44 Bollettino Regione Umbria, 2015, “Deliberazione della Giunta Regionale num.106”, Perugia.
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ratore a supporto del medico, muniti dei necessari Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) per la prevenzione del rischio biologico ai sensi del decreto legislativo 81/2008; - seguire le indicazioni del servizio ISP e collaborare con lo stesso per mettere in atto eventuali procedure a tutela della salute degli ospiti e degli operatori, nel caso di riscontro di malattie diffusive. Il Servizio ISP, individuato come il punto di contatto delle Prefetture e delle Questure con il SSR, nelle more del completamento dell’iter per l’iscrizione al medesimo e la conseguente attribuzione, a ciascun migrante, di un Medico di Medicina Generale o di un Pediatra di libera scelta, ha il compito di: • Interfacciarsi con le Prefetture e le Questure di Perugia e Terni all’arrivo dei migranti; • Coordinarsi con il personale medico che effettuerà la prima visita, garantendone l’effettuazione nel più breve tempo possibile una volta ricevuta la comunicazione del trasferimento dei migranti presso le strutture di accoglienza presenti sul territorio della Az. USL, dopo il completamento delle procedure di identificazione; nel caso di arrivo notturno la visita sarà effettuata il mattino seguente. • Dare indicazioni ai Gestori delle strutture di accoglienza per gli eventuali provvedimenti in caso di malattie infettive; • Garantire il raccordo con i Distretti.45 45 Bollettino Regione Umbria, 2015, “Deliberazione della Giunta Regionale num.106”, Perugia.
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Queste sono le procedure che oggigiorno vengono messe in atto quando si parla di profughi e sanità. I richiedenti asilo che giungono in Italia, una volta affidati alla Regione ed alla struttura che se ne occuperà, dopo pochi giorni vengono mandati in Questura dove viene loro rilasciato un foglio denominato “attestato nominativo”, nel quale sono inseriti i loro dati anagrafici ed il domicilio. Questo attestato nominativo corrisponde ad un permesso di soggiorno provvisorio, che permette loro di rimanere in Italia fino alla risposta della Commissione territoriale; generalmente dura sei mesi, se scade prima della risposta ufficiale viene rinnovato dalla Questura. Una volta ottenuto questo foglio, vengono accompagnati dagli operatori all’Agenzia delle entrate, dove gli viene dato un codice fiscale provvisorio, grazie al quale possono andare all’Anagrafe sanitaria, e ricevono una tessera sanitaria cartacea e provvisoria. Per due mesi hanno un codice di esenzione detto “APU001”, che gli permette di effettuare i primi controlli gratuitamente, dopo di che passati i due mesi rientrano nella fascia di reddito R1. Le prestazioni sanitarie fintanto che permangono all’interno di un progetto vengono pagate dall’associazione che se ne occupa, grazie ai finanziamenti statali. All’anagrafe sanitaria in base a dove hanno il domicilio, viene loro affidato anche il medico di base.
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Le procedure operative:
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3.2 I rischi dell’approccio biomedico La visione degli immigrati come agenti contaminanti oggigiorno viene riservata principalmente ai richiedenti asilo, i quali nei viaggi che sono costretti a compiere in condizioni disumane, sovente contraggono malattie, date dal sovraffollamento dei barconi, dal non rispetto delle norme igieniche e dall’esposizioni a batteri ed agenti infettivi. Molto spesso i rifugiati non vengono visti come vittime di Stati aberranti, ma come cittadini ormai aberranti; secondo l’opinione pubblica infatti, il termine rifugiato è finito oggi per diventare sinonimo di beneficiario di sussidi, 46e portatore di malattie ormai non più comuni in Italia, come ad esempio la tubercolosi, la scabbia o malattie veneree come la sifilide. Per diventare cittadini sufficientemente integrati, anche dal punto di vista sanitario, i nuovi arrivati devono negoziare tra diverse forme di regolamentazione sociale e devono imparare un nuovo modo di farsi prendere in cura e di prendersi cura di sé nel nuovo mondo. I medici e gli operatori sanitari, controllano i termini medici, le pratiche e le strutture, facenti parte del più ampio schema di potere, che definisce la forma e il contenuto della malattia e del benessere dei rifugiati; producendo nel tempo quegli effetti di verità che definiscono l’immagine pubblica di quest’ultimi.47 Nella relazione medico- paziente, è il medico il detentore del sapere, ed è colui che nella dualità del rapporto ha più potere, 46 Aihwa Ong, 2005, “Da rifugiati a cittadini” Raffaello Cortina Editore, Milano, pag.80. 47 Ibidem, pag.103.
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mentre il paziente, è colui il quale sulla base della fiducia nel medico e nella biomedicina occidentale, accetta la diagnosi e la cura che gli vengono dati. Le cure fornite agli immigrati però, non sono qualitativamente comparabili a quelle fornite ai pazienti del gruppo di maggioranza, a causa di una maggiore difficoltà di accesso all’assistenza sanitaria, di una maggiore diffidenza da parte dei pazienti e, sovente una maggiore intolleranza da parte del personale sanitario, nel rapportarsi con le problematiche che comporta un paziente straniero, tra le quali l’incomunicabilità linguistica, e la non comprensione della terapia da parte di colui che la riceve. Una seppur minima conoscenza dell’universo culturale del paziente è necessaria, per codificare la diagnosi in maniera più efficace e affidabile, ed allacciare una relazione medicopaziente migliore. E’ cruciale che vi sia una traduzione linguistica al fine di migliorare gli interventi diagnostici e terapeutici, ma le incomprensioni possono sorgere anche quando medici, operatori sociali e pazienti riescono a comunicare nella stessa lingua, ma non condividono il medesimo patrimonio culturale.48 La prima definizione di cultura è di Edward Tylor e risale al 1871 e recita: “La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società”.49 48 Cardamone Giuseppe, Inglese Giuseppe David, Inglese Salvatore, Zorzetto Sergio, 2016, Scenari di salute mentale: migrazioni internazionali e generazioni discendenti, “Psichiatria e Psicoterapia culturale” Vol. IV Dicembre, pag.99. 49 Fabio Dei, 2012, “Antropologia culturale” Il Mulino, Bologna, pp.15, 32.
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La cultura mette a disposizione del soggetto una griglia di lettura del mondo; la migrazione però determina indirettamente una rottura a livello del quadro culturale interiorizzato dal paziente. La traduzione impone, in generale, una distanza tra la comunicazione linguistica comprensibile per il clinico prodotta dall’interprete, persona la quale però non vive i fatti in prima persona, e quanto vissuto, pensato e agito dal paziente. La complessità problematica nel lavoro con gli stranieri dipende da vari livelli: 1) varietà dei Paesi di provenienza degli stranieri in movimento; 2) pluralità delle lingue da essi parlate; 3) diversità dei contesti storici- politici di provenienza iniziale o, attraversati durante il viaggio migratorio che può durare mesi o anni; 4) eterogeneità ed equivalenza approssimativa delle antropologie della persona, della malattia e della cura che contraddistinguono il paziente, e che sono soggette a continue trasformazioni a causa di processi perturbativi locali e globali.50 Occorre evitare generalizzazioni e studiare a fondo ogni singolo caso, onde evitare l’etnicizzazione della malattia, che si verifica qualora si etichetta una persona solamente secondo la cultura di appartenenza, sulla base di un essenzialismo culturale che trascina con sé anche le malattie dell’individuo. Immigrati e rifugiati soffrono per il fatto che la loro individualità viene spesso cancellata da una classificazione, che li etichetta in rapporto solo al gruppo di appartenenza. Quando un’identità etnica iperinvestita cancella tutte le altre 50 Cardamone Giuseppe, Inglese Giuseppe David, Inglese Salvatore, Zorzetto Sergio, 2016, Scenari di salute mentale: migrazioni internazionali e generazioni discendenti, “Psichiatria e Psicoterapia culturale” Vol. IV Dicembre, pag.103.
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caratteristiche di un individuo, essa cessa di essere uno strumento o meglio una scatola di attrezzi e diventa una camicia di forza; tutto ciò equivale ad un annientamento dell’identità reale dell’individuo, ed è disfunzionale e catastrofico ridurre qualcuno ad una sola dimensione.51 Tutto ciò a livello sanitario porta alla creazione di pazienti sospesi tra differenti modelli teorici, incerti sul valore dei loro saperi; questi pazienti definiti mixed man, non riuscendo più a credere in toto a quanto i loro guaritori tradizionali dicono ed avendo solo una consapevolezza confusa e parziale dei modelli medici occidentali, finiscono per rifugiarsi completamente nei propri dispositivi culturali d’origine o li abbandonano del tutto cercando di assimilare i modelli medici del Paese ospitante.52 L’approccio medico che viene utilizzato in Italia e nel mondo occidentale si fonda prevalentemente sulla biomedicina. La biomedicina nel mondo occidentale è presente in ogni sfera della vita umana, creando sempre più una dipendenza verso i medici, ed una marginalizzazione delle medicine tradizionali e delle metodologie di cura più olistiche. La biomedicina ha contribuito alla trasformazione della medicina da arte di cura a scienza, nel cui ambito la valutazione clinica non rappresenta più una fase dell’esistenza di una persona, ma tende a interferire in ogni aspetto e momento della vita umana. La biologia, essendo intesa come disciplina puramente descrittiva dei fenomeni vitali nell’ambito di un contesto positi51 R. Beneduce, 2004, “Frontiere dell’identità e della memoria. Etnopsichiatria e migrazioni in un mondo creolo.” Franco Angeli, Milano, pag.74. 52 R. Beneduce, 2004, “Frontiere dell’identità e della memoria. Etnopsichiatria e migrazioni in un mondo creolo.” Franco Angeli, Milano, pag.90.
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vista e meccanicista, ha ridotto l’essere umano ai soli aspetti biologici, negando di fatto di riconoscerlo come persona, ed applicando alla medicina una mentalità sempre più riduzionistica.53 Il corpo inoltre viene pensato dai medici al di fuori della storia, dello spazio e del tempo; il corpo non viene visto nella sua totalità ma, come un insieme di organi che non ha subito trasformazioni, e corpo, mente e relazioni sociali vengono viste come entità separate. Per l’antropologia medica invece, non esistono corpo e malattia isolati dal contesto geografico e culturale, in quanto la concezione del corpo che un individuo ha, dipende dalla società in cui nasce e si forma, e non esiste un idea di salute o malattia che non sia legata alla cultura di appartenenza. Nel campo della biomedicina la guarigione è considerata come il risultato, prefissato in termini obiettivi e scientificamente misurabili, dell’efficacia della terapia o dei farmaci assunti dal paziente per ripristinare il proprio stato di salute. Questa concezione dell’efficacia terapeutica è criticata dal punto di vista dell’antropologia medica poiché si basa essenzialmente sugli aspetti biologici del rapporto tra il paziente e la terapia, mettendo da parte gli aspetti culturali, sociali, emozionali e simbolici, che influiscono su qualsiasi momento della vita dell’essere umano, incluso il processo di guarigione. Il concetto di efficacia terapeutica consiste nell’andamento a buon fine della terapia, ovvero nel ripristino della salute e nella constatazione del rapporto tra la tecnica terapeutica ed il risultato finale. 53 Aihwa Ong, 2005, “Da rifugiati a cittadini” Raffaello Cortina Editore, Milano, pag.106.
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L’efficacia simbolica invece, agisce in qualsiasi contesto terapeutico in cui paziente e medico, condividono lo stesso codice culturale, ed attribuiscono lo stesso significato alle esperienze di guarigione e cura. I farmaci, ad esempio, “guariscono” non soltanto in virtù dei principi attivi che contengono, ma in buona parte per il ruolo di altri fattori: le aspettative del paziente, il prestigio attribuito alle prescrizioni del medico e le caratteristiche del farmaco stesso (forma, colore, dimensioni). L’efficacia simbolica dei farmaci, conosciuta come effetto placebo, è dovuta in buona misura al ruolo attivo del paziente: l’idea che egli ha del farmaco e su cui proietta le aspettative di un miglioramento, può provocare eventi cerebrali che conducono effettivamente al miglioramento clinico immaginato dal paziente.54 Per contro, negli ultimi anni ha preso avvio un modello che si basa esclusivamente sull’efficacia tecnica della terapia. Questo modello è nominato EBM- Evidence-Based Medicine (EBM), è un approccio alla pratica clinica nel quale le decisioni cliniche risultano dall’integrazione tra l’esperienza del medico e l’utilizzo delle migliori evidenze scientifiche disponibili, mediate dalle preferenze del paziente. L’EBM, ovvero la medicina basata sulle prove di efficacia, che nell’ultimo decennio è stata proposta come un nuovo paradigma, assume come metodologia fondamentale per le scelte mediche, le prove empiriche ricavate dai trial clinici e dalle metanalisi. Rispetto al ‘vecchio’ paradigma, che considerava sufficiente per un buon esercizio della pratica medica, l’esperienza 54 www.treccani/la grande scienza.it
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personale del medico e le conoscenze della fisiopatologia applicate ai problemi clinici, l’EBM ritiene necessaria anche la standardizzazione delle scelte sulla base di uno sforzo metodologico, volto a rendere riproducibili le osservazioni e, soprattutto, non considera né necessarie né sufficienti le conoscenze fisiopatologiche per avere indicazioni da seguire nella pratica clinica.55 Nonostante negli anni gli approcci metodologici, inerenti le tecniche per la diagnosi e la terapia dei pazienti, all’interno del modello biomedico siano cambiati, lo scopo primario della biomedicina rimane comunque il prendersi cura dei problemi della salute del singolo malato o di una popolazione. Per conseguire con maggiore efficacia questo obiettivo però, essa cerca di accrescere il proprio grado di scientificità ricorrendo alle conoscenze biologiche ed alle metodologie della ricerca di base, la quale per definizione, non è interessata alla singola persona o ai problemi di una particolare comunità bensì a fornire spiegazioni dei fenomeni patologici e clinici di portata generale. Oggigiorno l’approccio biomedico alla malattia e la pressione esercitata dai carichi di lavoro fanno sì, che chi cura abbia poco tempo per conoscere a fondo i propri pazienti, e possa diagnosticare solo la dimensione organica e patologica della malattia, e cercare la cura migliore secondo la sua interpretazione. Lavorando con persone di altre etnie e culture emerge il bisogno di sottrarsi all’egemonia del discorso biomedico, e di avviare parallelamente una riorganizzazione dei servizi sanitari che ponga al centro la singola persona. Anche se il singolo operatore, non potrà conoscere tutti i 55 www.ebm.it
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mondi specifici dei migranti, bisogna promuovere una competenza metodologica generale, sull’interazione clinica con persone provenienti da altri contesti culturali e storico- politici; tale acquisizione di conoscenze può essere facilitata dall’inserimento di figure professionali, quali ad esempio i mediatori linguistico-culturali ed antropologi medici. Non avendo ancora percepito che i flussi migratori sono un problema epocale di salute pubblica, i servizi sanitari italiani, non riescono ad adempiere in toto la loro missione di salute generale, ovvero la tutela della salute collettiva senza preclusioni né discriminazione di sesso, razza, censo, religione e cultura,56 così come iscritta nella costituzione. Con il concetto di salute definito dall’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) nel 1946, s’intende uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia o infermità. Questo concetto non è scontato, data la tendenza a considerare malattia e salute come condizioni fra loro incompatibili ed antitetiche, con la malattia vista quale elemento la cui assenza o presenza basta a definire se l’organismo sia o meno in salute. Per poter affermare di stare bene dunque, non è sufficiente non avere una patologia medica, ma occorre che l’individuo sia sereno anche da un punto di vista mentale e soprattutto sociale, ovvero sia inserito pienamente all’interno della società nella quale vive. Il diritto alla salute non può essere inficiato da una discrimi56 Cardamone Giuseppe, Inglese Giuseppe David, Inglese Salvatore Zorzetto Sergio, 2016, Scenari di salute mentale: migrazioni internazionali e generazioni discendenti, “Psichiatria e Psicoterapia culturale” Vol. IV Dicembre, pag. 104.
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nazione etnica-culturale, volontaria o meno che sia. Una delle sfide della sanità pubblica è di riuscire a garantire accesso ai servizi e percorsi di tutela per tutte quelle persone che, per diversi motivi, si trovano in condizioni di fragilità sociale, tra cui anche i migranti ed in particolar modo i richiedenti asilo. È dimostrato inoltre che tra i principali determinanti di salute ci sono i fattori socioeconomici, che influenzano stili di vita e accesso ai servizi sanitari: spesso i rifugiati provengono da Paesi nei quali non c’è una informazione sull’importanza della prevenzione primaria e secondaria come c’è in Occidente, e la gestione e la cura del corpo avviene in maniera differente e senza l’iter sanitario che viene eseguito in Europa. Oltre a ciò, vi è anche il problema di far comprendere ad essi l’importanza delle prescrizioni mediche; la sottomissione alle medicine da parte dei rifugiati ad esempio, non è scontata avendo a che fare con persone non abituate alla prevenzione o a prendere farmaci quotidianamente. Byron Good, un antropologo medico americano, ha suddiviso il termine malattia in tre diversi concetti: illness, sickness e disease. Illness coincide con la narrazione della malattia ed il significato attribuito ad essa, da parte del paziente; per sickness invece egli intende l’aspetto sociale della malattia e la lettura che la società ne fa; infine il termine disease sta a significare l’interpretazione biomedica della malattia come patologia. Ignorare il significato che i pazienti attribuiscono alla malattia (illness), comporta ignorare anche in che modo essi reagiranno alla diagnosi ed alle prescrizioni mediche a riguardo. 63
Per questo è necessario che il personale sanitario adotti con i propri pazienti (autoctoni e stranieri) un approccio narrativo, grazie al quale non solo il paziente esplica le proprie idee, ma tramite l’interazione con il medico è in grado di far emergere una nuova prospettiva, in un processo intersoggettivo di costruzione del significato dell’esperienza.57 Tutto ciò fa sì che si possa costruire un’alleanza terapeutica medico-paziente più fruttuosa, e che si eviti l’abbandono da parte dei pazienti dei percorsi di cura, e nei casi peggiori il rifiuto totale di dialogo e incontro con le istituzioni sanitarie.
57 Ivo Quaranta, Mario Ricca, 2012, “Malati fuori luogo” Raffaello Cortina Editore, Milano, pag.67.
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3.3 Dal colonialismo africano alla clinica multiculturale in Occidente Durante l’epoca colonialista sono avvenuti in parallelo la cancellazione o, per lo meno il tentativo di cancellazione, dei saperi non occidentali e delle pratiche di medicina tradizionale dei Paesi conquistati, e la legittimazione delle politiche imperialiste europee e di asservimento di altri popoli e territori. Il sapere scientifico occidentale dell’800 sancisce l’inferiorità di alcune razze su altre, inferiorità che, secondo la scienza del tempo, si esprime sul piano biologico, culturale e psicologico, sancendo di fatto anche le malattie mentali. Questa realtà secolare è stata scalfita progressivamente nel tempo, da saperi che hanno riscattato le differenze delle logiche cognitive dei vari popoli, capaci di sistemi ideologici alternativi rispetto a quelli occidentali, ma ugualmente complessi ed efficaci.58 L’ideologia colonialista dell’epoca considerava le pratiche ed i saperi locali, come superstizioni frutto dell’infantile spirito africano59 e del deficit cognitivo e logico delle popolazioni africane, dotate secondo gli studi biologici dell’800 di un cervello di dimensioni più piccole rispetto a quello degli europei. La colonizzazione ha portato ad una drastica diminuzione delle pratiche e dei rituali magici all’interno delle popolazioni africane; tuttavia quest’ultime sono riuscite a mantenere 58 Cardamone Giuseppe, Inglese Giuseppe David, Inglese Salvatore, Zorzetto Sergio, 2016, Scenari di salute mentale: migrazioni internazionali e generazioni discendenti, “Psichiatria e Psicoterapia culturale” Vol. IV Dicembre, pag.100. 59 Roberto Beneduce, 1997, “Saperi, linguaggi e tecniche nei sistemi di cura tradizionali”. L’Harmattan Italia, Torino, pag.32.
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attive e a non dimenticare le loro tradizioni, anche a costo di opporsi alle normative vigenti in quel periodo e rischiare la prigionia. Lo sviluppo diseguale tra il Nord e il Sud del mondo, alimenta le migrazioni internazionali di fine ‘900, gli antichi colonizzati giungono sulle terre degli ex colonizzatori, i quali dal canto loro non immaginavano, nel momento in cui occuparono i Paesi sottosviluppati che un bel giorno la colonizzazione avrebbe avuto luogo nel senso inverso.60 Le motivazioni che spingono a migrare in questa fase storica, sono principalmente economiche o materiali, di persone in cerca di lavoro e in fuga dall’indigenza materiale e dalla miseria sociale. I migranti di questo periodo postcoloniale, partivano per la maggior parte, con l’idea o di ritornare nel loro Paese una volta raggiunta una stabilità economica, o di ricongiungersi con la propria famiglia nel nuovo Stato, una volta integrati da un punto di vista economico e sociale. Nell’attuale fase storica invece, i flussi multidirezionali sono caratterizzati da persone in fuga dal proprio Paese ed impossibilitate a tornarvi. Con il venir meno degli Stati-nazione, inoltre il singolo Stato, deve devolvere parte della propria sovranità ad organismi sovranazionali ed astratti, e ridimensionare il proprio potere decisionale anche nel suo territorio. È quanto sta avvenendo con la questione dei richiedenti asilo, i quali sono costretti, sulla base di accordi transnazionali, 60 Rita El Khayat, 2008, “Il mio maestro George Devereux” Armando Editore, Roma, pag. 13.
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a rimanere in uno Stato europeo indipendentemente dalla volontà loro e della volontà dello Stato che li accoglie. Il richiedente asilo è un individuo, che presenta problematiche a livello di salute mentale e non, diverse rispetto al migrante economico che ho descritto nella fase storica precedente. A livello del corpo, i segni, i traumi e le malattie, conseguenti al viaggio e spesso ai precedenti mesi di prigionia in mano ai trafficanti di uomini, sono maggiori e molto più incisivi; anche a livello psicologico i traumi sono più elevati, primo su tutti il disturbo post-traumatico da stress. La salute dei migranti e le tematiche di salute associate alle migrazioni sono dunque questioni cruciali. Molti sono i fattori che condizionano il profilo di salute dei migranti. Prima dell’arrivo nel Paese ospite, questi comprendono l’esposizione a eventuali fattori di rischio (ambientali, microbiologici, culturali,) e l’aver accesso o meno a servizi sanitari preventivi e curativi nel Paese di origine e/o di immigrazione intermedia. A questi fattori si aggiungono le conseguenze delle difficoltà fisiche e psicologiche affrontante durante il percorso migratorio. Dopo l’arrivo nel Paese ospite, diventano invece significative le condizioni di vita sia economiche, che ambientali e sociali che attendono il migrante, e l’accesso ai servizi socio-sanitari. È necessario riflettere sui diversi contesti della cura, e sulla dimensione sociale e culturale della nozione stessa di efficacia terapeutica. La migrazione infatti è innanzitutto un avvenimento scritto in 67
un contesto storico politico preciso,61ed in quanto tale comporta uno stravolgimento in tutti gli ambiti di vita di una persona, compreso anche quello sanitario. L’approccio biomedico, usato in Occidente, tende ad occuparsi e a curare di più le malattie invece che le persone e costituisce una disciplina che produce fatti riguardanti il corpo e modifica lo statuto politico della vita umana. Mentre si prende cura della salute dei corpi moderni, la biomedicina contribuisce anche a creare gli atteggiamenti normativi, le pratiche e le norme degli individui. 62 Le problematiche legate alla salute dei migranti, specie quelle riguardanti la salute mentale, diventano ingovernabili se il trattamento è costituito solamente da clinici non integrati dentro un contesto operativo multiprofessionale, in grado di lavorare su diversi piani con persone proveniente da culture differenti. Devereux, un antropologo ed un’analista ungherese naturalizzato francese, riconosce tre tipi di terapie che considerano la dimensione culturale del disordine psichico: 1) intraculturale, nella quale il terapeuta ed il paziente appartengono alla stessa cultura, ed il terapeuta riconosce la dimensione socioculturale del problema; 2) interculturale, dimensione in cui paziente e terapeuta non appartengono alla stessa cultura, ma quest’ultimo conosce la cultura e l’etnia del paziente; 3) infine vi è la dimensione metaculturale, nella quale oltre ad appartenere a culture diverse, il terapeuta non ha conoscenze riguardo la cultura dell’etnia del paziente, ma comprende l’importanza della cultura, anche nello stabilire la diagnosi ed 61 Marie Rose Moro, 2005, “Bambini di qui venuti da altrove” Franco Angeli, Milano, pag.125. 62 Aihwa Ong, 2005, “Da rifugiati a cittadini” Raffaello Cortina Editore, Milano, pag.89.
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il trattamento.63 Per ovviare a quest’ultima dimensione, la clinica transculturale si avvale di diversi specialisti: mediatori culturali, interpreti, assistenti sociali, antropologi, i quali collaborano insieme nella risoluzione dei diversi casi, apportando ognuno il proprio sapere per giungere alla soluzione più adeguata ed efficace per il paziente. Lo strumento antropologico permette di esplorare la situazione ad un livello più ampio, e di co-costruire con il paziente dei significati culturali collettivi, sui quali verranno a sistemarsi dei significati individuali. Un’altra figura fondamentale è quella del mediatore culturale. Il mediatore linguistico-culturale non è soltanto un interprete che traduce da una lingua ad un’altra, ma esercita una vera e propria funzione di orientamento culturale nei confronti degli immigrati, è un professionista della comunicazione interpersonale ed anche un collegamento tra civiltà diverse. Egli infatti è un ponte, che permette lo scambio tra membri di culture differenti, tra universi distinti di pensiero; è sempre più necessaria nei servizi pubblici, la presenza di un co-terapeuta che condiva la stessa lingua e cultura del paziente e gli permetta di sentirsi più a suo agio. Oggigiorno a seguito soprattutto dell’emergenza profughi, i compiti e le attività che è tenuto a svolgere un mediatore linguistico sono aumentate. Non deve più solo tradurre oralmente da un idioma all’altro, ma si occupa anche indirettamente della gestione dei richiedenti asilo, in quanto è al mediatore che è affidato l’incarico 63 Marie Rose Moro, 2005, “Bambini di qui venuti da altrove” Franco Angeli, Milano, pag.29.
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di fornire delucidazioni ai profughi, su tutto quello che concerne la loro vita nel Paese ospitante. Il mediatore infatti accompagna i richiedenti asilo davanti alla Commissione, e raccoglie tutte le informazioni e i materiali utili alla persona, al fine di migliorare le possibilità di accettazione della sua domanda di asilo. Quando richiesto, si occupa anche della traduzione scritta dei documenti a loro necessari, curando l’adattamento linguistico del testo per una ricostruzione, comprensibile o nella lingua del Paese ospitante o nella lingua del Paese di partenza. Egli si impegna anche nel creare delle relazioni positive con gli stranieri con i quali lavora, approfondisce precedentemente la conoscenza del contesto entro il quale dovrà realizzare l’intervento, ovvero si prepara sulle finalità dell’intervento, i soggetti coinvolti, e le relative problematiche, di modo da trovarsi costantemente preparato nel suo lavoro. Fornisce consulenza nell’accompagnamento all’iter burocratico, supporta le persone nella compilazione della documentazione burocratica, in particolare quella necessaria all’inserimento dell’immigrato, ed al suo orientamento verso i servizi pubblici compresi quelli sanitari. Tra i compiti del mediatore vi è soprattutto la consulenza culturale: egli offre informazioni e consigli ai soggetti coinvolti nell’interazione tra autoctoni e stranieri, rispetto alle specifiche caratteristiche culturali che possono facilitare o ostacolare la comunicazione, al fine di raggiungere l’obiettivo predefinito. 64 Un’ulteriore figura essenziale in una clinica multiculturale è quella del traduttore. 64 www.mediatoreinterculturale.it
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È necessaria in quanto, mentre il mediatore viene consultato in quanto conoscitore della cultura dell’interlocutore straniero, il traduttore invece ha il compito di tradurre tutto ciò che la persona enuncia in maniera letterale, senza far trasparire la propria opinione o appartenenza culturale. È necessario trovare un punto di convergenza, nel quale persone appartenenti a gruppi culturali diversi riescano a comunicare per adattare reciprocamente i propri bagagli culturali all’incontro multietnico. È questa la sfida che la medicina interculturale sta cercando di realizzare; il termine medicina interculturale sta ad indicare il complesso di processi linguistici e pratici diretti a favorire l’incontro tra l’adozione dei protocolli clinici da un lato, e dall’altro un favorevole approccio alla cura da parte dei pazienti non autoctoni.65 Il razzismo e l’etnocentrismo hanno come punto in comune l’indifferenza e l’ostilità verso ciò che è diverso, che rimane inconoscibile ai dispositivi del nostro sapere, e l’indifferenza e la negazione del valore delle culture degli immigrati.66 Onde evitare tutto ciò, occorre decentrare i nostri modelli, i nostri automatismi diagnostico-interpretativi e riconoscere anche l’importanza e l’efficacia di modelli di cura differenti da quelli occidentali. In nome di un universalismo astratto inoltre, si incorre in realtà nel rischio di privare i migranti di cure appropriate, mentre ponendo l’accento sulla singolarità si possono immagina65 Ivo Quaranta, Mario Ricca, 2012, “Malati fuori luogo” Raffaello Cortina Editore, Milano, pag.58. 66 Roberto Beneduce, 2004, “Frontiere dell’identità e della memoria. Etnopsichiatria e migrazioni in un mondo creolo.” Franco Angeli, Milano, pag.263.
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re delle strutture di cura in cui tutti abbiano il giusto spazio e trattamento.
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3.4 Il disturbo post traumatico da stress. La rotta principale percorsa dai migranti dall’Africa occidentale passa attraverso il Niger e la Libia per poi arrivare in Italia attraverso il Canale di Sicilia. La durata media del viaggio dal paese di origine all’arrivo in Libia è di 15 mesi. Durante i viaggi i passeggeri subiscono le razzie della polizia, dei ribelli e degli stessi autisti, ai quali impotenti non si possono ribellare, onde rischiare la propria vita. Il tempo medio di permanenza in Libia per i migranti del Corno d’Africa (la maggior parte eritrei) è di tre mesi. Le tratte sono gestite da intermediari e trafficanti senza scrupoli il cui solo obiettivo è ottenere più soldi possibili dalle persone che si affidano a loro. La somme pagate dai migranti per affrontare queste rotte, in genere più elevate dal Corno d’Africa, sono generalmente altissime, ed i migranti spendono i loro risparmi di una vita e spesso anche quelli dei loro familiari ed amici, pur di riuscire a partire. I traumi estremi come la tortura e le violenze sono un’esperienza comune durante il viaggio; più del 90 per cento dei migranti nel raccontare il proprio percorso, afferma di essere stato vittima di violenza, di tortura e di trattamenti inumani e degradanti lungo la rotta migratoria, in particolare in luoghi di detenzione e sequestro in Libia. La privazione di cibo e acqua, le pessime condizioni igieniche sanitarie, le frequenti percosse e le violenze sessuali, sono le forme più comuni e generalizzate di maltrattamenti. 73
Ci sono però altre forme di tortura più specifiche sia fisiche sia psicologiche a cui sono sottoposti i migranti, nove migranti su dieci ad esempio hanno dichiarato di aver visto qualcuno morire, essere ucciso, torturato o picchiato, e di avervi dovuto assistere impotenti.67 Dal 2014 ad oggi sono morti in mare più di 10 mila persone nell’attraversata dalla Libia alle coste del Sud Europa, traversata che viene compiuta all’interno di barconi o gommoni fatiscenti, nei quali vengono stipati gruppi di persone quantitativamente di gran lunga superiori alla capienza numerica del mezzo, che per questo spesso tendono a rovesciarsi, facendo precipitare ed affogare in mare molti dei passeggeri. Nel viaggio chi sopravvive oltre ad aver vissuto in prima persona pesanti privazioni, ha spesso visto morire il proprio amico, familiare o anche solo il proprio compagno di viaggio. Vivere esperienze così traumatizzanti e violente porta molti migranti a sviluppare disturbi mentali e/o comportamentali, tra cui il più comune è il disturbo post traumatico da stress (DPTS). La sindrome post traumatica da stress trova la sua prima collocazione nella terza edizione del DSM pubblicata nel 1980, allo scopo di classificare i disturbi dei militari americani che avevano partecipato alla guerra in Vietnam.68 In questa particolare sindrome è il trauma che produce il traumatizzato, ovvero l’individuo si ammala in seguito a l’esposizione a comportamenti ed eventi negativi compiuti nei suo confronti che lo portano a sviluppare un disturbo mentale. 67 www.internazionale.it 68 Donatella Cozzi, 2012, Sei semi di melograno, “La ricerca folklorica”, num.66, pag.64.
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Il Disturbo Post traumatico da Stress è un disturbo mentale che secondo il Dsm V (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), si sviluppa quando la persona è stata esposta ad un evento traumatico, a seguito del quale sono sorti sintomi intrusivi correlati al trauma, quali incubi e sogni nei quali l’evento viene ripetuto persistentemente, irritabilità o scoppi di collera, difficoltà a concentrarsi, ipervigilanza ed esagerate risposte di allarme immotivate. I sintomi del Disturbo Post traumatico da Stress possono essere quindi raggruppati in tre categorie principali: 1. il continuo rivivere l’evento traumatico: l’evento viene rivissuto persistentemente dall’individuo attraverso immagini, pensieri, percezioni, incubi notturni; 2. l’evitamento persistente degli stimoli associati con l’evento o attenuazione della reattività generale: la persona cerca di evitare di pensare al trauma o di essere esposta a stimoli che possano riportarglielo alla mente. L’ottundimento della reattività generale si manifesta nel diminuito interesse per gli altri, in un senso di distacco e di estraneità; 3. sintomi di uno stato di iperattivazione persistente come difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno, difficoltà a concentrarsi, l’ipervigilanza ed esagerate risposte di allarme.69 Questa tipologia di disturbo è una delle peggiori, in quanto compromette la capacità di arousal e di reattività associa69 Vittorio Lingiardi, Francesco Gazzillo, 2014, “La personalità clinica e i suoi disturbi. Valutazione clinica e diagnosi al servizio del trattamento”, Raffaello Cortina Editore, Milano, pag.315.
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te all’evento traumatico, impedendo alla persona di reagire all’avvenimento e ricominciare una nuova vita.70 Quello che viene intaccata è quella che in psicologia viene definita la resilienza, ovvero la capacità dell’individuo di far fronte a situazioni traumatiche ed affrontare senza spezzarsi, ma superando invece l’evento negativo. L’evento traumatico costituisce un incontro immediato, nel senso di non mediato con la morte, che ristruttura l’esistenza dell’individuo portandolo ad una metamorfosi, che passa attraverso la conoscenza proibita della morte.71 Oggigiorno vi è un po’ il rischio di un abuso dell’assegnazione di questa sindrome da parte dei terapeuti verso i richiedenti asilo, abuso che può portare l’individuo ad una accettazione della sua malattia che non lo fa reagire, ma al contrario peggiora il suo stato mentale facendolo adagiare sulla sua condizione. È indubbio come in individui appartenenti a culture o gruppi sociali differenti, provare il medesimo evento doloroso può avere risonanze emotive diverse, ogni società infatti permette ai suoi membri di manifestare il proprio dolore e la propria sofferenza in maniera diversa (si veda ad esempio l’espressione nel lutto nelle diverse culture), ed è per questo che nel disturbo post traumatico da stress, così come in tutti i disturbi condizionati dal vivere la condizione esistenziale di migrante, è necessario che nella terapia vi sia una considerazione anche della cultura di appartenenza dell’individuo, e di come questa valuti il problema. 70 www.istitutobeck.com 71 Donatella Cozzi, 2012, Sei semi di melograno, “La ricerca folklorica”, num.66, pag.63.
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CAPITOLO QUARTO L’INDAGINE SUL CAMPO 4.1. Metodologia di ricerca. 4.2 Le mutilazioni genitali femminili. 4.3. Analisi e riflessioni delle interviste. Metodologia di ricerca. Per la mia ricerca ho scelto di intervistare otto persone, tra richiedenti asilo e persone che avevano già ottenuto lo status di rifugiato o di beneficiario di protezione internazionale. Ho individuato un campione rappresentativo della mia popolazione di riferimento in quattro donne e quattro uomini provenienti da diversi Stati del continente africano, sia perché sono la componente maggioritaria all’interno delle associazioni da me scelte, sia perché è il continente sul quale mi sono soffermata di più nello studio delle medicine tradizionali. Gli stati di origine da cui provengono i miei intervistati sono: Nigeria, Sierra leone e Mali.
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Tabella relativa ai richiedenti asilo intervistati.
NIGERIA
MALI
SIERRA LEONE
FEMMINE 3
0
1
1
2
2
MASCHI
Le fasce di età dei miei intervistati si dividono principalmente in: 20- 27 anni e 33- 40 anni. Prima delle interviste ho trascorso del tempo con gli ospiti sia della cooperativa sociale Perusia che dell’associazione Cidis Onlus, in modo da riuscire a farmi conoscere, ed anche a creare con loro un legame ed un’empatia maggiore; in totale ho passato con le due cooperative cinque mesi, da Novembre 2016 a Marzo 2017. Tutti i colloqui si sono svolti all’interno delle abitazioni degli intervistati, per dare loro la possibilità di sentirsi maggiormente a proprio agio, essendo in un ambiente a loro familiare, e di potersi quindi esprimere più liberamente. In ogni appartamento convivono minimo 5 persone, tranne che per le coppie sia sposate che solamente fidanzate o con minori a carico che in tal caso vivono da soli; ogni intervista si è svolta però separatamente dagli altri coinquilini, questo a tutela e per rispetto della privacy di ognuno. La modalità delle interviste è stata semistrutturata, con do78
mande aperte preparate precedentemente; anche se sono state molte le informazioni ricavate tramite questioni nate al momento, sulla base delle differenti risposte degli intervistati. Frequenti sono stati i sorrisi e soprattutto le pause sospensive cariche di significati che sulla carta è difficile trasmettere, ma che data la loro importanza ho cercato di evidenziare in alcuni casi con dei puntini di sospensione, alla fine di talune affermazioni o domande. La lingua usata per l’intervista è stata principalmente l’inglese, solo alcuni ospiti, appartenenti per lo più all’associazione Cidis, parlavano il francese. Per gli ospiti della cooperativa sociale Perusia ho potuto effettuare le interviste principalmente da sola, in un’atmosfera più intima e privata, chiedendo magari un aiuto agli operatori o ai loro mediatori culturali solo in alcuni momenti più salienti o, di maggiore incomprensione linguistica e/o culturale. Questo mi è stato possibile dato che la maggior parte dei loro ospiti risiede in Italia minimo già da un anno, ed ha già una conoscenza anche se parziale non solo della lingua italiana, ma soprattutto della cultura italiana. Molti di loro inoltre nel loro Paese hanno ricevuto un’istruzione, benché in alcuni casi solamente primaria, è questo ha facilitato di gran lunga la comprensione delle domande, ed ha permesso anche di avere risposte più articolate e dettagliate. Gli ospiti dell’associazione Cidis Onlus con i quali sono entrata in contatto invece, risiedono in Italia da un tempo inferiore, ed hanno ancora qualche difficoltà a comprendere appieno la cultura del Paese in cui risiedono. Molti di loro inoltre sono analfabeti e non conoscono né l’in79
glese né il francese, ma parlano solo il dialetto del loro villaggio natio; questo ha fatto sì che per intervistarli io abbia necessitato del supporto costante di un mediatore culturale del Cidis, non solo per la comprensione culturale delle mie domande ma, anche per una comunicazione linguistica migliore. Gli intervistati di entrambi le associazioni si sono mostrati sin da subito estremamente cordiali e benevoli nei miei confronti, hanno collaborato mostrandosi contenti di partecipare ad una ricerca e di poter essere utili. Trattandosi di aspetti della loro vita privata, non sempre è stato facile ottenere le informazioni necessarie, l’aiuto degli operatori mi ha permesso di colmare alcuni pezzi mancanti nei loro discorsi, che essi probabilmente omettevano o per imbarazzo o per paura di mostrare con le loro parole ingratitudine verso l’Italia. Non ho rilevato grandi differenze legate al genere, sia nell’atteggiamento verso di me, sia nelle narrazioni delle loro vite; mentre ho riscontrato differenze notevoli sia nel modo di approcciarsi a me, che nel raccontare la propria esperienza, in base alla differenza di età. Con le persone più giovani si è instaurato un rapporto informale, se non ché amicale fin da subito, è probabile che data la mia giovane età essi si sentissero maggiormente a proprio agio, e le mie origini africane abbiano agevolato il tutto. Per quanto riguarda le persone con un’età più avanzata rispetto alla mia, si sono creati ugualmente rapporti piacevoli, ma caratterizzati da una maggiore riservatezza e formalità rispetto ai miei coetanei. Gli operatori sia del Cidis Onlus che della cooperativa Peru80
sia si sono mostrati disponibili e pronti a cogliere le piccole difficoltà che potevano sorgere durante il mio lavoro e, ad aiutarmi per superarle. Ho avuto modo di constatare non solo la loro competenza professionale, ma anche l’impegno e la cura che essi impiegano nel lavorare con i rispettivi ospiti, per far sì che tutto si svolga nel rispetto e la tutela dei loro diritti. Mediamente i colloqui sono durati un’ora e mezza ciascuna, tempo necessario sia per mettere a proprio agio la persona che, per essere certi abbia capito a pieno le domande e risponda a tutto in maniera sincera. Le storie che ho selezionato sono diverse l’una dall’altra, il filo comune che le lega è il contatto che queste persone hanno avuto con il sistema sanitario italiano, e l’aver vissuto nel loro Paese di provenienza, esperienze e problemi anche se non prettamente medici, comunque legati alla concezione del corpo della propria cultura di origine. Per motivi di privacy e soprattutto per tutelare i soggetti da me intervistati data la loro situazione di maggiore vulnerabilità e fragilità sociale, ho scelto di non mettere i loro nominativi reali, per questo i nomi che riporto nelle interviste sono nomi da me ideati. Le lettere J.C. con le quali faccio le domande corrispondono invece ai miei nominativi ovvero Jessica Conteh. In una delle visite che ho fatto agli ospiti del Cidis ho avuto l’occasione di assistere ad una riunione tra gli operatori, i mediatori del Cidis ed i loro ospiti, proprio riguardante l’assistenza sanitaria, che data la sua importanza ho qui deciso di riportare. 81
Durante la riunione i mediatori traducevano in francese ed in bambara, le lingue parlate maggiormente dai rifugiati presenti, le indicazioni degli operatori, e riportavano a quest’ultimi le perplessità dei ragazzi. Tra gli argomenti trattati i più importanti erano la necessità di adempiere alle prescrizioni mediche e di sottoporsi a tutti i controlli ospedalieri richiesti, sottolineando quanto fosse importante una cura adeguata per guarire completamente, e come una malattia incide non solo su di loro, ma anche su tutta la comunità e su tutte le persone con cui essi entrano in contatto. Si è sottolineato più volte come il sottostare alle indicazioni del medico fosse, in particolar modo per le malattie infettive, non solo un dovere personale ma soprattutto un dovere civico e segno di rispetto verso gli altri. Successivamente gli hanno spiegato come benché possa apparire loro strana, la burocrazia italiana sia importante, di come sia necessario rispettare gli appuntamenti e sempre nell’ambito sanitario disdire precedentemente una visita, qualora essi non possano andarci, dando così modo ad altri di prendere il loro posto. E’ stato importante vedere come viene spiegato ai rifugiati e come loro stessi siano i primi a voler essere informati su tutta la questione relativa ai documenti che hanno; ad esempio durante la riunione gli è stato spiegato come nonostante abbiano una carta sanitaria provvisoria e cartacea, possano accedere ai servizi sanitari senza problemi e che gli è stata già attivata la procedura per l’ottenimento della tessera elettronica e definitiva. Un altro tema trattato è stato come occorre saper distinguere tra un malessere che può essere passeggero ed una malattia 82
più seria, e quindi saper decidere se è necessario andare all’ospedale oppure no; e saper distinguere tra una bisogno di aiuto per un problema solamente estetico come può essere una dermatite lieve (ad esempio l’avere la pelle più secca), e tra una necessità vera e propria. E’ stato poi ribadito come il personale sanitario non vuole fargli del male, ma sta lì per aiutarli, ed anche qualora li sottopone a svariati controlli è per trovare il problema e la soluzione migliore per risolverlo. È stato riportato dai mediatori, l’esempio della richiesta delle analisi del sangue, cosa che non viene fatta con il fine di vendere o usare il loro sangue per scopi sconosciuti, ma viene eseguita come prassi per avere un quadro clinico del paziente più completo. Viene ribadito più volte come i medici siano per loro un aiuto e non una minaccia, anche perché poco prima della la riunione, arriva da un ragazzo straniero, non appartenente agli ospiti del Cidis la notizia che essendo troppi gli immigrati negli ospedali, i medici hanno deciso di “uccidere” coloro che continueranno ad arrivare negli ospedali. Questa è solo una delle tante notizie errate, che giungono alle orecchie dei richiedenti asilo e che creano in loro diffidenza e portano ad un allontanamento dal sistema sanitario; uno dei punti chiave che ho cercato di far emergere dalle mie interviste è proprio il loro rapporto con il sistema sanitario. Ho voluto intervistare anche il personale sanitario, in modo da avere un quadro più completo e per verificare come in questi anni sia cambiato il loro lavoro con gli stranieri, e quale tipo di rapporto essi abbiano con i richiedenti asilo. Per quanto riguarda le interviste con il personale sanitario 83
ho seguito il percorso sanitario che molti di loro fanno, per questo sono partita dal Direttore del Dipartimento di Igiene e Sanità Pubblica di Perugia, servizio che effettua il primo controllo medico a tutti i profughi della Provincia perugina; poi ho intervistato un medico dell’ambulatorio migranti di Perugia, punto di ritrovo per tutti gli immigrati che non hanno il medico di base; ed infine ho intervistato un dirigente della Asl e un infermiere del Pronto soccorso, essendo entrambi tra i servizi sanitari di cui usufruiscono maggiormente i richiedenti asilo. Le interviste si sono suddivise in due ambiti territoriali diversi, sulla base dei diversi comuni ai quali appartengono i rifugiati da me selezionati, infatti mentre gli ospiti della cooperativa Perusia rientrano tutti nel comune di Perugia, il Cidis ha preso in affitto anche abitazioni all’interno del comune di Umbertide e Città di Castello. Questa è la motivazione per la quale ho ritenuto necessario effettuare colloqui sia con il personale appartenente ai servizi pubblici sanitari di Perugia, sia alla Asl di Umbertide, dove molti profughi si sottopongono alle vaccinazioni e vi si dirigono per ciò che concerne i documenti sanitari italiani, che al servizio di Pronto Soccorso dell’ospedale di Città di Castello. Ho intervistato anche uno degli operatori con cui ho collaborato questi mesi, per ottenere e poter trascrivere meglio, mediante un’intervista strutturata, tutte le informazioni che ho ottenuto da chi lavora quotidianamente con loro. La mia ultima intervista invece si è svolta con un medico di nazionalità africana, che ha conseguito gli studi di medicina e chirurgia qui all’Università degli studi di Perugia, e che lavora da anni all’interno della Cooperativa sociale Perusia. L’obiettivo dell’intervista con il medico africano è stato com84
prendere come lui cresciuto con una mentalità diversa da quella occidentale sia riuscito a coniugare le conoscenze da lui apprese nel corso della sua vita in Africa, con le conoscenze acquisite nei suoi corsi di studi in Italia, e come lui riesca a conciliare i sentimenti di vicinanza verso gli stranieri (soprattutto africani) con i quali lavora, con i suoi doveri di medico occidentale.
4.2 Le mutilazioni genitali femminili. Ho deciso di aprire una parentesi, su una questione relativa alle pratiche corporee fortemente dibattuta ovvero le mutilazioni genitali femminili, data la presenza nella maggior parte delle mie interviste di questo tema. Nei colloqui svolti sia con soggetti maschili che femminili, è emerso come le MGF siano ancora una componente significativa nella vita delle donne in Africa, e soprattutto siano ancora oggi fortemente diffuse e praticate, nonostante la presenza di normative in molti Paesi dell’Africa (come ad esempio la Nigeria) che le vietano. Questo avviene in quanto è difficile riuscire a depennare una pratica così radicata, nelle tradizioni e nella mentalità di molte società africane e, saldamente connessa con il concetto di onore e purezza di una ragazza. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per Mgf si intendono tutte quelle procedure che comprendono l’asportazione totale o parziale degli organi genitali esterni della donna e/o il danneggiamento di tali organi per delle ragioni culturali o per altre ragioni non terapeutiche (OMS, 2008).72 72 Fondazione Celli, 2014, “Mutilazioni genitali e salute riproduttiva del-
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I tipi di Mgf principali sono 4: la circoncisione, ovvero asportazione del prepuzio. Se c’è l’asportazione parziale o totale del clitoride è detta clitoridectomia; l’escissione cioè asportazione del prepuzio clitorideo, del clitoride e di parte o tutte le piccole labbra; l’infibulazione che comprende l’asportazione del clitoride, delle piccole labbra e parte delle grandi; ed infine vi sono diverse procedure di manipolazione dei genitali quali il gukuna, il gishiri e l’angurya cuts. Le origini delle mutilazioni genitali femminili sono antichissime e risalgono circa al 2000 a.C. Il grande storico greco Erodoto (V sec. a.C) racconta che la Mgf era praticata molto prima della sua epoca daFenici, Ittiti, Egizi, Etiopi. Anche ad Atene e a Roma veniva praticata una sottospecie di infibulazione, chiudendo l’apertura vaginale con una spilla (fibula) alle mogli dei soldati che partivano per le campagne militari dell’Impero allo scopo di impedirne l’adulterio durante la loro assenza. Al medesimo trattamento venivano sottoposte le schiave per evitare le gravidanze causa di minore rendita sul lavoro73. I primi casi di infibulazione realmente documentati risalgono ai primi anni del diciannovesimo secolo, con l’avvento della colonizzazione. L’OMS stima inoltre che tra 100 e 140 milioni di donne e bambine nel mondo abbiano subito ad oggi una qualche forma di modificazione genitale.74 la donna immigrata in Umbria” in collaborazione con la Regione Umbria, Centro Stampa Giunta Regionale Umbria, Perugia. Pag.12. 73 www.dirittiumani.donne/aidos.it 74 www.unicef.it
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Nonostante sia opinione diffusa che le MGF siano effettuate per ragioni di appartenenza religiosa nella realtà non dipendono dalla religione; le motivazioni di fondo sono tante e variano a seconda dei contesti geografici, ma sono tutte connesse ad aspetti culturali. Le motivazioni più importanti sono: preservare la verginità, garanzia di fedeltà, rendere la donna più fertile, garanzia di igiene, garanzia economica, ragione estetica, aumentare il piacere sessuale degli uomini, prevenzione delle morti prenatali.75 In tutte le etnie e le popolazioni in cui vengono praticate le Mgf, l’operazione solitamente viene eseguita da donne e specialmente da donne anziane (spesso è la moglie del fabbro del paese); in quella situazione la donna anziana non fa altro che esercitare quello che essa stessa aveva dovuto subire da piccola, nell’ambito di una pulsione aggressiva e incosciente contenuta per anni.76 Le conseguenze fisiche immediate e nefaste delle MGF, sono 75 Michela Fusaschi, 2011, “Quando il corpo è delle altre” Bollati Boringhieri, Milano. 76 Rita El Khayat, 2008, “Il mio maestro George Devereux” Armando Editore, Roma, pag.83.
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connesse al fatto che l’operazione viene conseguita sovente in modo clandestino e da persone con scarse o nulle conoscenze medico sanitarie; durante l’intervento la donna viene tenuta ferma per le braccia e per le gambe, e nella fase di forzata immobilizzazione si possono creare dei danni agli arti, quali fratture o lussazioni. La conseguenza più frequente è il verificarsi di emorragie, che portano spesso alla morte della bambina, inoltre l’utilizzo di strumenti non adeguati (coltelli affilati, lame di rasoi o pezzi di vetro), la scarsa conoscenza sanitaria e il dimenarsi della donna possono portare a lesioni dei tessuti adiacenti la vagina, quali l’uretra, il perineo e il retto. Le conseguenze fisiche tardive riguardano: complicanze al tratto urinario con una minzione dolorosa e lenta (30-40 minuti per urinare, ritenzione urinaria); conseguenze a livello ginecologico con infezioni durante il ciclo mestruale dovute al ristagno di sangue che si viene a creare, ed aumento del rischio di infertilità; e conseguenze sulla gravidanza e sul parto riguardanti grosse difficoltà ad eseguire gli accertamenti, le visite ginecologiche infatti risultano difficili e quasi impossibile da eseguire. Per gli accertamenti e al momento del parto, quasi sempre si ricorre alla deinfibulazione (riapertura delle grandi labbra), altrimenti il feto farebbe fatica ad uscire dal canale vaginale. Un’ulteriore conseguenza tardiva riguarda i rapporti sessuali: spesso la donna prova molto dolore (dispareunia), si possono arrivare a generare delle infezioni pelviche, e molte volte il rapporto sessuale è difficile, se non impossibile.77 All’interno delle comunità nelle quali vengono effettuate, 77 Michela Fusaschi, 2003, “I segni sul corpo” Bollati Boringhieri, Milano, pag.28.
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queste pratiche sono viste come dei riti di passaggio essenziali per il passaggio alla vita adulta di una ragazza; anche il dolore che le bambine o ragazze provano al momento di tali operazioni rappresenta un’istituzione, un “anestetico culturale e sociale”.78 Il fenomeno dell’immigrazione porta con sé non solo le persone ma anche le loro culture e pratiche sociali, non solo diverse ma anche a volte in contrasto con i modelli di pensiero occidentali, e tra queste vi rientrano le mutilazioni genitali femminili. Non sono rari i casi di donne immigrate in Italia che nel raccontare le loro esperienze con il personale sanitario italiano, denunciano una forte ignoranza sul tema della MGF se non ché veri e propri episodi di discriminazione. Molte di loro hanno scoperto che l’infibulazione viene eseguita solo in alcune comunità e che non è praticata tra le donne occidentali, solo in seguito alla loro emigrazione e questo spesso provoca in loro disagi e sentimenti di ribellione verso ciò che hanno dovuto subire. Per quanto riguarda il territorio umbro, le aree di maggiore provenienza di donne sottoposte alla pratica delle Mgf sono: Nigeria (29,6%), Costa d’Avorio (36,4%), Egitto (91,1%), Eritrea (88%), Somalia (97,9%), Etiopia (74,3%) e Mali (85,2%).79 In una ricerca condotta dalla Fondazione Celli nel 2014 in Umbria, emerge come su 11 donne immigrate e infibulate, quasi tutte hanno riscontrato dei problemi durante le visite 78 Ibidem. 79 Fondazione Celli, 2014, “Mutilazioni genitali e salute riproduttiva della donna immigrata in Umbria” in collaborazione con la Regione Umbria, Centro Stampa Giunta Regionale Umbria, Perugia, pag.20.
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ginecologiche, e sovente sono state costrette ad abbandonare la visita, a causa di battute razziste o risate di scherno o perché usate come cavie da studio per gli studenti di ginecologia, contro la loro volontà. Questo porta spesso le signore a rivolgersi ad ospedali e medici privati qualora abbiano una disponibilità economica sufficiente, coloro che non possono permetterselo invece finiscono di frequente per rifiutare qualsiasi tipo di contatto con il personale sanitario.
4.3. Analisi e riflessioni delle interviste Per la mia ricerca ho effettuato in totale quattordici interviste qualitative: otto ai richiedenti asilo, divisi in quattro maschi e quattro femmine; quattro al personale sanitario italiano; una ad uno degli operatori sociali con cui ho collaborato in questi mesi, ed una ad un medico di nazionalità sierraleonese. Ho trascorso con i richiedenti asilo cinque mesi da Novembre 2016 a Marzo 2017, mesi nei quali ho avuto la possibilità di conoscere le loro vite passate, di scoprire le loro opinioni riguardo la loro migrazione in Italia ed anche di costruire con essi rapporti amicali. Tre persone appartengono alla fascia d’età che va dai venti ai trenta anni, ed hanno rispettivamente 22, 23 e 26 anni; nella categoria dei trentenni invece rientrano quattro persone, due di 32 anni e le altre due di 33 e 36 anni; mentre solamente uno dei miei intervistati ha 40 anni.
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NOME
S E S - ETA’ SO
LIVELLO ISTRUZIOPA E - R E L I SE GIONE NE scuola
Memuna femmi- 33 anni N i g e - cristiana media na ria scuola Omar
m a - 40 anni Sierra islamica superiore schio Leone scuola
Malik
m a - 22 anni Mali islamica media schio 32 anni Sierra Assente Leone femmiislamica na scuola
Asiatu
Santighi m a - 26 anni N i g e - cristiana superiore schio ria scuola Fatu
femmi- 32 anni N i g e - cristiana media na ria
A b d u - m a - 36 anni Mali ramn schio Jariatu
islamica Assente
femmi- 23 anni N i g e - cristiana Assente na ria
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Dei richiedenti asilo tre rientrano tra gli ospiti della cooperativa sociale Perusia, e cinque tra gli ospiti dell’associazione Cidis Onlus; questa suddivisione è avvenuta in maniera casuale, sulla base di una maggiore presenza delle problematiche sanitarie tra gli ospiti dell’associazione Cidis Onlus, rispetto alla cooperativa Perusia. Tra il personale sanitario italiano, ho selezionato persone appartenenti a servizi diversi, per poter avere una visione della situazione più completa, ed un quadro più ampio. I colloqui si sono svolti con il Direttore del Servizio di Igiene e Sanità Pubblica (ISP), servizio che effettua lo screening sanitario a tutti i richiedenti asilo che arrivano in Regione; suddetto servizio, in seguito alla Delibera della giunta regionale Umbria n.106 del 2015, è stato individuato come il primo punto di contatto delle Az. USL, e pertanto ha il compito di interfacciarsi con le Prefetture e le Questure di Perugia e Terni all’arrivo dei migranti, di coordinare il personale medico che effettuerà la prima visita, di dare supporto tecnico-scientifico e indicazioni ai Gestori delle strutture di accoglienza per gli eventuali provvedimenti in caso di malattie infettive, e di garantire il raccordo con i Distretti sanitari della zona: “La prefettura comunica quante persone arrivano in Regione, generalmente arrivano con un pullman. Il nostro compito è rispondere alle esigenze di prima necessità derivanti soprattutto dal viaggio che queste persone hanno compiuto; quello che noi eseguiamo è uno screening di valutazione sindromica per vedere se hanno della malattie infettive. Come Servizio di Igiene e Sanità pubblica, noi facciamo quindi una valutazione preventiva di possibili presenze in-
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fettive ai migranti che arrivano tramite canali non ufficiali diciamo” (M. Gildi, direttore ISP).
Ho intervistato poi un medico dell’ambulatorio migranti di Perugia, punto di ritrovo per tutti gli immigrati che per mancanza di documenti non hanno accesso al medico di base: “Il nostro ambulatorio non è il classico ambulatorio con il medico di famiglia come gli altri a Perugia, questo è un ambulatorio specifico per gli immigrati, soprattutto per quelli irregolari o che non hanno possibilità di iscriversi al sistema sanitario, ed avere il medico di famiglia. In teoria ce la dovrebbero avere tutti la possibilità di avere il medico di famiglia, non ci dovrebbe essere questo ambulatorio però purtroppo non è così! Noi è 20 anni che offriamo questo servizio, vedi all’inizio il diritto di iscrizione all’anagrafe sanitaria per gli stranieri non c’era per niente, e per gli immigrati coprivamo noi il diritto alla salute qui a Perugia! Adesso copriamo quella popolazione che anche se ha il diritto, non riesce a usufruirne per motivi burocratici, perché ancora non ha i documenti o per altri motivi.” (M. Damiani, medico ambulatorio migranti).
Data la presenza nelle mie interviste di ragazzi residenti all’interno del comune di Umbertide, precisamente a Pierantonio, che quindi per i problemi sanitari si rivolgono principalmente ai comuni di Umbertide e Città di Castello, ho voluto intervistare anche il personale sanitario di quelle zone. 93
Ho intervistato perciò una dirigente della ASL del comune di Umbertide ed un infermiere del servizio di Pronto Soccorso dell’ospedale di Città di Castello. I loro nominativi sono rimasti anonimi in quanto essi mi hanno espresso la loro preferenza nel non essere citati direttamente. Nell’intervista con l’operatore sociale del Cidis Onlus, ho cercato di far emergere tutte le criticità e le questioni maggiori, che sono affiorate in questi mesi di contatto con i richiedenti asilo. L’intervista finale invece si è svolta con un medico di nazionalità sierraleonese residente a Perugia da 40 anni, che lavora con gli immigrati della cooperativa sociale Perusia da più di 20 anni. Ho scelto di effettuarla come intervista conclusiva in quanto punto di unione della mia ricerca tra la sanità italiana e l’immigrazione, essendo lui un medico laureatosi qui a Perugia, ma che essendo emigrato dal continente dal quale provengono molti dei suoi assistiti, ne comprende maggiormente le opinioni, gli usi e i costumi. Le interviste con i richiedenti asilo sono durate mediamente un’ora e mezza ciascuna, tempo necessario per apprendere le informazioni, ma soprattutto per far sì che l’intervistato si aprisse e fosse in grado di confidarsi maggiormente; sempre per questo motivo le interviste si sono svolte tutte nei luoghi di abitazione dei protagonisti, residenti tre di loro vicino al centro di Perugia, ed i restanti a Pierantonio. In alcuni casi, sono ritornata più volte a parlare con il protagonista dell’intervista, riuscendo a creare così un maggior rapporto di fiducia, che ha permesso all’intervistato di aprirsi con me in maniera più profonda. 94
In tutte le interviste tranne quella con il direttore del Servizio Igiene e Sanità, ho potuto usufruire del registratore, in modo da non dovermi preoccupare costantemente di trascrivere tutte le risposte del mio intervistato, e potermi concentrare meglio sull’andamento del colloquio e le informazioni anche non verbali che ottenevo. Mentre la comunicazione verbale ha fornito indicazioni circa la sfera cognitiva e comportamentale dell’intervistato, la comunicazione non verbale ha fornito indicazioni sugli stati emotivi ed affettivi dell’intervistato e sul loro presunto significato. Ho provveduto ad analizzare le interviste sistematicamente, subito dopo averle condotte, in questo modo è stato possibile, sia individuare eventuali altri temi da indagare e altre domande da sottoporre ad ulteriori soggetti, che avere un ricordo più nitido dell’intervista, e delle informazioni ed impressioni ottenute. La scolarizzazione dei richiedenti asilo. La maggior parte dei miei intervistati ha un basso grado di scolarizzazione, solo due su otto, riferiscono di aver frequentato le scuole superiori. Questo dimostra come tutt’oggi nei Paesi del Terzo Mondo, per molti bambini sia ancora arduo l’accesso all’istruzione: sia perché il sistema scolastico è fortemente privatizzato, e per accedervi occorre pagare rette che la maggior parte della popolazione non può permettersi, sia perché la povertà delle famiglie, fa sì che spesso bambini anche in età scolastica, siano costretti a lavorare per aiutare economicamente i propri genitori. 95
“Non sono andato a scuola perché dovevo lavorare, ho lavorato il cotone sin da piccolo. Infatti sono contento di andare a scuola qui e di poter imparare!” (Abduraman, Mali, 36 anni).
Nelle interviste inoltre emerge come quasi tutti i richiedenti asilo abbiano svolto nel Paese di provenienza prevalentemente lavori manuali. “In Mali lavoravo il cotone e facevo il manovale quando serviva.” (Abduraman, Mali, 36 anni).
“In Africa ero una venditrice di un cibo simile alla polenta qui in Italia, […] Lui faceva il barbiere” (Asiatu, Sierra Leone, 32 anni).
Il basso grado di scolarizzazione ed un curriculum professionale, che concerne per lo più lavori manuali, può rappresentare un problema nella ricerca di lavoro per i richiedenti asilo, in quanto restringe la gamma di mestieri che i profughi possono compiere, e di fatto complica la possibilità per essi, di trovare effettivamente per tutti un’occupazione lavorativa. Questo difficoltà aumenta ulteriormente in un Paese come l’Italia, già caratterizzato da una crisi economica che ha bloccato gran parte del mondo del lavoro. Inoltre, per lo meno da quanto emerso tra i miei intervistati, vi è anche il problema che molti di loro parlano solo la lingua 96
del proprio villaggio natio, non conoscono neanche la lingua ufficiale del loro Stato, oppure l’inglese o il francese, che sono gli idiomi che a seguito della colonizzazione europea, vengono parlati di più nel continente africano. Tutto ciò comporta una maggiore difficoltà anche per quanto riguarda la loro comunicazione con gli operatori: “Con molti di loro non solo non riusciamo a capirci in italiano, ma neanche in inglese o in francese! Quando si tratta di questioni importanti allora chiediamo aiuto al mediatore per accertarci che abbiano compreso per bene tutto quello che gli dobbiamo dire; per le cose più futili ci arrangiamo come possiamo, anche a gesti quando serve!” (Gioia, operatrice Cidis Onlus).
La religione. Per quanto riguarda la religione, quattro dei miei intervistati sono di religione cristiana e altrettanti quattro sono di religione musulmana; tale suddivisione è stata del tutto casuale, ho rilevato però, grazie alle interviste, come in Sierra Leone ed in Mali, vi sia una maggioranza di persone di fede islamica: “Sono musulmano, da noi non ci sono cristiani, non trovi nessuna chiesa (ridendo).” (Omar, Sierra Leone, 40 anni).
“Da noi non c’è scelta, io sono musulmano!” (Abduraman, Mali, 36 anni).
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Stando con loro sia singolarmente che in gruppo, non ho notato però grandi differenze comportamentali legate all’appartenenza religiosa, e la medesima impressione mi viene riferita anche dagli operatori: “Non ci sono grandi differenze tra come i musulmani ed i cristiani si comportano nei nostri confronti, non ci è mai capitato che qualcuno rifiutasse di fare qualcosa in nome di determinati tabù religiosi.” (Gioia, operatrice Cidis Onlus).
Il viaggio e l’impatto con l’Italia. Qualunque sia il loro Paese di origine, (Nigeria, Mali o Sierra Leone), la rotta del viaggio dei miei intervistati è stata pressoché uguale: tutti loro hanno trascorso un periodo in Libia, e da lì con l’avvento della guerra sono stati costretti a scappare, e non potendo tornare nel loro Paese di origine, hanno intrapreso il viaggio verso l’Europa: “Vivevo in Libia, sono stata lì per tre anni e poi da lì sono venuta finalmente in Italia. […] in Libia facevo le pulizie in un hotel, e poi lavoravo in un ristorante. […] erano iniziate le lotte, non potevo tornare indietro in Nigeria quindi ho preso coraggio ed ho deciso di venire in Italia. Sono arrivata a Lampedusa con il gommone […] Ho pagato da sola il viaggio con i soldi che avevo messo da parte, prima lavorando in Nigeria nel mio salone per i capelli poi in Libia in un ristorante. […] Eravamo in 96 persone sulla barca. Non dovrebbe essere così…Un mio amico partito dopo di me è morto
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perché erano in troppi ed il gommone si è rovesciato” (Memuna, Nigeria, 33 anni).
“Sono fuggita prima in Guinea, poi in Mali per arrivare infine in Libia, dove ho vissuto quasi cinque anni con mio marito. Lui faceva il barbiere mentre io ho continuato il mio lavoro di venditrice. Stavamo bene siamo dovuti andare via quando sono iniziate le lotte, la guerra. Abbiamo preso una barca con altre persone e siamo sbarcati a Lampedusa. Conoscevo solo la Sicilia, non sapevo niente di Perugia” (Asiatu, Sierra Leone, 32 anni).
Una delle ragazze contattate, mi ha raccontato come il suo arrivo in Italia sia dipeso dall’aver “venduto” il proprio nipote ad una coppia nigeriana residente a Londra, che non potendo avere figli, le ha pagato il biglietto in cambio dell’affidamento del nipote. Il poter raggiungere l’Europa rappresenta per chi parte la possibilità di avere una nuova vita, ed è così importante, da arrivare ad accettare compromessi anche estremi, come l’affidare il proprio nipote a persone sconosciute, pur di riuscirci: “Mia nonna mi ha dato in sposa ad un uomo mol-
to più grande di me, perché gli doveva dei soldi. Lui però mi picchiava perché non volevo andare a letto con lui, così un giorno sono scappata e sono andata a chiedere l’elemosina con il mio nipotino,
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il figlio di mia sorella. Mentre eravamo seduti vicino una chiesa una coppia si è avvicinata e ci ha chiesto: “perché chiedete l’elemosina?”. Io ho spiegato loro la mia situazione, e loro, marito e moglie, mi hanno detto che non avevano figli e che se gli lasciavo mio nipote mi avrebbero pagato il viaggio per l’Europa. […] Loro sono nigeriani ma vivono a Londra in Inghilterra, è lì che poi è cresciuto mio nipote” (Fatu, Nigeria, 32 anni).
Il viaggio che la maggior parte dei profughi compiono per giungere nelle coste dei Paesi del Sud Europa, è un tragitto in cui essi rischiano perennemente la vita, ancor prima della traversata in mare. Prima di poter salire sul barcone, sono costretti a passare mesi ed a volte anche anni, nelle mani degli scafisti o nelle mani dei militari libici, e le torture e le violenze che subiscono in quel periodo, sono la causa maggiore dei traumi sia fisici che psicologici che condizionano la vita anche futura di questi migranti. Una volta pronti a partire, il mezzo di trasporto che li conduce in Occidente è solitamente una barca fatiscente, nella quale vengono stipati un numero di persone di gran lunga superiore alla sua capienza. Le condizioni in cui queste persone viaggiano sono così estreme, a partire dalla mancata igiene e pulizia, allo stare in balia del mare per giorni senza nessuna guida ed in mancanza dei viveri necessari per tutti, che le aspettative della vita che essi pensano di trovare in Europa debbono essere altissime 100
per indurli a partire. Il problema è che lo scontro con la realtà che essi trovano, non è sempre positivo; ad aspettarli non c’è quello che essi si erano programmati, ma spesso solo un Paese in cui non sono ben accetti, e in cui non è poi così semplice realizzarsi. Dei soggetti intervistati solo uno ha affermato con chiarezza come l’impatto con la vita in Italia lo abbia deluso, per la maggior parte invece sono rimasti sul vago, forse per non apparire ai miei occhi, ingrati verso il Paese che li ospita, o perché non in grado di ammettere nemmeno a se stessi, che quello per cui hanno lottato e sacrificato tutto, non era come essi si immaginavano. “E’ bello come Paese, fa freddo però si sta bene […] Verità, mi aspettavo di stare meglio […] io non volevo lasciare il mio Paese ma ho dovuto! Solo che da noi se pensi di andare in Europa pensi di stare bene, che sei a posto! E qui non è così. Non posso tornare a casa mia ma non mi piace stare qui” (Malik, Mali, 22 anni).
Le altre risposte invece sono state tutte più o meno così: “(ridendo) si voglio stare a Perugia, non ho una famiglia dove andare, voglio cercare lavoro e sistemarmi… Qualunque lavoro! Il lavoro è il lavoro, basta che posso pagarmi l’affitto capito, anche fare le pulizie, la babysitter o fare la badante Ci sono buone persone in Italia ma anche cattive. Anche in
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Africa è lo stesso ci sono persone buone e persone cattive come in tutto il mondo, quindi non posso giudicare. Però sono felice di stare qui, il governo italiano mi ha aiutata, mi ha permesso di stare perciò gli sono grata“ (Memuna, Nigeria, 33 anni).
Le motivazioni della partenza. Una caratteristica interessante di cui mi sono resa conto svolgendo le mie interviste è che la motivazione, veritiera o meno che sia, per la quale molti di loro non possono ritornare nel proprio Paese, riguarda l’aver intrapreso relazioni amorose con persone che la propria famiglia non accettava, o perché il soggetto in questione era già promesso ad un altro matrimonio, o perché erano avvenuti contatti sessuali al di fuori dello sposalizio. “Sono dovuta scappare perché la mia famiglia voleva costringermi a sposare un uomo contro la mia volontà. Sono fuggita prima in Guinea, poi in Mali per arrivare infine in Libia, dove ho vissuto quasi cinque anni con mio marito […] Lo ho conosciuto in Sierra leone siamo scappati insieme dalla mia famiglia” (Asiatu, Sierra Leone, 32 anni).
“Nel mio villaggio, avevo messo incinta una ragazza al di fuori del matrimonio. Mio padre è l’Imam del paese, io pensavo lui proteggeva invece no quindi sono scappato. […] la sua famiglia era arrabbiata con me io rischiavo mo-
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rire! Anche nel villaggio tutti stavano arrabbiati con me! Ero condannato a 100 bastonate! […] mia madre mi ha aiutato per fortuna” (Malik, Mali, 22 anni).
Tali motivazioni possono rendere più difficoltoso per i richiedenti asilo, l’ottenimento del permesso di soggiorno tramite una forma di protezione internazionale; sovente infatti le reali motivazioni che permettono ai richiedenti asilo di rimanere in Italia sono legate soprattutto a problemi sanitari, che le persone scoprono di avere una volta arrivati in Italia o, qualora la persona riesca a dimostrare con delle prove, di essere stata realmente minacciata di morte nel suo Paese. Le violenze in Libia. Il problema delle violenze fisiche e psicologiche, delle torture e dei traumi che hanno subito in Libia è un fattore che emerso in tutte le interviste, sia in quelle con gli operatori sanitari, seppur da un punto di vista esterno, sia in prima persona, nelle interviste con i migranti: “Per la maggior parte hanno problemi psicologici! Molti di loro hanno visto la morte in faccia pur di arrivare qui, hanno dovuto vedere e subire violenze grandissime! Anche quelli che riescono a superare meglio il trauma, comunque si vede che è una cosa grande quella che hanno passato e che si portano dietro, sono più irascibili e alcuni di loro anche più violenti di quando secondo loro erano prima” (A.Conteh, medico africano).
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“Quando avevo organizzato tutto per scappare, sono stato preso e portato nelle prigioni libiche, non è stato bello […] Non lo so con precisione perché non ci dicevano niente! Penso quasi un mese poi mi sono fatto mandare dei soldi e mi hanno lasciato andare […] Si, non potevo più rimanere lì, ci picchiavano e violentavano sempre, è così che mi sono ammalato, è colpa loro!” (Abduraman, Mali, 36 anni).
Quello che avviene in Libia tra torture, violenze e stupri è oramai noto, queste persone sono costrette a sopportare su di loro abusi ed orrori, che nel 2017 e vivendo in un Paese occidentale, viene difficile immaginare. La cosa più sconvolgente è che qualora si discute di politica migratoria, e di accordi da stipulare con i Paesi da cui partono i migranti, come per l’appunto la Libia, suddetti accordi vengono fatti dagli Stati europei con governi che permettono tutto questo, senza accennare minimamente alla tutela ed il rispetto della vita dei migranti. L’accesso alle prestazioni sanitarie. Ho individuato tra tutti i richiedenti asilo che ho incontrato, tredici persone con problematiche sanitarie di vario tipo, ma ognuna così rilevante, da aver necessitato un’assistenza sanitaria di lungo periodo. Per poter accedere ai servizi sanitari, così come a tutti i servizi pubblici, i richiedenti asilo devono prima possedere dei documenti identificativi, altrimenti non hanno accesso alle prestazioni sanitarie:
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“Si, devono essere in possesso almeno dei primi documenti identificativi rilasciati dalla Questura. La questura procede ad una prima loro identificazione, e per questo a noi infatti arrivano già con i primi loro documenti e scatta per noi allora l’applicazione della delibera regionale numero 106“ (M. Gildi, direttore ISP).
” In ospedale se non hai l’assistenza sanitaria devi pagare è giusto così! Come prima cosa quando arrivano devono mostrare il documento, se arrivano accompagnati o meno devono avere dei documenti sennò non gli facciamo niente, a meno che non sia un’urgenza grave! Quando abbiamo i documenti tra cui il passaporto ed il codice fiscale provvisorio che viene rilasciato ai richiedenti asilo, il problema non si pone più; facciamo la fotocopia dei documenti dopo di che procediamo. Una volta è capitata una ragazza profuga, accompagnata da una ragazza dell’associazione che li gestisce ma che a quanto pare, non sapeva nemmeno lei bene come funzionassero le cose! Questa pretendeva che venisse visitata senza avere il codice fiscale e non volendo pagare pur non avendolo. Io non potendo lei pagare e non essendo un’urgenza non l’ho visitata, al che si è aperta una discussione fino al punto di doverla mandare in Direzione Sanitaria perché non voleva andarsene! In Direzione le hanno detto ovviamente che la visita non sarebbe stata effettuata!” (D. R., infermiere Pronto Soccorso).
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L’assistenza sanitaria in Italia è un diritto ed anche un privilegio per tutti; il welfare italiano si basa su un sistema di welfare state, nel quale lo Stato interviene per supportare le famiglie ed i propri cittadini, e fornire loro diritti e servizi sociali, tra i quali rientra anche l’assistenza sanitaria. Oggigiorno a seguito del deficit pubblico sempre più in aumento, lo Stato ha introdotto delle forme di compartecipazione alla spesa pubblica sanitaria, quali ad esempio l’introduzione dei ticket o, l’obbligo di pagamento per le prestazioni del Pronto Soccorso qualora non sussistano le condizioni per un ricovero in ospedale. La cosa fondamentale che dovrebbe essere garantita, rimane comunque il diritto alla salute del cittadino e la tutela dei suoi bisogni, indipendentemente non solo dai mezzi economici, ma anche dalla cultura e dal Paese di appartenenza, nel rispetto di ogni singola persona e dei suoi valori. Purtroppo, però, è la realtà dei fatti che porta a constatare che questo aspetto non è abbastanza vivo ancora negli ambienti della sanità italiana: “Sono stata ricoverata in ospedale perché respiravo male, veloce e come forzato […] un mese, appena arrivata a Perugia. Poi ci sono tornata dopo alcuni mesi e ci sono rimasta per tre giorni. (Memuna, Nigeria, 33 anni) (Gli operatori mi riferiscono che anche la seconda volta la ragazza sarebbe dovuta rimanere di più ma ha voluto lasciare l’ospedale. La motivazione che lei ha dato a loro era che tutte le mattine le veniva fatto il prelievo del sangue senza spiegarle
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il perché, e che veniva fatta visitare da gruppo di studenti di ginecologia, questo probabilmente per studi sull’infibulazione)”.
“La mia dottoressa personale era antipatica, non era brava, non voleva che avessi il bambino perché diceva non eravamo indipendenti…Poi ci guardava male e non sembrava contenta di vederci.” (Jariatu, Nigeria, 23 anni) (Un’operatrice mi riferisce che la dottoressa stessa non provava simpatia per loro e si era lasciata andare anche a commenti spiacevoli inerenti il fatto che i due ragazzi emanavano cattivi odori; e che probabilmente pur non comprendendo a pieno l’italiano i due ragazzi avessero recepito l’ostilità della dottoressa nei loro confronti.)”.
Sono molte le storie che gli operatori mi hanno raccontato, nei mesi di frequentazione con i loro assistiti, di medici ed infermieri, che non si sono comportati in maniera professionale con i richiedenti asilo, ma spesso hanno mostrato segni di insofferenza ed impazienza nei loro confronti. È indubbio che l’aumento nei servizi sanitari di stranieri, che non parlano ne comprendono l’italiano, possa rappresentare una difficoltà aggiuntiva per gli operatori sanitari e per il loro lavoro, ma ciò non dovrebbe inficiare sul loro operato e nella relazione con il paziente, anche se straniero. Le patologie mediche riscontrate. I risultati conseguiti dalla biomedicina occidentale sono molti e soprattutto sono innegabili, le scoperte avvenute in campo medico hanno infatti permesso all’uomo di debellare molte 107
malattie e di trovare una cura ed una soluzione anche ai problemi più ostici. Tornando successivamente a salutare i ragazzi con i quali ho trascorso questi mesi, ho avuto per l’appunto il piacere di constatare che quasi tutti coloro che avevano avuto dei problemi sanitari, avevano completato la cura ed ottenuto la guarigione auspicata. Nelle mie interviste con il personale sanitario, è emerso come per chi è a stretto contatto con le malattie, non ci sia una situazione di allarme rispetto alle problematiche di salute dei richiedenti asilo, e come per la maggior parte dei problemi, la responsabilità sia da attribuire alle pessime condizioni igienico-sanitarie alle quali i profughi sono sottoposti durante il viaggio, ed alle privazioni che essi devono sopportare prima del loro arrivo in Italia: “Casi di scabbia, ma è una patologia trattabile facilmente con una cura antiscabbia, anche la cura non è niente di che, sono delle lozioni da applicare sul corpo facilmente. I ragazzi una volta mostrato loro come si fa sono in grado di farla anche autonomamente la cura! […] le loro malattie non differenziano particolarmente da quelle dei giovani italiani! Una cosa che caratterizza quasi tutti questi migranti però è l’eccessivo dimagrimento collegato spesso a disidratazione, ma niente di eccessivamente preoccupante, è normale dopo tutto quello che passano prima di arrivare da noi. La tubercolosi non è frequentissima, anche perché in paesi dell’Africa settentrionale viene somministrato un vaccino tubercolare, che quando si esegue qui in Italia il test di Mantu, (test che si fa per verificare si un individuo ha la
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TBC), lo fa risultare positivo. Ma anche se quel test è positivo non vuol dire che la persona abbia proprio la tubercolosi“ (M. Gildi, direttore ISP).
“La tubercolosi, che qui è una malattia passata, ma che per loro senza vaccinazioni e che sono vissuti in condizioni igieniche non sane può capitare; poi la scabbia, specie per quelli che sono stati nei Cie dato l’alto grado di contagio “ (A. Conteh, medico africano).
“Sono come quelle dei giovani adulti italiani, per lo più sono stagionali, soprattutto influenzali di inverno, nelle femmine ci sono anche più malattie igienico-urinarie legate ad infezioni dell’apparato genitale. Le altre malattie sono quelle che si trovano in qualsiasi ambulatorio di medicina generale. Si, ce ne stanno e ce ne son stati dei casi, non in maniera eclatante però. Ci sono stati casi di scabbia, di TBC ma sempre non allarmanti o pericolosi per la collettività.” (M. Damiani, medico ambulatorio migranti).
L’incremento della mole di lavoro nei servizi sanitari. Per quanto riguarda invece il numero di profughi che i servizi sanitari da me contattati vedono di media in una settimana, la quota varia in base al servizio: ad esempio un servizio di front office come il Pronto Soccorso vede un numero abbastanza alto di richiedenti asilo in una settimana, mentre servizi come la Asl o l’ambulatorio migranti, ai quali uno si interfaccia più 109
raramente e quando il problema non corrisponde ad un’urgenza, hanno contatti più sporadici con essi: “Quando sono in servizio io, minimo minimo tre alla settimana ne vedo, e non è poco! Son tanti, anche perché comunque c’è da dire che sono persone che quando arrivano in Italia la loro salute l’hanno lasciata indietro, nel deserto o nel mare che sia! Quindi hanno bisogno di rimettersi in sesto!“ (D.R., infermiere Pronto Soccorso).
“In media uno o due alla settimana, dipende anche dal periodo e da quanti ne sono arrivati! Generalmente il consultorio ne vede parecchi” (P.M., dirigente ASL)
“Si, si ne usufruiscono parecchio, vengono portati qui dagli operatori, quando stanno male, più del 80% delle persone che vengono al giorno d’oggi sono profughi.” (M. Damiani, medico ambulatorio migranti).
Un’ulteriore differenza emersa tra i servizi sanitari concerne l’incremento della mole di lavoro a seguito dell’emergenza profughi: mentre nei servizi che sono sempre stati a contatto con i migranti non viene riscontrato un cambiamento notevole, nei servizi come il Pronto Soccorso o la ASL, si evince un aumento della mole di lavoro, che a volte viene vissuto anche con insofferenza dagli operatori sanitari: “Si, nel complesso c’è da dire che il lavoro è aumentato soprattutto per coloro che lavorano all’ufficio Anagrafe, per
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la questione di tutti i documenti necessari all’assistenza, ed anche per le eventuali vaccinazioni che molti di loro devono fare. Anche al consultorio è aumentato il lavoro, sono molte le ragazze che vengono per dolori all’apparato genitale o perché in stato interessante.” (P.M. dirigente ASL).
“Sicuramente la mole di lavoro è aumentata perché sono aumentate le persone da visitare, ma non abbiamo mai avuto grandi problemi, anche perché sono persone giovani che hanno superato un percorso duro, anche selettivo prima di riuscire ad arrivare, per cui c’è stata una specie di selezione naturale diciamo! Le privazioni sia prima che durante il viaggio che compiono, fa sì che ad arrivare da noi siano solo i più sani fisicamente! “ (M. Gildi direttore ISP).
“Sono molti di più gli stranieri che vediamo ogni giorno rispetto a prima! Poi visto loro vengono sempre accompagnati e mentre prima quelli che gestivano questi centri per i profughi non li conoscevo, adesso invece li conosco tutti! Son sempre al pronto soccorso anche loro insieme ai malati! “ (D.R., infermiere Pronto Soccorso).
“Il lavoro nostro, qui all’ambulatorio più o meno è rimasto sempre uguale, anche se si è spostato soprattutto negli ultimi verso la prevenzione, in particolar modo la prevenzione per le mattie sessualmente trasmissibili, dove eseguiamo gratuitamente i test ematici.” (M. Damiani, medico ambulatorio migranti).
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Età e genere dei richiedenti asilo nei servizi. L’età dei richiedenti asilo che si interfacciano ai servizi sanitari è prevalentemente giovane e sotto i trenta anni e rispecchia l’età media dei profughi che sbarcano in Italia; la componente di genere invece è più maschile, anche se varia in base al servizio sanitario in questione. “Ultimamente è più maschile, anche a conseguenza del maggior numero di profughi maschi. Negli ultimi anni c’è stato un po’ un cambiamento nella struttura demografica, le persone sono molti più giovani di età e più uomini rispetto alle donne, mentre fino ai primi anni del 2000 erano prevalenti le donne. L’età media è sui ventisette/ ventotto anni e negli ultimi anni il numero delle affluenze è un po’ aumentato con l’emergenza profughi, i quali vengono portati prevalentemente per visite di controllo in attesa di poter avere il loro medico generale.” (M. Damiani, medico ambulatorio migranti).
“Ragazzi giovani, tra i 20 massimo 26 anni, essendo presente il consultorio passano da noi molte donne, direi forse più donne che uomini. Devo aggiungere però che sull’età la sicurezza non si ha mai, quasi tutti dicono di essere nati il primo gennaio e probabilmente non sanno neanche loro con certezza la loro età. Ci basiamo sulla fiducia e su quello che è scritto nei documenti che portano con sé.” (P.M. dirigente ASL).
“Sono molti giovani, se sono più maschi che femmine l’ho notato poco, forse sono un po’ più maschi ma di poco!
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Molti mentono sull’età cercando di diminuire gli anni, a volte si fingono anche minori così da essere seguiti in maniera diversa dalle associazioni! Noi quando è palese che mentono, eseguiamo loro la densitometria del polso, dal quale approssimativamente, si può capire l’età di una persona.” D.R. (infermiere Pronto Soccorso).
L’atteggiamento. L’atteggiamento dei richiedenti asilo da quanto emerso nei colloqui con i servizi sanitari, è per lo più collaborativo e rispettoso, anche se non mancano anche racconti di persone maggiormente ostili nei loro confronti. Una caratteristica riscontrata da tutti è la necessità di raccontare i loro problemi non solo fisici, e una maggiore vulnerabilità e fragilità rispetto al migrante classico. Tutto ciò è giustificabile, date le maggiori difficoltà che i profughi incontrano prima e durante il viaggio, ed anche dall’impossibilità di ritorno nel proprio Paese, che comporta un maggiore sentimento di solitudine e smarrimento. “C’è una grande differenza tra i profughi e il resto degli immigrati! Qui da noi ad esempio ci sono molti magrebini e li vedi che quando vengono al Pronto soccorso e devono aspettare tanto tempo perché hanno un codice bianco o verde, si spazientiscono e iniziano a fare casino, soprattutto sono i figli di seconda generazione, quelli che sono nati o cresciuti qui e che sono più fastidiosi di tutti gli altri! Hanno una cultura dei diritti molti forti, pretendono e basta!
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I profughi invece o perché non sono in grado di esprimersi o perché non sono pratici e non sanno i diritti che gli spettano, non hanno diciamo le pretese che hanno gli altri, si tengono sotto un profilo più basso!” (D.R., infermiere Pronto Soccorso).
“Tante volte vogliono solo essere ascoltati, perché hanno passato momenti terribili e vogliono essere ascoltati nei loro dolori, nelle loro cose! Questa è una popolazione giovane che come salute non ha tanti problemi però vogliono essere ascoltati. In Libia molti di loro hanno avuto problemi fisici, sono stati picchiati anche brutalmente, si vedevano ancora i segni e le cicatrici, per cui a volte è anche solo il bisogno di raccontare un dolore più profondo e interiore che fisico.”( M. Damiani, ambulatorio migranti).
“Loro hanno paura come chiunque quando scopre di essere malato, anche perché molti di loro lo scoprono solo una volta arrivati qui in Italia.
Ho riscontrato negli anni una notevole differenza tra le donne africane anche musulmane e le donne arabe, mentre le prime non fanno differenza tra uomo e donna quando si tratta di essere visitate, le donne arabe vogliono solo dottoresse femmine. Anche con me spesso alcune ospiti dell’Afganistan, dell’Iran o di altri Paesi arabi, si sono rifiutare di farsi visitare da me, dicendo che volevano solo un medico donna.” (A. Conteh, medico africano).
“Per lo più è collaborativo, ringraziano e salutano sempre, e sono educati, cosa che non è così scontata, ti benedicono
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spesso anche! L’unica cosa è la fatica che fanno a raccontarsi, ad aprirsi e a dire la loro storia, e magari la causa della loro malattia. È più facile che ti raccontino il viaggio che quello che è successo prima del viaggio, magari in Libia o in mano ai trafficanti di uomini. È come se cercassero di rimuovere quello che c’è stato prima di venire qui e non ti dicono niente, probabilmente perché troppo doloroso. A volte cerchiamo di parlarci soprattutto con quelli che vengono più spesso, ma spesso si nota anche la paura di questi ragazzi, paura anche della reazione che uno può avere forse! Solo un ragazzo ha avuto il coraggio e la forza di raccontarci la violenze che aveva subito nelle coste libiche e non è stato facile né per lui né per noi che eravamo lì.” (P.M. dirigente ASL).
L’infermiere del Pronto Soccorso di Castello, mi racconta però come vi siano casi in cui l’atteggiamento di chiusura dei migranti all’interno dell’ospedale, infastidisca il personale in servizio: “Abbiamo avuto anche un caso di un ragazzo che veniva dalla Nigeria, con una grave infezione urinaria ed anche un ernia, che si è rifiutato di farsi curare perché la dottoressa era donna!
Quando ho cercato di spiegargli che doveva farsi visitare lo stesso anche perché in servizio quel giorno c’erano solo donne, e data l’urgenza della sua situazione, rischiava di
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compromettere gravemente la sua salute, la sua risposta è stata: “Sarà come vuole Allah!” e se ne è andato. Succede poi che questo loro atteggiamento delle volte indispone i miei colleghi, e devo essere sincero a volte anche me! Perché si rivolgono a noi come se avessero sempre e solo ragione loro! Questo nigeriano poi so sicuro era di Boko Haram! So sicuro guarda, con quelli dell’Isis non ci puoi parlare!” (D.R. infermiere Pronto Soccorso).
L’affermare che una persona, solo perché sia musulmana ed abbia pronunciato il nome di Allah, sia un componente dell’Isis, purtroppo è uno degli stereotipi peggiori e comuni che molte persone hanno oggigiorno in Italia. Tutto ciò è segno anche di una grande ignoranza in materia, dato che sono molti i musulmani stessi che fuggono dalle zone sotto controllo dell’Isis, come Boko Haram, e non vi è nulla di più errato che l’equazione profugo uguale terrorista. Parlando con gli operatori invece, emerge la loro difficoltà nel doversi confrontare continuamente con le malattie dei loro assistititi e soprattutto con le conseguenze psicologiche che tali malattie causano nei richiedenti asilo. Stati depressivi e rabbia sono le emozioni che più si trovano ad affrontare e mi raccontano come spesso sia difficile non solo far capire ai ragazzi la patologia medica che hanno, ma anche quanto sia importante che effettuino la cura ed ascoltino le indicazioni dei dottori: “No non la comprendono quasi mai (la cura), anche perché da dove vengono spesso utilizzano metodi diversi dai no-
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stri, […] È difficile poi che si confidino, noi ci accorgiamo quando sono più taciturni, partecipano meno alle attività di gruppo cerchiamo allora di parlare e confrontarci su come stanno e cosa li affligge. Principalmente le emozioni che provano sono: rabbia nei confronti della malattia e dei medici che gliel’hanno annunciata, anche se in realtà non è come loro! Poi vi è la tristezza e la paura ovviamente!” (Gioia, operatrice Cidis Onlus).
Sovente succede che nei profughi stessi siano presenti pregiudizi nei confronti del personale sanitario che li portano a considerare negativamente ogni indicazione del medico: “Loro appena vedono che hai la pelle scura pensano che stai male! Mi hanno fatto mettere la mascherina per entrare in ospedale e sono dovuto entrare da una porta dietro, dove non c’era nessuno! E io non sto nemmeno male” (Santighi, Nigeria, 26 anni).
Le patologie infettive e la loro trasmissione. Una delle problematiche di cui si è più discusso parlando dell’emergenza profughi di questi anni, è la paura del contagio delle patologie infettive, che purtroppo sono presenti in molti di loro. Il pericolo di una diffusione nella popolazione italiana di tali malattie è stato ampliamente smentito dai medici e dalle istituzioni sanitarie; permane però il timore che tra i profughi stessi essendo strettamente e perennemente a contatto tra loro, vi possa essere una trasmissione di batteri ed agenti patogeni. Questo è uno dei punti che ho trattato nelle interviste con il personale sanitario: 117
“Non abbiamo rilevato patologie particolari, da parte nostra c’è una totale tranquillità rispetto alle malattie infettive ed anche rispetto alle malattie degli italiani della stessa età di questi ragazzi” (M.Gildi, direttore ISP).
“Principalmente abbiamo riscontrato una frequenza maggiore di malattie infettive, ad esempio la tubercolosi è molto frequente, ci sono stati anche casi di scabbia; il problema ovviamente è che hanno le difese immunitarie al minimo, e di conseguenza è alto il contagio tra loro stando magari negli stessi appartamenti. Anche perché non sempre la malattia viene diagnostica subito quindi si ha un elevato rischio di contagio, prima che noi possiamo intervenire! Il problema è che non si può sapere, sono molti i ragazzi ai quali nel corso della loro permanenza in Italia, sono state diagnosticate malattie infettive che appena arrivati essi non avevano; quindi direi che il rischio maggiore è questo, cioè di un contagio ad insaputa sia della vittima che di colui che contagia! (P.M., dirigente ASL).
“Vedi la scabbia è un parassita che si insidia sotto pelle tra il derma e l’epidermide, e vi deposita i suoi escrementi, sono loro che portano la persona a grattarsi; quando la persona si gratta la pelle secca cade e il parassita si diffonde. Molti di loro hanno avuto anche la pediculosi, cioè i pidocchi, anche lì è facile il contagio, infatti come prima cosa diciamo loro di evitare di scambiarsi gli indumenti o di dormire su letti che non sono i loro” (A. Conteh, medico africano).
Dei richiedenti asilo da me interrogati, quattro su otto hanno 118
una malattia infettiva, che in tre casi è la tubercolosi, malattia che se presa in tempo non porta problemi cronici per le sue vittime e dalla quale si può curare totalmente: “Devi capire che non essendo mai stati vaccinati, loro hanno le difese molte più basse rispetto alle nostre! La cura però è semplice, dura circa un mese nel quale devono prendere un antibiotico mirato la Nicizina. Prima però dobbiamo escludere che siano ancora in fase infettiva, quindi li teniamo in isolamento per il tempo necessario, se sono in fase infettiva vengono isolati per almeno 15 giorni, se invece non lo sono devono sottostare alla cura antibiotica e vengono mandati a casa, dipende soprattutto dallo stato in cui sono i polmoni” (D.R., infermiere pronto soccorso).
Tra i miei intervistati solo un caso di TBC, non essendo stato curato in tempo, ha portato ha un vero e proprio rischio di vita per il paziente. “Ho il polmone destro completamente chiuso, a causa dei danni della TBC che non è stata curata. Adesso stanno cercando di curarlo e farlo tornare normale, anche perché ancora sono giovane! Con questo problema non potrei partorire perché non posso fare sforzi” (Fatu, Nigeria, 32 anni).
L’altro soggetto con una malattia infettiva ha invece la sifilide, malattia che si trasmette principalmente tramite contatto sessuale, e che egli riferisce aver preso in Libia, a seguito di violenze sessuali subite da parte dei militari libici. 119
Alcune delle malattie riscontrate tra i richiedenti asilo, tra cui anche la sifilide, non sono più comuni al giorno d’oggi nei Paesi sviluppati, e questo comporta un problema anche nel reperire la cura per tali patologie. “Mi sento male…non volevo venire qui e ritrovarmi malato! Poi mi hanno detto che è difficile anche trovare le medicine per me proprio perché non si ammalano più di sifilide in Italia” (Abduraman, Mali, 36 anni).
“Sono molte inoltre anche la malattie veneree, malattie che da noi sono scomparse anche da tempo, causate purtroppo da una mancata igiene intima dovuta al viaggio ma anche le violenze sessuali che molti di loro hanno subito. La cura in quei casi è l’antibiotico, ma devo dire che inizialmente ci siamo trovati in difficoltà, perché nemmeno noi sapevamo che terapia dargli” (P.M. dirigente ASL).
Le altre patologie mediche riscontrate sono invece legate a problemi dell’apparato genitale-riproduttivo per due ragazze; a problemi respiratori, dovuti all’inalamento di una sostanza chimica la diossina che una ragazza respirava sul posto di lavoro nel proprio Paese di origine; ed alle emorroidi croniche ed alla colite ulcerosa per un ragazzo. La conoscenza dell’antropologia medica tra i medici. Data la connotazione sempre più multietnica che sta assumendo l’Italia negli ultimi anni, credo fortemente che sia necessario per gli operatori dei servizi pubblici, formarsi 120
sull’importanza della cultura per ogni persona e, conoscere perlomeno le caratteristiche principali delle diverse culture presenti nel territorio italiano oggigiorno. Questo ritengo sia particolarmente importante nei contesti sanitari, in quanto la cultura modella anche le concezioni del corpo e le modalità di cura di un individuo. Per questo nelle interviste con il personale sanitario, ho domandato loro quanto e se avessero frequentato corsi di antropologia medica o corsi di interculturalità. “Abbiamo dei corsi di formazione, tra i quali abbiamo fatto anche dei corsi sulla multiculturalità, sulla salute e le diversità culturali e le differenze dei metodi di cura; anche per quanto riguarda le vaccinazioni, ci hanno spiegato come mentre da noi oramai c’è un rifiuto dei vaccini, ad esempio invece per i profughi che vengono da Paesi nei quali c’è ancora la poliomelite ed i vaccini sono un lusso di pochi, il poter aver acceso qui da noi ai vaccini è una benedizione immensa! Ci hanno fatto fare anche un questionario su come gli operatori sanitari vedono lo straniero, è stato interessante anche se ancora i risultati non ce li hanno rilasciati” (P.M. dirigente ASL).
“No purtroppo! Mi piacerebbe farli anche perché ne abbiamo sempre più bisogno come servizio pubblico e anche perché noi come Pronto Soccorso siamo proprio al fronte! “ (D.R. infermiere Pronto Soccorso).
“Qualche anno fa ne abbiamo fatti dei corsi di antropolo-
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gia medica, con l’università, mi sembra all’interno dell’istituto di filosofia, ma diversi anni fa quasi 10! Ti offrono una concezione del corpo più ampia, vista da aspetti diversi diciamo. Sicuramente quando si lavora con i migranti come noi può essere utile una mentalità più aperta. Ti dirò che il problema è che probabilmente per questioni di costi, economiche diciamo, non vengono fatti spesso! Come ti dicevo, io l’ho fatto quasi 10 anni fa tante cose sono cambiate da allora, sia come esigenze dei migranti che vengono da noi che come esigenze del nostro servizio dato l’aumento di stranieri” (M. Damiani, medico ambulatorio migranti).
“Io personalmente si li ho fatti, perché lavorando da sempre con gli stranieri credo sia utile, però non sono obbligatori cioè, dipendono da noi del servizio se vogliamo o meno! Mentre i corsi sulla prevenzione o le malattie infettive, i corsi che trattano più di sanità sono obbligatori invece!” (M. Gildi, direttore ISP).
“Si si, ed è una cosa buona! Quando studiavo io qui in Italia, i pochi professori che citavano la medicina africana, non la chiamavano nemmeno medicina tradizionale o alternativa ma solo stregoneria! Qualche anno fa invece ad una riunione per la prima volta ho sentito nominare la medicina africana come medicina alternativa o tradizionale e sono stato molto contento! Quando le persone mi chiedevano se la “nostra” medicina funzionasse io rispondevo che in Africa le persone hanno vissuto anni grazie alla medicina tradizionale per ciò funziona e anche bene sennò a quest’ora ci saremmo dovuti estinguere!
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Molti dei richiedenti asilo inoltre quando possono preferiscono usare la medicina tradizionale, anche stando qui in Italia, si fanno mandare quello che serve dai loro parenti in Africa.” (A.Conteh, medico africano).
La motivazione per cui, da quanto riferito dal mio intervistato, all’interno dell’ospedale non vengono svolti corsi di antropologia medica, può essere un carico di lavoro maggiore rispetto a servizi più ambulatoriali, e soprattutto dei tempi di lavoro più rapidi; tutto ciò però non giustifica il problema che proprio all’interno dell’ospedale, che è il maggior punto di contatto tra stranieri e personale medico italiano, non vengano programmati per chi vi lavora dei corsi di formazione a riguardo. Ho chiesto infine al personale sanitario la loro opinione personale su quale potrà essere nel lungo periodo la relazione tra i migranti, non più seguiti e gestiti dalle associazioni, e la sanità pubblica, per comprendere se vi è da parte loro una riflessione sull’integrazione sociosanitaria degli stranieri in Italia: “Io sinceramente da quanto ho visto finora, non credo possano sorgere dei problemi, perché quasi tutti appena ricevono lo status di rifugiato vanno via! Non so se vanno proprio via dall’Italia ma sicuramente vanno via da Castello per cui non li vediamo più.” (D.R. infermiere Pronto Soccorso).
“Il modello di accoglienza umbro a differenza di altri modelli italiani o europei, non prevede grandi agglomerati, le strutture che accolgono i migranti sono piccole se non ad-
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dirittura appartamenti no? E questo è un aspetto positivo anche dal punto di vista sanitario, perché limita il proliferarsi di batteri e agenti patogeni tra individui all’interno di un gruppo e di conseguenza è tutela maggiore per tutta la popolazione.” (M. Gildi, direttore ISP).
“Noi tendiamo a costruire nel nostro piccolo dei rapporti il più informali possibili, di modo da farli sentire a proprio agio. A volte noi siamo riusciti ad ottenere anche l’intervento dell’Imam locale, per poter costruire un dialogo migliore con uno di loro. Io tutti quelli che ho visto, ricevuto i documenti vanno via, o almeno non vengono più al servizio, è capitato solo di un ragazzo che era ricoverato in RSA che è rimasto qui in zona ed ogni tanto capita di vedere, ma solo lui!” (P.M. dirigente ASL).
Da quanto emerso nelle interviste si evince come per il personale sanitario, non vi sia un problema sulla questione dell’integrazione sanitaria dei profughi nel lungo periodo, ma solamente perché si tende a credere, e quasi a sperare, che tutti i rifugiati ottenuto il permesso di soggiorno lascino l’Italia. È vero che molti di loro appena ottenuti i documenti necessari, partono dall’Italia, per raggiungere amici o parenti in altri Paesi dell’Europa, o solamente per cercare lavoro e maggiore fortuna in un ulteriore Paese; ma non si può generalizzare e credere che sia così per tutti, e soprattutto questo non deve essere una giustificazione per non attuare politiche di integrazione a lungo periodo. Durante il colloquio con il medico africano, mi sono confrontata con lui sul fenomeno dell’emergenza profughi, am124
pliando la questione sull’integrazione dei richiedenti asilo, non solo da un punto di vista sanitario, ma anche per quel che riguarda un’integrazione socioeconomica dei suddetti: “Molti di loro sono riusciti ad integrarsi e a lavorare! Ogni persona è importante allo stesso modo, non si può sapere prima chi ce la farà e chi no, per questo è giusto dare una possibilità a tutti. Poi molti di loro sono bravi, si adattano a fare qualsiasi lavoro, anche se ora in Italia c’è poco lavoro bisogna dargli una possibilità, poi tra di loro ci sono anche persone laureate, che hanno studiato e hanno grandi capacità […] anch’io quando sono arrivato non mi sarei mai immaginato che sarei riuscito a fare qui in Italia tutto quello che ho fatto, per questo per me è giusto dargli una possibilità, poi sarà Dio a decidere!” (A. Conteh, medico africano).
Inoltre, avendo notato io in primis il cambiamento demografico avvenuto a Perugia negli ultimi anni, con l’incremento di cittadini africani in città, ho domandato lui quanto fossero cambiate le cose da quando era arrivato lui in Italia, ad oggi: “Quello che purtroppo ho visto mancare negli anni è la solidarietà e la fratellanza tra le persone. Quando sono arrivato io, forse anche perché eravamo in pochi, c’era più umanità ci aiutavamo noi stranieri tra di noi, ma anche gli italiani erano più disponibili e benevoli nei nostri confronti. Molti di loro ci raccontavano della guerra e delle privazioni e delle perdite che avevano subito, e capivano di più anche il nostro non avere soldi e il bisogno di cercare una vita migliore.
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Oggi invece forse anche per colpa della crisi economica che ha portato molti italiani ad impoverirsi, a mangiare alla Caritas e tutto, c’è più ostilità e gli stranieri vengono visti più male, la cosiddetta guerra tra poveri.” (A. Conteh, medico africano).
La medicina tradizionale africana. Ho voluto inoltre comprendere quanto sia ancora conosciuta ed applicata la medicina tradizionale africana, e quale tecnica di cura, tra la biomedicina occidentale e la medicina tradizionale, sia considerata più efficace tra i richiedenti asilo. Per questo in tutte le interviste mi sono soffermata sulle conoscenze di medicina tradizionale del Paese di origine dei miei interlocutori; le informazioni apprese non sono state concordanti: alcuni di loro affermano di conoscerla e saperla usare, mentre altri, soprattutto i più giovani, dicono di non sapere bene in cosa consiste, pur avendone talvolta usufruito. “No, non ho potuto avere la cura occidentale, …Per l’estrazione ho ricorso alla medicina locale… ho pagato un anziano, lui mi ha fatto stendere e mi ha legato la gamba. Cosa mi ha messo non lo so, aveva preparato primo un decotto con delle foglie particolari…in Nigeria ci sono delle persone che guariscono con le erbe, però solo loro sanno come fanno.” (Santighi, Nigeria, 26 anni).
“Beh vedi da quando le persone hanno lasciato le medicini tradizionali per quelle moderne le malattie sono aumentate…i guaritori oggi sono pochi perché il loro mestiere
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era lasciato poi ai figli, ai nipoti, ma come alcuni si sono aggrappati alle medicine occidentali, la cura dei guaritori è venuta meno perché non c’erano più persone che la chiedevano; anche nel mio villaggio è successo così. […] Qui curi una cosa e te ne viene un’altra (ridendo). Per esempio ci sono delle foglie che funzionano molto bene per il mal di testa che vanno macinate e poi le metti sulla testa e ti passa bum! La medicina tradizionale non ha controindicazioni, mentre le medicine moderne come quelle che ho preso io mi hanno dato problemi al fegato che non avevo” (Omar, Sierra Leone, 40 anni).
“Si si usa molto da noi, anche io sò come usarla un po’, posso curare il mal di pancia con delle foglie che vanno fatte bollire, ce ne sono alcune da usare anche per chi non riesce a rimanere incinta. […] No qui non ci sono, si possono trovare solo in Africa nella foresta, infatti qui non posso usarle” (Fatu, Nigeria, 32 anni).
Ho posto la domanda sul confronto tra la medicina occidentale e quella tradizionale africana anche al medico sierraleonese, ritenendo che in lui il conflitto tra le due opzioni fosse maggiore dati i suoi studi qui in Italia. La sua risposta devo dire è stata molto diplomatica, segno o di indecisione o del raggiungimento di un compromesso tra le due medicine. “Sono efficaci entrambi […] Le radici e le foglie che vengono fatte bollire hanno delle proprietà che sono assolutamente efficaci, infatti vengono anche prese e portate nei Paesi occidentali come la Svizzera per estrarne i principi
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attivi. Diciamo che la medicina sintetica, quella occidentale da un punto di vista medico è migliore perché ha un dosaggio preciso ed è più controllata, mentre la medicina tradizionale richiede più tempo e non un effetto sicuro e uguale per tutti, anche la quantità di erbe necessarie per curare un male può cambiare da persona a persona, per cui richiede tempi maggiori rispetto a quella occidentale […] la medicina tradizionale sta diminuendo perché soprattutto nei giovani c’è una preferenza per la medicina occidentale, i giovani seguono molto le abitudini occidentali, rispetto a quando ero giovane io!” (A. Conteh, medico africano).
La dimensione etnopsichiatrica. Una delle interviste più coinvolgenti si è svolta con un uomo sierraleonese di quaranta anni, residente a Perugia dal 2013 ed attualmente inserito nel progetto Sprar della cooperativa sociale Perusia. Egli ha come patologia fisica la colite ulcerosa e le emorroidi croniche, ma nel corso dell’intervista, mi racconta delle su esperienze avute con i jinn, entità sovrannaturali presenti nella religione musulmana, nel suo Paese di origine, la Sierra Leone: “A 10 anni conoscevo un uomo con cui leggevo il Corano, un giorno ho chiesto di Bundu, si chiamava Bundu, e mi hanno detto “oh figlio mio Bundu è morto, ha fatto un campo di riso in un posto dove c’era la casa di un jinn, tagliando gli alberi uno è caduto sul figlio di un jinn. Quando i sapienti hanno chiesto il jinn ha detto loro “Lui ha fatto male a mio figlio, se mio figlio guarisce lui vive, se muore
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anche lui morirà” e così Bundu è morto. Un’ altra volta sempre da ragazzo ero ad un matrimonio in un altro villaggio con un mio amico a piedi. Noi ci siamo addormentati e quando ci siamo svegliati tutti erano già andati via; per tornare a casa dovevamo passare per la foresta dei jinn da soli, non c’era un’altra strada. Forse nemmeno chi la chiamava così sapeva se c’erano i jinn però loro c’erano veramente! Quando noi siamo passati loro stavano lavorando, come tu senti i lavori del ferramenta loro facevano uguale lavorano con i ferri, […] abbiamo sentito solo i rumori, e allora ho detto al mio amico di fare piano e abbiamo camminato piano piano, ma loro ci hanno sentiti lo stesso e si sono fermati. Quando siamo usciti dalla foresta abbiamo sentito i rumori riprendere“ (Omar, Sierra Leone, 40 anni).
Anche qui in Italia Omar mi riferisce essere stato avvicinato da figure anomali, probabilmente jinn, sia durante la sua malattia, che precedentemente: “Qualche volta quando vado in un posto loro mi avvicinano e mi sento dire “la pace sia con te”. Un’altra volta camminavo per tornare a casa a Perugia e mi faceva male il ginocchio, non ho visto macchina né venire da dietro né da davanti, ho sentito solo venire da sinistra e fermarsi. Ho aperto la porta e non c’era luce dentro la macchina così non puoi vedere, ho visto solo gli occhi. Sono salito e abbiamo cominciato a chiacchierare, ma dopo mi è venuto in mente una donna che da un passaggio ad un uomo all’una di notte non è normale! E gliel’ho detto ma lei mi ha detto “No, noi ci conosciamo già” così mi ha detto. Per quello tu non sai se è jinn o no, però loro ci sono.
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In ospedale un giorno uno è venuto mentre ero solo in camera e mi ha detto: “tu hai fatto l’ecografia?” Io gli ho detto di sì e lui mi ha chiesto se poteva visitarmi, io ho detto va bene e lui mi ha visitato. Dopo la malattia è migliorata un po’, si sono abbassati i livelli, e da quel giorno io non l’ho più visto. (L’intervistato lascia intendere che la persona in questione non fosse un vero infermiere ma probabilmente un jinn suo amico)” (Omar, Sierra Leone, 40 anni).
Il soggetto in questione crede fortemente in quello che dice, al punto da aver stimolato in me, durante il colloquio, una curiosità riguardo all’argomento jinn e magia, che mi ha portato ad approfondire l’argomento: “Se il jinn non è troppo forte leggendo le sure del Corano la persona può guarire. Ci sono anche jinn che possono amare le persone e in quei casi non gli fanno del male. Possono fare male se ti chiedono cose che non sono in tuo possesso, allora ti possono fare male [...] I jinn sanno il Corano più di qualsiasi altra persona, per contrastare la sua azione è molto difficile perché devi sapere il Corano molto molto bene. Loro sono tanti e dappertutto […] Loro sono come gli esseri umani, hanno figli, marito, mogli, possono essere maschi o femmine! [...] Tramite il Corano le persone possono usare questi jinn” (Omar, Sierra Leone, 40 anni).
Notando la sua grande conoscenza in materia, ho richiesto lui 130
delucidazioni riguardanti la stregoneria, sapendo che magia e stregoneria sono due concetti legati tra loro, e che per coloro che credono in tutto ciò, l’azione degli stregoni può essere molto pericolosa: “Esistono in tutto il mondo da sempre! Qui li hanno bruciati se guardi la storia indietro li bruciavano. Da noi quando c’era la legge inglese non lo potevano dire che erano stregoni, gli inglesi non lo permettevano…non si mostravano e basta… però loro sono cattivi fanno molto male, molto male! Se vedono che tu sei bene, loro ti mettono qualcosa per rovinare questa persona, se vedono che i tuoi figli crescono bene è finito! [...] Ma è meglio stargli lontano” (Omar, Sierra Leone, 40 anni).
La fede nella magia è un credo che ho riscontrato in quasi tutti i richiedenti asilo con i quali mi sono relazionata, anche nei più scettici ed in coloro che non la praticano vi è il timore che qualcuno possa fare loro del mare tramite forze magiche: “Mi hanno chiamato più volte dalla Nigeria, per dirmi che dovevo fare un rito di purificazione altrimenti sarebbe successe cose brutte al mio bambino e a mio marito. Se loro vogliono il male me lo fanno lo stesso anche se non rispondo! Non so cosa fare sinceramente…spero che la smettono e si scordano di me” (Jariatu, Nigeria, 23 anni).
L’antropologo E. Evans Pritchard, nel suo libro “Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande” scritto nel 1937, ben descrive le pratiche di magia e stregoneria all’interno della popolazio131
ne da lui studiata, ed il funzionamento logico sottostante la struttura del pensiero zande (da me descritto nel terzo cap. paragrafo 5). Negli Azande così come tutt’oggi per alcune delle persone da me intervistate, la magia viene usata come giustificazione di avvenimenti difficilmente spiegabili da chi li vive; anche le motivazioni che spingono gli stregoni ad agire, ovvero invidia e gelosia, permangono le stesse nonostante dal libro di Pritchard ad oggi siano trascorsi 80 anni. Il mediatore linguistico-culturale. Il mediatore linguistico-culturale è una figura che ho scoperto nel corso della mia ricerca, essere essenziale e necessaria in ogni aspetto della vita dei vari profughi, soprattutto quando occorre spiegare loro questioni più complicate, come ad esempio i problemi sanitari. Nei servizi da me intervistati non vi è la presenza costante di un mediatore, ma solitamente sono le singole associazioni che a spese loro, richiedono l’aiuto del mediatore che collabora con esse; solo nel servizio ASL di Umbertide, e nell’ambulatorio migranti di Perugia vi è la possibilità di usufruire di mediatori messi a loro disposizione dalla Regione Umbria. “Non fanno parte del nostro servizio, lavorano con le associazioni ma richiediamo sempre la presenza di un operatore e di mediatore, serve anche a tranquillizzare questi ragazzi che non parlano italiano e magari non capiscono neanche il nostro compito lì con loro. Il mediatore serve sia a noi che a loro!” (M.Gildi, direttore ISP).
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“Abbiamo dei mediatori culturali interni al servizio, che collaborano con la Regione, e che vengono chiamati a seconda dell’area di provenienza e della lingua dell’utente. Abbiamo anche il mediatore culturale per i cinesi, anche se da noi non vi è una grande casistica di pazienti cinesi! È una specie di consulenza esterna, che viene chiamata qualora si verificano problemi di comprensione; anche perché molti profughi non parlano nemmeno l’inglese o il francese, non avendo nessun grado di scolarizzazione è difficile proprio sia comunicare che fargli comprendere magari la problematica che li riguarda. […] coloro che vengono da zone dell’Africa più povere, hanno bisogno quasi sempre di un mediatore, e non solo, a volte neanche il mediatore è in grado di comunicare perfettamente con loro, perché magari parlano solo il dialetto del loro villaggio. (P.M. dirigente ASL).
“Di solito si portano dietro qualcuno quelli dell’associazione, vengono accompagnati dai loro mediatori. Poi dipende, ad esempio per quelli che parlano inglese ci sono meno problemi, a volte neanche serve il mediatore e l’intervista sui problemi di salute, la posso condurre anch’io da solo o qualche mio collega che lo parla. Quando invece parlano un inglese dialettale loro o una lingua che non capisco interviene il mediatore. Devo dire che come reparto siamo bravi eh (ridendo) abbiamo anche un infermiere che sa parlare l’arabo!” (D.R. infermiere Pronto Soccorso).
Il medico africano in seguito all’aumento in Umbria di suoi compaesani sierraleonesi, ha recentemente iniziato a svolgere 133
anche la funzione di mediatore linguistico-culturale, per le varie associazioni locali. Spesso è tenuto anche ad accompagnarli anche alle visite mediche, durante le quali egli mi confida come sia difficile riuscire a conciliare le due differenti figure professionali di medico e mediatore. “Io sono anche un mediatore linguistico-culturale e mi ritrovo con loro anche durante le visite di altri medici, spesso mi succede che i medici oltre a scambiarmi per un profugo, anche dopo che gli dico che sono l’interprete mi chiedono in continuazione se capisco l’italiano o quello che stanno dicendo! È brutto che devo sempre stare a spiegare chi sono e che anch’io sono un medico, a volte devo anche dire i nomi dei professori con cui ho studiato per far sì che ci credano! Una volta invece mi è successo che dovevo accompagnare due ragazzi sierraleonesi al due visite diverse nello stesso momento, dato che uno di loro parlava abbastanza bene italiano l’ho lasciato entrare da solo […] Dopo nemmeno cinque minuti il ragazzo mi chiama, vado da lui e mi dice che la dottoressa non lo capiva, ma la cosa assurda è che mi ritrovo poi a tradurre dall’italiano all’italiano! La dottoressa mi parlava italiano e io traducevo a lui in italiano e capiva, lui mi parlava in italiano e io traducevo in italiano alla dottoressa! Solo che io sapevo tradurre dall’italiano straniero all’italiano e viceversa (ridendo)“ (A. Conteh, medico africano).
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Il rapporto tra l’operatore ed il richiedente asilo. Un altro aspetto interessante da analizzare e che si ritrova in tutte le mie interviste, è il rapporto di totale dipendenza del migrante dall’ operatore che lo segue. La figura dell’operatore rappresenta per i richiedenti asilo quasi un prolungamento di se stessi, in grado però a differenza loro, di orientarsi nel Paese nel quale si trovano, e soprattutto gestire ed organizzare ogni questione che li riguarda. Il problema emerge qualora si guarda ad un’integrazione di lungo periodo del migrante, ovvero ad un’integrazione che permetta ad egli di vivere nel Paese ospitante e, di poter interagire con chi lo circonda, senza l’aiuto perenne di un’altra persona. “C’era il mio operatore che chiedeva e poi mi spiegava tutto, il mio operatore è sempre con me. Senza di lui sarei persa qui! Il mio operatore però mi rende tutto facile e mi aiuta facendo le cose per me” (Fatu, Nigeria, 33 anni).
Una caratteristica che ho notato parlando con i richiedenti asilo, è come essi siano consapevoli della loro totale dipendenza dalle persone che si occupano di loro, ma tendono a non considerarlo un problema, anzi al contrario sia per loro qualcosa di scontato ed assolutamente normale. Il modello assistenzialistico comporta infatti un adeguamento del beneficiario ad una condizione di passività rispetto alla sua vita, la quale viene gestita in gran parte da chi si prende cura di lui. 135
È fondamentale secondo la mia opinione, che ai migranti gestiti dalle associazioni, vengano forniti gli strumenti per gestire autonomamente ogni aspetto della loro vita, senza che essi debbano costantemente dipendere dalla disponibilità di aiuto di un operatore o di chi per lui. È innegabile la disponibilità e l’impegno di coloro che si occupano quotidianamente dei migranti, ma affinché avvenga una reale integrazione e vi sia un recupero della loro autonomia è necessario insegnare ad essi come vivere nel nuovo Paese in maniere indipendente e dignitosa, puntando maggiormente sull’ empowerment del migrante. Tutti i richiedenti asilo che ho incontrato, mostrano forti sentimenti di gratitudine nei confronti dell’Italia come Paese che li ha salvati e si è presa cura di loro, ma anche delle associazioni che se ne occupano quotidianamente. “Mi sono sentito al sicuro in Italia, non c’è violenza come in Nigeria […] Gli italiani sono ospitali, aperti e simpatici e non sono violenti. Si prendono cura di noi e ci aiutano […] Ci viene insegnato l’italiano, ci vengono date le penne e i quaderni, da mangiare, ci accompagnano alle visite e si prendono cura di noi in tutto; è molto buona, sono tutti molto accoglienti.” (Santighi, Nigeria, 26 anni)
Le mutilazioni genitali femminili tra i richiedenti asilo. Dalle interviste condotte con i richiedenti asilo donne, emerge come la pratica delle mutilazioni genitali femminili, sia ancora ampiamente diffusa in Africa, sia nelle donne musulmane che cristiane, a sostegno del fatto che la pratica in questione non dipende dalla religione ma dalla cultura, e di 136
quanto sia difficile modificare la mentalità di un popolo e le sue tradizioni: “Non è religione, è solo cultura lo fanno perché sennò la ragazza viene derisa, non hai amici, tutti ti ridono quando passi e rimani sola. Prima di venire qui pensavo fosse una cosa buona, non pensi al dolore ma che non vuoi essere presa in giro, nessuna donna accetta di essere isolata e umiliata” (Asiatu, Sierra Leone, 32 anni). Vi sono per quanto riguarda le mie intervistate opinioni contrastanti al riguardo, tra chi la considera una pratica giusta in quanto permette alla donna di frenare i propri impulsi sessuali, e chi invece ritiene non debba essere più perpetuata: “Si. Io l’ho fatta […] ma non la voglio far fare alle mie figlie! (con faccia sgomenta). E’ stata molto dolorosa ah no no! Non voglio pensarci! E’ stata veramente dolorosa! Ora però alcuni non la fanno più! Si ci sono ancora alcuni posto dove la fanno di nascosto ma in altri no non si fa più. Dove abito io dicono che è una tradizione e che così quando la donna è sola non sente il bisogno sessuale capito? Almeno così sta solo con il suo uomo, il marito, questa è la tradizione“ (Memuna, Nigeria, 33 anni).
“Da piccola l’ho chiesto a mia madre, e lei mi ha detto che è buono farla così eliminandolo (si riferisce al clitoride), le ragazze hanno meno stimolo e non vanno con tanti uomini. È buono e giusto farla fare, senza violenza però“ (Fatu,
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Nigeria, 32 anni).
Il poter confrontarmi con donne che avevano subito la circoncisione femminile, e avessero a riguardo opinioni favorevoli, mi ha permesso di comprendere meglio come una pratica che nel mondo occidentale viene condannata, se non che demonizzata, possa invece essere per alcune di loro, un qualcosa di positivo, perché inscritta nelle norme sociali del luogo. Alcune di loro inoltre, non sono nemmeno a conoscenza delle leggi nazionali del loro Paese che vietano la pratica della circoncisione femminile; “No no, tutti quanti sono d’accordo! Non l’ho mai sentita (una legge che vieta le MGF) Forse dipende dal luogo! Nel paese di G. (una ragazza nigeriana che io stessa ho intervistato), molti scappano perché non la vogliono fare…ma questo perché a loro la fanno quando sono grandi e soffrono di più.” (Fatu, Nigeria, 32 anni).
“No, non le conoscono e non penso ci sono… forse arriveranno con il tempo.“ (Asiatu, 32 anni, Sierra Leone).
La Nigeria è stata uno dei primi Stati africani ad avere leggi per la tutela della donna, che vietassero le Mgf; la pratica era già vietata dal governo in 36 regioni, ma nel 2015 la Nigeria ha esteso la normativa a livello nazionale. La Sierra Leone invece è ancora uno dei pochi Paesi che in Africa non hanno dichiarato le mutilazioni genitali femminili illegali, lo Stato ha dichiarato piuttosto che la mutilazio138
ne genitale femminile è una pratica culturale supportata dal Governo in quanto tradizione locale, e che dunque non sarà messa fuori legge. Una normativa statale di certo non può modificare di netto le tradizioni e le abitudini di un popolo, ma è comunque un inizio, un principio di cambiamento che può portare le persone a considerare in maniera differente, ciò che fino allora è sempre stato normalità. Tutte le ragazze mi hanno confidato di essere rimaste sorprese nell’apprendere che questa pratica non fosse effettuata in tutto il mondo, ma che addirittura venisse considerata ingiusta e negativa per la donna: “Per noi è normale, prima pensavo che veniva fatta a tutte le donne, quando sono arrivata qui ho scoperto che non era così e che molti lo vedono come un problema. (Fatu, Nigeria, 32 anni)
“In realtà […] pensavo fosse obbligatorio, qualcosa deciso da Dio […] Ci sono rimasta male quando ho scoperto non era così.” (Asiatu, Sierra Leone, 32 anni)
In una intervista con un richiedente asilo proveniente dalla regione del Koulikoro, in Mali, scopro che la motivazione per il quale egli non può tornare nel proprio Paese, è che si è opposto all’escissione genitale che la comunità voleva imporre a sua figlia di 6 anni, andando così contro l’autorità dell’Imam locale. Tutto ciò ha fatto sì che egli non fosse più ben accettato all’in139
terno della comunità, fino al punto di arrivare a ricevere delle minacce di morte, e di decidere così di andarsene. “In Mali per tradizione volevano fare la mutilazione genitale a mia figlia, ma io mi sono opposto […] allora la comunità dove stavo se l’è presa con me, mi hanno anche minacciato e sono dovuto fuggire” (Abduraman, Mali, 36 anni).
Ho scoperto inoltre che l’età in cui viene fatta cambia di molto e non solo tra i vari Stati, ma anche tra tribù diverse all’interno della stessa nazione, come ad esempio per due ragazze nigeriane, appartenenti una alla tribù dei Benin e l’altra alla tribù dei Yoruba. La differente età in cui si è sottoposti alla mutilazione genitale, comporta anche una differenza di pensiero a riguardo, mentre infatti per Fatu, la ragazza della tribù dei Benin in cui la pratica viene fatta nelle prime settimane di vita, e quindi è impossibile ricordarselo, l’infibulazione è una tradizione che va mantenuta perché positiva per la donna; per Memuna che appartiene alla tribù degli Yoruba e che si ricorda bene il dolore che ha provato, in quanto è stata sottoposta alla mutilazione verso i 16 anni, la pratica è ingiusta e non ha intenzione di imporla alle sue figlie. Questo può essere un punto sul quale soffermarsi qualora di parla di mutilazioni genitali femminili; l’età alla quale si compie l’operazione può essere infatti un fattore in grado di permettere il continuo della pratica, data la sua importanza per la popolazione, senza sottoporre la donna a forti dolori e traumi che l’accompagneranno per il resto della sua vita. 140
“Da noi si fa quando hai una settimana di vita, massimo due se la bimba ha una corporatura robusta; da noi si fa subito dopo pochi giorni da quando nasci” (Fatu, Nigeria, 32 anni).
“Per i maschi è diverso, a loro la fanno quando sono piccoli mentre alle femmine quando sono già cresciute! Io ho fatto la mia quando avevo 16 anni. Da noi la fanno quando dicono che la ragazza è matura. Da alcune parti si la fanno quando sono piccole, ho delle amiche della parte degli Igbo (una tribù nigeriana) che mi hanno detto che dalle parti loro lo fanno quando sono piccole, ma a casa mia no, si fa quando la ragazza è matura” (Memuna, Nigeria, 33 anni).
Le mutilazioni genitali femminili oltre ad essere un’operazione fortemente dolorosa, essendo praticate solitamente con strumenti rudimentali e rozzi come lame, coltelli e, da persone non esperte in campo medico, spesso possono finire per compromettere l’intero apparato genitale della donna, come è successo con una delle mie intervistate. La donna in questione, in seguito a forti dolori all’apparato pelvico, è stata sottoposta alla deinfibulazione, nella speranza che possa così guarire e magari intraprendere una normale vita sessuale e riproduttiva. “Sono stata male, non me lo aspettavo. L’intervento ha risolto tutti i miei problemi di salute causati dalla mutilazione ed ora sò quanto sia sbagliata come cosa […] siamo
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andati da una ginecologa e da una sessuologa, penso. Abbiamo parlato anche con un assistente sociale al consultorio” (Asiatu, Sierra Leone 32 anni).
Nelle interviste con il personale sanitario, mi sono stati riferiti dei casi di infibulazione, anche se il numero dei casi è molto ridotto rispetto al numero di migranti; questo presumibilmente per la differenza delle tipologie di infibulazione, che porta alcuni medici a non riconoscerne la pratica, ma anche perché a meno che non comporti delle problematiche sanitarie per la persona, è difficile sapere se una donna sia stata infibulata o meno. “Da poco è arrivata al nostro consultorio una ragazza infibulata che deve partorire tra poco e probabilmente dovrà essere deinfibulata per poter partorire; non so quanto la ragazza abbia compreso la cosa […] anche perché ci sono anche ragazze che una volta partorito vogliono essere rinfibulate! Beh vede, dal nostro punto di vista, ovviamente può essere difficile da comprendere, però nel nostro lavoro bisogna stare attenti a non giudicare, specie quando si lavora con le altre persone! L’importante è la tutela della salute della paziente, finché le sue scelte non la danneggiano fisicamente è lei che sceglie, anche perché comunque lo fanno di nascosto, (l’infibulazione) non avviene negli ospedali, noi ce ne accorgiamo quando magari tornano dopo anni!” (P.M. dirigente ASL).
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La percezione della sanità italiana per i richiedenti asilo. Nonostante presentino problematiche differenti, vi è una predominanza di opinioni favorevoli da parte dei richiedenti asilo, riguardante l’operato e l’impegno dei medici nei loro confronti: “Non mi sono mai sentita discriminata, sono stati tutti molto carini e mi hanno trattato bene, sono stati molto carini. Mi hanno spiegato tutto quello che avevo” (Asiatu, Sierra Leone 32 anni).
“Alcuni entravano e uscivano e non dicevano niente! Una dottoressa però era carina mi ero innamorato, lei mi manca (ridendo)“ (Malik, Mali, 22 anni).
Anche se vi sono racconti in cui almeno da quanto percepito dal paziente, il personale sanitario si è mostrato eccessivamente negligente nei loro confronti: “Alcuni non s’impegnano per bene, mi avevano detto che non c’era niente da fare e basta! Per fortuna il mio operatore mi ha difeso e ha detto loro che dovevano fare per me tutto quello che avrebbero fatto per gli italiani! Altrimenti forse non sarei qui oggi”( Fatu, Nigeria, 32 anni).
La maggioranza di opinioni favorevoli ritengo sia da attribuire anche alla differenza della concezione di sanità in Occidente rispetto ai Paesi di provenienza dei profughi. 143
In Italia la sanità è un diritto che va garantito indiscriminatamente, e fare il medico viene ancor oggi considerato un mestiere nobile; mentre nei Paesi sottosviluppati la sanità è un sistema fortemente corrotto e non vi è la tutela della persona e della sua salute che è presente nei Paese sviluppati. “Questo problema ai polmoni ce l’ho da un po’, ma lì (in Nigeria) non possono curarmi. Noi non abbiamo le cure che ci sono qui!” (Fatu, Nigeria, 32 anni).
“No, non ho potuto avere la cura occidentale, perché non avevo un certificato che viene rilasciato dalla polizia quando c’è di mezzo un’arma da fuoco; altrimenti il medico non interviene perché vuole sapere prima cosa è successo. È più difficile andare in ospedale in Nigeria. Da noi se non paghi e non hai i soldi non ti danno niente” (Santighi, Nigeria, 26 anni).
Ho posto la stessa questione al medico africano, avendo egli potuto confrontare la differenza tra la sanità in Europa e la sanità in Africa in maniera più approfondita date le sue conoscenze mediche. “La sanità qui in Italia va bene, rispetto a tanti altri Paesi è una delle migliori. Il diritto alla salute e alla cura della persona è uno dei diritti fondamentali della Costituzione italiana, e la cosa positiva è che italiani e stranieri hanno gli stessi diritti quando si parla di salute. Mentre in Italia la sanità è una delle migliori in Africa è una delle peggiori!
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[…] In ospedale devi pagare il ricovero e la gente non ha i soldi, le urgenze sono gratuite ma anche solo arrivare all’ospedale è difficile, non ci sono le ambulanze, i mezzi pubblici sono pessimi e sono poche le persone che guidano e possiedono una macchina! L’unica cosa è che ci sono molti ambulatori privati, se sei medico puoi aprirne uno tuo, puoi anche lavorare sia all’ospedale che nel tuo ambulatorio, nel mio Paese è permesso puoi fare tutte due le cose” (A. Conteh, medico africano).
Ho voluto soffermarmi durante il colloquio con il medico di nazionalità sierraleonese, anche su come egli riuscisse a confrontarsi con i suoi compaesani, senza essere emotivamente troppo coinvolto e mantenendo una distanza professionale adeguata al suo ruolo. “E’ difficile, ma come professionista ho dei doveri deontologici da mantenere e rispettare, anche per non finire nei guai io stesso […] Umanamente si vi è un grande coinvolgimento, cerco di aiutarli il più possibile, ed il rapporto che si instaura tra di noi è molto più informale rispetto ai miei colleghi italiani; però allo stesso tempo faccio quello che devo! Se ad esempio le loro condizioni sono quelle, io dico e scrivo la verità. Non solo quelli del mio Paese ma in generale tutti gli africani tendono a dirmi cose che ad altre persone magari non direbbero e richiedono il mio aiuto un po’ per tutto! A volte è successo che alcuni mentissero sul Paese di provenienza dicendo magari di essere sierraleonesi anche se non lo sono, e io pur sapendolo chiudo un occhio e faccio finta di niente.
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Umanamente spesso ci rimango male quando la Commissione ad esempio rilascia il diniego a qualcuno che come persona è molto brava, ma la sua storia presenta troppe contraddizioni e quindi non viene creduto” (A. Conteh, medico africano).
Parlando con i richiedenti asilo anche al di fuori del momento specifico dell’intervista personale, è emerso inoltre come essi siano perfettamente consapevoli che le prestazioni sanitarie, così come il loro alloggio ed il vitto, vengono pagati con i soldi pubblici messi a disposizione dalla Commissione Europea per la gestione dei rifugiati. Per quanto riguarda le prestazioni sanitarie, alcuni di loro cercano di fare più visite mediche possibili, sapendo appunto che finché rimangono all’interno del progetto, sono le associazioni che li gestiscono a dover pagare tutto. Da parte dei profughi con cui ho parlato si evince come essi ritengano sia un loro diritto in quanto beneficiari della protezione internazionale l’accesso gratuito alle prestazioni sanitarie, ma anche come siano disposti a non usufruirne, qualora non riescano ad instaurare con il personale medico un rapporto di fiducia. L’allontanamento dal servizio sanitario. Tra gli otto richiedenti asilo selezionati, solo due di loro, hanno deciso di interrompere la terapia prima del tempo; le motivazioni del loro abbandono sono la sfiducia nella biomedicina, e la diffidenza nei confronti del personale sanitario italiano: 146
“Loro fanno il loro meglio, hanno fatto molto il loro me-
glio! Però questa malattia che io ce l’ho, non è una malattia semplice da spiegare, perché anche le medicine che mi hanno dato (una costava 1700 euro!) io ce l’ho, l’ho portate anche a casa però non sono guarito del tutto.
Sto provando ora con le medicini tradizionali. Comunque male che vada non andrò più all’ospedale perché hanno fatto tutto quello che potevano. Anche la dottoressa che mi seguiva infatti ha detto “Ma questa malattia è strana! Tutte queste medicine che noi ti abbiamo dato, tu non dovevi più perdere sangue” Omar, Sierra Leone, 40 anni).
“Ora però non voglio più andare all’ospedale! Non mi fido più, ancora non hanno trovato una soluzione per me. Io mi sono ammalato andando in ospedale! Prima di venire in Italia stavo bene è qui il problema” (Malik, Mali, 22 anni).
A Malik, il ragazzo che ha deciso di interrompere la cura per la TBC, è stato diagnosticato anche un grave problema al cuore, per il quale potrebbe perdere la vita se non si opera. Egli però non ha ancora preso una decisione in merito a causa della sua grande diffidenza nei confronti dei medici italiani. “Non so se farò l’operazione ancora non ho deciso […] Qui non ho la certezza che va tutto bene […] Te l’ho detto i dottori qui non sono buoni, non mi fido” (Malik, Mali, 22 anni).
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La diffidenza nei confronti del ambiente medico italiano è così forte in Malik da superare la paura della morte; confrontandomi anche con gli operatori riguardo tutto ciò, scopro che neanche l’associazione sa come riuscire a convincere il ragazzo, e che egli negli ultimi mesi si è chiuso in se stesso, minacciando continuamente di andarsene. Scoprirsi malati, provoca in ogni essere umano delle incertezze e paure che possono manifestarsi in vario modo, anche in un atteggiamento di chiusura e rabbia verso il mondo che lo circonda qualunque esso sia, ed è quello che è avvenuto in questo ragazzo, il quale si è ritrovato, in aggiunta, gravemente malato in un Paese lontano da casa e da tutto ciò che era per lui familiare. Io stessa, così come gli operatori ed i mediatori che lavorano con lui, ho cercato di spiegare a questo ragazzo di ventidue anni, come il venire a conoscenza delle proprie malattie in un determinato posto, non comporti la responsabilità di quel luogo; ed anche quanto sia necessario che si operi affinché egli possa vivere e realizzare ancora tutto ciò che desidera, senza però ottenere da lui un responso positivo. Le speranze per il futuro dei richiedenti asilo. Tra le aspettative per il futuro dei ragazzi intervistati, vi è soprattutto la volontà di trovare un lavoro ed integrarsi nel nuovo continente; solo una ragazza, la quale nonostante avesse manifestato durante il nostro colloquio il desiderio di rimanere a Perugia, attualmente è andata via dall’Italia e si è trasferita in Francia, dove grazie a dei contatti, ha trovato lavoro come parrucchiera per capelli afro, lo stesso mestiere che svolgeva nel suo Paese di provenienza, la Nigeria. 148
Quasi tutti gli altri invece manifestano la loro intenzione di rimanere in Italia, trovare lavoro e sistemarsi: “I miei piani sono di sposarmi e avere dei bambini […] Preferirei un uomo nigeriano (in tono convinto) […] Voglio rimanere in Italia. Mi dovrei trasferire in Sicilia sperando di trovare lavoro. Poi vorrei far venire mio nipote da me se riesco!” (Fatu, Nigeria, 32 anni).
“No voglio rimanere qui in Italia, a Perugia, mi piace l’Italia; loro mi hanno aiutata. Qui sono stata felice, mi hanno aiutata ad essere felice” (Asiatu, Sierra Leone, 32 anni).
Di otto persone solo uno di loro ha espresso con chiarezza il suo disappunto verso l’Italia e gli italiani, e la sua volontà di andare via dall’Italia: “No no! Io voglio andare via dall’Italia e basta. Penso andrò in Francia. Non ho parenti per l’Europa però voglio andare in un altro Paese, non importa dove. Non posso essere sicuro di cosa avverrà nel futuro, però sono sicuro starò meglio di come sto qui con gli italiani.” (Malik, Mali, 22 anni).
Nel corso della mia ricerca, mi sono resa conto che questa esperienza a stretto contatto con i richiedenti asilo provenienti dall’Africa, non solo ha aggiunto nozioni al mio bagaglio conoscitivo, ma ha creato in me dei sentimenti di maggiore vicinanza e solidarietà nei confronti dei profughi. L’Africa nel corso della mia vita, è stata per anni un qualcosa di lontano a cui non sentivo di appartenere, fino a quando nel 2013 per la prima volta ho messo piede nel mio Paese di 149
origine, la Sierra Leone. Da allora fino al momento della mia ricerca, l’Africa è divenuta per me un Paese, che nonostante l’estrema povertà, è meraviglioso, in quanto ricco di persone che riescono a mantenere il sorriso, pur non avendo niente. L’incontro diretto con i richiedenti asilo invece, mi ha mostrato una parte dell’Africa che non conoscevo, una parte di Africa molto più violenta, e nella quale le persone sono costrette ad abbandonare le loro case e le loro famiglie, per motivazioni non dipendenti dalla loro volontà e soprattutto ingiuste. Il verificare quanto sia alta la presenza delle mutilazioni genitali femminili, ha suscitato in me interrogativi sulla reale difficoltà per le donne africane, di sottrarsi ad una pratica così fortemente inclusa nelle varie società. Inoltre il conoscere ragazzi della mia età, ed anche più piccoli, che hanno rischiato la vita pur di arrivare in Italia, senza nessuna certezza del futuro che li attendeva, ha incrementato in me la consapevolezza di quanto sia doveroso da parte degli Stati occidentali, piuttosto che costruire muri, provare a migliorare concretamente la situazione socioeconomica nei Paesi di provenienza di questi ragazzi, onde evitare che siano costretti a scappare in massa dalle loro città, creando così anche una perdita di capitale umano per il proprio continente. Ho avuto il piacere di ritrovare nelle visite che ho fatto ai richiedenti asilo, anche l’Africa bella che conosco, fatta di persone che ti accolgono sempre con estremo calore, e sono disposte a cederti anche quel poco che hanno, a partire dall’unica sedia in casa fino al piatto di riso più grande senza nessuna rimostranza. 150
CONCLUSIONI “Costruire condizioni concrete di pace, per quanto concerne i migranti e i rifugiati, significa impegnarsi seriamente a salvaguardare anzitutto il diritto a non emigrare, a vivere cioè in pace e dignità nella propria Patria.” (Papa Giovanni Paolo II dal messaggio per la 90ª Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, 15 dicembre 2003) Questo messaggio del 2003 non ha avuto da allora ancora un reale riscontro né nei Paesi dai quali fuggono i migranti né nei Paesi nei quali essi emigrano. Da allora le condizioni di vita in quelli che vengono definiti PVS (Paesi in Via di Sviluppo), sono solo che peggiorate, e le promesse di aiuto per lo sviluppo economico ed il contrasto alla fame e alla povertà che i Paesi sviluppati si erano impegnati a promuovere, non sono state mantenute. La situazione si è aggravata con l’avvento della guerre civili libiche iniziate nel 2011, che hanno comportato una fuga massiccia di persone dalla Libia, tra cui molti individui dell’Africa subsahariana, emigrati in cerca di lavoro o di rifugio, ed impossibilitati a tornare nel proprio Paese di origine. Tutto ciò ha fatto sì che migliaia di persone in questi anni, hanno cercato e cercano tutt’ora rifugio in Europa. L’emergenza profughi ha posto gli Stati europei di fronte alla necessità di formulare azioni volte a garantire un’adeguata gestione dei richiedenti asilo nel lungo periodo e per un numero di persone, di gran lunga superiore alla norma. 151
L’Italia essendo uno dei Paesi di ingresso in Europa, è stato uno dei Paesi più colpiti dall’elevato numero di migranti sbarcati negli ultimi anni, ed anche uno dei Stati più impreparati a tale emergenza. È utile e necessario oramai, pensare e sviluppare una strategia volta ad acquisire una soluzione definitiva che non affronti solo l’imprevisto, in un’ottica che pensi ad un’integrazione perenne dello straniero, persona per la quale l’Italia non è più al giorno d’oggi solo un luogo di passaggio, ma è oramai un Paese nel quale vivere definitivamente. L’ Italia non ha ancora deciso quale modello di integrazione adottare, essendo diventato un Paese di immigrazione solo di recente, rispetto a Paesi europei come la Francia o l’Inghilterra. È tempo ormai però di decidere che soluzione adoperare qualora si parla di migranti e soprattutto evitare di compiere gli errori che altri Stati hanno già compiuto, cercando ad esempio di voler adattare e conformare gli usi e costumi dei migranti a quelli della società ospitante, come nel modello assimilazionista francese, il quale ha portato però ad una rivolta anche estrema delle categorie di migranti più discriminate. Onde evitare tutto ciò occorre in primis ammettere ed accettare le differenze tra i vari gruppi umani, il che non vuol dire accettare separazioni o ghettizzazioni, ma comprendere che ognuno di noi è diverso, e che tale diversità è un qualcosa di positivo, e soprattutto un fattore che va preso in considerazione qualora si parla di integrazione e convivenza pacifica tra autoctoni e stranieri. L’accettazione delle differenze deve avvenire secondo la mia opinione anche in campo medico; in quel caso le differenze sono prettamente culturali, ma come già ribadito la cultura 152
modella anche la concezione e la cura del corpo di un individuo. Ignorare l’alterità significa non solo privarsi dell’aspetto creativo dell’incontro con l’altro, ma significa anche rischiare che questi pazienti non s’inscrivano nel nostro sistema di prevenzione e di cura, ed anche costringerli alla solitudine ed all’irrigidimento verso le istituzioni sanitarie. Bisogna riuscire ad ascoltare e comprendere la sofferenza delle persone in tutte le sue forme, e rispondere in maniera adeguata al problema, onde evitare di escludere persone già di per sé vulnerabili, come i richiedenti asilo, e rischiare di compromettere la salute di un individuo e di conseguenza tutta la sua vita. È necessario evitare l’allontanamento dal sistema sanitario, anche per una maggiore tutela di tutti i cittadini; questo perché essendovi la possibilità di patologie infettive trasmissibili nella comunità, quali la tubercolosi o la scabbia, onde evitare il contagio, è essenziale che la persona malata si sottoponga alla terapia, al fine di giungere ad una guarigione che scongiuri il pericolo per sé e per la collettività. Affinché la persona si sottometta alle prescrizioni mediche è fondamentale che comprenda appieno quello che sta succedendo al proprio corpo e quello che comporta la cura, e soprattutto che capisca quanto sia importante adempiere alla terapia prescritta, per giungere ad una guarigione totale. È indubbio che l’aumento di profughi ha comportato un aumento della mole di lavoro nei servizi sanitari, ma questo non deve inficiare nella relazione medico-paziente. Sovente oggigiorno i comportamenti e le considerazioni che il personale sanitario ha dei richiedenti asilo, sono condizio153
nati da pregiudizi e stereotipi negativi che la popolazione ha nei loro confronti, ed è quanto ho riscontrato anche svolgendo la mia ricerca. Sono molte anche i commenti personali che difficilmente verrebbero espressi nei confronti dei pazienti italiani, ma che medici ed infermieri, trovandosi di fronte persone non in grado di capire appieno la lingua, si sentono maggiormente liberi di esprimere; come se il trovarsi di fronte ad uno straniero garantisse loro un maggior anonimato, e la presunzione di poter far venir meno il rispetto verso l’altro, legato al ruolo professionale che ricoprono; questo si evince ad esempio anche nel dare come forma di dialogo all’interlocutore straniero il “tu” invece che il “lei”. Per alleggerire il carico di lavoro da compiere inoltre, non si può rischiare di considerare un gruppo di persone diverse tra loro, in questo caso i richiedenti asilo, come un gruppo omogeneo di individui aventi per di più le medesime malattie. È una tendenza dell’essere umano considerare l’outgroup come un gruppo di persone omogeneo, nel quale è più difficile vedere le caratteristiche singole, rispetto invece all’ingroup ovvero al gruppo al quale si appartiene; qualora però questa considerazione viene trasmessa anche in ambito sanitario, si rischia “l’etnicizzazione della malattia”, ovvero di etichettare la persona sulla base di un essenzialismo culturale che trascina con sé anche la malattie dell’individuo e non permette al paziente di avere la terapia adeguata a lui ed alle singole caratteristiche della sua patologia. L’ulteriore grande rischio, emerso dalla mia indagine, in cui i medici possono incorrere quando si confrontano con i richiedenti asilo, è invece il rischio opposto ovvero di minimizzare le patologie che essi hanno, affibbiandone la totale respon154
sabilità al viaggio e a tutto quello che hanno dovuto passare, quasi come se non essendo la malattia dipesa da condizioni presenti qui in Italia, il problema fosse meno importante, dato anche il minore rischio di contagio per la popolazione italiana, la quale essendo vaccinata, è più resistente a patologie infettive non più diffuse oramai in Europa. Dalla mia ricerca emerge come il sistema sanitario italiano, sia un sistema che garantisce una tutela della salute indiscriminata, con normative che garantiscono il diritto alla salute di tutti i cittadini presenti nel suolo italiano, indipendentemente dallo loro posizione giuridica; che siano cittadini italiani, stranieri comunitari, richiedenti asilo o clandestini, le prestazioni mediche vitali vengono concesse a tutti gratuitamente, cosa che non avviene invece in molti altri Paesi sviluppati. Le problematiche relative al sistema sanitario emergono però nella pratica: dalla mia ricerca infatti emerge che nonostante come sistema sia valutato positivamente dai cittadini stranieri, essendo loro abituati anche a regimi sanitari basati su un compenso economico e nei quali non vi è una cura della persona e della sua salute come in Occidente, nella realtà vi sia una grande diffidenza da parte loro nei confronti del personale sanitario italiano, la quale comporta spesso un vero e proprio abbandono delle cure mediche. Questa diffidenza è dipesa in gran parte da problematiche linguistiche che comportano una distanza maggiore tra il medico ed il paziente, ma anche dalle difficoltà ad accettare una malattia ed una cura che non viene loro spiegata adeguatamente, e sovente anche dal confronto con un personale medico eccessivamente sbrigativo e che si relaziona con i pazienti stranieri mostrando segni di insofferenza. Spesso infatti anche se non si comprendono le parole del pro155
prio interlocutore, se ne comprendono però gli stati d’animo e l’atteggiamento, ed è proprio questo, che porta i richiedenti asilo a non confidarsi e a distaccarsi nella relazione con il personale sanitario. Il non sentirsi liberi di confidarsi riguardo a come si vive la malattia, al proprio stato d’animo e le emozioni al riguardo, quello che in antropologia medica viene definito illness, comporta da parte del paziente una chiusura nei confronti del suo interlocutore, e da parte del medico un grave deficit informativo, in quanto egli finisce per ignorare il significato che la malattia ha per il paziente e di conseguenza anche il modo in cui egli reagirà alla diagnosi ed alle prescrizioni mediche a riguardo. Vi sono inoltre conoscenze altrui che condizionano le opinioni e gli atteggiamenti delle persone, che vanno rispettate e non bollate come mere credenze, come ad esempio la conoscenza dei jinn per la cultura islamica, che da quanto emerso dal colloquio con un richiedente asilo, può influenzare fortemente i comportamenti e le reazioni di un individuo. Affinché il medico, l’infermiere o l’assistente sociale che sia, riesca ad essere nel suo campo il più efficace possibile, è necessario che esca dalla posizione di confronto e di distanza e, al contrario favorisca tutto quello che va verso la considerazione dei saperi e delle culture altrui. È necessario affinché ciò avvenga dare al singolo professionista i mezzi e gli strumenti adeguati alla creazione di una relazione con gli utenti stranieri vantaggiosa e proficua per entrambi. Questo è possibile ampliando ed incrementando i corsi di formazione riguardanti l’antropologia medica, corsi che affrontino cioè la dimensione sociale e antropologica della salute, 156
della malattia e della cura e, come differenti culture abbiano elaborato differenti pratiche, e conoscenze intorno ai problemi collegati alle tematiche della salute. Vi è la necessità di costituire una sanità equa e che consenta il libero accesso a tutti, non solo da un punto di vista giuridico, ma anche e soprattutto da un punto di vista pratico, che permetta a tutti i cittadini di accedere ai servizi sanitari in piena autonomia e sentendosi ben accettati. L’integrazione infatti è un processo che si fa in due, non ci si può integrare da soli ma occorre che dall’altra parte ci sia la volontà e la capacità di accettazione dell’altro, e che questo desiderio di integrazione sia presente da entrambe le parti. Il rispetto della volontà decisionale del migrante è un punto essenziale nell’interazione tra il medico ed il paziente straniero, ma affinché sia rispettata occorre prima che la volontà del migrante sia compresa dal medico, non solo da un punto di vista linguistico, ma anche e soprattutto dal punto di vista culturale Le categorie culturali sono ciò che utilizziamo per orientarci nel mondo, di cui non sempre la persona è consapevole e sulle quali non ha il controllo; è la nostra cultura a plasmarci e a formare opinioni e valori diversi in base al Paese ed alla cultura di appartenenza. Gli immigrati vengono visti come una minaccia, in quanto sfidano le nostri abitudini, i loro valori e le loro abitudini, proprio perché diversi culturalmente, costringono l’uomo a riflettere sulle proprie abitudini ed i propri codici culturali, creando in lui spesso disagio; gli stranieri portano lingue, modelli, rappresentazioni del mondo, tipi di sofferenze ed aspettative talvolta particolarmente difficili da capire. 157
Nei servizi pubblici questa differenza non può essere ignorata in nome di un universalismo generale, che però non esiste nella pratica: universali debbono essere i diritti ma non si possono non prendere in considerazione le singolarità degli esseri umani quando si lavora con essi. I servizi pubblici inoltre hanno un ruolo determinante dell’integrazione dello straniero, sono tra i primi punti di contatto che l’individuo ha con il nuovo Paese, e sui quali egli formerà la sua opinione del Paese ospitante. Dei servizi che non consentono alla persona di sentirsi a proprio agio, di esprimersi liberamente e di comprendere non solo quello che gli viene detto, ma anche l’importanza dell’aspetto burocratico, delle regole da rispettare e delle prescrizioni da seguire, sono dei servizi che non espletano in toto la loro funzione di servizio pubblico. La mediazione linguistico-culturale può divenire il mezzo attraverso il quale il servizio sanitario può ridurre non solo la sofferenza fisica e mentale dei propri pazienti, ma anche costruire un rapporto aperto al dialogo ed alla conoscenza reciproca. Occorre però che il mediatore non sia relegato ad una funzione marginale del servizio, come una figura da contattare solo quando la situazione è oramai talmente complicata da divenire irrecuperabile, ma occorre che il mediatore sia al giorno d’oggi una presenza costante nei servizi sanitari. Il mediatore cioè deve diventare parte integrante dell’assistenza sanitaria, in grado così di facilitare sempre l’interazione tra il medico ed il cittadino straniero e non intervenire più solo dopo il verificarsi del problema; questo ritengo sia un punto su cui soffermarsi qualora si parla di politiche di integrazione ben programmate e non più legate solo all’emer158
genza. Ciò anche perché fin quando i richiedenti asilo vengono gestiti dall’associazione sono gli operatori che li seguono a occuparsi di tutte le questioni burocratiche o meno che li riguardano, ad accompagnarli alle visite mediche, e a contattare i mediatori per comunicare ai richiedenti le cose più importanti che li riguardano. Il problema maggiore si pone però quando ottenuti i documenti che consentono loro di soggiornare in Italia, non essendo più seguiti dalle associazioni, essi si trovano impreparati a gestire autonomamente tutte le questioni in cui precedentemente venivano aiutati. Spesso succede che proprio per quel che riguarda la cura della propria salute ed i contatti con il personale sanitario, non riuscendo a creare con quest’ultimi un dialogo ed una relazione costruttiva, i cittadini stranieri finiscono per allontanarsi completamente dal servizio sanitario, rinunciando così anche a quello che è un loro diritto, ovvero il diritto alla salute. È necessario che l’Italia riconosca ed accetti le trasformazioni sociali che sta vivendo, e soprattutto il suo cambiamento in un Paese multietnico. Il dizionario della lingua italiana Treccani, definisce multietnico un aggettivo che sta ad indicare un insieme di etnie, ognuna caratterizzata da una propria cultura e tradizione; ed è quello che si sta verificando oggigiorno in Italia, ovvero una compresenza di etnie e persone diverse tra loro, ognuna con il proprio bagaglio culturale, che vivono nello stesso Paese. Non si tratta di dover modificare la cultura italiana, o di dover cambiare gli usi e costumi della popolazione straniere in Italia, ma di trovare la soluzione migliore per costruire una 159
convivenza pacifica e costruttiva per tutti. Ritengo sia necessario costruire in Italia, un orizzonte dove viene rispettata e valorizzata la pluralità dei modi di esistenza umana. Potendo partire con delle conoscenze maggiori riguardo al tema dell’immigrazione rispetto ad altri Paesi, l’Italia può divenire con il giusto impegno, uno Stato modello, dal quale prendere esempio, in maniera positiva, e nel quale, avendo trovato la via alternativa ai modelli di integrazione già esistenti, italiani e stranieri possano vivere ogni ambito della vita nel nuovo Paese al meglio ed in ugual modo.
“Siam sempre lo straniero di qualcun altro. Imparare a vivere insieme è lottare contro il razzismo.” Tahar Ben Jelloun Questo enunciazione di Jelloun esprime un concetto che ancora molte persone al giorno d’oggi sembrano non aver compreso, ovvero come ampliando il nostro orizzonte e guardando ad un prospettiva globale, saremo sempre stranieri per un’altra persona; questo dovrebbe essere un punto su quale focalizzarsi qualora si parla di integrazione, anche solamente il pensare a come si vorrebbe essere trattati nella condizione di straniero che risiede in un Paese non suo, permetterebbe di creare politiche d’integrazione migliori.
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INTERVISTA AD OMAR Omar è un uomo sierraleonese di 40 anni, inserito nel progetto Sprar della cooperativa Perusia da ormai un anno, è arrivato in Italia nel 2013. Non è sposato ne ha figli, in quanto afferma che della voci gli hanno detto che deve rimanere solo ed ogni volta ha provato ad avere una relazione è stato ostacolato. Egli risiede in un monolocale vicino al centro di Perugia, nel quale vive da solo; afferma di essere andato a scuola fino al livello superiore e che nel suo Paese era un insegnante. L’intervista si è svolta in italiano in quanto Omar ha acquisito una buona conoscenza della lingua italiana, ho cercato di trascriverla più fedelmente possibile, anche se per una maggiore comprensione del testo molti errori grammaticali sono stati omessi. Di seguito l’intervista effettuata: J.C.: Da dove vieni? Omar: Dalla Sierra Leone, distretto di Tawuya. J.C.: Di quale tribù fai parte e quanti anni hai? Omar: Della tribù di Susu, ho 40 anni. 167
J.C.: La tua religione? Omar: Sono musulmano, da noi non ci sono cristiani, non trovi nessuna chiesa (ridendo). J.C.: Quando e perché sei partito dal tuo Paese? Omar: Sono scappato dalla Sierra Leone nel 2011 perché mi ero innamorato di una ragazza ma la sua famiglia non voleva perché era già promessa di un altro uomo, allora siamo scappati insieme e siamo andati in Libia dove avevo degli amici che mi hanno trovato lavoro. J.C.: Che lavoro facevi in Libia? Omar: Il venditore per strada con un mio amico. J.C.: Che lavoro facevi in Sierra Leone invece? Omar: Insegnavo a scuola ai bambini del mio villaggio. J.C.: Quando hai lasciato la Libia? 168
Omar: Nel dicembre 2012, non mi ricordo il giorno, quando siamo arrivati a Lampedusa ci hanno detto che era il 3 Gennaio. J.C.: La ragazza è con te? Omar: No…le hanno sparato in Libia mentre fuggivamo a dei soldati…Io ce l’ho fatta a fuggire con altra gente lei no… Dopo di lei non ho mai più avuto una donna. J.C.: Non ti sei mai sposato o rinnamorato? Omar: No no mai! Già prima di lei non avevo avuto nessuno perché mi hanno sempre detto che non dovevo avere donne! Con lei mi sono innamorato ma loro avevano ragione si vede … J.C.: Loro chi? Omar: Le voci di persone. J.C.: E chi sono queste persone?
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Omar: Non lo so solo lui (indicando in alto, presumibilmente Dio) lo sa, io non le vedo. J.C.: Nella sua cultura esistono i jinn vero? Omar: Si si. I jinn sono scritti nel Corano, esistono dai tempi di Solomone e la regina di Saba. Solomone li usava per i lavori, li usava in modo molto molto forte. Sono creature forti create da Dio che noi non vediamo. Loro sono molti forti e ci vedono anche se noi non li vediamo. J.C.: Ha mai visto persone impossessate dai jinn? Omar: Si, a 10 anni conoscevo un uomo con cui leggevo il Corano, un giorno ho chiesto di Bundu, si chiamava Bundu, e mi hanno detto “oh figlio mio Bundu è morto, ha fatto un campo di riso in un posto dove c’era la casa di un jinn, tagliando gli alberi uno è caduto sul figlio di un jinn. Quando i sapienti hanno chiesto il jinn ha detto loro “Lui ha fatto male a mio figlio, se mio figlio guarisce lui vive, se muore anche lui morirà” e così Bundu è morto. C’era anche una ragazza con cui andavo a scuola insieme che un giorno all’improvviso quando sono andato a casa sua mi hanno detto era morta perché aveva fatto arrabbiare dei jinn. Un’ altra volta sempre da ragazzo ero ad un matrimonio in un altro villaggio con un mio amico a piedi. Noi ci siamo addormentati e quando ci siamo svegliati tutti erano già andati via; per tornare a casa dovevamo passare per la foresta dei jinn da 170
soli, non c’era un’altra strada. Forse nemmeno chi la chiamava così sapeva se c’erano i jinn però loro c’erano veramente! Quando noi siamo passati loro stavano lavorando, come tu senti i lavori del ferramenta loro facevano uguale lavorano con i ferri. J.C.: Ma li avete visti proprio? Omar: No no, abbiamo sentito solo i rumori, e allora ho detto al mio amico di fare piano e abbiamo camminato piano piano, ma loro ci hanno sentiti lo stesso e si sono fermati. Quando siamo usciti dalla foresta abbiamo sentito i rumori riprendere. J.C.: E quali sono i rimedi per i jinn cattivi? Omar: Se il jinn non è troppo forte leggendo le sure del Corano la persona può guarire. Ci sono anche jinn che possono amare le persone e in quei casi non gli fanno del male. Possono fare male se ti chiedono cose che non sono in tuo possesso, allora ti possono fare male... I jinn sanno il Corano più di qualsiasi altra persona, per contrastare la sua azione è molto difficile perché devi sapere il Corano molto molto bene. Loro sono tanti e dappertutto. J.C.: Sulla storia che mi hai raccontato, parli di un figlio del jinn, quindi loro possono avere famiglia? 171
Omar: Eh! Certamente! Loro sono come gli esseri umani, hanno figli, marito, mogli, possono essere maschi o femmine! J.C.: Influenzano fortemente la vita di un individuo quindi? Omar: Si si certamente! J.C.: Possono essere mandati da una persona per fare del male ad un’altra? Omar: Si, si tramite il Corano le persone possono usare questi jinn. J.C.: Ti è mai successo di avere un contatto diretto con un jinn? Omar: Uh no e non vorrei nemmeno averlo! Io non so se quelli sono jinn o non jinn. Qualche volta quando vado in un posto loro mi avvicinano e mi sento dire “la pace sia con te”. Anche quando sono andato alla Mecca loro mi hanno avvicinato e mi hanno detto “Salam aleikum” che vuol dire “la pace sia con te”. Un’altra volta camminavo per tornare a casa a Perugia e mi faceva male il ginocchio, non ho visto macchina né venire da 172
dietro né da davanti, ho sentito solo venire da sinistra e fermarsi. Ho aperto la porta e non c’era luce dentro la macchina così non puoi vedere, ho visto solo gli occhi. Sono salito e abbiamo cominciato a chiacchierare, ma dopo mi è venuto in mente una donna che da un passaggio ad un uomo all’una di notte non è normale! E gliel’ho detto ma lei mi ha detto “No, noi ci conosciamo già” così mi ha detto. Per quello tu non sai se è jinn o no, però loro ci sono. Anche nel viaggio, se sono qui è perché voci mi dicevano che ce l’avrei fatta e mi sussurravano le sure del Corano, io pregavo con loro per questo sono qui! J.C.: Finché sono buoni però va bene l’importante è quello no? Omar: Si si è quello! J.C.: Per quanto riguarda gli stregoni invece? Omar: Esistono in tutto il mondo da sempre! Qui li hanno bruciati se guardi la storia indietro li bruciavano. Da noi quando c’era la legge inglese non lo potevano dire che erano stregoni, gli inglesi non lo permettevano. J.C.: Si nascondevano durante il colonialismo quindi?
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Omar: Nascondevano no, perché nessuno può sapere se sei uno stregone se non lo dici; non si mostravano e basta… però loro sono cattivi fanno molto male, molto male! Se vedono che tu sei bene, loro ti mettono qualcosa per rovinare questa persona, se vedono che i tuoi figli crescono bene è finito! J.C.: Diciamo che agiscono per invidia o se litigano con qualcuno? Omar: No no, quella è invidia e basta! Invidia e basta. Qualche volta tu non vuoi male a nessuno, io mi ricordo quando da piccoli mia sorella aveva mandato mio fratello minore a comprare qualcosa, lui non è andato allora io sono andato lì (nella capitale). Io non mi ricordo, ma dopo mi hanno detto che “qualcuno” mi ha dato un bastone qui (si indica la schiena), nessuno sapeva se morivo o no. Un saggio che ha visto ha detto “questo qui lo dovete portare indietro sennò muore”, quando sono tornato, non mi hanno riportato nel villaggio dove sono nato, ma sono tornato dove stava mia sorella. Mia sorella ha mandato un messaggio a mio babbo, oh era una cosa incredibile! Non potevo tornare a casa perché lo stregone probabilmente era del mio villaggio… J.C.: Alla fine però sei guarito? Omar: Si si per fortuna! J.C.: Per fermare l’azione degli stregoni cosa si deve fare?
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Omar: Puoi chiamare altri stregoni più potenti se ci sono, sennò non c’è niente da fare, quelli lì fanno male, a sentir parlare va bene ma è meglio non avere a che fare carissima! Quella mia sorella, suo marito è un brav’uomo, allora c’era il problema di questo “paramount chief”, lui voleva aiutarlo anche se era da un’altra parte; ci hanno detto che quando mio cognato è arrivato lì gli hanno teso una trappola e fatto qualcosa che dopo lì vomitava sangue. La cosa peggiore che uno può incontrare è la stregoneria, è molto male. (Paramount chief è un termine usato per indicare un capotribù, responsabile di un territorio.) J.C.: Anche per la stregoneria vi è una discendenza? Si trasmette da genitore a figlio? Omar: Quelli sono nati così, io non lo so da cosa dipende, uno ci nasce. Ma è meglio stargli lontano. J.C.: Conosci la medicina tradizionale del tuo Paese? Omar: Si si certo. J.C.: Sai anche adoperarla? Omar: Si, si fanno bollire le foglie di alcune piante specifiche 175
e le radici. Poi si bevono mescolando con altri ingredienti, ad esempio il miele per togliere il sapore amaro che hanno. J.C.: Ci sono dei guaritori specifici che fanno questo di mestiere? Omar: Si si, però se non puoi andare da loro te lo fai spiegare e puoi farlo da solo seguendo le loro istruzioni. J.C.: È diffusa anche al giorno d’oggi la medicina tradizionale nel tuo Paese o si usa più quella occidentale? Omar: Beh vedi da quando le persone hanno lasciato le medicini tradizionali per quelle moderne le malattie sono aumentate…i guaritori oggi sono pochi perché il loro mestiere era lasciato poi ai figli, ai nipoti, ma come alcuni si sono aggrappati alle medicine occidentali, la cura dei guaritori è venuta meno perché non c’erano più persone che la chiedevano; anche nel mio villaggio è successo così. J.C.: Tu quali ritieni sia la più efficace? Omar: Quella tradizionale certamente! Qui curi una cosa e te ne viene un’altra (ridendo). Per esempio ci sono delle foglie che funzionano molto bene per il mal di testa che vanno macinate e poi le metti sulla testa e ti passa bum! La medicina tradizionale non ha controindicazioni, mentre le medicine 176
moderne come quelle che ho preso io mi hanno dato problemi al fegato che non avevo. J.C.: Tu sei stato ricoverato qui in Italia vero? Quanto tempo sei stato in ospedale? Omar: Tre settimane circa. J.C.: Per quale patologia? Omar: Emorroidi e colite ulcerosa. J.C.: È stata efficace la terapia che ti hanno fatto? Omar: Vedi è una cosa molto strana, perché io ero lì, loro fanno il loro meglio, hanno fatto molto il loro meglio! Però questa malattia che io ce l’ho, non è una malattia semplice da spiegare, perché anche le medicine che mi hanno dato (una costava 1700 euro!) io ce l’ho, l’ho portate anche a casa però non sono guarito del tutto. In ospedale un giorno uno è venuto mentre ero solo in camera e mi ha detto: “tu hai fatto l’ecografia?” Io gli ho detto di sì e lui mi ha chiesto se poteva visitarmi, io ho detto va bene e lui mi ha visitato. Dopo la malattia è migliorata un po’, si sono abbassati i livelli, e da quel giorno io non l’ho più visto. (L’intervistato lascia intendere che la persona in questione 177
non fosse un vero infermiere ma probabilmente un jinn suo amico). Per esempio se io devo andare al bagno, se tu vai lì vedi dappertutto sangue. (Da quando è stato ricoverato a seguito della sua patologia, Omar vede del sangue ogni volta che entra in una bagno). Non è una malattia semplice, perché se tu pensi che stai bene, entri nel bagno e vedi sangue, capisci che ancora è un problema. Anche se tu vai lì vedi tutto sangue ma io ancora non ci sono andato in bagno. J.C.: Come è stato il rapporto con il personale sanitario mentre eri ricoverato? Omar: Bene, loro hanno fatto tutto, ci hanno provato ma è una malattia strana lo ha detto anche la dottoressa. J.C.: Ritieni che la causa della tua malattia possa essere medica o sia per colpa di qualche jinn o stregone? Omar: Non lo so, penso sia perché vedi a me piaceva mangiare, come si chiama? I cioccolatini! Li mangiavo sempre, lì mettevo anche nel frigo per non sciogliersi. Però vedi è una malattia molto strana, perché nessuno sa, ma io un giorno ero seduto e mi mettono davanti a me uno dei cioccolati che io avevo in casa dentro il frigo! Ho visto questo cioccolato e mi sono chiesto chi l’aveva por178
tato perché non c’era nessuno! Lì ho saputo la causa della malattia, “qualcuno” ha voluto farmela sapere. Non so però se qualcuno ha messo qualcosa nei cioccolatini, questo non lo posso sapere! J.C.: Adesso la terapia non la continui più? Omar: No, ho lasciato quella e sto provando con le medicini tradizionali. Comunque male che vada non andrò più all’ospedale perché hanno fatto tutto quello che potevano. Anche la dottoressa che mi seguiva infatti ha detto “Ma questa malattia è strana! Tutte queste medicine che noi ti abbiamo dato, tu non dovevi più perdere sangue.” J.C.: Che tipo di medicine sono? Omar: Sono medicine africane, che mi ha mandato mio fratello per posta dalla Guinea. Sono radici di una pianta che devo bollire, le ho iniziate da poco ma le altre (le pasticche) non le prendo più. J.C.: Ti hanno mai suggerito di farti visitare da qualche specialista per le voci che senti? Omar: Si mi volevano portare da uno di quelli... J.C.: Uno psicologo? 179
Omar: Si ma io non sono mai andato! Sono andato da un prete molto bravo che conoscevo. J.C.: Un prete cattolico? Omar: Si si, che ho conosciuto qui in Italia, e lui mi ha detto di continuare a pregare. J.C.: Ritieni che gli psicologi non siano in grado di aiutarti? Omar: No, loro possono aiutare le malattie loro (ridendo). Io non ho problemi mi basta il Corano.
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INTERVISTA INFERMIERE PRONTO SOCCORSO Questa intervista è stata effettuata ad un infermiere del reparto Pronto soccorso dell’ospedale di Città di Castello, ospedale dove molti dei ragazzi da me intervistati sono stati ricoverati. Il pronto soccorso è un’unità operativa dell’ospedale dedicata ai casi di emergenza e con spazi dedicati alla breve osservazione antecedente eventuali ricoveri. Il pronto soccorso è il luogo di front office diretto dell’ospedale, luogo che vede passare ogni giorno flussi di persone e problematiche diverse tra loro, e che come servizio pubblico ha visto incrementare il numero di pazienti stranieri negli ultimi anni. Di seguito l’intervista: J.C.: Vi sono stati dei cambiamenti nella mole di lavoro al servizio di Pronto soccorso a seguito dell’emergenza profughi? D. R.: Si decisamente! J.C.: Del tipo? D.R.: Sono molti di più gli stranieri che vediamo ogni giorno 181
rispetto a prima! Poi visto loro vengono sempre accompagnati e mentre prima quelli che gestivano questi centri per i profughi non li conoscevo, adesso invece li conosco tutti! Son sempre al pronto soccorso anche loro insieme ai malati! J.C.: Mi può fare una stima di quanti richiedenti asilo vede in una settimana o in un mese? D.R.: Ti posso dire di quando sono in servizio io, minimo minimo tre alla settimana ne vedo, e non è poco! Son tanti, anche perché comunque c’è da dire che sono persone che quando arrivano in Italia la loro salute l’hanno lasciata indietro, nel deserto o nel mare che sia! Quindi hanno bisogno di rimettersi in sesto! J.C.: Mi può dire l’età media e la componente di genere prevalente? D.R.: Sono molti giovani, se sono più maschi che femmine l’ho notato poco, forse sono un po’ più maschi ma di poco! Molti mentono sull’età cercando di diminuire gli anni, a volte si fingono anche minori così da essere seguiti in maniera diversa dalle associazioni! Noi quando è palese che mentono, eseguiamo loro la densitometria del polso, dal quale approssimativamente, si può capire l’età di una persona. J.C.: Vi è una procedura standard che seguite quando arrivano? 182
D.R: In ospedale se non hai l’assistenza sanitaria devi pagare! Come prima cosa quando arrivano devono mostrare il documento, se arrivano accompagnati o meno devono avere dei documenti sennò non gli facciamo niente, a meno che non sia un’urgenza grave! J.C.: Quindi senza documenti non potete fare nulla? D.R.: No. Quando abbiamo i documenti tra cui il passaporto ed il codice fiscale provvisorio che viene rilasciato ai richiedenti asilo, il problema non si pone più; facciamo la fotocopia dei documenti dopo di che procediamo. Una volta è capitata una ragazza profuga, accompagnata da una ragazza dell’associazione che li gestisce ma che a quanto pare, non sapeva nemmeno lei bene come funzionassero le cose! Questa pretendeva che venisse visitata senza avere il codice fiscale e non volendo pagare pur non avendolo. Io non potendo lei pagare e non essendo un’urgenza non l’ho visitata, al che si è aperta una discussione fino al punto di doverla mandare in Direzione Sanitaria perché non voleva andarsene! In Direzione le hanno detto ovviamente che la visita non sarebbe stata effettuata! Se non hai l’assistenza sanitaria devi pagare è giusto così.
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J.C.: Avete un’equipe multiculturale o degli interpreti che vi aiutano nel dialogare con loro? D.R.: No, di solito si portano dietro qualcuno quelli dell’associazione, vengono accompagnati dai loro mediatori. Poi dipende, ad esempio per quelli che parlano inglese ci sono meno problemi, a volte neanche serve il mediatore e l’intervista sui problemi di salute, la posso condurre anch’io da solo o qualche mio collega che lo parla. J.C.: Che intervista gli viene fatta? D.R.: Una semplice intervista che facciamo a tutti anche agli italiani, quando arrivano al Pronto soccorso, è un questionario verbale, per capire che problematica hanno. Quando invece parlano un inglese dialettale loro o una lingua che non capisco interviene il mediatore. Devo dire che come reparto siamo bravi eh (ridendo) abbiamo anche un infermiere che sa parlare l’arabo! J.C.: Ah sì? E come mai? D.R.: Perché gli interessava come lingua, gli piace l’idea di comunicare con altri, di poter interagire con persone diverse e quindi si è messo giù e l’ha studiato.
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J.C.: Vi è una casistica delle patologie più frequenti tra i richiedenti asilo? D.R.: Si, allora maggiormente hanno problemi ai denti, le donne hanno molti problemi all’apparato genitale… J.C.: Legati anche all’infibulazione? D.R.: Si per la maggior parte si! Hanno molte di loro anche infezioni e problemi genitali…Poi vi sono stati casi di tubercolosi, abbiamo tenuto in isolamento per 15 giorni due ragazzi di recente, sono usciti che non avevano più niente però! Ci sono poi molte ragazze che vengono dichiarandosi incinte, poi facendo loro la visita si scopre che non è così! Probabilmente vengono con il solo scopo di farsi visitare! Abbiamo avuto poi nel mese di Dicembre anche un caso di scabbia, ma non è difficile da togliere! J.C.: Per guarire dalla tubercolosi invece qual è la cura? D.R.: Devi capire che non essendo mai stati vaccinati, loro hanno le difese molte più basse rispetto alle nostre! La cura però è semplice, dura circa un mese nel quale devono prendere un antibiotico mirato la Nicizina. Prima però dobbiamo escludere che siano ancora in fase infettiva, quindi li teniamo in isolamento per il tempo necessario, se sono in fase infettiva 185
vengono isolati per almeno 15 giorni, se invece non lo sono devono sottostare alla cura antibiotica e vengono mandati a casa, dipende soprattutto dallo stato in cui sono i polmoni. J.C.: Com’è nei vostri riguardi il loro atteggiamento? È più passivo o collaborativo ad esempio? D.R.: C’è una grande differenza tra i profughi e il resto degli immigrati! Qui da noi ad esempio ci sono molti magrebini e li vedi che quando vengono al Pronto soccorso e devono aspettare tanto tempo perché hanno un codice bianco o verde, si spazientiscono e iniziano a fare casino, soprattutto sono i figli di seconda generazione, quelli che sono nati o cresciuti qui e che sono più fastidiosi di tutti gli altri! Hanno una cultura dei diritti molti forti, pretendono e basta! I profughi invece o perché non sono in grado di esprimersi o perché non sono pratici e non sanno i diritti che gli spettano, non hanno diciamo le pretese che hanno gli altri, si tengono sotto un profilo più basso! J.C.: Quindi diciamo che tendono a seguire le indicazioni che gli date? D.R.: Loro (i profughi) hanno bisogno quindi per la maggior parte ascoltano e seguono le nostre indicazioni; però ad esempio abbiamo avuto anche un caso di un ragazzo che veniva dalla Nigeria, con una grave infezione urinaria ed anche un ernia, che si è rifiutato di farsi curare perché la dottoressa 186
era donna! Quando ho cercato di spiegargli che doveva farsi visitare lo stesso anche perché in servizio quel giorno c’erano solo donne, e data l’urgenza della sua situazione, rischiava di compromettere gravemente la sua salute, la sua risposta è stata: “Sarà come vuole Allah!” e se ne è andato. Succede poi che questo loro atteggiamento delle volte indispone i miei colleghi, e devo essere sincero a volte anche me! Perché si rivolgono a noi come se avessero sempre e solo ragione loro! Questo nigeriano poi so sicuro era di Boko Haram! Son sicuro guarda, con quelli dell’Isis non ci puoi parlare! J.C.: Ritiene che comprendano a pieno l’importanza delle cure ecc? D.R.: Alcuni si alcuni no per questo c’è bisogno del mediatore, può darsi anche che quelli che sembrano capire in realtà dicono di sì e non hanno capito eh! J.C.: Fate come servizio pubblico dei corsi di antropologia medica o comunque dei corsi che comprendano una visione del corpo diversa da quella della biomedicina? D.R.: No purtroppo! Mi piacerebbe farli anche perché ne abbiamo sempre più bisogno come servizio pubblico e anche 187
perché noi come Pronto Soccorso siamo proprio al fronte! J.C.: Pensando al futuro ovvero a quando i richiedenti asilo ottenuto il permesso di soggiorno non vengono più seguiti e accompagnati dalle associazioni, ritiene che possa essere un problema per i servizi? D.R.: Io sinceramente da quanto ho visto finora, non credo possano sorgere dei problemi, perché quasi tutti appena ricevono lo status di rifugiato vanno via! Non so se vanno proprio via dall’Italia ma sicuramente vanno via da Castello per cui non li vediamo più. J.C.: Grazie ed arrivederci.
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INTERVISTA OPERATORE SOCIALE Ho voluto intervistare uno degli operatori con cui ho collaborato in questi mesi, per poter analizzare meglio tutte le questioni e le criticità tra i richiedenti asilo e le varie istituzioni italiane, in quanto l’operatore sociale, è colui che ha il compito di mediare tra i due mondi affinché si riescano a raggiungere accordi che soddisfino entrambe le parti. L’operatore in questione si chiama Gioia, ha 29 anni, vive a Perugia ed è laureata in Scienze politiche e relazioni internazionali. Di seguito l’intervista effettuata: J.C.: Da quanto lavori nell’associazione e qual è il tuo ruolo? Gioia: Sono entrata a far parte dell’associazione Cidis Onlus nel 2015; sono un’operatrice dell’accoglienza per richiendenti asilo e titolari di protezione internazionale e mi occupo in prevalenza del settore sanitario. J.C.: Cioè? Gioia: Mi occupo dell’ottenimento dei documenti necessari per l’accesso al servizio sanitario, accompagno i beneficiari del progetto Cas alle visite sanitarie, svolgendo per loro prin189
cipalmente attività di traduzione e mediazione tra il personale sanitario italiani e le persone che accompagno. J.C.: Qual è il compito di un operatore all’interno dell’associazione? Gioia: Ci occupiamo in primis di far conoscere all’ospite il nuovo contesto in cui vive, il territorio e la cultura in cui si trova, anche perché molti di loro prima di arrivare non avevano idea di come fosse l’Italia e nemmeno gli italiani. C’è da dire che molti di loro non avevano in mente proprio l’Italia come meta da raggiungere, il loro obiettivo era raggiungere altri Paesi europei, come la Francia, dove hanno parenti o conoscono almeno parzialmente la lingua.
J.C.: Dato che molti di loro hanno difficoltà anche nel parlare e comprendere lingue che vengono parlate nel loro Paese di provenienza come l’inglese o il francese, come riuscite a comunicare con loro? Gioia: Con molti di loro non solo non riusciamo a capirci in italiano, ma neanche in inglese o in francese! Quando si tratta di questioni importanti allora chiediamo aiuto al mediatore per accertarci che abbiano compreso per bene tutto quello che gli dobbiamo dire; per le cose più futili ci arrangiamo come possiamo, anche a gesti quando serve!
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J.C.: Quali sono le patologie mediche maggiormente presenti? Gioia: Scabbia, anemia, spesso purtroppo avvengono anche epidemie di pidocchi, poi gastriti determinate da un’alimentazione e dallo stress psicofisico che hanno subito. Molti di loro soffrono anche di insonnia J.C.: Cosa ne pensa personalmente del sistema di accoglienza che viene rivolto ai richiedenti asilo? Gioia: Per quanto riguarda l’associazione per la quale lavoro credo faccia davvero il possibile per garantire ai beneficiari del progetto una buona permanenza del territorio e una prima integrazione. Mi rendo conto che gestire il fenomeno dell’immigrazione in questo momento non è per nulla semplice. Ciò che trovo particolarmente da rivedere è la parte burocratica che è davvero eccessiva e difficile da spiegare ai richiedenti. Le leggi cambiamo molto frequentemente e bisogna essere sempre aggiornati. J.C.: Mi può dire l’età media e la componente di genere prevalente? Gioia: L’età è sempre un fattore ambiguo perché spesso e volentieri non sappiamo mai la verità, comunque nella struttura all’interno del comune di Umbertide, nella quale lavoro io, l’età media è intorno ai 20- 25 anni. Per lo più abbiamo uo191
mini, le donne sono solo due e sono sposate. J.C.: Avete dei minori non accompagnati nel vostro gruppo? Gioia: No da noi no, c’è una struttura a Narni per i minori non accompagnati, ma non rientra nel comune di Perugia, quindi non è di nostra competenza. J.C.: Ha notato delle differenze comportamentali legate alla religione dei suoi assistiti? Gioia: No, personalmente non mi è mai capitato. Non ci sono grandi differenze tra come i musulmani ed i cristiani si comportano nei nostri confronti, non ci è mai capitato che qualcuno rifiutasse di fare qualcosa in nome di determinati precetti religiosi. L’unica cosa che magari è legata all’appartenenza religiosa è la richiesta di un piccolo contributo economico in occasione di ricorrenze, quali ad esempio la fine del ramadan per poter organizzare dei momenti di festa ai quali ci invitano sempre. J.C.: Ritiene che comprendano a pieno l’importanza delle cure ecc? Gioia: No non la comprendono quasi mai, anche perché da dove vengono spesso utilizzano metodi diversi dai nostri. 192
Specialmente quando i trattamenti sono lunghi e i benefici non sono immediati, è difficile fargli comprendere l’importanza di proseguire le indicazioni mediche. J.C.: Com’è il loro atteggiamento nei confronti del personale sanitario italiano? È più passivo o collaborativo ad esempio? Gioia: Collaborativo, anche se spesso succede che hanno difficoltà a comprendersi, ma c’è molto rispetto verso l’autorità sanitaria. Capita che qualche richiedente abbia talmente tanto rispetto da intimidirsi e non riuscire a colloquiare o persino a guardarlo negli occhi.
J.C.: Riguardo ai sentimenti invece? Si confidano con voi su ciò che provano riguardo la loro malattia? Gioia: È difficile che si confidino, non lo fanno neanche con i familiari che hanno lontano. Noi ci accorgiamo quando sono più taciturni, partecipano meno alle attività di gruppo cerchiamo allora parlare e confrontarci su come stanno e cosa li affligge. Principalmente le emozioni che provano sono: rabbia nei confronti della malattia e dei medici che gliel’hanno annunciata, anche se in realtà non è come loro! Poi vi è la tristezza e la paura ovviamente
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J.C.: C’è qualche caso che l’ha colpita particolarmente? Gioia: Assolutamente si: una donna proveniente dalla Costa d’Avorio che afferma di avere 31 anni ma che secondo me e i medici ne ha almeno 40, poco dopo il suo arrivo presso la nostra associazione ha manifestato un grande dolore addominale. L’ho accompagnata al pronto soccorso ostetrico dove la diagnosi è stata di fibromatosi multipla. Tale patologia che lei non sapeva di avere le ha provocato un aborto al quinto mese di gravidanza quando stava in Libia. La scelta che la signora ha dovuto fare è stata tra continuare a soffrire per la presenza di questi fibromi o operarsi e rischiare di perdere l’utero e quindi la possibilità di avere figli. Per me è stato davvero molto brutto comunicare a lei e a suo marito questa cosa in quanto mi avevano già espresso il desiderio di avere un bambino il prima possibile. Pochi giorni fa la signora ha subito un intervento per asportare i 5 fibromi più grandi e per fortuna tutto è andato bene e tra un anno potrà provare ad avere una gravidanza. J.C.: Pensando al futuro pensa che i richiedenti asilo riusciranno a gestire le relazioni con le istituzioni sanitarie da soli? Gioia: Molti di loro già sono in grado di farlo anche perché durante le lezioni d’italiano si svolgono spesso esercitazioni per affrontare la realtà una volta che usciranno dal progetto. Ci sono dei ragazzi che hanno scelto di non partecipare alle lezioni e per loro sarà sicuramente più difficile. 194
J.C.: In cosa consistono queste esercitazioni? Gioia: L’insegnante di italiano, costruisce per loro dei piccolo dialoghi che loro poi devono recitare, e le situazioni dei dialoghi possono essere o un colloquio di lavoro, o una simulazione di discussione con il proprio datore di lavoro. Sono esempi di interazioni che potrebbero avere in futuro. J.C.: Quali sono le aspettative dei ragazzi? Gioia: Tutti vogliono trovare un lavoro e riuscire a pagarsi l’affitto di una casa. Vorrei sottolineare che c’è chi si impegna attraverso corsi di formazione e di lingua per ottenere delle competenze spendibili e chi pensa che basta dire “voglio lavorare” per trovare un impiego. Molti di loro stando in Italia da un po’ dicono che vogliono rimanere a vivere qui, ma c’è anche chi ha parenti o amici in altri Paese europei e preferisce raggiungerli. J.C.: Non c’è nessuno che vuole andarsene perché non si è trovato bene? Gioia: Si, abbiamo adesso un ragazzo che vuole andare via perché il suo impatto con l’Italia non è stato come si era immaginato, ma non credo riuscirà ad andarsene, anche perché comunque ci vogliono soldi ed almeno un appoggio per poter vivere dignitosamente in un altro Stato. 195
Molti lamentano il fatto che in Italia non c’è niente, non c’è un lavoro o un futuro per loro ed anche questo è un fattore che li spinge ad andarsene. J.C.: Le paure che le raccontano? Gioia: La paura più frequente è quella di non ottenere nessuna forma di protezione in seguito all’audizione in Commissione. Le altre paure riguardano il timore di non trovare lavoro, e per coloro che stanno male ovviamente di non riuscire a guarire. J.C.: Com’è il rapporto che si instaura tra operatore e mediatore? Gioia: Ho un rapporto molto bello con i mediatori, faccio loro molto domande quando non so come rapportarmi con i richiedenti. Sono davvero indispensabili nel mio lavoro soprattutto nei momenti di tensione. J.C.: Stando molto a contatto con i medici invece com’è il rapporto con loro? Gioia: Stando spesso a contatto con i medici mi capita spesso di comunicare con loro anche con mezzi informali quali messaggi con il cellulare, oramai mi conoscono e mi chiamano per nome! (ridendo). 196
J.C.: Sono mai successi episodi negativi? Gioia: Un episodio spiacevole che ho vissuto con i richiedenti asilo si è svolto all’interno di una sala d’attesa di un pronto soccorso dove c’era una signora sulla sessantina che affermava apertamente che non voleva stare in quella stanza perché i profughi era portatori di malattie e che il sistema immunitario italiano era messo a dura prova dai costanti arrivi di immigrati. Sinceramente avrei voluto controbattere ma in quel momento ero talmente sconvolta dalla situazione che non ho saputo reagire. J.C.: E con il personale sanitario invece? Gioia: Un altro episodio negativo è avvenuto lo scorso ottobre con un medico di base del Comune di Umbertide alla quale avevamo assegnato una coppia di marito e moglie proveniente dalla Nigeria, visto che lei era l’unico medico che parlasse inglese. Quando la giovane coppia ha riferito alla dottoressa il desiderio di avere un figlio quest’ultima si è arrabbiata dicendo loro che non dovevano visto che dipendevano da me per ogni cosa, che non era giusto fare un figlio e farlo vivere dentro una struttura d’accoglienza, che erano solo degli egoisti. Due mesi dopo la coppia ha scoperto di aspettare un bambino; li ho accompagnati dal medico per richiedere le analisi di routine e per dargli modo di fare eventuali domande. 197
La richiedente si è lamentata con il suo medico delle nausee che da settimane le impedivano veramente di mangiare qualsiasi cosa e la dottoressa le ha risposto che se già si lamentava per le nausee era meglio abortire. Inoltre a me ha detto stizzita che la ragazza nigeriana aveva un odore insopportabile e che avrebbe dovuto pensare di farsi una doccia invece che disperarsi per la nausea. Pochi giorni dopo la ragazza è stata ricoverata perché a causa della nausea si era fortemente disidratata e durante i giorni del ricovero insieme al marito, mi ha chiesto di cambiare medico in quanto aveva percepito che la dottoressa avesse qualcosa contro di loro. J.C.: Cosa pensa si potrebbe fare per migliorare la relazione tra medici e pazienti stranieri? Gioia: Secondo me potrebbe essere molto utile una formazione mirata dei medici in ambito interculturale. Anche i richiedenti protezione dovrebbero conoscere meglio il sistema sanitario italiano, quando è il caso di ricorrere al medico oppure no, e quando e quali farmaci prendere in base alle necessità. Nella struttura dove lavoro stiamo appunto organizzando insieme al personale sanitario e ai mediatori culturali una serie di brevi incontri per spiegare agli utenti stranieri queste cose sperando possa migliorare qualcosa. J.C.: Grazie per il suo tempo.
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INTERVISTA MEDICO AFRICANO Per completare la mia ricerca, ho deciso di intervistare un medico di nazionalità sierraleonese, laureato in medicina e chirurgia qui in Italia negli anni 90’, il quale lavora all’interno della cooperativa sociale Perusia sin dalla nascita dell’associazione. Egli, per i migranti africani gestiti dalla sua associazione, rappresenta un ponte tra il mondo da essi conosciuto e l’Italia, una figura con la quale essi si possono confidare maggiormente e che possono prendere come esempio di modello di integrazione e fonte di ispirazione. La finalità dell’intervista è stata comprendere come egli riesca a conciliare i sentimenti di vicinanza verso gli stranieri con i quali lavora, con i suoi doveri di medico operante in Italia, e come sia riuscito negli anni a coniugare le conoscenze da lui apprese nel corso della sua vita in Africa con le conoscenze acquisite nei suoi corsi di studi in Italia. Di seguito l’intervista: J.C.: Mi può raccontare la sua storia? Quando è arrivato in Italia ed il percorso di studi che svolto? A.C.: Ho lasciato il mio Paese il 28 Marzo 1974, sono andato in Algeria e da lì ho preso un aereo diretto a Roma. Sono venuto a Perugia sotto invito di un mio amico sierraleonese che studiava all’Università per stranieri qui a Perugia; sono venuto per motivi di studio, infatti mi sono iscritto 199
anch’io all’Università per stranieri. Mentre studiavo andavo a lavorare in Svizzera per pagarmi gli studi e l’alloggio, qui in Italia il lavoro era poco, per cui molti ragazzi, quando non c’erano le lezioni o gli esami partivano per lavorare fuori. Io poi non volevo rimanere in Italia, il mio piano era di finire gli studi e raggiungere dei miei amici che stavano in Inghilterra, l’Italia era solo un Paese di passaggio. Eravamo tanti sierraleonesi a Perugia negli anni 70’, ma poi sono andati tutti in Inghilterra. J.C.: E come mai poi è rimasto a Perugia? A.C.: Perché finita l’Università per stranieri ho voluto prendere il diploma anche qui in Italia, e quindi mi sono iscritto alla scuola superiore di Piscille. Lì ho conosciuto il preside di allora, una persona molto buona, che venuto a conoscenza della mia situazione economica precaria, ha istituito con l’aiuto del Comune, per me ed un mio compagno sierraleonese, che frequentava anche lui Piscille, una borsa di studio per stranieri per aiutarci nel comprare i libri, i quaderni, ma anche per aiutarci proprio economicamente. J.C.: E dopo le superiori a Piscille ha deciso di intraprendere il percorso universitario? A.C.: Si, sono tornato a casa mia per salutare i miei parenti, 200
ed il mio babbo adottivo mi ha suggerito di prendere medicina per poi tornare nel mio Paese e fare il medico lì. Ho chiesto una borsa di studio all’ambasciata italiana, ma non me l’hanno voluto dare dicendo che essendo la Sierra Leone un Paese in via di sviluppo, sarei dovuto rimanere ed aiutare la sua crescita invece di tornare in Europa! Io però sono tornato e un po’ con l’aiuto del mio vecchio preside che oramai mi aveva preso come un figlio, un po’ lavorando sempre in Svizzera, sono riuscito a pagarmi gli studi. In Svizzera avevo trovato anche una ragazza! Solo che ci siamo lasciati perché la mia intenzione era di tornare in Africa finiti gli studi, mentre lei non voleva trasferirsi laggiù. J.C.: Quando si è laureato? A.C.: Mi sono laureato nel 1993. Purtroppo nel 1992 è iniziata la guerra civile in Sierra Leone per questo non sono potuto tornare nel mio Paese, anche perché nel frattempo mi ero sposato, con una ragazza del mio Paese e avevamo costruito la nostra famiglia qui. All’inizio ho lavorato solo nella Croce Rossa, perché non avendo la cittadinanza non potevo lavorare nei luoghi pubblici! Nel 1997 ho trovato lavoro all’interno della Cooperativa Perusia e successivamente ho preso la cittadinanza. J.C.: Da quando è arrivato in Italia ad oggi, il numero di stranieri è aumentato soprattutto in seguito all’emergenza profughi. Come vive il trovarsi ad 201
operare con un numero di stranieri provenienti dal suo stesso continente o addirittura dal suo stesso Paese? C’è un coinvolgimento maggiore o riesce a mantenere una distanza professionale? A.C.: Umanamente si vi è un grande coinvolgimento, cerco di aiutarli il più possibile, ed il rapporto che si instaura tra di noi è molto più informale rispetto ai miei colleghi italiani; però allo stesso tempo faccio quello che devo! Se ad esempio le loro condizioni sono quelle, io dico e scrivo la verità. Li aiuto per lo più se mi raccontano le loro storie e ci sono delle contraddizioni o cose non chiare, li aiuto anche fuori dal mio lavoro nel costruire delle storie che possano essere accettare dalla Commissione o che comunque non sembrino inventate! J.C.: I richiedenti asilo con cui lavora la prendono ad esempio come modello di integrazione ben riuscita? Si confidano maggiormente con lei? A.C.: Si si certo! Non solo quelli del mio Paese ma in generale tutti gli africani tendono a dirmi cose che ad altre persone magari non direbbero e richiedono il mio aiuto un po’ per tutto! Ad esempio adesso sto aiutando un ragazzo nigeriano che nel raccontarmi la sua storia mi ha detto che non può tornare nel suo Paese altrimenti lo zio lo uccide perché vuole prendere la sua eredità, quando però gli ho chiesto successivamente che rapporto ha con lo zio mi ha detto buono! 202
Sono queste contraddizioni di cui loro nemmeno si accorgono che però li fregano. Poi tra di loro ovviamente c’è il passaparola, se aiuti uno questo lo dice ad un altro e alla fine devi aiutare tutti (ridendo). Uno di loro, un ganese, una volta, dopo che grazie al mio aiuto aveva ottenuto la protezione internazionale, mi ha chiesto quando mi doveva dare di soldi per il aiuto, quando gli ho detto niente si è messo a piangere! J.C.: Pensa sia giusto aiutare anche chi magari non ha diritto? A.C.: Da una parte si, nel senso che tutti hanno dovuto lasciare il loro Paese; loro vengono e chiedono l’asilo politico anche se non ne hanno bisogno! Alcuni non sanno nemmeno cosa vuol dire veramente l’asilo polito, ad esempio il nigeriano di cui ti ho parlato prima non può tornare a casa sua altrimenti lo zio lo ucciderebbe! Quello non è asilo polito ma al massimo una richiesta di protezione internazionale, e io li aiuto nel mio piccolo, nel formulare meglio la loro richiesta. Io li aiuto perché sono comunque stranieri come me e li capisco! Non possono tornare nel loro Paese senza aver ottenuto qualcosa, senza avere avuto una rivincita diciamo! Io adesso potrei tornare a casa mia perché ho studiato, ho messo dei soldi da parte e tutto, mentre per loro sarebbe una sconfitta troppo grande tornare dalle loro famiglie senza niente, anzi anche più poveri di prima, sarebbe una grande vergogna per lui stesso e per tutta la sua famiglia se lui tornasse senza aver ottenuto niente in Europa. 203
Secondo me occorre dare la possibilità a queste persone di riuscire a fare qualcosa qui, per poi tornare dalle proprie famiglie senza essere un peso. J.C.: Ma pensa che sia possibile per tutti i profughi arrivati, riuscire a trovare magari un lavoro che gli permetta poi di ritornare a casa vittoriosi? A.C.: Per alcuni sì! Molti di loro sono riusciti ad integrarsi e a lavorare! Ogni persona è importante allo stesso modo, non si può sapere prima chi ce la farà e chi no, per questo è giusto dare una possibilità a tutti. Poi molti di loro sono bravi, si adattano a fare qualsiasi lavoro, anche se ora in Italia c’è poco lavoro bisogna dargli una possibilità, poi tra di loro ci sono anche persone laureate, che hanno studiato e hanno grandi capacità.
J.C.: Data la poca disponibilità lavorativa ed il gran numero di profughi però viene difficile pensare che tutti ce la possono fare, no? A.C.: Si infatti molti di loro vanno a chiedere l’elemosina pur di avere qualche soldo in più rispetto al pocket money che viene dato ai richiedenti asilo. Anche noi tra i nostri ospiti abbiamo un signore afgano con la propria famiglia che chiede l’elemosina in giro perché non 204
riesce a trovare lavoro! Però anch’io quando sono arrivato non mi sarei mai immaginato che sarei riuscito a fare qui in Italia tutto quello che ho fatto, per questo per me è giusto dargli una possibilità, poi sarà Dio a decidere! J.C.: Per quanto riguarda i problemi sanitari? A.C.: Io con loro all’interno della cooperativa, mi occupo delle visite come fa un medico di famiglia. Valuto il loro stato di salute e le visite e i controlli che devono fare se hanno dei problemi; le visite sanitarie finché sono all’interno del progetto o come richiedenti asilo o come Sprar, non le pagano loro ma l’associazione. L’associazione fa un po’ tutto per loro, prenota le visite, chiama i mediatori o gli interpreti a seconda dei bisogni e gli operatori li accompagnano sempre a tutte le visite in ospedale. Io sono anche un mediatore linguistico-culturale e mi ritrovo con loro anche durante le visite di altri medici, spesso mi succede che i medici oltre a scambiarmi per un profugo, anche dopo che gli dico che sono l’interprete mi chiedono in continuazione se capisco l’italiano o quello che stanno dicendo! È brutto che devo sempre stare a spiegare chi sono e che anch’io sono un medico, a volte devo anche dire i nomi dei professori con cui ho studiato per far sì che ci credano! Una volta invece mi è successo che dovevo accompagnare due ragazzi sierraleonesi al due visite diverse nello stesso momento. Dato che uno di loro parlava abbastanza bene ita205
liano l’ho lasciato entrare da solo, dicendo di chiamarmi se c’erano dei problemi e nel frattempo ho accompagnato l’altro ospite. Dopo nemmeno cinque minuti il ragazzo mi chiama, vado da lui e mi dice che la dottoressa non lo capiva, ma la cosa assurda è che mi ritrovo poi a tradurre dall’italiano all’italiano! La dottoressa mi parlava italiano e io traducevo a lui in italiano e capiva, lui mi parlava in italiano e io traducevo in italiano alla dottoressa! Solo che io sapevo tradurre dall’italiano straniero all’italiano e viceversa (ridendo). J.C.: Come reagiscono i richiedenti asilo di fronte alle loro malattie? Quali sono le paure maggiori? A.C.: Loro hanno paura come chiunque quando scopre di essere malato, anche perché molti di loro lo scoprono solo una volta arrivati qui in Italia. Fortunatamente però sono ben seguiti dalle associazioni, anche più di quanto lo sarebbero a casa loro e loro lo sanno e lo apprezzano, qui hanno gli stessi diritti di un italiano dal punto di vista sanitario. Ho riscontrato negli anni una notevole differenza tra le donne africane anche musulmane e le donne arabe, mentre le prime non fanno differenza tra uomo e donna quando si tratta di essere visitate, le donne arabe vogliono solo dottoresse femmine. Anche con me spesso alcune ospiti dell’Afganistan, dell’Iran o di altri Paesi arabi, si sono rifiutare di farsi visitare da me, dicendo che volevano solo un medico donna.
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J.C.: E’ capitato che alcuni ospiti mentissero sul loro stato di salute o le chiedessero di mentire per loro? A.C.: No perché comunque in Commissione tu devi portare delle prove, quando vai a fare le visite si vede dalla radiografie o da altri esami specifici se la persona ha o meno quei problemi, per cui anche volendo non si può mentire sulla salute fino al punto di concedergli il permesso di soggiorno. A volte è successo invece che alcuni mentissero sul Paese di provenienza dicendo magari di essere sierraleonesi anche se non lo sono, e io pur sapendolo chiudo un occhio e faccio finta di niente. J.C.: C’è qualche storia che l’ha colpita particolarmente? A.C.: Si più di una! Ti affezioni alle persone anche perché ci ritrovi qualcosa di tuo, della tua storia personale. Ad esempio c’era un ragazzo sierraleonese che si chiama Abdullah come il mio fratello più piccolo allora io l’ho chiamavo fratellino! È riuscito ad ottenere il permesso di soggiorno e ha formato la sua famiglia con una sua compaesana come ho fatto io; ora lavora come muratore, nonostante ha da sempre un problema grave al ginocchio è per questo che ci siamo conosciuti. Sono tante poi le storie di queste persone che ti raccontano gli enormi sacrifici hanno dovuto fare per venire qui, e ovviamente da un punto di vista umano è forte come cosa da 207
affrontare tutti i giorni. Io cerco di aiutarli ascoltandoli, o aiutandoli con i documenti e quando posso nel mio piccolo anche economicamente. J.C.: Alcuni di loro ne risentono anche a livello psicologico dei traumi che hanno subito? A.C.: Per la maggior parte hanno problemi psicologici! Molti di loro hanno visto la morte in faccia pur di arrivare qui, hanno dovuto vedere e subire violenze grandissime! Anche quelli che riescono a superare meglio il trauma, comunque si vede che è una cosa grande quella che hanno passato e che si portano dietro, sono più irascibili e alcuni di loro anche più violenti di quando secondo loro erano prima. J.C.: Quali sono le patologie mediche principali tra i richiedenti asilo che incontra? A.C.: La tubercolosi, che qui è una malattia passata, ma che per loro senza vaccinazioni e che sono vissuti in condizioni igieniche non sane può capitare; poi la scabbia, specie per quelli che sono stati nei Cie dato l’alto grado di contagio. Vedi la scabbia è un parassita che si insidia sotto pelle tra il derma e l’epidermide, e vi deposita i suoi escrementi, sono loro che portano la persona a grattarsi; quando la persona si gratta la pelle secca cade e il parassita si diffonde. La cura sono pomate, creme o shampii specifici e soprattutto 208
occorre che la persona faccia prendere aria ai suoi vestiti e alle lenzuola che ha usato. Molti di loro hanno avuto anche la pediculosi, cioè i pidocchi, anche lì è facile il contagio, infatti come prima cosa diciamo loro di evitare di scambiarsi gli indumenti o di dormire su letti che non sono i loro. J.C.: Non ha paura di essere contagiato? A.C.: No, perché comunque non condivido con loro ne l’appartamento né gli indumenti. Poi è il rischio del mio lavoro, anche se ovviamente ci stò attento e prendo le precauzioni necessarie. J.C.: E’ a conoscenza dell’importanza che sta avendo negli ultimi anni l’antropologia medica o la conoscenza dei metodi di cura di altre persone nel lavoro con gli stranieri? A.C.: Si si, ed è una cosa buona! Quando studiavo io qui in Italia, i pochi professori che citavano la medicina africana, non la chiamavano nemmeno medicina tradizionale o alternativa ma solo stregoneria! Qualche anno fa invece ad una riunione per la prima volta ho sentito nominare la medicina africana come medicina alternativa o tradizionale e sono stato molto contento! Quando le persone mi chiedevano se la “nostra” medicina 209
funzionasse io rispondevo che in Africa le persone hanno vissuto anni grazie alla medicina tradizionale, per ciò funziona e anche bene sennò a quest’ora ci saremmo dovuti estinguere! Molti dei richiedenti asilo inoltre quando possono preferiscono usare la medicina tradizionale, anche stando qui in Italia, si fanno mandare quello che serve dai loro parenti in Africa. J.C.: Lei quale ritiene più efficace? A.C.: Sono efficaci entrambi, io la mia tesi di laurea l’ho fatta sulla medicina tradizionale africana e sulla sua utilità nello sconfiggere la malaria e la febbre gialla. Le radici e le foglie che vengono fatte bollire hanno delle proprietà che sono assolutamente efficaci, infatti vengono anche prese e portate nei Paesi occidentali come la Svizzera per estrarne i principi attivi. Diciamo che la medicina sintetica, quella occidentale da un punto di vista medico è migliore perché ha un dosaggio preciso ed è più controllata, mentre la medicina tradizionale richiede più tempo e non un effetto sicuro e uguale per tutti, anche la quantità di erbe necessarie per curare un male può cambiare da persona a persona, per cui richiede tempi maggiori rispetto a quella occidentale. J.C.: Cosa ne pensa della sanità italiana? A.C.: La sanità qui in Italia va bene, rispetto a tanti altri Paesi 210
è una delle migliori. Il diritto alla salute e alla cura della persona è uno dei diritti fondamentali della Costituzione italiana, e la cosa positiva è che italiani e stranieri hanno gli stessi diritti quando si parla di salute. J.C.: Ritiene però che sia veramente così? Ad esempio se il ragazzo sierraleonese di cui mi ha parlato prima non avesse avuto lei come interprete, la visita probabilmente non sarebbe finita bene non essendoci possibilità di comunicare con la dottoressa, non crede? A.C.: Si quello ovviamente è un problema, che può portare anche le persone ad allontanarsi o rifiutare le cure perché non si sentono capiti o loro stessi non capendo l’italiano non riescono a comprendere il problema. Adesso però stanno cercando di risolvere tutto questo, con l’ingresso a breve negli ospedali di mediatori culturali o interpreti a seconda dei casi. Il problema secondo me è che queste persone (i mediatori) vengono chiamate dall’ospedale ogni tanto e magari passano giorni prima del loro arrivo, mentre sarebbe stato meglio avere un presidio all’interno dell’ospedale di mediatori disponibili, anche se non in tutti gli ospedali almeno nei principali. J.C.: E della sanità in Africa cosa ne pensa? A.C.: Mentre in Italia la sanità è una delle migliori in Africa 211
è una delle peggiori! Nel mio Paese a essere sincero si stava meglio quando c’erano gli inglesi, perché se tu lavoravi, l’impresa per la quale lavoravi ti dava una specie di assicurazione medica, mentre se eri studente non pagavi nessuna visita medica o prestazione sanitaria, in qualunque parte del Paese tu fossi. Oggi invece in ospedale devi pagare il ricovero e la gente non ha i soldi, le urgenze sono gratuite ma anche solo arrivare all’ospedale è difficile, non ci sono le ambulanze, i mezzi pubblici sono pessimi e sono poche le persone che guidano e possiedono una macchina! L’unica cosa è che ci sono molti ambulatori privati, se sei medico puoi aprirne uno tuo, puoi anche lavorare sia all’ospedale che nel tuo ambulatorio, nel mio Paese è permesso puoi fare tutte due le cose. Io una volta in pensione ho intenzione di tornare a casa mia e aprirmi anch’io un mio ambulatorio personale, quello che avrei fatto se non ci fosse stata la guerra. J.C.: Pensa che in Africa al giorno d’oggi si usa più la medicina tradizionale o quella occidentale? A.C.: Tutte due, la medicina tradizionale sta diminuendo perché soprattutto nei giovani c’è una preferenza per la medicina occidentale, i giovani seguono molto le abitudini occidentali, rispetto a quando ero giovane io! Però c’è anche chi ancora nel suo piccolo la pratica quando magari non può andare dal dottore o all’ospedale. 212
J.C.: Ritiene che i medici italiani comprendano l’importanza delle medicine tradizionali o in generale della cultura quando si parla di salute? A.C.: Si alcuni di loro sì. Come in tutto c’è chi è più aperto e chi meno, poi qui in Italia come ti dicevo è da poco che si sta aprendo questo discorso anche perché è da poco che ne è sorto il bisogno a causa dell’aumento dei migranti. J.C.: Cosa ne pensa dei corridoi umanitari? A.C.: Sono una buona cosa, nei Paesi dove c’è la guerra è l’unico modo per far uscire le persone senza che siano costretti a prendere i gommoni e rischiare la vita in mare; sono dubbioso su chi li userà, temo che vengano usati, come tutto nel Terzo Mondo, più da chi ha perso tutto ma prima stava bene che da chi è sempre stato povero! Però è comunque una buona cosa che permette alle persone di salvarsi la vita. J.C.: Come fanno secondo lei le persone che non hanno niente a pagare le cifre che sono costretti a pagare agli scafisti per partire? A.C.: Molti di loro lavorano duramente per mettersi i soldi da parte e riuscire poi a partire, altri prendono i soldi in prestito 213
e poi finiscono a fare le prostitute soprattutto le donne della Nigeria o si immischiano con la droga pur di ripagare i debiti. Noi avevamo un uomo nigeriano che una volta uscito dal progetto si è messo a vendere la droga ed è stato arrestato, allora non contento ha fatto prostituire la moglie e quando ho cercato di aiutare la moglie, una donna intelligente che avrebbe potuto studiare e trovare lavoro, mi ha detto “Grazie, ma per mia moglie decido io”, a quel punto non ho potuto fare più niente per lei. Loro sono disposti a fare di tutto pur di partire, anche se va contro la loro morale o la loro volontà. J.C.: Avendo visto il cambiamento demografico avvenuto negli anni in una città piccola come Perugia con l’aumento degli immigrati, cosa ne pensa e come lo vive? A.C.: Quello che purtroppo ho visto mancare negli anni è la solidarietà e la fratellanza tra le persone. Quando sono arrivato io, forse anche perché eravamo in pochi, c’era più umanità ci aiutavamo noi stranieri tra di noi, ma anche gli italiani erano più disponibili e benevoli nei nostri confronti. Molti di loro ci raccontavano della guerra e delle privazioni e delle perdite che avevano subito, e capivano di più anche il nostro non avere soldi e il bisogno di cercare una vita migliore. Oggi invece forse anche per colpa della crisi economica che ha portato molti italiani ad impoverirsi, a mangiare alla Caritas e tutto, c’è più ostilità e gli stranieri vengono visti più 214
male, la cosiddetta guerra tra poveri. Ci sono poi anche gli italiani che si stanno approfittando dell’emergenza profughi per arricchirsi, a discapito degli stranieri, ma prendendo in giro anche gli italiani stessi, che li lamentano dei soldi dati ai profughi. J.C.: Come riesce a conciliare i suoi doveri professionali con i sentimenti di vicinanza verso i profughi? A.C.: E’ difficile, ma come professionista ho dei doveri deontologici da mantenere e rispettare, anche per non finire nei guai io stesso. Per quanto difficile deontologicamente devo fare quello che devo e basta, anche se mi dispiace. Umanamente spesso ci rimango male quando la Commissione ad esempio rilascia il diniego a qualcuno che come persona è molto brava, ma la sua storia presenta troppe contraddizioni e quindi non viene creduto. J.C.: Ha un’opinione personale di cosa si potrebbe fare concretamente per aiutare le persone a rimanere nel loro Paese stando dignitosamente? A.C.: Una frase che dico sempre è:” Non darmi il pesce ma insegnami a pescare se vuoi aiutarmi”. Noi come africani siamo stati sfruttati al massimo, noi abbiamo un continente così ricco che non avremmo bisogno dell’aiuto di nessuno! 215
Se anche solo gli occidentali ci pagassero le nostre risorse, che si prendono loro, come dovrebbero già la situazione migliorerebbe. Purtroppo in Africa c’è ancora bisogno di luce e acqua potabile per le strade e nelle case delle persone; mentre nelle poche televisioni che la gente ha, si vedono i Paesi occidentali che hanno tutto, anche di più di quello che c’è bisogno e tutti hanno cose che da noi solo i ricchi possiedono! Come si può biasimare il desiderio di partire e ottenere tutto quello? Le persone scappano perché non hanno le stesse possibilità che si hanno qui. Il problema vero è anche del Governo, perché la corruzione e l’egoismo negli stati africani è all’ordine del giorno. Quando noi africani saremo in grado di riconoscere i nostri errori e non solo quelli degli europei, e lasceremo da parte l’egoismo ma riusciremo a pensare per tutto il popolo e la collettività allora la situazione migliorerà. Occorre un equipè di persone colte e leali al potere, in grado di governare pensando al bene comune e non solo a se stessi, alle proprie famiglie o a chi lo ha votato; finché in Africa il potere va solo ai figli di amici o parenti senza considerare il livello d’istruzione o le capacità di una persona non si può andare avanti. Non serve un solo leader anche se plurilaureato, ma occorre un gruppo di persone preparate e serie per risanare il Paese. J.C.: Quali sono le sue aspettative per il futuro dei richiedenti asilo in Italia?
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A.C.: Per i richiedenti asilo purtroppo l’aspettativa è molto negativa, perché non è una cosa che finirà dall’oggi al domani la fuga di queste persone, da Paesi che sono in guerra anche per colpa dei Paesi europei. Finché non si avrà la pace in questi Paesi la gente continuerà a fare di tutto per fuggire e cercare una vita migliore. Il problema è che molti Paesi europei non li vogliono più, anche perché si è arrivati a dei numeri così elevati che la gente è stufa, però non si possono chiudere le frontiere anche perché un modo per entrare sicuramente le persone lo trovano lo stesso, e allo stesso tempo è giusto dare aiuto a persone che ne hanno bisogno. J.C.: Grazie per il suo tempo. A.C.: Prego.
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INDICE PRESENTAZIONE pag.3 INTRODUZIONE pag.9
CAPITOLO 1. LO STATUS DI RIFUGIATO 1.1. Le migrazioni forzate pag.14 1.2 Storia del rifugiato pag.18 1.3 Normativa nazionale ed europea pag.21
CAPITOLO 2. L’ACCOGLIENZA DEI RICHIEDENTI ASILO IN UMBRIA 2.1 I richiedenti asilo in Italia e nel Mondo pag.36 2.1.1. Grafici rifugiati in Italia e in Europa pag.40 2.2. I rifugiati in Umbria pag.41 2.2.1. Grafici rifugiati in Umbria pag.45 CAPITOLO 3. I PERCORSI DI INTEGRAZIONE SOCIO-SANITARIA DEI RICHIEDENTI ASILO 3.1. Percorsi giuridici in ambito sanitario pag.47 3.2. I rischi dell’approccio biomedico pag.55 3.3. Dal colonialismo africano alla clinica transculturale in Occidente pag.65 3.4. Il disturbo post traumatico da stress pag.73
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CAPITOLO 4. LA RICERCA SUL CAMPO 4.1. Metodologia di ricerca pag.77 4.2. Le mutilazioni genitali femminili pag.85 4.3. Analisi e riflessioni delle interviste pag.90
CONCLUSIONI
pag.151
BIBLIOGRAFIA
pag.161
SITOGRAFIA
pag.164
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LE INTERVISTE: Intervista a Omar Intervista personale sanitario ospedaliero Intervista operatore sociale Intervista medico africano
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pag.167 pag.181 pag.189 pag.199