Quaderni del volontariato
Cesvol
Centro Servizi Volontariato Umbria
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Edizione settembre 2022
Coordinamento editoriale di StefaniaIacono Stampa Digital Editor - Umbertide
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ISBN 9788831491365
I QUADERNI DEL VOLONTARIATO UN VIAGGIO NEL MONDO DEL SOCIALE PER COMUNICARE IL BENE
I valori positivi, le buone notizie, il bene che opera nel mondo hanno bisogno di chi abbia il coraggio di aprire gli occhi per vederli, le orecchie e il cuore per imparare a sentirli e aiutare gli altri a riconoscerli. Il bene va diffuso ed è necessario che i comportamenti ispirati a quei valori siano raccontati.
Ci sono tanti modi per raccontare l’impegno e la cittadinanza attiva. Anche chi opera nel volontariato e nell’associazionismo è ormai pienamente consapevole della potenza e della varietà dei mezzi di comunicazione che il nuovo sistema dei media propone. Il Cesvol ha in un certo senso aderito ai nuovi linguaggi del web ma non ha mai dimenticato quelle modalità di trasmissione della conoscenza e dell’informazione che sembrano comunque aver retto all’urto dei nuovi media. Tra queste la scrittura e, per riflesso, la lettura dei libri di carta. Scrivere un libro per un autore è come un atto di generosa donazione di contenuti. Leggerlo è una risposta al proprio bisogno di vivere il mondo attraverso l’anima, le parole, i segni di un altro. Intraprendendo la lettura di un libro, il lettore comincia una nuova avventura con se stesso, il libro viene ospitato nel proprio vissuto quotidiano, viene accolto in spazi privati, sul comodino accanto al letto, per diventare un amico prezioso che, lontano dal fracasso abituale, sussurra all’orecchio parole cariche di significati e di valore.
Ad un libro ci si affeziona. Con il tempo diventa come un maglione che indossavamo in stagioni passate e del quale cerchiamo di privarcene più tardi possibile. Diventa come altri grandi segni che provengono dal passato recente
o più antico, per consegnarci insegnamenti e visioni. Quelle visioni che i cari autori di questa collana hanno voluto donare al lettore affinché sapesse di loro, delle vite che hanno incrociato, dei sorrisi cui non hanno saputo rinunciare. Gli autori di questi testi, e di tutti quelli che dal 2006 hanno contribuito ad arricchire la Biblioteca del Cesvol, hanno fatto una scelta coraggiosa perché hanno pensato di testimoniare la propria esperienza, al di là di qualsiasi tipo di conformismo e disillusione. Il Cesvol propone la Collana dei Quaderni del Volontariato per contribuire alla diffusione e valorizzazione della cittadinanza attiva e dei suoi protagonisti attraverso la pubblicazione di storie, racconti e quant’altro consenta a quel mondo di emergere e di rappresentarsi, con consapevolezza, al popolo dei lettori e degli appassionati. Un modo di trasmettere saperi e conoscenza così antico e consolidato nel passato dall’apparire, oggi, estremamente innovativo.
Salvatore Fabrizio Cesvol UmbriaIl
Premio Nazionale Letterario Gens Vibia, costituito dalla sezione di poesia e di narrativa, nasce nel 2001 per promuovere la cultura Le numerose opere, pervenute da diverse regioni italiane e da concorrenti di ogni estrazione sociale, evidenziano l’esigenza ideale e tangibile di trasformare l’esperienza letteraria, nella sua nudità metafisica, in un momento di socializzazione umano e civile. Ne scaturisce un nuovo Umanesimo in cui l’ispirazione letteraria può perpetuarsi legittimamente e realizzare nella sua totalità il destino della scrittura stessa, rappresentato dall’incontro ideale ed emozionale con gli altri.
Gens Vibia che riprende il nome di un’antica famiglia gentilizia romana, si distingue per il legame con il territorio, con l’intento di rimandare agli archetipi in cui affonda la sensibilità culturale della nostra terra. Tale radice storica permette di connotare un evento culturale che, partendo da lontano, si proietta in un futuro sempre più consapevole della cultura locale.
Vincitore per la sezione Narrativa al Premio Letterario
Gens Vibia 2022 è Enrico Sciamanna con il racconto
- Se sbagli le battute c’è poco da ridere - Questa la motivazione della giuria: Un promettente narratore partecipa ad un prestigioso premio letterario con un’opera ben scritta, a suo giudizio pregevole sia per quanto riguarda il contenuto che dal punto di vista formale. Ma il meritato riconoscimento non gli viene attribuito: un’interlinea diverso da due e qualche battuta in più rispetto al numero consentito! Incalzante, ironico, beffardo al punto giusto. Un gradevolissimo condensato di motivazioni sul valore della propria creazione letteraria, da parte del protagonista del racconto, che stimola il
lettore ad una crescente curiosità, fino alla conclusione amara, tanto più perché costringe il lettore stesso a fare propria la positiva creatività dello scrittore-protagonista. L’autore ha saputo così suscitare una suspense e una condivisione tanto che il finale scarno, inaspettato e quasi improvviso, lascia perplessi, sconcertati, per l’ineluttabilità di un verdetto che si fa fatica a condividere, pur nella consapevolezza che le regole vanno rispettate. Il racconto si configura dunque come un sapiente gioco di ironica amarezza, una lunga riflessione che si legge tutta d’un fiato, per arrivare all’amaro e inaspettato epilogo, appunto!
È davvero un bell’esercizio di stile e di artificio narrativo!
La silloge di Enrico Sciamanna, intitolata “Otto racconti” è apprezzabile per l’essenzialità nei racconti di uno stile di taglio sicuro ed attuale, conseguenza di un frasario elegante, originale e personale ricco di contenuti e immagini che spaziano dal reale, al fantastico, all’assurdo, e di una notevole libertà espressiva, a volte trasgressiva. La connotazione narrativa dell’ espressione è travaso di impressioni personali e argomentazioni critiche sulla pagina bianca, su quel candore cartaceo fervido di stimoli così intensamente brulicante di forme emozionali, che attendono assunzione della concretezza vitale nell’atto creativo.
ENRICO SCIAMANNA
LEGGE 1° APRILE ‘99 N° 91
Gli avevo suggerito di raccontarlo direttamente, ma lui non aveva stima della letteratura in quanto testimonianza della realtà. Fallo tu se vuoi, per te è un racconto e non hai nessuna responsabilità, per me la vita. Se ne parlassi in prima persona, a me, a tutti, apparirebbe come appaiono i Promessi sposi o l’Ulisse, mutatis mutandis, l’ordinamento estetico di un’eruzione di immagini subconscie, vive per Renzo o per Leopold all’origine, ma incontrollate nel loro affiorare all’intelletto; una congerie di cose probabili, ma complessivamente false. Citò con studiata nonchalance Roland Barthes «Io non sono come scrivo»; la scrittura non è un medium di verità. Riteneva perciò che non fosse opportuno comunicare direttamente, attraverso un testo, la propria esperienza. Era convinto che esistesse uno iato profondo tra la vicenda personale e la letteratura, quindi se mai l’accaduto dovesse essere scritto, questo non poteva competere a lui. Tutt’al più l’avrebbe potuto raccontare, a voce, magari ad una persona con cui era in forte confidenza, per poter trasmettere insieme ai fatti, con le parole, i sentimenti. Ma scriverlo spettava ad altri, che potevano coglierne tutti gli aspetti (anche se non con la stessa intensità e profondità con cui il protagonista li aveva vissuti) guardando, ascoltando, dal di fuori. Con tutto ciò che un’ottica così concepita comporta. Perciò, pur comprendendo e rispettando il suo punto di vista, anche se non lo condividevo, ritenevo che potesse tornare utile mettere un po’ di gente a parte della storia. Inoltre avevo la presunzione di aver colto il senso principale dell’accaduto e alcune delle peculiarità
umane che lo caratterizzavano e accettai la delega, anche perché, pensai, con un velo di supponenza, è proprio attraverso la letteratura che si svelano verità che alla scienza restano celate.
Parlandone come voce narrante, sebbene e come se riguardasse un altro, ma potremmo essere ognuno di noi, perciò si sceglie la prima persona alternandola con la terza, quindi con una sintassi variabile per immedesimarsi e prendere le distanze contemporaneamente. Ecco, sono tutte lì davanti. Silenziose. Lo sguardo rivolto verso me, la penna in mano, sul banco un foglio di carta. Giungevano a scuola al mattino percorrendo su mezzi pubblici taluna anche un certo numero di chilometri, ciò che le costringeva ad alzarsi presto. Nonostante questo apparivano sempre curate, linde, pettinate; mai gli abiti sgualciti. Il loro profumo si faceva più umano, più adolescenziale in seguito agli esercizi ginnici, o con i primi caldi, altrimenti l’attenzione per il proprio corpo, in ossequio alla tendenza del momento, era assoluta. Mi sembrava un dato abbastanza oggettivo, ovvero era quello che io pensavo che fosse, non tanto ciò che lui mi aveva comunicato, una digressione diciamo così letteraria, la descrizione dell’umanità delle sue alunne con le loro caratteristiche estetiche.
Le abbracciavo tutte con lo sguardo anche quella mattina, senza fissarne nessuna, raccoglievo le mie riflessioni per comunicargliele nella maniera più ordinata possibile, quando, d’un tratto il mio cervello sembrò sintonizzarsi su un’altra onda, come avviene a certi televisori che inspiegabilmente propongono, rapida e nitida, un’immagine diversa da quella, fino a quel punto e subito dopo,
trasmessa. Subitanea e ricca. E chiara.
Il tempo che intercorse finché cominciai a parlare fu senz’altro breve, ma avvertibile, come tutte le inconsuete pause dell’insegnante nel silenzio di un’aula scolastica.
Il cambiamento apparve quasi palpabile, un pensiero materializzato, reso visivo o sonoro e questo mi alterò fortemente e il turbamento lasciò qualche segno momentaneo sul viso, e quello sì, fu letto: «Professore non sta bene?» Ci lamentiamo sempre noi insegnanti che gli alunni tendono sempre a distrarsi, che basta un nonnulla per farli divagare e non capiamo che la loro è sensibilità, acuta sensibilità che demolisce la loro volontà ed essi non sanno resistere alla novità dell’offerta che proviene dal mondo. Altrettanto è strano come i pensieri corrano, si affollino quando trovano una porta aperta, quando il sentimento è stato toccato e come l’ira, o la simpatia o l’amore montino, selezionati di volta in volta. Infatti mi trovavo, tranquillizzato per l’impossibilità che avessero letto quello che mi era venuto alla mente, ad essere comprensivo, paterno, in risposta alla premura filiale che la domanda esternava, rasserenato dalla certezza che non potevano aver compreso alcunché. Se l’avessero fatto, se l’immagine fosse divenuta veramente visibile, credo che mi sarei tolto senza esitare la vita. Accantonai quell’idea ovattandola gelosamente, perché era terribile, ma bella, utile, cinicamente opportuna.
Respirai per riprendere colore e forma nel viso e nelle mani, misi a fuoco verso il punto da cui la domanda proveniva e risposi «No, Cristina, sto bene, sto bene, forse – mentii – un po’ di fame».
Cominciai a parlare di Machiavelli e dell’essere metà in
su la golpe e metà in sul lione, l’attualità, la modernità dei suoi assunti, la portata rivoluzionaria delle sue verità. Parlando quasi meccanicamente le guardavo e le valutavo come non avevo mai fatto. Avevano tutte la bellezza dei 17 anni che si incarnava in un tratto più morbido, in uno più slanciato, in una carnagione più liscia, in una forma più abbondante; bocche salvaguardate da provvisorie strutture metalliche, ciuffi di capelli stinti nel giallo, o macchiati, azzurri, verdi, unghie laccate ognuna di un colore diverso, dal nero, al bianco, al viola, al carminio, rossetti bicolori. Le mie compagne di classe alla loro età erano piatte nella fantasia, forse non per loro colpa, bensì a parziale giustificazione si può tener conto della mortificazione del grembiule nero che a queste era risparmiata. Ricordavo che esse, pur belle (nella memoria) quanto le diciassettenni che avevo davanti, non mi avevano regalato nessun brivido di quella fatta, ma forse poiché la loro osservazione non era mai stata preceduta dall’idea che mi era apparsa in testa quella mattina in classe. Cristina, proprio lei che mi aveva dimostrato quella sincera premura, era a suo modo bellissima: fezze di capelli biondi e scuri, occhi ambra appena truccati, corpo pieno e flessuoso, mani da pianista e in effetti lo era, anche se ancora da studentessa.
Continuava a tenerci compagnia il callido Machiavelli, con le sue stravaganze di vita, sulle quali, di solito ma non quel giorno, mi piaceva, in maniera allusiva soffermarmi, e la sua spudoratezza di pensiero, e l’idea fu riposta fino al suono della campanella che annunciava la fine dell’ora.
Non dovevo assolutamente far raffreddare l’entusiasmo
che mi pervadeva, la tempestività era l’unica forza che avrebbe sbaragliato le resistenze di ordine morale che altrimenti avrei frapposto. Mi fermai sul corridoio e aspettai che, come sempre faceva alla fine di ogni lezione, uscisse dalla classe per andare al bagno. Mi appoggiai al calorifero e la guardai come se stessi scoprendo in quel frangente che era una donna nel fiore dei diciotto anni. Samantha. Crudeli genitori per una bambina che, appena nata, subiva l’imposizione di un marchio che svelava interessi mass mediali plebei da parte della famiglia, ma che lei portava con disinvoltura, con l’eleganza della studentessa di liceo che riscatta con lo studio, magari non esemplare, ignoranze ataviche, che si manifestano anche tramite un’infelice onomastica filiale.
Ora, poiché maggiorenne – il destino natale non riguardava soltanto il nome – ti si preparava un futuro che forse non avresti scelto, ma che già inconsapevolmente incominciavi ad accettare rispondendo allo sguardo, con la languida malizia delle giovani della tua età, stabilendo una complicità inequivocabile. Come a dire professore, il gioco che mi proponi lo voglio giocare. Chissà che non sai insegnarmi qualcosa di meglio di queste stupidaggini ritrite quotidiane.
Vedremo Samantha fin dove riusciremo ad arrivare, spero dove tu nemmeno riesci a immaginare, ma bisogna partire subito.
Continuava il suo racconto il reale protagonista della vicenda, racconto che sto scrivendo e che qualcuno sta leggendo. Quanto adesso è realtà e quanto letteratura?
Quanta verità nel ricordo scritto, rispetto alla verità del fatto e rispetto alla verità del racconto nella memoria di
chi aveva vissuto i fatti agendoli?
«Vieni a scuola oggi pomeriggio, ti devo parlare». Non c’era altro posto per quell’incontro urgente. Non casa sua, né casa mia. «Di Machiavelli?» «No, d’altro». Sforzandomi di essere, nel tono, sufficientemente chiaro, ma anche ambiguo per un eventuale ipocrita dietrofront, per quanto le poche parole potevano permettermi. Non c’era nulla nella mia storia scolastica e personale e nei miei comportamenti abituali, che potessero far immaginare un atteggiamento meno che professionale. Appena entrò nell’aula in cui la stavo aspettando, le chiusi la porta alle spalle e ce l’appoggiai contro baciandola a bocca aperta. Era ciò che si aspettava. Ero stato chiaro, era stata intelligente. So insegnare, gli alunni mi capiscono, pensai mentre le rovistavo tutto il corpo con una furia mossa da un’eccitazione inimmaginabile – questo sì da lei – a cui rispondeva con un’offerta di sé, che ricambiava pienamente la ferocia del mio slancio. «Ti voglio per sempre» «Sono sua professore» biascicò tremante e ansimante nella mia bocca. Osservai il suo modo curioso di eccitarsi: respirava ritmicamente con gli angoli delle labbra e teneva le palpebre semichiuse, con gli occhi rivolti in alto e aveva tutta la parte centrale del corpo totalmente molle, anche lo scheletro se possibile; mi attirava a sé con la gamba destra ad uncino e sentivo il duro della sua coscia sinistra tesa, contro la mia.
Luisa, mia figlia, aveva due anni più di lei, era, forse, altrettanto bella, nella mia mente di padre, meno sensuale e forse meno disponibile con un anziano professore. Stava male Luisa. I suoi vent’anni erano offuscati da una malattia che ne diminuiva l’esistenza e non si sarebbe
risolta da sola. Per lei sarebbe stato impossibile restare a lungo in piedi, col corpo inarcato in avanti, come Samantha stava facendo, col pube premuto contro quello del professore d’italiano, che le accarezzava con furia le carni rosee e compatte, in salute; le sue erano livide, trasparenti quasi, di un pallore cereo, come se all’interno, dove per l’una era evidente che scorreva sangue, per lei sembrava circolasse un liquido bluastro. Mi trattenni giusto il tempo per l’esplicitazione del desiderio e per la conferma dell’accettazione, la feci sedere al suo posto mentre io occupavo la cattedra. Trascorse un periodo congruo durante il quale, in silenzio, recuperammo un aspetto insospettabile e predisponemmo una giustificazione dell’incontro, per altro non indispensabile. Decongestionati e non più ansimanti uscimmo insieme dall’aula, Samantha con lo zaino sulle spalle, io con la cartella in mano e gli occhiali da presbite ciondolanti. La prima prova della realizzabilità del progetto l’avrei avuta l’indomani in classe. Mi sentivo abbastanza sicuro della scelta, ma l’emozione poteva essere stata forte su una studentessa di diciotto anni, per quanto smaliziata ed equilibrata, fiduciosa e decisa, “matura”. Tuttavia l’esperienza diretta poteva essere causa di frenesie e alterazioni, confidavo che così non fosse e attesi il suo ingresso, in ritardo, per valutare. Se avessi fallito, se lei avesse fatto trapelare qualcosa, vantando diritti sulla base dell’incontro e delle parole, tutto sarebbe stato inutile. E non avrei potuto ripetere il tentativo con un’altra. Il suo ingresso ebbe l’effetto che procura la rimozione del tappo del lavandino, da come si presentò cacciò via tutti i pensieri dubbiosi, come sgorga l’acqua sporca attraverso
lo scarico.
L’immagine era autentica, proveniva cioè dal protagonista reale e non da un arbitrio dello scrittore, singolare e, francamente, letterariamente poco adeguata alla situazione che si stava configurando, ma tant’è, se può servire ad essere più rispettosi nell’interpretazione…. Sembrava che ieri pomeriggio non fosse esistito. «Scusi, l’autobus…» aveva soltanto un occhio truccato e i jeans strappati al ginocchio destro, la rimproverai blandamente, con il tono dell’altro ieri. Volli spingere oltre la verifica, anche per spiare le reazioni della classe, per cercare di comprendere se non avesse resistito alla tentazione di far partecipe qualche compagna, o tutti, dell’avventura: la interrogai, non avevamo preso nessun accordo in proposito. Non esitò; nessuna reazione da parte loro, nulla che lasciasse intendere che qualcuno immaginasse, o addirittura sapesse, mi sembrò di poterne essere abbastanza certo, perché ad individuare quello badai, più che alle sue risposte. Mi rassicurai e non fu poco. Il sabato, tranquillizzato da due giorni di osservazione confortante, le chiesi di nuovo di incontrarci l’indomani. La domenica sera la feci salire sulla mia auto, esauriti i convenevoli ripresi l’azione sessuale che si presentava indispensabile per poter stabilire un rapporto proficuo, che in assenza di sesso, data la differenza d’età a suo vantaggio, avrebbe destato sospetti; cosa ci faceva un maturo insegnante con una ragazzina bellissima e sensuale se non godersela? perciò mi chinavo su di lei ansante, compresso nello stomaco. Svanivano sotto gli occhi, che non riuscivo a chiudere, le sue carni elastiche e fresche, divenivano grigie e dure al tatto, come pietre. Fingevo,
dovevo fingere di apprezzare, smaniare, bramare, ciò che in condizioni normali, in una situazione in cui la sincerità era possibile, poteva apparire come un’elargizione celeste, un’offerta al di là dei desideri e dei meriti. Mi aiutavo con la volontà e con il dovere, per dispormi in un atteggiamento naturale. Naturale come l’amore.
L’amore. La parola gli faceva venire in mente i piccioni che a detta degli esperti amano focosamente e senza limiti di tempo. Corteggiano con costanza la femmina e una volta che essa si concede le riservano calorose effusioni (calorose come la loro carne); in un gesto che noi chiameremmo bacio, col becco si strappano quasi la lingua per la passione. Le stesse bestie che osservavo cercare di pizzicare con il becco pezzi grossolani di pane, che si muovevano galleggiando in un corso d’acqua urbano; ne strappavano un po’ e lo lasciavano cadere sotto di loro nell’acqua di nuovo, dove era difficilmente raggiungibile o addirittura gli sfuggiva allontanandosi definitivamente dalla loro portata, invece di trattenerlo e deporlo, con un gesto semplice, a terra, su cui poggiavano i piedi, dove sarebbe risultato agevole controllarlo fino al totale consumo. Mettendo in mostra un’intelligenza modesta. La stessa che evidenziavano amando. L’associazione risultava abbastanza automatica: l’amore è cosa da stupidi. E si meravigliava che gli uomini, che avevano il pollice opponibile e scrivevano l’Amleto o decoravano la cappella
Sistina, in alcuni casi aspirassero a comportarsi come i piccioni.
Ci teneva, se l’avessi scritta la sua vicenda, che riportassi il suo pensiero anche tramite questa immagine. Non avevo deciso però come dosare le avances e per il
momento mi mantenni in una situazione di attesa, come avrei fatto ai miei vent’anni; lei appariva felice e dolce come sanno essere le donne. Aggiunsi, prima di riavviare il motore, «mi ami?» esitò come per cercare un termine giusto, da risposta ad un’interrogazione, «perdutamente professore» sospirò senza ricambiare la domanda. Le feci una leggera carezza sulla guancia sinistra e poi, più per incoraggiare me che lei, le strinsi forte la mano: «dobbiamo essere forti, sarà molto difficile» «non importa sono pronta», mi baciò su un occhio e scese rapidamente, imboccando una strada scura non lontana da casa sua. Si fidava delle sue risorse in momenti di necessità, perciò non si preparò un discorso vero e proprio per persuaderla. Le parole gli sarebbero venute lì per lì, almeno credeva. Attese alcuni minuti cominciando però a preoccuparsi. Lui era stato sempre puntuale agli incontri, lei, a differenza di quello che accadeva a scuola, non aveva mai tardato se non quei due o tre minuti imputabili ai trasporti pubblici. Quella sera invece i minuti trascorsi erano oltre dieci, un’attesa normale tra due innamorati, ma enorme per la situazione. Interruppe l’attesa dopo poco e se ne tornò a casa, pensando invece a cosa dire con efficacia, analizzando se aveva fatto tutte le mosse giuste, a cominciare dalla scelta della persona e non si fosse invece fatto condizionare dall’avvenenza scambiata per libertà e maturità: era meglio “sacrificarsi” in quel modo con una ragazza bella, piuttosto che vagliare diverse possibilità a scegliere qualcun’altra con qualità più rispondenti, ma meno attraente. Placò la coscienza riflettendo sul fatto che era l’unica alunna maggiorenne e che i requisiti attribuitile fino a quel momento erano sta-
ti
convalidati.
Certo ancora il passo decisivo, la richiesta, non era stato compiuto, ma tutto era stato confermato fino a quel punto. Non aveva nulla ancora da rimproverarsi, sperava, era convinto, che quell’assenza avesse una spiegazione e che presto ne avrebbe avuto la riprova. Ma la solitudine lo spinse a muoversi nella direzione della richiesta, a preparare il discorso da fare. Le avrebbe parlato del grande amore, totalizzante, della necessità di vivere con lei sempre e per sempre, condizione per lui irrinunciabile – sublime ipocrisia – e cui poteva approdare solo in seguito al divorzio, che la moglie gli avrebbe concesso soltanto a condizione che la donna, la ragazza per cui rinunciava a lui, dimostrasse alla moglie stessa, innamoratissima, di amarlo più di lei, con quel dono. Per di più tale gesto rassicurava la madre che aveva esaurito le sue energie, e che non poteva essere abbandonata in quello stato e con la figlia ancora in quello stato, causa della sua depressione e della sua debolezza. Rem tene, verba sequentur, si disse alla fine della ricapitolazione, certissimo lui, che invece le energie non solo le aveva miracolosamente conservate ma le aveva addirittura accresciute attraverso questo impegno, che sarebbe riuscito a dirglielo con quella capacità di persuasione che non gli aveva mai fatto difetto.
Si trattava ora di capire, o, come sperava, più semplicemente di sapere i motivi del ritardo.
La mattina successiva avrebbe avuto lezione alla seconda ora, ma giunse prima e la fece chiamare da una bidella.
La aspettò in sala insegnanti dove era solo, alla prima ora arriva soltanto chi deve. Entrò con un sorriso dimesso come chi spera in un atteggiamento comprensivo perché
convinto di aver commesso un’indiscutibile mancanza. Che lo rassicurò a tal punto che non volle neppure sentire che l’improvvisa invasione di parenti l’aveva bloccata, impedendole anche di comunicare il contrattempo.
L’appuntamento, ripartiti ormai i parenti, si fissò per il pomeriggio tardo in un parcheggio poco illuminato e lontano dalle rispettive abitazioni, sicuro. Sarebbe stato l’incontro decisivo.
Tutto fuori era buio, lei portò dentro la macchina il fulgore dei suoi diciotto anni, lui la vide come Ifigenia sull’altare. Il vento muoveva leggermente l’auto, a raffiche che facevano da sottofondo alle parole, le parole di lui, che restavano pesantemente all’interno della vettura e che nessun vento avrebbe potuto trasportare. «Tu sai che mia figlia è malata. Ha i reni che non funzionano, da tempo è in dialisi e in lista d’attesa per un trapianto. Una lista lunghissima. Quando sarà il suo turno chissà cosa sarà successo. Il pensiero di un esito terribile non ci fa vivere. Mia moglie Ivana ha perso quasi la ragione, si fa forza per Luisa. Io almeno ho te. È da tanto tempo che è nata questa mia passione e ora non riesco più a dominarla. Ma soprattutto dopo aver assaporato la gioia che mi dà la tua vicinanza, il tuo calore, la tua bellezza, la tua gioventù, non posso rinunciare a te. Ne ho parlato ad Ivana, senza nominarti, e lei non ha voluto nemmeno sapere chi fosse l’oggetto del mio desiderio e, nella lucida pazzia che ormai la possiede, mi ha detto: se è vero questo amore, se ti vuole come dici e tu la vuoi come mi stai facendo credere, prendila, vattene con lei. Però, per la mia serenità, per giustificare a me stessa la rinuncia a te, fatta in nome di un forte sentimento, che mi plachereb-
be, mi darebbe una ragione e per garantirmi un’esistenza accettabile, la sopravvivenza per me e per Luisa, falle donare un rene. Capisci cosa ci chiede? A te una parte del tuo corpo, e a me, per avere te tutta intera, che ti sottoponga questa richiesta. Io amo mia figlia, lo sai, ma non riesco a discernere cosa è più importante ora per me, se la sua salute, forse la sua vita, o avere te per sempre, perché a questo punto le due cose risultano inscindibili, indistinguibili.»
Mentiva. Era vero che si era determinata – che aveva determinato – quella situazione, bensì sapeva benissimo che lei era uno strumento per conseguire lo scopo di salvare la figlia e che avrebbe potuto rinunciare al dono della bellezza dell’alunna diciottenne, se la rinuncia e non la disponibilità fosse stata la condizione per la risoluzione del problema. Anzi proprio questo falso amore, recitato in accordo con la moglie, gli pesava enormemente. Restò un po’ in silenzio Samantha, quasi senza respirare, con le mani sovrapposte e poggiate in grembo, sulla gonna lunga. «C’è la possibilità di farlo, il trapianto, in India, a Benares, dove potrei anche disporre di un donatore, ma mia moglie non si fida e io neppure, inoltre questo risolverebbe soltanto una parte dei nostri bisogni, dal momento che adesso io voglio te e solo a queste condizioni mia moglie non metterà ostacoli e io stesso sarei più sereno insieme a te. Lì, a Benares, i controlli sono approssimativi, tuttavia l’efficacia è certa e il rischio minimo o nullo. Partiamo subito, in settimana – continuava a parlare carezzandole meccanicamente i capelli e spiando nella fioca luce, fiducioso, le reazioni che non giungevano impedite dalle sue parole quasi incalzanti,
come le raffiche di tempesta che assalivano la macchina, e che provocavano continui cambiamenti di pensieri in lei – così tutto si compie rapidamente e io avrò due gioie: la salute di mia figlia e te.» Forse l’aver anteposto la figlia all’amore con lei apparve un errore, ma, data la stretta concatenazione tra i due eventi, la loro interdipendenza, poteva anche non venire colto; errore comunque che lo stato d’animo e la difficoltà del tema giustificavano. Lì per lì non se lo rimproverò.
Senza dire alcunché la ragazza scese dall’auto e s’incamminò da dove era venuta dieci minuti prima. Sembrava veramente portata via da quel tremendo vento, senza peso. La guardò scomparire, appoggiò la testa sul volante e si fermò per un po’ a contemplare il doloroso fallimento.
La notte la trascorsero, lui e Ivana, svegli dietro l’illusione svanita, a pensare ciò che avrebbe potuto essere. Fu la più drammatica, ma non certo l’unica veglia di tristezza. Spesso infatti trascorrevano la nottata quasi totalmente in bianco, in compagnia di Luisa, che invitavano a stare con loro, in piedi o tutti e tre nel letto a parlare, a fare qualcosa, a vivere. Sulla base della considerazione che se il tempo dei giorni per la figlia rischiava di ridursi drasticamente, almeno fosse più lungo quello delle ore. Una scelta che pur sembrando giusta e bella, produceva una malinconia infinita, in quanto le parole, i gesti, le rare risate sembravano tutte condivise con uno spettro che era impossibile scacciare. Tuttavia nessuno voleva arrendersi e rinunciare a quei momenti, anche se, si era visto, per via della perdita del sonno, Ivana stava esaurendo tutte le risorse. Ma ogni sera c’era un’attesa, compiute le terapie,
per l’esercizio della notte che, seppure tutti e tre erano pronti a riconoscere quanto fosse dannoso, corrosivo, pure scatenava l’illusione che quella volta poteva essere diverso, scoprirsi veramente salutare, non solo doveroso. Ma tutte le volte non rappresentava nient’altro che la condivisione del dolore.
Qui nel racconto prevalse decisamente la ricerca dell’effetto. Non nascose il protagonista che si preparava un colpo di scena. Era già implicito nella storia che la storia era stata raccontata, ma il tono con cui concluse questa parte e preparò quella successiva, prefigurava un cambiamento. Il mattino seguente a scuola nella classe di Samantha fin dalla prima ora. Lei era assente. Atteso il tempo di un eventuale ritardo, dovette riscontrare che non sarebbe arrivata e che le residue speranze di un ripensamento notturno svanivano. Vide soltanto un aspetto positivo in tutto quello che aveva compiuto: non ne aveva fatta menzione a Luisa. La cautela era stata provvidenziale, non aveva alimentato alcuna illusione e adesso non c’erano, almeno per lei, delusioni, che forse non avrebbe potuto sopportare. Lo ribadì a se stesso, anche per trovare un appiglio per il naufragio che ormai era imminente. Riandò con la mente alla discussione con Ivana che invece sosteneva che nulla dovesse essere tenuto nascosto alla figlia, anche questa operazione clandestina e subdola, così che lei, consapevole, avesse la possibilità di optare. Lui argomentò il suo rifiuto proprio prefigurando una soluzione come questa che si profilava, ed ebbe un piccolo spazio di consolazione, veramente esiguo. Accusò anche un colpo all’amor proprio. Si ridimensionava il suo fascino, che sapeva di esercitare ma fino a quel
momento non gli risultava importante, si azzerava il potere di persuasione – sottoposto certo ad una prova difficilissima – su cui faceva grande affidamento. L’ingresso in aula della bidella lo trovò con le piaghe spalancate «al telefono professore». Uscì privo di sentimenti dall’aula ed entrò in vice presidenza dove lo attendeva una cornetta poggiata sul tavolo. «Sono io, Raschi Samantha professore. Va bene, ho preparato tutto per partire, senza dire niente a nessuno e ho anche un po’ di soldi se possono servire. A un rene posso rinunciare, a lei no.» Sintetica e chiara la Raschi, come sempre quando era preparata alle interrogazioni. Mirava al sodo e in questo caso aveva detto le cose giuste, personali e inaspettate, assolutamente inaspettate.
Chiamò subito a casa con lo stesso telefono, tacendo per i primi secondi perché non riusciva a trovare le parole, più che per la sorpresa e l’emozione legittime, per l’incapacità di spiegare il subitaneo cambiamento, ormai insperato per tutti. Recuperò l’equilibrio e dette alla moglie le indicazioni per una partenza urgente, come aveva predisposto prima del momentaneo tracollo. Il rinnovo del passaporto per tutti, donatrice compresa, richiese poco tempo, poche ore, grazie ad amicizie.
L’aereo si sarebbe alzato in volo da Fiumicino alle sette e mezza di tre giorni dopo, portando con sé il padre, Ivana, Luisa, le analisi, Samantha, partita per Roma con loro fin dalla sera precedente, seduta in disparte come una passeggera qualsiasi, che, diversamente da come avrebbe voluto, dietro suggerimento del professore aveva imbucato una lettera in cui dava spiegazioni sommarie, tranquillizzanti ai famigliari, così da avere un po’ di tempo
prima che si iniziasse la ricerca. In attesa dell’aereo, per non lasciarla sola e non condividere la presenza con il resto della famiglia, prese un taxi e la condusse in giro per Roma, passeggiando come due turisti ad osservare i monumenti, a tenersi per mano, a offrirle, al bar di Piazza Venezia un frappè, bevanda a lei sconosciuta, che dichiarava i gusti di una generazione analcolica, l’appartenenza ad un’epoca. E mentre lui tentava di commentarle come diversivo l’Altare della Patria, facendole notare come l’edificio si imponesse enfatico su una realtà totalmente avulsa, su emergenze storiche assolutamente divergenti e di queste non avesse alcun rispetto né avesse con loro consonanza – stette ben attento a non usare parole quali innesto, trapianto, o anche altri semplici riferimenti fisiologici – però preso di per sé, a ben guardare, fosse più valido, interessante di quanto tanta critica, giustamente condizionata dalle retoriche circostanti, finora l’avesse considerato. Lei gli chiedeva, se dopo avrebbe potuto ancora bere qualcosa del genere, se avrebbe potuto ancora mangiare la pizza quattro stagioni, se le sarebbe stato possibile in futuro gustare gelati alla fragola. Lo diceva col sorriso, col tono di chi si informa delle prestazioni di un motorino, con il disincanto della generosità e dell’amore presunto, del gioco. Si turbò profondamente e mise da parte l’improvvisata lezione e guardò lei. Se gli fosse stato possibile e ci avesse creduto l’avrebbe, anche solo per quello, amata. Lei era già al di là dell’esperienza, già stava vivendo il dopo e mescolava pizza, amore, gelato in un gioioso ibrido esistenziale in cui non c’erano spiegazioni da dare, dolori e privazioni da sopportare, incerte conseguenze da prevedere. Avreb-
be voluto abbeverarsi a quell’ottimismo, avrebbe voluto essere uno dei due marinai di guardia al milite ignoto, di cui Samantha – immaginava in un momentaneo sogno –era in attesa allo smontare, per abbracciarla con braccia oneste e baciare il suo sorriso. Invece di nuovo in taxi fino ai voli internazionali, mano nella mano sul sedile posteriore.
Check-in e decollo per un volo lunghissimo anche per chi, diversamente da loro che facevano una simile trasvolata per la prima volta, era abituato. Samantha si comportò in modo perfetto, al di sopra delle speranze, come l’angelo custode della fantasia, pronto ed invisibile, ancora più assimilabile all’antropomorfo pennuto per via dell’ubicazione: il cielo. Un cielo perfetto, con un pavimento di nubi o totalmente azzurro e splendente, quasi a seconda dei desideri. Spettacolo che suscitava identici sentimenti in entrambe: la figlia e l’alunna-amante, sebbene espressi in conformità dello stato di salute; le osservava incuriosito prefigurando che presto le due reazioni avrebbero assunto un aspetto diverso: l’una più energica, l’altra un po’ più spenta, affievolita, in ragione del quantitativo di salute che con l’organo si accingeva a versare nell’altra, come un liquido, immaginava, in vasi comunicanti. Ogni tanto rivolgeva sguardi con occhi carichi di speranza a Ivana, che, quasi costantemente assopita, anche per via dei tranquillanti, non se l’era sentita di parlare con la donatrice, fingendo di ignorare la sua presenza, considerando che di lei viaggiava su quell’aereo soltanto il rene, motivo della trasferta e quasi ragione dell’esistenza di Samantha, almeno per lei. Disse apertamente a questo punto che non aveva fatto
alcun progetto per il dopo. L’obiettivo era la salute della figlia. Nient’altro. Eventuali decisioni che riguardavano il suo personale futuro a quel momento non erano in bilancio. Abbandono del tetto, galera per gravi lesioni, rimorsi, appartenevano all’oltre, al forse, al si vedrà. Appena scesi a Benares gli balzò addosso tutta la letteratura sull’India. Benares è soprattutto il Gange, foschie, miasmi, brulichio: tutto dipende da questo. Il passaggio del sacro sulle acque che purgano e rigenerano. Purché ci si creda. Il morto rinasce, il malato guarisce almeno nell’anima, lo spirito affranto risorge. Caldo, odori, nenie, umanità esotiche penetrarono nei sensi procurandogli un effetto di stordimento. Lo stesso che aveva avvertito la ragazza che ebbe una sorta di sbandamento. Era precipitata in una realtà aliena e inaspettata, per di più la prova si avvicinava e questa, per lei, - il volo era durato un periodo infinito - era un transito verso una modificazione esistenziale decisiva. Sentì il bisogno di entrare nel gruppo, di proteggersi, di non restare sola.
Fu accolta con atteggiamenti differenziati, ma nessuno ostile e si rassicurò, ciò che non compromise nulla, nemmeno lo stato della ghiandola da trapiantare.
Confessò di aver ripensato, vedendo la paura di Samantha, ai maiali, i quali quando vengono trasportati al macello in condizioni di sofferenza fisica o psicologica, reagiscono in maniera da nuocere alla qualità della carne, interiora comprese.
Le operazioni ospedaliere si avviarono l’indomani, ovviamente di buon’ora. Analisi integrative e documenti. Firme e accertamenti dell’età. Tutto fatto con scrupolo e
cortesia. L’ambiente appariva occidentale, inglese forse, diverso comunque da come si sarebbe immaginato un ignaro un nosocomio dell’India. Nessuno aveva intenzione di dilungarsi, siccome tutto sembrava propizio, compresa la celerità con cui si procedette al consistente pagamento, si passò presto, tra sorrisi e voci flautate, dalle carte e dalle siringhe, ai bisturi. Il tempo nella sala d’aspetto fu trascorso in riflessioni comuni con Ivana, la quale per scaramanzia non intendeva ragionare sul futuro, era troppo agitata per ciò che stava accadendo in sala operatoria, sapeva benissimo che il risultato non era scontato. Ma lui insisteva perché si tracciasse un progetto che contemplasse anche il destino della donatrice. Che cosa Ivana riteneva che fosse meglio fare, una volta ritornati in Italia? Cosa era più onesto?
Quali reazioni prevedeva da parte dei famigliari di Samantha e come si sarebbe potuto intervenire per fare il minor numero di danni possibili? Tutte quelle domande insomma che pur aleggiando dal primo momento, non avevano mai trovato un punto d’approdo, risultando di minore importanza rispetto al tormento principale. Ma ora il problema si stava risolvendo e le domande avrebbero trovato comunque una risposta, anche indipendentemente dalla loro volontà. Quindi la logica imponeva di metterla in azione la volontà e decidere, invece di porsi in balìa di decisioni altrui, per quanto possibile. O almeno prepararsi alle conseguenze di quelle. La vita continuava e la figlia avrebbe avuto, almeno per un po’, bisogno come prima.
Luisa aveva superato con successo il trapianto, la sua fibra non era stata schiantata dalla malattia e il nuovo
filtro aveva immediatamente preso a funzionare a beneficio di tutto l’organismo, già destinato ad una rapida fine, debilitato, ma non corroso. Anche il Gange dopo la città avrebbe avuto bisogno di un rene depuratore. Silenzioso scorreva oltre la finestra, trasportando acque e considerazioni oltre lo sguardo. Lì c’erano i genitori di Samantha, la scuola e il paese: chi avrebbe capito e chi invece sarebbe stato spietato giudice. Tutto questo prendeva sempre più forma, ergendosi come una barriera da scalare o saltare simbolicamente, ma con una fatica e una sofferenza reali.
Con questi pensieri teneva in mano la penna con cui si accingeva a scrivere una lettera alla ragazza. Una lettera da lasciarle sul comodino della camera in cui stava trascorrendo la convalescenza postoperatoria che, a differenza di quella di Luisa, prevedibilmente più complicata, si stava dimostrando laboriosa. Per fortuna. Perché il caso favorevole gli aveva consentito di prendere questa pilatesca decisione: partire, lasciandole tutto l’occorrente per la permanenza e per il ritorno, compresa una guida bilingue, a disposizione fino all’aeroporto, del danaro (gli ultimi soldi risparmiati in previsione di questo o simile), dei libri da leggere - con un tocco di ipocrisia – e una lettera:
“Cara Samantha, è necessario esserci, nella vita, questo e nient’altro conta. Morale, sentimento, politica, non sono nulla. Ciò che vale è vivere. Luisa non c’era, ora c’è.
Dovevamo garantirle questa base. Io soprattutto. Ora, ottenuto il mio scopo, posso dire di esistere anch’io e tu, tutto sommato, continui a dimostrare la tua presenza nel mondo. Tu però, senza riceverne alcun van-
taggio, hai pagato il prezzo per tutti, per Luisa, per Ivana, per me. Deciderai come dovrai venire compensata. Vigliaccamente sarò lontano quando ci penserai, ma avrò acquisito sufficiente forza per affrontare qualsiasi –qualsiasi- decisione tu vorrai prendere che mi riguardi. Intanto ho guadagnato tempo e, nella mia debolezza, ho delegato totalmente a te la sentenza, qualunque essa sia, anche quella che nemmeno riesco ad immaginare, ma non temo nulla, salvo dirti queste cose guardandoti negli occhi. Adesso.
Prima della malattia di mia figlia ho sempre avuto la fortuna di sentire su di me l’accanimento della vita. Essa non mi ha mai lambito. Neppure quando era insignificante, mi ha sempre morso con furore, sfibrandomi senza stremarmi mai, mi è penetrata fino al centro, in ogni sua manifestazione. Il dolce è stato sempre miele e l’amaro fiele, la felicità esaltazione e l’infelicità disperazione. Ora, per l’ennesima volta esausto, dopo aver visto in faccia la vanità delle sue sovrastrutture variamente denominate, mi abbandono alla volontà esterna e mi riposo. Sarà giusto ciò che vorrai.”
La lettera. Varie, diceva erano le ragioni della sua scelta: innanzitutto la necessità di riflettere prima di affrontare la ragazza, inoltre il fascino che esercitava la missiva su di un uomo che sempre di lettere si era interessato, quindi la testimonianza testamento che lo scritto presentava: condanne o assoluzioni basate sulle parole fissate sulla carta, a cui si può aggiungere il vezzo della citazione. Non trascurerei il vantaggio di non dover dire le cose che ti smentiscono in faccia all’interlocutrice, perché se è facile essere forte di fronte alla storia, lo è di meno esserlo davanti alla vita.
RANA
Le baciavo le labbra ancora segnate dal sugo delle fettuccine ricevendone in bocca un sentore acre, ma non tanto da vincere il dolce sapore dell’amore. Lì per lì sembrava accettare il mio bacio, ma poi mi respingeva con dolcezza ma decisamente. Lei era così, era sempre stata così: non amava amare a digestione avviata, seguiva le stesse precauzioni igieniche per l’amore che per la doccia. Per il resto era una donna, diciamo così, normale. Per il sesso ed il cibo no. Mangiava nuda: «Lavare un abito schizzato di salsa -diceva- è più complicato che pulirsi la propria pelle; inoltre più tempo si perde a spogliarsi, più la digestione si avvia».
Nei primi tempi, quelli dell’innamoramento, della passione nascente, mi ero adattato ai suoi sistemi, anzi li praticavo con entusiasmo, non eccepivo nulla quando masticando l’ultimo boccone, lei si avventava su di me per non compromettere con gli indugi la riuscita di un atto che coinvolgeva il funzionamento dei suoi organi interni. Era evidente che la smania nasceva soprattutto dal suo piloro e non dalla mia avvenenza, ma cosa cambiava per me che l’amavo? Anche se i suoi ritmi metabolici erano troppo differenti dai miei: lei una falsa magra, tendente alla pinguedine io, già dotato di salvagente pelvico. Se per lei il cibo era un inno di gioia, “ouverture” di esaltanti sinfonie, per me, pur restando musica, una sonata ai pannicoli adiposi che avevano preso possesso delle mie forme in maniera, ahimè, irreversibile. Tutto ciò non mi impedì di amarla anche quando, per motivi gastrici, cominciai a non partecipare più ai suoi pranzi
e alle cene, giungendo tardi con una scusa: «I1 lavoro non mi permetterà di cenare con te -inventavo- mangia da sola, arriverò per il dolce». Mi spogliavo mentre lei, puntuale, sorbiva le ultime cucchiaiate di zuppa inglese di cui anch’io invariabilmente beneficiavo, seppure in maniera indiretta ed ero lì caldo e languido, pronto a resistere ai suoi assalti e a commentare, durante i preliminari, la quantità e l’opportunità dell’alchermes, o la farinosità delle mele, nel caso in cui queste fossero state il dessert. Gli amplessi poi erano contrappuntati dai borborigmi e dagli strizzamenti addominali che mi vellicavano piacevolmente le superfici adiacenti. Avevo imparato a misurare la sua passione dal menu che si preparava prima del nostro convegno: «Vieni caro oggi pomeriggio - mi telefonava - ho preparato vincisgrassi e del rognone di maiale ai funghi, per dessert cannoli alla siciliana. Ti aspetto» aggiungeva ambiguamente. Inequivocabili segnali di desiderio: materiale di difficile digestione, la quale più tardava ad avviarsi, maggiormente avevano agio di protrarsi gli impeti erotici. Oppure: « Se vuoi che ci vediamo stasera, vieni senz’altro -rispondeva con affettata gentilezza alle mie sempre appassionate richieste - mi preparo un riso all’inglese, carne ai ferri e mele cotte». Tutta roba che passa e va! Giusto il tempo di un bacio. Così alternavo pomeriggi all’aringa marinata e cavoli rifatti, a serate alla minestra in brodo di dado e verdure cotte all’agro. Non era infrequente però che proprio in virtù del suo u/amore mutevole un incontro preceduto da paella alla valenziana e insalata nizzarda, non mantenesse le sue promesse perché lei, assalita da un’improvvisa alterazione, si servisse di un digesti-
vo tipo fernet nel bel mezzo dell’amplesso, per avviare una chilificazione non più procrastinabile. O viceversa, se improvvisamente le ispiravo simpatia, ma l’avvio peristaltico era incombente, si affrettava a ingurgitare una cassata appena sfreezerata, per avere l’apparato digerente subito in sintonia con i sensi.
E mentre la stavo baciando con l’anima sulle labbra al ragù rappreso, riandavo con la mente ai versi del mio poeta prediletto: “ Ma dimmi le languide pene del gastro soddisfi? Che mangi?” Rendendomi conto che se le avessi rivolto la stessa domanda, mi avrebbe risposto in un impeto di sincerità: “ Te, mio adorabile postprandiale”.
Però avevo sempre resistito ad esternare questa curiosità, evitando di provocare la terribile, se sincera, risposta.
E così non essendo considerato da lei un’appendice del pranzo (almeno ufficialmente) e non sentendomi di conseguenza un oggetto gastronomico, la dignità era salva e potevo continuare ad amarla. Ma quanto sarebbe durato? Quanto dura un amore farcito di riserve così gravi? Perché alla consapevolezza di essere un oggetto di consumo per lei, come un pollo o un torrone, si univa un allontanamento conseguente all’incapacità di seguire i ritmi alimentari che ella imponeva. La sua frequentazione mi stava trasformando in un obeso, l’amore, che vieppiù si rarefaceva, non era sufficiente a smaltire i carboidrati di cui era ricca la “dieta erotica”. L’adipe dilagava sul mio corpo compromettendo insieme alla mia stabilità neurovegetativa, l’armonia psichica, perché incompatibilità peptonica e incomprensione amorosa con lei marciano di pari passo. Ero ben consapevole che sarebbe stato altrettanto grave astenermi dal cibo senza un fondato mo-
tivo quanto apparirle inaccettabile fisicamente, specie in quella situazione che volgeva verso la transitorietà. Le conseguenze sarebbero state per me insopportabili. Mi si prospettava un immediato futuro difficile, in cui praticare un sottile gioco d’equilibrio. Basta - infatti decisi - se voglio continuare a mangiare e ad amarla, devo riconquistare la mia linea, tornare in pace col fegato. Devo redimermi alternando con saggezza astinenza e ingordigia. Perciò in sua assenza addio languidi strangozzi al tartufo, aulenti spaghetti al cartoccio, aggressive pappardelle alla lepre. Addio. Un grido strozzato esala dall’esofago ogniqualvolta le imbandigioni mi straziano papille e narici. Sono trascorsi i tempi in cui l’insaziabilità non aveva nessun risvolto negativo. I giorni felici in cui il corpo era soltanto fonte di gioia e null’altro. È facile essere preso dal gorgo dei ricordi quando le cose vanno male: “ Nessun maggior dolore... “ Ma come ti attira la sirena della sofferenza. E allora ecco che tornano alla mente i momenti felici. La conquistai alla scalata di un timballo alla pugliese, mentre alle pendici della zuppiera si stendevano polli in fricassea e agnelli al tartufo nero (tuber melanosporum): un’occhiata a me e una all’arrosto misto, un bacio a me e uno all’umido di vitello alla noce moscata. Fu il primo e il più bel giorno d’amore, si potrebbe dire il nostro pranzo di nozze. Al dolce, un flan al caffè, salimmo le scale abbracciati mentre i cucchiaini tinnivano sui piatti che ancora tenevamo in mano; ansimanti chiudemmo con i piedi la porta dell’alcova imboccandoci a vicenda. Ci amammo prima che l’intestino cominciasse a fare il suo dovere. Fu vero amore e continuò ad esserlo. Non poteva essere che quello. Era il nostro. L’atavica
perenne fame che soddisfatta suscita la stessa gioia della vendetta compiuta e dilata i pori dell’anima perché vi abbiano accesso i sentimenti.
Si chiusero le fredde labbra alla salsa lasciandomi intendere che qualcosa, nonostante tutto non dovesse funzionare più; non un semplice sbalzo d’u/amore, ma un cambiamento profondo e irreversibile. Mi staccai da lei e mi accomiatai con un amaro sorriso. Forse era quello il momento di apparirle in tutta la mia fragilità, con le poche idee scomposte, con le ansie quotidiane, con l’adipe e l’ignoranza. Avrei dovuto guardarla con gli occhi umidi e il labbro tremante e, recuperando a fatica un po’ di forza, dirle: “Aiutami, non sono quello che mi sono sforzato di farti credere che io sia e di farlo credere a me stesso, sono uno straccio d’uomo. Sostieni questo mollusco con le tue braccia materne: coccolami, anninnami, confortami, imboccami”. Non fui tempestivo.
Già più volte mi aveva assalito il dubbio che il mio comportamento inappetente potesse essere un vero e proprio tradimento. Lei poteva senz’altro considerarlo tale.
Giungere da lei soltanto all’ultimo istante, per l’atto materiale, costringendola a celebrare da sola i preliminari, mentre io consumavo furtivamente uno yogurt in latteria, tra visi e corpi sconosciuti e mi trastullavo alternando occhiate al giornale e all’orologio, aspettando il momento preciso in cui si sarebbe servita il dessert. Inoltre mi sembrò necessario tentare di imprimere una svolta a questa relazione, arricchirla magari di particolari secondari, far entrare anche le cose del mondo nella nostra intimità. O meglio alternare o integrare eros con logos.
Ero convinto che non poteva essere solo sesso e cibo, sue
manipolazioni culinarie ed erotiche con conseguente consumo, il nostro rapporto. Certo ne ero soddisfatto, ma nell’appagamento era latente il sentimento di una limitazione esistenziale che la pigrizia congenita tendeva a sopprimere, però l’amor proprio la estraeva a forza dalle cavità profonde dell’anima in cui si era accoccolata, circondata ed oppressa da miriadi di giustificazioni e la poneva di fronte a me perché ne prendessi atto. La voluttà riempie abbastanza bene la vita, integra in maniera perfetta la routine soffocando gli altri stimoli. E c’era ben da perdersi dietro lei tutta letto e fornelli, con i suoi sbalzi di u/amore, col suo “mi do e mi nego” peristaltico: era un rapporto full-immersion. In preda al disimpegno mi crogiolavo in quel modo di vivere, ma il saltuario riaffiorare di un’etica senza riguardi mi scuoteva e mi dettava regole che non mi avrebbero consentito di accettare tali condizioni. Presto lei tuttavia aveva il sopravvento e si riaffermava al di là della morale, della ragione, della cultura, come modello, come meta. Così più forte era il contrasto tra volere e dovere e più mi rifugiavo in alibi che mi permettessero di superare l’impasse. Sostenevo con me stesso che il “vizio” avesse i suoi risvolti positivi, che pensare a lei servisse per mantenere in esercizio le facoltà intellettive; effettivamente mi impegnava il cervello facendomi elaborare strategie, preparare ritirate o assalti, attività che divenivano ogni giorno di più il fil rouge dell’esistenza.
Nessuna ora del giorno era senza di lei: era presente in corpo, in spirito e in sogno. Sognai una notte di trovarmi all’imbocco di una caverna, entrai ed intravidi un animale peloso che non riconobbi; correva verso l’interno. Lo
seguii nella grotta che recava appesi, mediante corde, cadaveri sanguinanti. L’animale sinuoso si perse nel fondo e i cadaveri mi sbattevano addosso. Mi svegliai di soprassalto ed interpretai il sogno: l’animale era lei e i cadaveri sanguinanti i denti dell’arcata superiore, doloranti nella realtà, perciò i corpi sanguinavano. Di nuovo lei appariva in stretta relazione, tramite l’apparato masticatorio con il cibo, o era una semplice coincidenza. Un segnale comunque appariva chiaro: lei voleva sfuggirmi. L’impressione avuta durante l’ultima cena trovava una conferma onirica. Infatti a poco a poco cominciò ad allontanarsi da me. Lo capii definitivamente in seguito ad un ennesimo convegno fallito. Era ormai da troppo tempo che la nostra relazione non aveva più quell’andamento altalenante dei tempi trascorsi: passione e tiepidezza (da parte sua); si trascinava piatta su grandi silenzi, pasti frugali e digeribili, astinenza sessuale. Tentai allora di rianimare la fiamma, mettendo in pratica i suoi insegnamenti che erano emanazione diretta della sua weltanschauung: ”mangiare leggere e fare l’amore sono tre simboli della stessa allegoria che è l’esistenza”. Provai a dimostrarmi abile ai suoi occhi in queste attività, per lei essenza stessa del vivere umano, elaborai dei lemmi a questo teorema; determinai che se mangiare è fondamentale, prima ancora verrà confezionare il cibo e mi cimentai nell’impresa, altrettanto valeva per la lettura, le avrei offerto un’opera in versi. Il resto sarebbe venuto di conseguenza: non si prepara l’amore. Pensai al menu per la serata. Doveva essere perfetto: un equilibrio assoluto tra gusto e cultura, un qualcosa da mangiare con le orecchie prima di tutto, poi con gli occhi, quindi da assaporare. Decisi per un
piatto unico: brasato di asina con verdure. L’asina con verdure spande la sua forza oltre tutti i confini: della storia, della geografia e della gastrosofia. Preparati gli ingredienti, presi carta e penna per scrivere. Sarebbe stato un sonetto, composizione sintetica ed equilibrata. Probabilmente molti poeti avevano conquistato l’amore con quattordici versi o forse nessuno, tuttavia il sonetto mi sembrò la strada più praticabile. ”Tra” cominciai subito con una cancellatura, iniziare con una preposizione banale mi sembrava poco fine, al di là delle considerazioni di ordine stilistico. Ricercavo soprattutto un’armonia di forme, un’impressione da dare in pochi attimi di lettura; verosimilmente ciò che avrei scritto poteva godere di un’attenzione momentanea ed in quel breve lasso di tempo avrebbe dovuto produrre il suo effetto. Non era letteratura fine a se stessa, era un’operazione strumentale.
Mentre il foglio bianco aspettava sul tavolo di cucina mi accinsi alla preparazione del brasato, desiderando che il componimento poetico fosse commestibile e il piatto musicale.
Non mi convince più l’aria d’aurora né m’incatena il morso del destino, vivo, anzi esisto d’ora in ora sacrificando al dio spazzacamino.
Il soffritto sfrigolava e i vapori di cipolla e timo impregnavano la stanza mentre masticavo le dure allitterazioni poco convincenti ma al meglio delle mie possibilità.
Sorvolai sul “dio spazzacamino” sperando in benevole
interpretazioni.
Vagolo mendicante di sospiri -bruta l’indifferenza mia a me stessomentre “l’invidia sanguinis” martirio dispone frequentando lo sconnesso
Il dittongo pascoliano a capo corrispose alla bruciatura della carne e al conseguente cambio di pentola con successiva raschiatura, confidai nell’enjambement con la terzina e nel Barolo con cui irrorai carne ed erbe.
animo mio come un serpente rosso. Essere e averti: solo amarti posso il tuo sorriso è specchio ai miei messaggi
m’alimento di angosce esistenziali di desideri inappagati, uguali a ciò che vuol la gente nei sondaggi.
La chiusa era pessima. Il brasato era cotto. Avevo fatto quello che il tempo e le mie possibilità mi avevano consentito. Forse troppo poco.
Le inviai il sonetto con un mazzo di fiori e un invito supponente: “Beati gli invitati alla mensa del signore”. Ebbi in risposta una frase di una poetessa greca: “Si semina col pugno e non col sacco”. La tavola rimase sontuosamente apparecchiata invano. Non venne, naturalmente. Non la vidi più, ma lo seppi soltanto dopo.
Dal giorno successivo cominciai a cercarla ed ogni volta che le giungevo vicino, mi rendevo conto che mi aveva
preceduto di poco. Stupefatto per il suo comportamento, non certo perché mi sfuggisse, quello suscitava ben altri sentimenti che non la meraviglia, bensì per la sua mobilità e la sua rapidità nel precedermi. Se avessi dovuto assimilarla ad un animale avrei pensato per l’aspetto e la sornionità ad una tigre, per i ritmi ad un elefantessa; nulla la turbava, nulla la spingeva ad accelerare, sicura e placida veleggiava nei suoi spazi che mai lasciava se non per pochissimi momenti. Gesti calibrati, anche le parole e gli sguardi sembravano quasi galleggiare nel plasma. Rimasi esterrefatto dal repentino cambiamento che all’inizio mi disorientò non poco e al quale mi adattai tardivamente, anche se devo dire che, visto che era causato da me, un po’ mi lusingò sebbene non mi giovasse, ma quando cominciai a capire mi sembrò (e lo era) tardi, troppo tardi. Proseguii tuttavia nelle ricerche, in maniera sempre crescente di intensità e di velocità, fino ad inseguirla in siti giocoforza impensati e con corse spasmodiche e vane, così che le mie illusioni apparivano ogni volta frustrate, sovente per pochi attimi. La rincorsa affannosa e circolare di giorni e giorni mi portò un pomeriggio di caldo eccezionale a casa sua. Era stata lì e se n’era andata da poco tempo, il sedile del water era ancora tiepido. Mi diressi verso il frigorifero, pensando che la tavoletta poteva risultare così a causa dell’esposizione al sole. Mi colarono dalle ascelle due rivoli contemporanei di sudore che si fermarono ad inumidire l’elastico degli slip. Era l’estate quella. L’estate senza scampo, stipata di frinire di cicale cotto dal sole e dai riverberi terrestri, bollenti come un piancito di forno a legna. Aprii il frigo e chiusi gli occhi per un momento inalando la corrente fresca che ne sca-
turiva e andai con lo sguardo a scorgere i contenitori più strani delle pietanze più disparate: piatti di fagioli e cotiche, casseruole con sogliole alla meunière, barattoli di pomodori pelati contenenti boeuf à la mode, teglie da forno con torta di ananas e marrons glacés, vasetti di yogurt rasi di remoulade di gamberetti, una fila di crêpes su un piatto usa e getta, altri cibi vari non confezionati; faceva poche concessioni alla moda, ai tic snob, ma la sua francofilia gastronomica rappresentava un’eccezione giustificata da una sorta di obbligo culturale. La sentii vicinissima. Lei era tutta lì, tra non molto tutte quelle cose che riempivano i miei occhi e i miei pensieri sarebbero divenute sua carne e suo sangue, erano in frigorifero per una sorta di consacrazione. Ma ora, pensai, siamo all’offertorio. La sferzata di freddo mi aveva dato un barlume di lucidità e di gioia di vivere che la sua lontananza e le sue ripulse mi avevano progressivamente sottratto. Assaporai l’idea che mi era balzata facendole percorrere tutte le volute del cervello: scorse via fluida. Il brivido alla schiena che ebbi non era da attribuire al frigorifero che aveva iniziato il suo ronzio trepido e lamentoso, come se l’elettrodomestico per un momento fosse cosciente e partecipe delle mie intenzioni e manifestasse la sua contrarietà con un brontolio minaccioso. Era senz’altro la gioia della trasgressione, della profanazione che mi scuoteva, il tremito continuò a percorrermi il rachide e il sangue mi si addensò alle orecchie rendendole paonazze. Allungai le mani e seppi che lei se n’era andata da poco: la zuppiera con la “mousse” ai funghi non era in preda alla morsa del gelo, l’impressione avuta per il tepore del sedile del water aveva la sua conferma. Lei mi si
nascondeva, mi sfuggiva. Ero autorizzato a non sentirmi sacrilego se profanavo il suo sacrario. Lei mi si negava e io l’avrei fatta mia in forma differita. Avrei divorato le sue riserve d’energia. Avrei consumato ciò che era in procinto di diventare l’oggetto del mio desiderio, in maniera che questo invece di trasformarsi in lei si fosse trasformato in me, auspicando in un delirio d’amore che la predestinazione già fosse attuata e che la sua presenza, la sua identità, già fosse in quelle sostanze e che perciò, una volta assuntele in me, mi avrebbero fatto diventare lei, in virtù della forza della materia e dell’amore. Iniziai con la “mousse” stessa, scivolò senza rimpianti; sturai una bottiglia di vino onde lubrificare eventuali attriti, ma i fagioli con le cotiche non mi crearono alcuna difficoltà nonostante giacessero al freddo ormai da tempo. Rotta la pellicola di grasso congelato con le mani, li tracannai direttamente dal piatto; subito dopo il vino si rese necessario: era un Traminer alto atesino che mi anestetizzò l’epiglottide e mi dette agio di pensare. Nessun dubbio mi sfiorò, il possesso della sua persona sarebbe avvenuto in maniera totale, quella era la prova della mia fede nella materia. Se la materia ha una forza intrinseca, un’autonomia creativa, interviene sull’uomo che di materia è fatto, lo modifica, lo plasma, quella forza era già tutta lì ed era destinata a plasmare lei, avrebbe plasmato me in forma di lei ed io sarei stato lei, esattamente come era previsto dalla materia creatrice, e come desideravo, anche al costo che lei si fosse annullata in me. Continuai perciò spasmodicamente a consumare le scorte consacrate: insalata di pollo, riso pilaf, supplì, scamorze, carciofi alla giudia, polpette, patate in umido, zuppa di pe-
sce e maritozzi. Mangiai tutto, raschiando anche il ghiaccio che si era formato sul fondo della parete e che appariva impregnato dell’odore della mistica vivanda, bevvi quello che c’era senza avvertire il sapore, spensi la luce ed uscii. La sera mitigò la calura. Tirava una leggera brezza che mi investì quando mi trovai sul pianerottolo e richiusi la porta alle mie spalle. Il caldo aveva spopolato la città consentendomi un rapporto intimo con le stelle. La luna non c’era e la quiete della notte favoriva il riproporsi di immagini che la crapula e il vino suscitavano rendendole al tempo stesso intollerabili ad ogni passo, come un flashback ossessivo rivivevo l’ingorda assunzione della mousse, piegavo indietro la testa e ingurgitavo così, meccanicamente, come poco prima in preda all’orgasmo trasgressivo avevo fatto. L’immagine tornava una, due, mille volte, facendosi spazio tra i miei pensieri simile a una luce violenta e indiscreta. Non riuscivo a capacitarmi dell’inavvenuta trasformazione e ad ogni passo volevo che il mio corpo e la mia anima si mutassero; volevo essere lei, il delirio non mi aveva abbandonato. Il mio corpo segnato da millenni di perpetua mascolinità su cui l’anima si era modellata ad immagine e similitudine, lo spingevo lontano da me e con lui volevo che se ne andasse l’anima stessa. In quale punto risiede identità?
L’io intimo che mi distingue da ogni mobile e immobile?
Quel fuoco che fa sì che io sia io non perché uomo, non perché maschio, ma in quanto individuo, dove si colloca? Soltanto quello volevo essere e conservare e per tutto il resto poi divenire lei; ma la volgare mousse continuava a versarsi nella mia gola come una lavanda cerebro-gastrica, impedendomi di proseguire nella spoliazione e lei
rimaneva sempre fuori, tenuta lontano dal mio corpo e dall’atto persecutorio. Ad un ennesimo riproporsi dell’immagine, il sapore acido che venne alla bocca assimilò il mio stomaco, nel quale mi ero illuso si andasse compiendo la trasformazione alchemica, ad un pentolone nero in cui qualcuno stesse confezionando del sapone. Il mio corpo non mi abbandonava, ne percepivo tutto l’ingombro e l’immagine di lei non trovava posto in me, cacciata dall’insistenza dell’atto sintetico che sconnetteva i miei faticosi pensieri. Percorsi alcuni metri nella più completa solitudine notturna, con fitte perle di sudore sulla fronte e sull’addome. Il mio sogno di trasformazione annegò in alcuni fiotti di vomito: l’inevitabile rigetto, che precipitò su una vagabonda rana la quale, una volta rinfrancato fisicamente, provai, in una estrema illusione, a guardare come se fosse il batrace destinato a divenire nelle favole principessa. La battezzai con il suo nome e mi allontanai dai resti del rito profano che io, indegno sacerdote, avevo voluto compiere senza essere stato unto.
FACILE
Facile! Una diagnosi sicura, vista la chiarezza dei sintomi e i responsi clinici: «Colite spastica, signora. Per il momento segua queste prescrizioni, torni da me tra dieci giorni e vedremo. Stia tranquilla!» L’ultima visita della giornata, trascorsa tra palpazioni, ispezioni, sorrisi rassicuranti, appuntamenti, col pensiero ormai all’attività prediletta. Poi anche con le mani, con gli occhi, con tutto me stesso. Smesso il camice, comincio già a montare la carabina, perfettamente lubrificata -se non bastasse ci passerei la lingua- come deve essere uno strumento di assoluta precisione, custodita come un utensile chirurgico, un bisturi o un divaricatore, in ambiente asettico, a temperatura e umidità costanti; la tocco senza abbandonarmi alla passione, verifico la pulizia del cristallo del cannocchiale che non sa cosa sia la polvere, appoggio la mano che va meccanicamente sulla sua sede naturale, poi via al poligono a farla funzionare. Così da essere sempre pronto. Se sto un giorno senza suonare, dice il grande pianista, riavvicinandomi al piano me ne accorgo subito. Quando ci si esprime ad altissimo livello si rinuncia a tutto pur di non avere cadute che possono compromettere le performances. Ma quale rinuncia? Dedicare tutto il tempo che ho e trovarne ancora per sparare è vivere! Sul resto caso mai ci sarebbe da discutere. Facile! col cannocchiale e l’appoggio si risolve qualsiasi problema di mira anche a questa distanza. L’immagine dell’uomo stampato a duecento metri va colpita in più punti vitali con un margine d’errore di pochi millimetri per potersi considerare perfetti. Con l’allenamento co-
stante, un regime di vita adeguato, la convinzione in ciò che si fa, la percentuale di errore non si allontana dallo zero. Ma la convinzione è alla base. Poi a casa, tra moglie e figlio, percorrendo le vie della città a misura propria. Si snodava attraverso quel percorso: casa, ospedale, poligono di tiro, stazione, la quotidianità. Ciò che era normale si risolveva nella iterazione di questi brevi transiti; la routine domestica che si interrompeva per il lavoro che aveva la caratteristica di assorbirti totalmente nel suo svolgersi, quindi la rete per gli incarichi, la stazione per le definizioni del fare ed eventualmente per raggiungere i luoghi. Ombre e luci. Giorni opachi e attimi splendenti. Le sedute davanti al monitor, il collegamento in rete. Gli annunci della pagina venivano letti subito. Poi se non contenevano i messaggi cifrati, l’ansia scemava. Quando figurava una vendita d’immobili nel centro di Rapallo, ogni elemento numerico presente era un’indicazione, che rimandava per maggiori dettagli alla stazione del capoluogo, alla determinata, sempre la stessa, casella bagagli. Si apre con il codice crittato. Si leggono le disposizioni e si parte. Si va fino in prossimità del luogo del lavoro e lì ci si appresta ad eseguire. Piazzato tra i centocinquanta e i duecento metri, perfettamente celato, con l’indispensabile per tirare avanti per più giorni, fino al momento del colpo. Uno solo. Facile! Col cannocchiale e l’appoggio si risolve qualsiasi problema di mira anche a questa distanza. Si inquadra accuratamente il capo in maniera che le perpendicolari del mirino si trovino appena sopra l’orecchio, se di profilo, indifferentemente nella parte alta della testa nel caso di una visione frontale, meglio un occhio. Il volto non si individua bene. Si può capi-
re se è maschio o femmina (maschio di solito) poco di più, i connotati veri e propri non si percepiscono, sfuggirebbe al riconoscimento anche una persona ben nota, finanche un familiare. Poi si tratta soltanto di premere il grilletto. Il proiettile pietoso e discreto scava una galleria uniforme attraverso i pensieri che sfiora senza leggere e, rapido, non assiste al loro spegnersi; ma sottrae la vita in modo indolore, la porta via con sé oltre l’altra parete della scatola cranica e la disperde nel vuoto. E il corpo si accascia. Non c’è probabilmente l’opportunità di ripetere, ma neppure quella di sbagliare. Se si è preparati e convinti di ciò che si fa, basta accarezzare il grilletto solo una volta. Al bersaglio sì e no che giunge il rumore dello sparo. È in genere uno che sa che quello può essere il suo destino, ma non fa in tempo nemmeno a pensare “me l’aspettavo”. Nessun rammarico però, perché questo significa che il risultato è ineccepibile. Si smonta l’arma ancora tiepida, inalando il sentore acre del fumo, e si ripone nella custodia, quindi si riporta al sicuro, dove si è presa. Talvolta ciò costa un lungo viaggio, anche di più fusi orari e di passaggi di stagione. Il giorno dopo e qualcuno di quelli successivi, per pudore direi deontologico, non si seguono le notizie, lontano dai notiziari radiotelevisivi, lontano dai giornali, finché l’interesse per l’accaduto si dirada e c’è anche la possibilità, con un po’ di fortuna, di non personalizzare affatto il gesto. Se poi si dovesse venire a sapere che si tratta di un mafioso giapponese, o di un ribelle terzomondista di chissà quale paese neonato, nella sostanza cambia punto o poco: resta un bel centro al tiro al bersaglio. E un cospicuo guadagno.
Di nuovo sul mercato per un’operazione analoga successiva.
I pensieri che lo accompagnano quando scende i tornanti con l’automobile, oppure mentre a piedi o in treno o in aereo ritrova la via del ritorno, riguardano il pranzo a casa, le vacanze che lo aspettano, gli acquisti di un’auto nuova, abiti, libri e software, regali per la famiglia, resi possibili dall’impresa, l’allenamento al tiro per mantenere alto lo standard. Ma un fucile perfetto non si cambia. Compiacimento per aver interpretato bene l’offerta letta su un quotidiano, un po’ enigmatica per la verità, - ma poteva ragionevolmente essere diversa? - tuttavia sicuramente attraente. Soddisfazione per essere poi stato scelto: esito di una selezione che coinvolgeva una serie di aspetti, per cui risultava indispensabile avere requisiti non sempre presenti ad una certa età. Appagamento per i risultati economici. Interessante e decisiva era soprattutto la spersonalizzazione del rapporto: sconosciuto il committente, ignoto il bersaglio, oscuro a entrambi io. Poco conosciuto persino il luogo, preso in esame giusto l’indispensabile per un buon appostamento e per allontanarsene poi: condizione irrinunciabile per un efficace lavoro.
L’estate era decisamente una stagione favorevole per questa attività: pranzi e altre faccende all’aperto, distrazioni frequenti anche delle guardie del corpo, bersaglio più facile. Certe volte un raggio di sole blandito dalla brezza pareva guidarti, filtrando tra le foglie lambiva l’orecchio, l’occhio, la tempia dell’uomo e sembrava quasi indicare il punto da colpire, in modo invitante. Alleati erano anche gli animali, i cani che con le loro affettuosità
dinamiche parevano ipnotizzare l’obiettivo che restava a lungo immobile: impossibile sbagliarlo, oppure i bambini, quando vincevano la sua riottosità e le resistenze delle guardie a partecipare ai loro giochi, era fatta. Una volta accadde che la donna che si era appartata con lui, lo baciava con accanimento schiacciandolo contro un albero, un acero pseudoplatano; il colpo attraversò tutto il capo, e lei si avvide di ciò che era accaduto perché, prima che lui si afflosciasse al suolo, avvertì il bruciore che, ferendola, la pallottola le aveva procurato sulla mano con cui gli accarezzava la tempia di uscita. Ingiusta punizione per l’involontaria ma utilissima complicità; d’inverno facilitazioni del genere sono più improbabili. Curiosità, poco più che curiosità, al centro c’era il lavoro e la nettezza dei suoi risultati.
Può un medico, infallibile nel tiro con la carabina, rinunciare a mezzo milione di dollari “puliti”, con la promessa di ripetizione in caso di buon fine o di insuccesso per giustificati motivi, per un’operazione semplice come quella in oggetto? Certo si trattava di uccidere persone, ma le remore morali erano giustamente sopraffatte dalla ragione che si trattava di sconosciuti – si possono conoscere una, due, pochissime persone nella vita, le altre puoi benissimo ammazzarle tutte – e, ciò che più contava, che se non lo facevi tu, qualcuno che lo avrebbe fatto, basandosi sul principio che avrebbe dovuto guidarti, sostituendoti anche al momento dell’incasso, si sarebbe indubbiamente trovato, perché quando queste cose devono essere fatte, si fanno e se non le fai tu le fa un altro. Bastava molto poco per capirlo questo.
Allora tanto valeva farle evitando che ci guadagnasse un
estraneo, un altro appunto.
Perché contava più di tutto da dove si eseguiva il tiro. Nascosto ma non troppo lontano, facilmente raggiungibile senza essere notati, tramite vie d’accesso frequentate ma non affollate, dove si poteva stazionare appartati anche per ore, qualche giorno addirittura, finché il bersaglio non fosse comparso.
Importante è la via di fuga. Individuarla con precisione, prevedendo alternative. Percorrerla agevolmente con adeguato controllo, soprattutto nel primo tratto. Allontanarsi senza assolutamente essere visti, lentamente prima, per ogni evenienza, perché subito non arriva nessuno, poi quando tutti si precipitano bisogna essere scomparsi anche dai dintorni, occorre essere a qualche chilometro di distanza; sbagliato sarebbe esporsi al rischio di farsi vedere in prossimità. Allora è opportuno accelerare quando si è percorso un giusto tratto e la tua corsa non può essere scambiata da chicchessia per una fuga, senza indugiare ad apprezzare panorami, architetture o altro che di solito convivono con il sito, così che non ci sia chi possa associare il tuo viso al fatto, in alcun modo. Essere un rispettabile professionista, anche nel look, aiuta.
Tornare a casa con l’aspetto di chi è appena rientrato da un breve viaggio di affari o di lavoro, indifferentemente: stanco ma soddisfatto.
E una volta lì, tranquilli, guardarsi intorno come se si volesse scoprire ancora una volta, perché si ama, la propria città. Andare alla ricerca di quel punto di contatto tra sé e l’amore per i luoghi. Più volte si è pensato che dipenda dalla sua bellezza, ma a questa ci si abitua e per di più con
il passare del tempo se ne scoprono i difetti, senza per ciò amarla di meno, come per un bel viso o un bel corpo; forse è la sicurezza della conoscenza, la percorribilità indiscutibile delle strade, l’evidenza dei profili nelle varie stagioni, la riconoscibilità reciproca con gli abitanti, la condivisione con essi di momenti qualsiasi, tristi, belli o esaltanti. Ma sulla base di ciò tutte le città, specialmente quelle piccole sono uguali, cioè amabili. Allora bisogna aggiungerci qualcosa, forse la solennità di certe ore della notte, i tramonti, il ripetersi di queste caratteristiche nella storia, lunga, popolata di concittadini illustri che hanno goduto di tutto ciò e che hanno lasciato vestigia insigni, e la loro presenza ha determinato il nostro carattere, la nostra personalità, le prospettive della nostra esistenza, i sogni, la sensibilità, le ambizioni. Forse è questo che ci fa amare la città in cui si è nati e magari si vive, anche nell’attesa di svolgere un altro lavoro come quello che ci ha chiamato fuori di essa per un po’, con il desiderio di ritornarci presto, a cercare - adesso sì- tra percorsi che offrono curve panoramiche in salita, scorci di mondo animato da presenze care, che percuote fortemente i neuroni e vi fa scoccare scintille, che accendono fuochi, che intiepidiscono le pareti interne. Tutto ciò o/e qualcos’altro d’ineffabile, d’introvabile lungo l’itinerario delle parole, che rende vivo un amore, per un paese come per un animale, per un oggetto o per una persona. Per un essere che ami. Ne puoi amare pochi. Quelli li conosci. Tutti gli altri ti sono ignoti e li puoi benissimo ammazzare. E in un modo o in un altro li ammazzi se se ne presenta la necessità
Era facile collegarlo questo sentimento di assimilazio-
ne con il tratto di strada tra la casa e la piazza principale, dove al mattino presto dei giorni liberi si recava per commissioni. Un percorso segnato dai suoi passi che avevano lasciato una traccia ideale lungo gli asfalti e i selciati. Sfiorando con la spalla la fontana settecentesca, scrostata appena la corteccia del cedro, sorriso alle facce che ti sorridono, battuto con le nocche il pluviale di rame della grondaia del circolo, assorbito con gli occhi e col pensiero il panorama della vallata e il profilo delle cime contro il cielo, la facciata romanica, il campanile traforato di mattoni, fino all’edicola dei giornali. «Diecimila e due, dottore» «Grazie». La stessa strada a ritroso e ricaricato ti trovi a casa a cercare un orizzonte. Col solito sistema dell’annuncio sulla rete mi informano del nuovo servizio. Mi coglie piuttosto impreparato, sono tre giorni che non mi addestro perché il bambino ha un po’ di diarrea, niente di grave per carità, ma si sa come siamo noi genitori, sempre troppo apprensivi, anche quando siamo medici e sappiamo farcene una ragione. Così rimproveriamo agli altri le esagerazioni che ci irritano e riteniamo assolutamente ingiustificate, poi quando tocca a noi non riusciamo nemmeno a concentrarci al poligono di tiro e ci sottraiamo ai nostri impegni, perché un’insulsa ansia ci rende malfermi l’animo e la mano.
Il bambino per la verità era in via di guarigione ormai, le scariche si stavano rarefacendo e perciò potevo ragionevolmente, senza alibi, svolgere il mio compito con la consueta efficacia. Sempre che non ti succeda che al momento dell’esecuzione non appaia, come avvenne, l’immagine languida del suo visetto sofferente per i dolori di
pancia (ah se la madre mi avesse dato ascolto e non gli avesse comprato quello stupido ghiacciolo a forma di cavalluccio marino. Ma lei deve dargliele tutte vinte, anche a costo di mettermi poi in queste situazioni) già durante le esercitazioni mi è capitato e i risultati non sono stati certo incoraggianti. Poi preferirei non ricordare quello che successe. Me ne vergogno ancora tra me e me. Due giorni di appostamento immobile su un albero, l’unico con le foglie in quella stagione nell’emisfero opposto. Mani fredde, occhi lacrimosi, gelo che ti blocca il corpo e la mente. Occasioni di eseguire rarissime, una sola forse quella giusta. Eccola. Apre la finestra da solo, contravvenendo alle disposizioni della sicurezza, sono pronto, ho già imbracciato, quando l’occhio non ancora chiuso mi fa vedere un cono rovesciato di ghiaccio che pende all’albero, scatta il meccanismo intimo di raccordo mnemonico con la causa dei visceri malati del bambino, il ritardo nel colpo, l’indecisione nella mira, il proiettile che avanza vano verso un punto inutile. Per buona sorte -non smetterò mai di ringraziare chi l’ha determinataun brusco movimento del bersaglio che, scartando da un lato, accoglie il proiettile proprio sul setto nasale e il disappunto – che avrebbe avuto ancor più gravi conseguenze, fino all’interruzione del rapporto con i committenti- si trasforma in un sospiro di sollievo e nei primi gesti per l’avvio dell’attuazione del progetto di rientro, a cominciare dalla discesa da quello scomodo, gelido albero.
Passaporto e biglietto nella tasca del giaccone, abiti freschi nella camera d’albergo che mi aspettano, così come mi aspetta il compenso che giungerà invariabilmente
sul conto estero su estero, così come invariabilmente mi sorriderà Luciano ormai guarito, ed Eufemia, che doverosamente si informerà degli aspetti del congresso, già predisposta ad ascoltare mezze frasi evasive per risposta, ma col pensiero al regalo che, invariabilmente, giunge ad ogni mio ritorno e che la riempie di emozione fino al punto da farle trascurare di chiedersi come sia possibile tanta abbondanza per una famiglia monoreddito come la nostra. Ma che importa. Il pendolo dell’esistenza al momento è in pausa. Godiamocela attendendo senza fretta che oscilli di nuovo. Sorbiamo la quotidianità palpando addomi e stilando referti, guardando crescere il bambino, accoppiandoci a scadenze fisse, sfoggiando mise eleganti e calpestando tappeti soffici tra arredi signorili e accessori ricercati, progettando e realizzando vacanze principesche. Vacanze, parola dal significato chiave per comprendere il vero senso della vita per uno come me. E mia moglie. È grazie a lei se sono quello che sono. Ed ha tutta la mia devota gratitudine, ma non posso certo assegnarle solo meriti per il ruolo che svolge in relazione al mio lavoro. Quella domenica pomeriggio, libero eccezionalmente da impegni, telefono staccato, irreperibile, fu un vero e proprio inferno. Eufemia aveva riportato un forte insuccesso personale che io, per consolarla, tentai invano di minimizzare. I suoi alunni non furono ritenuti sufficientemente preparati per la confessione. Gli sforzi compiuti nei corsi di catechismo del sabato pomeriggio per tutto un inverno, si erano dimostrati totalmente vani. Il parroco, consultatosi con il vescovo, dopo averli pazientemente riascoltati, ritenne che non erano idonei ad accostarsi ad un sacramento, seppure non più obbli-
gatorio, tuttavia da non prendere con leggerezza. Immaginate lo stato di prostrazione di Eufemia, che aveva dedicato tutto quell’impegno, tralasciando per prepararsi il venerdì persino le cure domestiche, per ottenere un esito che pensava certamente alla sua portata e che invece era risultato irraggiungibile. Il parroco e il vescovo furono decisi e irremovibili, d’altronde non c’erano spazi di trattativa. E lei aveva assorbito il colpo nella maniera peggiore. Dopo aver preso tre messe in tre luoghi diversi nella mattina, portò a casa per pranzo soltanto la parte più fragile della sua anima, quella stracciata dalla delusione dell’insuccesso, rovesciando addosso a tutta la famiglia, suoceri e bambini compresi, le sue lamentose amarezze. Queste vicende, pur comprensibili, mi procuravano un sordo stato di agitazione che mi illanguidiva, mi faceva fremere internamente spaesandomi. Quando ero così non mi sentivo più sicuro di alcunché. Il momento meno indicato per un nuovo servizio. Che ovviamente giunse e da effettuare a tamburo battente, possibilmente il giorno stesso. Perché il bersaglio si sarebbe trattenuto pochissimo, così diceva l’avviso in codice della pagina Web del sito del committente visitato più volte al giorno: “monolocale” significava un giorno, due al massimo, quindi le indicazioni della residenza, le precisazioni sulla tipologia fisica, talvolta la foto – ma era raro e in quel caso non c’era- c’erano però le descrizioni nella cassetta della stazione ferroviaria, dove giungevo sempre con circospezione perché era l’unico punto in cui potevo essere visto e individuato, perciò alla prudenza aggiungevo anche qualche travestimento; l’accesso era semplice perché l’apertura avveniva con un numero di codice, niente chiave o carte,
comunicato sempre via Internet.
Subito alla stazione quindi a prendere le indicazioni, poi via, breve volo in aereo, studiando i dettagli topografici e stendendo il piano. Con i bagagli costituiti, oltre che dall’indispensabile per l’azione, dai singulti e dalle lacrime di Eufemia, inconsolabile catechista fallita, ma, a parte insignificanti debolezze, splendida, evanescente moglie. Infatti era anche per lei che facevo tutto questo, per lei che non si chiedeva da dove provenissero tutti quei bei gioielli che moderavano le piccole e grandi delusioni della esistenza, almeno gli effetti di quelle, e che non doveva sapere nulla perché altrimenti la consapevolezza le avrebbe causato più amarezze che soddisfazioni. Era un albergo la meta, uno di quegli alberghi in cui si soggiorna per avere a disposizione agio e riservatezza. In prossimità di un lago, con un campo da golf che nella cattiva stagione diveniva spazio per passeggiate salubri. L’obbiettivo, a detta delle indicazioni, era solito meditare su percorsi similari. Bastava nascondersi per qualche minuto, un’ora tutt’al più poco dopo la colazione e il lavoro si sarebbe potuto svolgere con assoluta semplicità e rapidità. E, data l’abitudine ad isolarsi del soggetto, ci sarebbe stato tempo più che abbondante per allontanarsi indisturbati, prima della scoperta dell’accaduto. Così è infatti. Da un sopralzo del terreno tra gli arbusti, come uno stupido capanno naturale per cacciatori di pennuti di piccola taglia, tengo sotto controllo un ampio spazio di green. Entra in campo: corrisponde alla descrizione fisica, taglia robusta, tendente alla rotondità, abiti sobri, giacca scura e pantaloni dello stesso colore, passo corto mentre scende il declivio, potrei colpirlo alla nuca tanto
sono certo che sia lui, ma aspetto che si volti per verificare se ha la fronte ampia e le sopracciglia folte, scure in contrasto con i capelli grigi cortissimi. Uno scoiattolo attrae la sua attenzione e lo fa girare su se stesso senza che esca dal mirino: ha il collarino bianco, è un prelato, un parroco, o più probabilmente un vescovo; è Eufemia e le sue frustrazioni che mi trovo di fronte con la possibilità di vendicare le sofferenze patite. Contestualmente sento quasi che sto per abbandonarmi ad un gesto di rivalsa, mescolando sentimenti personali, familiari e lavoro. Colpendo il vescovo faccio giustizia dell’eccessiva severità che quello della mia città ha usato nei confronti di mia moglie e questo pensiero mi frena, lo scoiattolo indugia deviando i pensieri e bloccando il bersaglio che resta a tiro finché non risolvo che il dovere prevale sulla morale e lo colpisco dove ha ricevuto il sacro crisma, atto d’avvio della sua carriera definitivamente interrotta. Lo scoiattolo non capisce il perché del comportamento del momentaneo compagno e dopo un po’ di saltelli sul prato ritorna sull’albero più vicino. Me ne vado certo di aver fatto il mio dovere. La cosa più giusta. Quello per cui ero stato investito. Sicuro di non essermi lasciato andare a sentimentalismi, che il compimento del gesto era assoluto, scevro da condizionamenti esterni.
Si sentiva, forse lo ero veramente, un eroe dei nostri tempi, capace di accettare le regole del grigio che la società impone e non ribellarsi se non attraverso piccoli segnali che servono per affermare la propria identità, la propria esistenza, ritagliandosi degli spazi nel quotidiano che ti fanno sentire vivo, quelli della cosiddetta illegalità/crimi-
nalità e quelli che sono prodotti dai vantaggi della stessa. Un eroe anche perché ciò che lo faceva tale restava chiuso nel suo cuore, all’interno di una dimensione segreta in quanto le convenzioni della società non gli permettevano di dichiarare apertamente ciò che lo inorgogliva, che dopo i primi scrupoli (che per la verità ormai sentiva lontani e superati definitivamente, irreversibilmente) era divenuto per lui motivo, ragione di sopravvivenza. Viveva cautamente questa consapevolezza, senza eccessi e questo probabilmente lo faceva sentire ancor più eroico.
“Frantumo le ossa temporali a dugento (lo attraeva la pronuncia toscana del numero) metri” gli veniva la tentazione di dire ogni tanto al bar, nelle pause del lavoro ospedaliero che non aveva mai abbandonato, nemmeno per prendere uno studio dove si sarebbe potuto recare anche occasionalmente, come pura copertura, i proventi della sua attività da professionista subissavano gli stipendi, invece preferiva sporcarsi con il quotidiano, vivere perché il navigare fosse più inebriante; e in quei momenti in cui i colleghi buttavano là le loro dilettantesche vanterie sportive, avrebbe voluto dire loro “Tieni, imbraccia il Rifle 405 e ficca un proiettile in un occhio a 150 metri di distanza a un ministro sudamericano” ma taceva. E subiva le vane spacconate di partite a squash o, peggio ancora, di bowling, di mediconzoli senza spina dorsale. Che avrebbe potuto zittire facilmente, godendo ad osservare le loro facce sbigottite per le sue parole. Silenzio invece. Con questi orgogliosi pensieri viaggiavo verso l’impegno del giorno, del momento, della vita. Verso una casa sul mare, una villa circondata da un bosco ceduo, situata alle pendici di una collina. Condizioni
ideali. Posizionamento dell’auto in un punto favorevole per l’abbandono del sito. Approdo notturno con la barca a fari spenti, sulla spiaggia appena all’interno del recinto della proprietà, qualche giorno dopo l’arrivo - c’è tempo stavolta - quando la tensione dei controlli si è un po’ rilassata, ma sempre con la massima accortezza. Poi la scelta del luogo dell’appostamento. La salita sull’albero giusto, albero lingua della terra che lecca il cielo, la definizione delle alternative in caso di inopinati controlli ravvicinati. Dove nascondere il materiale, in una grotta grondante soffice muschio albino, infine il via all’appostamento con il fucile imbracciato. Pronto. Facile da qui. Se fosse quella bottiglia, fatto; se fosse quel cane, fatto; se fosse quella domestica a cui svolazzano le gonne e che mostra attraverso il cannocchiale le brune cosce opime, fatto; guardia del corpo, fatto; altra guardia, altra ancora, fatto; tutti si mostrano ma lui, sono ormai delle ore e non è ancora apparso. Circola invisibile oltre la casa. Poi finalmente al crepuscolo si incammina da solo tra gli alberi, che al momento rendono incerta la mira, verso il litorale. Aspetto il colpo sicuro, confidando che arrivi presto perché la notte incombe e il suo implacabile calare rinvierebbe tutto a domani. Gli si accosta una guardia che evidentemente non vuole lasciarlo solo, peccato questo comporterà che lo potrebbe nascondere e diminuire le possibilità, inoltre se cade sotto i suoi occhi, darà subito l’allarme riducendo i tempi di fuga, ma questo mi preoccupa di meno. Imbraccio e sto prontissimo, inquadro entrambi alle ultime luci utili, la guardia che si avvicina con un telefonino o qualcosa del genere, scuro in mano, no ha la canna, è una pistola, gliela punta contro e sta
per sparargli. Ma è già nel mio mirino e il proiettile è più rapido del suo dito. Si blocca un attimo e crolla al suolo, mentre il bersaglio, il mio uomo, si porta la mano alla tempia, appena sopra all’orecchio, che si tinge di un rosso simile a quello del crepuscolo incombente, che non potrà mai vedere. Rifaccio i bagagli ai bagliori estremi di un cielo sanguinante (!), riprendo la via del ritorno con la consueta tranquillità ed ho agio di dipanare strada e pensieri.
SINTESI
Era capitato per un’estate, succedeva che dai grandi centri venissero a trascorrere un periodo di noia da noi, famiglie con figli che prendevano in affitto appartamenti mobiliati. Un coetaneo. La sua spigliatezza e gli interessi suscitavano invidia e ammirazione, tanto che si era subito propensi a trovargli imperdonabili difetti, del tutto supposti per altro. Ma la sua disinvoltura ignorava i nostri ritegni e si inserì nel gruppo senza colpo ferire e divenne subito un leader disincantato e senza potere. Ci aprì gli occhi su una discreta varietà di temi e un giorno ci sbalordì con un argomento a cui non avremmo mai rivolto la nostra attenzione. Occorreva, era il suo pensiero, una sistematizzazione meccanico quantistica – parole che appartenevano ad un vocabolario alieno – della figura del divino. Si ispirava alle prospettive rinascimentali, prima di tutte quella di Masaccio della Trinità; un accenno a Newton, l’anglo che tanta ala aveva steso nel firmamento, ma quasi per celia, in realtà Isaac puntava proprio a scientizzare la Bibbia, quella sì seriamente; e il proclama di Stephen Dedalus che diceva di essere in grado di dimostrare geometricamente l’esistenza di Dio. Le nostre letture sfioravano appena personaggi e termini. Negli sforzi mentali che si stavano facendo da più parti per trovare una formula unificatrice dell’universo, era indispensabile inserire la figura di Dio. La matematica che aveva contribuito alla risoluzione di tanti misteri: i fluidi e il loro comportamento, l’elettricità e il magnetismo, le particelle, le onde, anche quelle gravitazionali, ma, soprattutto l’energia (E = mc2) avrebbe potuto, se
seriamente impiegata, unificare il concetto, l’idea di divinità. Mettendo insieme Jahvè, liberandolo dal deserto in cui l’avevano concepito e racchiuso, Allah, Buddha, Brahma, Shiva, Vishnù (e tutti i trentamilioni di dei che ingombrano l’empireo induista) e noi a bocca aperta ad ascoltare quella sorta di piazzista imbonitore; Zoroastro, Ahura Mazda, comprendendo anche l’Olimpo greco (e quello romano che presenta delle variabili poco significative) calcolando le interazioni tra di essi e definendone un profilo accettato in quanto misurato, escludendo dall’operazione i teologi che avrebbero potuto creare interferenze. Sarebbe stato un bel risultato. Annuivamo al suono senza capire se non qualche termine riferibile ai personaggi della mitologia, dei romanzi d’avventure, a qualche reminiscenza scolastica. Spesso gli scienziati sono atei e non intendono dedicarsi ad analizzare entità che a loro giudizio non esistono, sarebbe come chiedere a un terrapiattista di studiare la rotazione terrestre. Quantomeno ti chiederebbe quale asse prendere in considerazione, non certo quello orizzontale, perché ruotando su quello si rovescerebbe tutto. Pausa e un sorriso che invitava all’obbligata emulazione. Fisici a noi contemporanei si sono serviti della tecnologia più avanzata per proporre modelli della ‘danza cosmica’. A questo proposito gli artisti indiani – qui capivamo che non si trattava né di Apache né di Sioux – avevano concepito figurazioni di Shiva danzante in una elegante e affascinante sequenza di bronzi, “la più chiara immagine dell’attività di Dio, che qualsiasi arte o religione possano vantare”. Il tropo della danza cosmica raccorda la visione Hindu, l’arte religiosa e la fisica odierna. La strada per
l’unificazione del quadro dell’esistente in qualche modo, estremamente suggestivo per altro, si è intrapresa già. Al CERN il governo indiano – e qui avevamo la conferma che di altri indiani si trattava – ha donato una statua di Shiva danzante, a suggello delle analogie delle due diverse (?) visioni del mondo. E il CERN l’ha esposta, accettandone il senso. Con chissà quale retropensiero. Auspicano gli scienziati di rendere integrata alla loro ricerca l’esistenza di un essere supremo o puntano a determinare che la divinità è la scienza, all’interno della quale, grazie alle nuove formule introdotte, si contempla anche ciò che finora si è ritenuto trascendente?
C’erano tanti segnali incoraggianti: i quanti, il bosone di Higgs, la volontà del DNA, i bit, che sfioravano l’ineffabile o addirittura l’esserlo.
Chiaro era che fosse questo l’amore che ne la sua mente lo ragionava, invece molti di noi, eravamo tanti allora ad entrare e uscire dalla sala giochi dell’Azione Cattolica, mentre parlava avevamo nelle nostre menti sua sorella, ancora piccola, ma che nelle estati seguenti poteva diventare una preda; le scarpe da ginnastica americane che calzava e che non si aveva nemmeno il coraggio di chiedergli quanto costavano; la camicia, quella di quel giorno a fiori colorati, esotica. Ma i non indifferenti fummo colpiti dal tema e dal modo di porre il ragionamento; pur capendoci poco non lo lasciammo cadere, ci diresse verso un modo di leggere la realtà che non si infangava nel paludoso tran tran del borgo. Si librava al di sopra delle futilità che si riscaldavano al sole estivo. Credo che per molti di noi fu l’iniziazione al pensiero divergente. Non pago di ciò, senza spocchia, ma con un giusto velo
di superiorità sorgente da letture e riflessioni che sapeva non ci appartenevano, ci cospargeva di ulteriori provocazioni, come sull’eccesso di libri. Tutti ci consigliavano di avere libri, di leggerli e lui in controtendenza. Troppi libri disorientano, ti fanno credere che il sapere sia smisurato e ti soffocano rendendotelo impraticabile. Magari nessun libro è inutile, partiamo da questo assunto, però molti, ‘troppi’ hanno contenuti sovrapponibili che un tempo sarebbe stato impossibile individuare, ma oggi no! Immaginiamo di mettere insieme tutti gli scritti che parlano delle guerre d’indipendenza, allora era un argomento principe tra i programmi di scuole di ogni ordine e grado, la digitalizzazione di tutte le pubblicazioni in qualsiasi lingua, vengono messe a confronto e filtrate di tutte le ripetizioni, così da lasciare tutto quello che è stato detto sull’argomento, senza ridondanze, quanti hanno parlato del Quadrilatero? del vallone di Rovito? dell’eccidio di Bronte? Quante pagine resterebbero? Qualche migliaio, forse meno. L’operazione ripetuta per ciascun argomento farebbe sì che in ogni paese ci sarebbe una sola biblioteca contenente tutto lo scibile prodotto e ci assolverebbe dal timore di essere ignoranti. Si può fare. E se ne andava, chiamato dalla zia che imbandiva la mensa, e che, nonostante l’età da zia di un coetaneo, ci carpiva più sospiri di quanti spasimi intellettuali ci suscitasse lui. Parlò una sola estate, poi scomparve. Come il gatto nero che ci si era intrufolato in casa e vi era restato per tutto il tempo che leggevo Il Maestro e Margherita. L’avevamo chiamato Behemot.
Sapemmo che aveva avviato un’attività agricola bio. Avremmo preferito non sapere niente. Lo immaginava-
mo, quando ogni tanto ritornava nei nostri ricordi, come uno scienziato o un filosofo, non un contadino. Lo apprendemmo al giungere della notizia della sua ingiusta morte prematura. Da profeta misconosciuto. Che aveva saputo innamorarci di un’utopia.
LA PRIGIONE RIEDUCA
Per fortuna morì mia suocera e così potei non andarci. Povera donna, era brava e le volevo bene, quindi ‘per fortuna’ non significa che fossi contento della sua fine, bensì solo per i vantaggi che la sua dipartita mi arrecava. D’altronde l’età c’era – più di 45 anni 48/50 – per di più esposta al rischio dell’auto che si era sfrenata. L’auto che ti arriva addosso, a quell’età e non solo, non lascia scampo e la fatalità volle che io la sfrenassi, forse non volontariamente, come fu in seguito attestato, ma con il recondito pensiero che quell’effetto si potesse ottenere. E così fu. Per fortuna. Altrimenti sarei dovuto andare a vedere la partita con gli amici del circolo. La partita! Con gli amici! Un supplizio che avresti fatto di tutto per evitare, anche le cose più esecrabili. Invece bastò sfrenare appena appena una macchina e tutto si risolve, tutto resta tranquillo. Oddio, c’erano sempre le formalità legate al decesso di una persona dell’entourage domestico, come si dice, una persona cara, però era un prezzo che si poteva pagare, anche perché il grosso del lavoro lo faceva mia moglie, la figlia, con il supporto affettivo dei nipotini e il coniuge della cara estinta per i quali, lutto, fiori, corone, bara, terra smossa, prete che celebra, tutto appariva una sorta di nuovo gioco collettivo (detto tra noi sempre meglio della partita che avrei dovuto vedere con gli amici del circolo). Dispiacque a molti – me compreso, pur valutando il bilancio costi benefici – ma tant’è!
Una donna come tante altre, taglia media, complessione tendente al robusto, nessuna particolare rilevanza nell’aspetto: una donna di quell’età; a parte gli occhi, che aveva
quasi infossati e luminosi, castani, sembravano dilatarsi all’inverosimile quando si accalorava, e le labbra, carnose che si muovevano alla velocità della luce per far scaturire parole alla rapidità dei pensieri, che sembravano urgenti e indispensabili da esprimersi. Una facondia che avrebbe voluto profondere nella sua attività di traduttrice simultanea dal friulano, anche per uscire dalla routine del quotidiano, ma purtroppo le dissero che i suoi studi effettuati sulle poesie testo a fronte di P. P. Pasolini, erano vani in quanto per quel lavoro non c’era mercato. Era una persona da cui si aveva da imparare, se non altro la tenacia, e da cui avevo effettivamente imparato molto, dato il suo vissuto, improntato all’essenzialità. Ricordo le allusioni al ‘vintage’ che per lei consisteva nel ricaricare le pile sulla cucina economica, bere dal piatto cupo il condimento dell’insalata con cetrioli e pomodori, allungata con la frizzina o l’idrolitina, il bicarbonato postprandiale reso effervescente da un po’ d’aceto nel bicchiere. Ricordi di una vita semplice, da confrontare con pantaloni a zampa d’elefante e magliette optical, da cui queste ultime uscivano romanticamente sconfitte. Certo non era un’intellettuale, a differenza di suo marito, ma sensibile al pensiero debole (a vederla col muso nel piatto sorbire brodo e semi del rimasuglio di insalata frizzante lo confermava) di Gianni Vattimo quando non era ancora un alcolista conclamato, come lei dalle due fedi: cattolico e comunista, sebbene non vantasse ancora, quando formulava la struttura essenziale del suo pensiero, l’amicizia e l’ammirazione per Rizzo, l’ex pugile che lo aveva fatto diventare parlamentare europeo, tutte cose che ignorava aderendo al pensiero debole,
o meglio ad una parte della sua formulazione. Di quel modo di vedere il mondo e la realtà, da parte del filosofo intendo, l’affascinava, non tanto la critica all’illuminismo, al logocentrismo, al marxismo, ma che l’evidenza non era considerata come segno della verità. Ne faceva una ragione di vita. Non perdeva occasione per negarla l’evidenza, in cucina, al cinema, davanti alla televisione, in tutte le discussioni domestiche, non per trarne vantaggio, ma, da vera filosofa, per il gusto di teorizzare. Era ammirevole, soprattutto per la straordinaria coerenza. Quando perdi una persona così ti dispiace. Te ne accorgi quando non c’è più, giorno dopo giorno magari non la sai apprezzare, la vedi anziana, ormai in declino corporeo e mentale, con rari sprazzi di vitalità, talvolta, ma quando scompare cominci, se non da subito, a sentirne la mancanza. Lì per lì, come dicevo, era solo un vantaggio: lei muore e ho una giustificazione più che valida per non andare a quella insulsa partita con gli amici, senza accampare scuse inventate. Ma, in seguito, a mano a mano percepisci il vuoto.
Non tanto quanto figli e marito, istituzionalmente vincolati da sentimenti di amore, che si ritrovavano, dopo una lunghissima vita passata insieme, a dover affrontare da soli le preoccupazioni di tutti i giorni. Questi erano stati cresciuti nella più assoluta imperturbabilità: faccende domestiche, spese, pranzi e cene, tutto a carico della povera donna che non si risparmiava per garantirgli la massima serenità. Preveniva i loro desideri, presagiva che le sarebbe stata richiesta una camicia da abbinare alla cravatta regimental nuova e lei abbandonava immediatamente le sue letture, che attingeva dalla fornita biblioteca
maritale, per procurarla, una soltanto, non due o tre cravatte, perché la scelta avrebbe fatto perdere inutilmente del tempo. Risolto il problema, mettiamo della cravatta – camicia, o magari della borsetta, che come la cravatta invariabilmente lei stessa aveva acquistato, ritornava alla sua lettura. Giacomo Leopardi era in quell’ultima fase e ormai da un po’ la sua passione. Ne aveva scoperto, lei, da sola, dagli studi smozzicati e incostanti – a parte gli approfondimenti appassionati del furlan – con esami di qualifica scialbi di segretaria d’azienda dal diploma triennale, la fondante potenza nichilista; «ma questo che campa a fa’? » era la frase che ripeteva all’ennesima rilettura della Ginestra. Si riferiva al fatto che l’autore della Canto notturno di un pastore errante nell’Asia, mentre scriveva poesie, affermava che la poesia è menzogna (la povera donna non sapeva di citare Platone). Ma come, vivi scrivendo poesie e poi confessi di turlupinare il mondo e te stesso? Nella sua mente faceva questo ragionamento: è come se io facessi gli gnocchi al sugo di funghi, convinta che avvelenerò tutta la famiglia. Non se ne capacitava, eppure continuava a leggere delle magnifiche sorti e progressive (verso che tra l’altro, come molti altri, il giovane favoloso aveva copiato), sottoponendosi ad un supplizio dai risvolti masochistici. Che inutilmente tentava di giustificare con la dichiarazione del poeta, tratta dai Pensieri o Zibaldone che dir si voglia, oppure, a scelta, le Operette morali, la cui lettura la sfibrava, ma su cui ritornava spesso, in quanto stufa di ermi colli, notti chiare e senza vento, versi di galline e stanco mio cor.
“Hanno questo di proprio le opere di genio, cioè le opere del genio, che quando anche rappresentino al vivo la
nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni –come l’amanita nel sugo – tuttavia, ad un animo grande che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, servono sempre di consolazione: il sapore sublime degli gnocchi”.
Lei immodestamente era convinta di essere un genio a fare gli gnocchi al sugo di funghi, ma se i funghi erano velenosi i commensali morivano, sebbene, lì per lì, al gusto fossero speciali. Ecco, forse il segreto era proprio quello: eutanasia al sugo di amanita phalloides! Il certificato di morte svelò un inaspettato segreto: aveva molto di più dei 45 anni che si ostinava a voler dimostrare, mi vergogno a dire quanto di più perché confesserei di essere incorso in un inganno in cui un genero formalmente affezionato non dovrebbe cadere. Avrei dovuto capirlo da tanti segnali, se non fossi stato distratto, ma in fin dei conti cosa cambiava adesso che per lei era finita? Si attenuava il senso di tristezza, questo certo. Più si innalza il numero degli anni, inversamente ci si addolora per una dipartita: «È morta Rachele» «Quanti anni aveva?» «96» «Una bella età» tono appena appena velato di tristezza, in quanto più ci si avvicina ai 100 minore è la sofferenza, se addirittura si superano si accoglie la morte con un sorriso. Per lei, se l’età era quella che mi immaginavo che fosse, la tristezza doveva essere al 50%, ma avendo addirittura superati i 50 anni, ancora di meno, anche le magre consolazioni sono consolazioni, a dar retta alle convenzioni del vivere civile. Non era assolutamente facile determinare la sua esatta
anagrafe, sebbene la sua prossimità alle elaborazioni di Vattimo, la passione per Leopardi, aveva fatto più volte visita alla sua casa a Recanati quando non ci andava nessuno, appartenevano ad una generazione che voleva riabilitare la poesia senza ammetterlo, fingendo che di suo la poesia fosse più necessaria, importante, della filosofia, anzi che la filosofia ne fosse un modesto succedaneo. Un’eredità obbligata, un debito contratto, da saldare per vie traverse, che aveva portato all’assunto di W. Th. Adorno che dopo Auschwitz la poesia fosse impossibile. Così la sua “sapienza” pratica, a giudicare da come usava le mani per realizzare manufatti di vario impiego, dall’alimentare al vestiario, risaliva a momenti della storia, privi di elettrodomestici robotici e mercati sovrabbondanti.
Inutile lambiccarsi, ormai. La frittata era fatta e le uova non potevano essere rimesse nel guscio. Continua a suscitare metafore culinarie, motivate certo, era una gran cuoca e questo ci mancherà. Però il suo valore era complessivo: pensiero ed azione (come Mazzini), l’anima ce l’aveva incrostata di ambra e di giada e vi crescevano spontaneamente il gladiolo e l’asfodelo, ed era continuamente ingombra da yurte di nomadi conquistatori. Ma non fu appurato dall’autopsia, resasi necessaria per via della morte violenta e che ebbe per me conseguenze spiacevoli. Era un piacere misto a stupore sentirla sottilizzare sul cinema. Come quella volta, in cui fu davvero sorprendente, che vedemmo insieme, c’era anche suo marito oltre alla figlia, mia consorte, in una sala, diciamo così, d’essai, Approdare sicuri non è un caso (Safe landing is no Accident in lingua originale), in cui un istruttore di
nuoto sincronizzato, sofferente di claustrofobia uscendo dalla clinica dove sua moglie è ricoverata per un trapianto d’utero, resta intrappolato nell’ascensore con una squadra di minibasket guidata da due preti comboniani dell’Algarve, un rocciatore e un falso chirurgo. Nel gioco delle parti i paffuti bambini cestisti (l’attività fisica non è per loro una passione, ma il modo imposto dalle famiglie per prevenire l’obesità latente nei paesi ad alto tasso di ricchezza) fanno fare coming-out e sbeffeggiano gli occupanti, mentre l’istruttore soffre le pene dell’inferno. Fino all’arrivo della sicurezza che interviene e qui il film si chiude con un finale aperto, come, finalmente, la porta dell’ascensore. Riuscì a cogliervi significati inattesi, sui primi piani delle borchie delle cinture come suggestioni di eutanasia, le sopracciglia dei comboniani portoghesi, folte come le foreste dell’Angola, ormai prevalente sullo stato già colonizzatore, e i pingui bambini cestisti, metafora di un allevamento di suini da carne. Vere o improbabili le interpretazioni, erano le argomentazioni a farle apparire convincenti «con quelle cinte se dai a qualcuno un colpo in testa, lo ammazzi e nemmeno soffre» «che peli e che è? un bosco tropicale?» «’sti fii – bambini –paiono maialetti». Che arguzia, che nonchalance! Aveva intuito che il blocco dell’ascensore era esso stesso metafora per osservare una rappresentazione del mondo come stanza chiusa in un universo immobile. Senza dire che mugugnava tutte le volte che le luci erano discutibili, dovute alla fotografia a raggi X e infrarossi. Strano a dirsi, ma era il tipo di film da lei preferito.
Immagino la ridda di pensieri che suscitavano quelle visioni in quella testa che apparteneva ad un corpo dotato
di mani agili nell’impastare, nel cucire, nello spolverare e stendere i panni. Ignara di computer, anzi, riottosa verso tutto ciò che era digitale, si teneva lontano da monitor, play station e tablet, riuscendo a sopravvivere egregiamente. Non cercava Algarve, né comboniani su Wikipedia, aveva nel suo cervello il senso di quei lemmi, lo dipanava e lo tesseva (cuciva) nel patch- work generale della (sua) vita. La restante parte della famiglia, dovette sopportare, insieme al dolore che è sempre presente i questi casi, anche la meraviglia, nel momento in cui i carabinieri si rivolsero a me, in quanto proprietario dell’auto, per attribuirmi la responsabilità del suo incidente. Quando sinceramente raccontai fatti, antefatti e soluzioni, protestando la mia buona fede, il giudice ritenne di impostare un nuovo istituto giuridico: la semi involontarietà, condannandomi alla reclusione parziale, a settimane alternate, per un certo numero di anni. La giustizia risentì delle condizioni economiche del paese e, con un escamotage, favorì il risparmio per lo stato di una pensione, meritatissima per altro, e delle spese di mantenimento di un carcerato. L’assicurazione pagò il premio. Ma io non fui completamente felice, anzi, ormai con il tempo si attenuava il compiacimento di aver conseguito il risultato di non andare a vedere la partita con gli amici e, siccome ciò che scompare, come accade spesso, anche con le cose, artificiali o naturali, diventa più visibile quando non c’è più, scoprii un’esistenza che riversava all’intorno un flusso di benefici di cui non puoi più disporre e mentre c’è non li apprezzi, perché non ti sei messo nelle migliori condizioni per conoscerla: come un
animale, un ponte, un albero, una suocera.
Alla luce dei fatti la considerazione che ebbi modo di fare durante i soggiorni in gattabuia è la seguente: non si deve ammazzare anche soltanto semi involontariamente chicchessia, né distruggere un manufatto, né abbattere un albero; è sbagliato, tanto più quando ne ignori la sostanza vera.
URBANISTICA RACCONTO SENZA STORIA
Esco dallo svincolo e dopo la rotonda accelero verso la superstrada, mi ci immetto e con lentezza da strada veloce mi predispongo all’incanto, meglio se crepuscolare. Conscio di essere preda di una benefica perversione, che mi afferra soprattutto nelle ore notturne e in frangenti rari, malauguratamente troppo rari, mi affaccio al ristretto orizzonte, rallentando ancora, fregandomene delle irritazioni espresse più o meno sonoramente da chi condivide il mio senso di marcia e mi abbacino del centro industriale petrolchimico. Mi rapisce anche di giorno con lo shining dei metalli e le circonvoluzioni armonico-asimmetriche, regolate da una razionalità che mi sfugge ma che guida ogni singola sezione del complesso e raccorda il tutto. Ma di notte lo spettacolo si fa straripante. Fiammelle multiformi e multicolori, fuochi lividi tutt’altro che fatui, riverberano le superfici levigate e riflettenti, i baluginii affettano i fumi che replicano l’essenza delle strutture con la precarietà dei loro profili cangianti ed effimeri e svaporano verso l’infinito stellato o cupo indifferentemente. Luci ed ombre dalle densità differenziate ospitano volumi che sono così e non potrebbero essere altrimenti. E così e in nessun altro modo è lo spazio, i pieni e i vuoti, i materiali, le altezze, il freddo e il caldo, le profondità, i raccordi. La Città Ideale. Qui e adesso. E forse domani, sicuramente domani.
Non bastano pochi passaggi per capirlo e forse nemmeno viverci all’interno, perché daresti tutto per scontato.
Devi ripetere più e più volte l’osservazione, la sottomissione al sortilegio per poter apprezzare fino in fondo i sottili equilibri tra spazio e funzionalità, uomo, lavoro, produzione, ambiente, magari, secondo la morale corrente, parzialmente a scapito di quest’ultimo, ma portatori di un messaggio da cogliere, interpretare e applicarne il valore.
Volendo trovare un collegamento devi andare con la mente al Centre Pompidou, dove con languore estetizzante, da adattamento alle sofisticaggini di un museo nella sofisticatissima e pretenziosa Parigi, i principi espressi nell’urbanistica del petrolchimico acquistano visibilità e ipocrita dignità. Anzi, credo che la centrale di Bastardo – questo pensi ogni volta che ci passi davanti, raramente perché lì non ci “si passa” ci devi andare e francamente le ragioni per andarci, non solo per me, sono scarse – sia la matrice, l’ispirazione insuperata del lavoro di Renzo Piano (Richard Rogers, Peter Rice, Su Rogers, Gianfranco Franchini, Mike Davies, sennò si è tacciati di becero nazionalismo). Questo se vivi in un orizzonte ristretto, in un triangolo territoriale regionale. Ma se ampli lo sguardo e l’animo al continente, ai continenti, al mondo, ti rendi conto che ormai i capisaldi della futura urbanistica sono stati impiantati e su quelli si svilupperà la storia dell’habitat dell’uomo.
Anche se rallenti al massimo consentito dagli strombazzamenti degli esagitati che hanno fretta, che sono ciechi alle visioni, che ignorano quella perfezione, quella traduzione in estensione tridimensionale organizzata di una profezia inconscia o addirittura la considerano una piaga, un’ulcera, i più sensibili socialmente un male ne-
cessario, perché dà lavoro, ma sfregia, secondo la piatta estetica della imbelle maggioranza, involuta su forme stantie, il territorio, tanto non ti sazi. Sai che il tuo animo lascia sempre dello spazio che non riesci a riempire. Ma non ignori, perché ci hai ruminato a lungo, che soltanto en passant puoi godere di quell’infinito attimo. È la regola degli incantesimi e, come per la stampa, bellezza, non puoi farci nulla.
Nessuno aveva avuto l’occhio abbastanza acuto e lungo da interpretare che in tempi, come si dice, non sospetti, Piet Mondrian, il visionario più ordinato mai vissuto, aveva prefigurato un’etica dell’urbanistica, anche se si era poi fatto imbambolare dal boogie-woogie newyorchese. Ormai però il principio lo aveva stabilito, con l’ortogonale rigore maniacale, ma soltanto così efficace.
Fino a qualche quarto d’ora prima l’unico desiderio era di tornare a casa, da quel momento dimentichi tutte le impellenze, svaniscono le stanchezze e vorresti transitare in un surreale loop, infinitamente davanti al prodigio, al sacrario, al portento. E convieni che nella mistica del messaggio è contenuto il senso del domani.
Poi c’era Marghera, che nome! Misterioso nell’origine –c’era il mare o una palude dove affondavano le barche dismesse? – e affatto incompatibile con il profilo attuale.
Non la Marghera degli stabilimenti, tantomeno quella delle abitazioni, degli uffici, dei palazzi. Neanche quella della ciminiere specchiantisi sui canali, che a loro volta ci si riflettono incurvando la superfice liquida sulle loro rotondità, contraltare metallurgico ai bastimenti murati veneziani. La Marghera della centrale a carbone, che, vittima di una sensibilità ecologica, si avvia ad essere
sostituito dal gas e passibile di inopinate trasformazioni e di quella nascente ad idrogeno, spuria, ma sublime. Esemplari insediamenti, accessibili a rari frequentatori che per l’abitudine non carpiscono il segreto che contengono. Si limitano ad usarne la potenza, variando rischiosamente il carburante, per scopi materiali, non ne afferrano il messaggio che gli inconsapevoli costruttori ci hanno inserito: è così che si fa una città, seguendo questi criteri, spogliando della loro funzione gli involucri, le masse, conservando i principi di innalzamento, di allineamento, di reciprocità dei volumi e spendendoci più metallo possibile, più brillante possibile. Un paradigma difettivo su cui coniugare l’urbanistica. Una fascinazione che veleggia su prototipi essenziali, scarni, levigati, che non offrono nessuna resistenza né fisica, né mentale. Assolutamente privi, non dico di estetismi, ma di retorica.
E pensare che ancora ci si incanta di fronte ad una chiesa rinascimentale, ad un tempio classico, ad una residenza signorile dei secoli dei secoli che, essendo secoli dei secoli, hanno fatto naufragio implodendo su sé stessi e non dettano più nessuna linea di condotta al vivere, al costruire, all’abitare. Ma t’impastoiano col viscidume delle blaterazioni ammuffite delle loro linee pregresse, dei loro volumi inutilmente perfetti, perché perfetti per se stessi, come se la perfezione fosse forma, dei vuoti che non accolgono altro che pensieri svalutati. Impianti che ti trascinano a rivivere un’esistenza che già in origine non valeva la pena di essere vissuta, di essa sono gli unici, o quasi, testimoni e apparentemente si profilano di fronte a te, ma in realtà si situano in fondo al baratro dei tempi,
al precipizio della storia. Unico antidoto è la devozione all’impasto di futuro inalveato in quelle sostanze, soltanto apparentemente prive di vita. Guardare le succitate essenze voleva dire prendere coscienza. Mettersi di fronte ai valori estetici, che poi erano valori etici, anche economici, politici e giudicarli. Fidia, Giotto, Brunelleschi, Tiziano, Caravaggio, Bernini ecc. rappresentavano un capitale nella storia, capitale che aveva goduto di interessi, via via attivi, raramente in perdita. Su questi interessi si era esercitato una sorta di anatocismo, che aveva arricchito smisuratamente coloro che ne detenevano il controllo. Era ora di fare i conti e ridimensionare quel capitale, metterlo al suo posto tra le valute correnti. La vicina di casa, donna smaliziata e campionessa di disincanto, gliel’aveva detto: «soffri del morbo del metallo lucido» Era vero! un’esaltazione mistica, da quando seppi che la quasi totalità dell’energia assorbita nelle fasi di produzione primaria dell’alluminio, per l’esattezza il 95%, viene conservata nel metallo riciclato: la produzione di un kg di alluminio di riciclo ha quindi un fabbisogno energetico che equivale solo al 5% di quello di un kg di metallo prodotto a partire dal minerale; ed anche per questi motivi i suoi rottami hanno una valorizzazione conveniente positiva ed è finanziariamente adeguato, anche in termini di costi, il loro recupero e riciclo. Uno smacco all’entropia, non totale beninteso, ma un 5% è un successo ma anche un corrispondente vantaggio ecologico, con abbattimento di emissioni rispetto alla produzione primaria e certezza di rientro nel ciclo degli usi, al termine della vita del prodotto o del componente, quindi con minimo o nessun rischio di impatto ambientale. A
questi pensieri gli occhi assumevano lo scintillio dell’alluminio lucidato a specchio e l’incanto che lo prendeva quando pensava alla battitura della lastra di rame, si affievoliva. Come per un prodigio. Tuttavia l’acciaio inox – e qui sì che l’estetica faceva grandi concessioni all’etica – in tutte le sue declinazioni, con tutti i suoi limiti, trionfava. E lì, alla curva della superstrada, si manifestava una sua apoteosi. Era probabile, il morbo gliel’aveva trasmesso suo padre. Il vecchio sbavava per l’acciaio inossidabile, il lamierino, tutti i rilucenti acciai speciali, ma mai avrebbe pensato lui, appassionato di Piero della Francesca e Leon Battista
Alberti, che la malattia fosse trasmissibile, ereditaria e che inducesse a rifiuti di quel tipo, e a passioni divergenti, sostituendo l’estetica consolidata con le nuove forme, oggetto per lo più di repulsione da parte degli amanti della ‘bellezza’.
Ma esisteva quella sindrome? bisognava pensare di sì, che Arianna, la vicina, - chiamavo così Gertrude perché al suo filo ritorto col buon senso del popolo, condito con la visionarietà di coloro che non disponevano di una capacità di analisi scientifica e si consegnavano alla magia, dovevo spesso affidarmi per non perdermi nelle dedaliche avventure quotidiane – avesse ragione. Altrimenti come si spiegava? Come poteva prevalere un senso come quello che mi condizionava, mi stravolgeva totalmente il gusto e l’ideologia stessa su convinzioni estetiche consolidate che riconoscevano come verità irrefragabili le opere di tutti e dico tutti i grandi artisti, ma anche i mediocri e i piccoli, dall’autore dei graffiti dell’Ardèche a Joseph Beuys, Banksy e oltre? Argento vivo, acciaio vivo.
Un’altra domanda era: è il metallo che ammalia o la combinazione con la disposizione degli organismi con esso confezionati? Quali possono essere gli esiti dell’affermazione di tali valori? Il desiderio di un mondo al massimo grado di artificialità, di trasformazione, di tecnologia; una sfida alla natura, non per vincere, ma per pareggiare, per usare un’immagine sportiva, poiché il cosmo va rispettato, anche perché tutto ciò che è artificiale dal creato è estratto e trasformato: nulla si crea e nulla si distrugge diceva giustamente Lavoisier. Anche se in cuor suo immaginava, con tutte le cautele dettate intimamente da una storia di convivenza di centinaia di migliaia di anni con il condizionamento del creato, un’esistenza artificiale, incontaminabile, sana, perfetta. Con una bellezza misurabile, con sentimenti sottoponibili ad una valutazione oggettiva, amministrabili come un cc, con ricapitolazione periodica delle transazioni, magari mediante delega: un sogno. Fine della retorica dell’opinabile e via, alla ricerca di virtù inimmaginabili, da un universo influenzato dai fiori, dai tramonti, dai languori e dall’obbrobrio del puerperio; perché, pensava, se l’onnipotente che ha condannato a partorire nel dolore, sta istradando la sua creatura a modificare la modalità di perpetuazione della specie, ci vogliamo opporre?
Ma la strada per i benpensanti come lui appariva lunga, tortuosa, piena di ostacoli costituiti da pregiudizi e carenza di fantasia.
Un architetto o qualcosa del genere aveva costruito, nel frattempo, una sorta di edificio pseudosacro, come una chiesa romanica o forse gotica, un tempio classico, non ricordo, incastellando dei libri a replicare un fabbricato
analogo nelle dimensioni. Una specie di sintesi dell’inutilità, giocoforza traballante, suscettibile di degrado per gli eventi atmosferici ‘per il tempo’ e attaccabile dal fuoco; destinata a consumarsi presto: metafora di un auspicio. Uno degli inganni di molte epoche consiste nella sopravvalutazione del significante, rispetto al significato. Chi potrebbe negare che i libri siano stati una fonte di miglioramento per l’umanità? Non soltanto il contenuto, ma proprio l’oggetto. Ma per questo volere che l’oggetto feticcio, al di là del valore del contenuto, le sue repliche, siano intangibili, venerabili persino, è un’insulsaggine. Per il momento non è messa in discussione l’importanza della lettura, non nel senso di Vladimir: Non voglio mai leggere nulla. Libri? Ma che libri! Si può forse trascurare il five dimensional data storage che potrebbe essere il supporto di memoria risolutivo, i dischi in vetro di quarzo in fase di perfezionamento definitivo, il magazzino pentadimensionale dei dati che promette di avere una durata ben maggiore: circa 13,8 miliardi di anni, più o meno l’età dell’universo, e un contenuto pressoché infinito, in un materiale capace di resistere all’erosione e a temperature di 190 gradi e possono essere letti in cinque modi diversi? Prevedranno anche situazioni estreme di altro tipo.
TODO MODO PARA BUSCAR…
Scendere, scendere, scendere. Non c’era alternativa. Affrontò le scale che avevano un andamento ellittico e si svolgevano per centinaia di gradini. Era arrivato all’attico con l’ascensore. Salire a piedi sarebbe stato troppo disagevole per un uomo non ancora vecchio, ma dal fisico provato da una vita di fatiche e, volendolo proprio fare, avrebbe richiesto un tempo infinito. La discesa invece era abbordabile.
Nient’affatto claustrofobico, ma schivo, ed eventuali compagnie imbarazzanti, gomito a gomito, in particolare dato il momento, sconsigliavano per quanto possibile l’uso dell’ascensore. Lo aveva già provato alla salita con uno spirito perplesso perché ancora ignaro degli esiti, ma sgombro, e preferiva evitarlo. Incontrare qualcuno per le scale sarebbe stato tutt’al più questione di un saluto, uno sguardo, niente. Scese quindi ed uscì al piano stradale. La fine della gradinata non era certo la fine della discesa. I problemi erano tutt’altro che risolti. Magari. Il futuro richiedeva saldezza di nervi. Una lunga strada da percorrere fino a casa e, una volta lì non che fosse tutto concluso. La sperata pace. C’era il racconto da fare, le attribuzioni di colpa e l’ammissione da raccontare, le giustificazioni addotte. Tutto complicato per il suo carattere, nonostante i discorsi ripetuti tante e tante volte tra le pareti domestiche prima della convocazione. Per le centinaia di metri risuonavano le parole semiastruse della condanna, difficilmente comprensibili come suono, non come significato, anche per una persona colta come lui, vissuto per lo più tra la gente semplice, i
bisognosi, per la strada, per le strade del mondo, aduso ad un gergo utile ad una comunicazione tra illetterati: Sospensione a divinis. Parole che lo avevano chiamato di fronte al Santo Uffizio, anche questo un luogo che appariva irreale nella mente di chi, uscito dal seminario, dove era entrato per studiare perché nato povero, aveva vagato per le capanne degli slums e nei nosocomi precari di espressioni geografiche, anche queste inesistenti nella mente dei più. Ed era proprio lì, in uno di questi siti al confine tra la vita e la morte che aveva incontrato Luba, l’infermiera factotum che lo aveva trascinato nella caduta. Un peccato magnifico in quanto il colpevole lo aveva compiuto realizzando la sua umanità, con un essere di angelica diabolicità. Un amore che non si sapeva se era sentimento con la sua impalpabile, indefinibile, volatilità, o carne, quasi certamente entrambi dall’inizio. Si erano scaraventati l’uno sull’altra senza preamboli, guidati da quella certezza che sorge da una chimica favorevole e da un magnetismo ineluttabile. Che non consentono di perdere tempo, di tergiversare. Nemmeno se si è consacrati ad un ideale trascendente che ne vieterebbe la pratica.
Che potenza quella ragazza, era riuscita, con un candore ed un’onestà inscalfibile, a sconvolgere i piani di un’esistenza di un religioso concentrato esclusivamente sulla sua missione di lenire le sofferenze dei corpi ed esaltare le virtù dello spirito, senza deviazioni, con l’anima pura, sarebbe potuto morire in qualsiasi momento e sarebbe andato in quel Paradiso, ovunque fosse, certamente lontano secoli dei secoli luce dai luoghi in cui operava, senza doversi pentire di alcunché: immacolato, anzi con qual-
che bonus d’avanzo. La vita in comune aveva rafforzato il legame, perché lei, oltre alle virtù fisiche e morali che l’avevano attratto: lo splendore di una pelle caramellata dalla lucentezza ininterrotta, adeguatamente tesa su ogni tenera sinuosità; gli occhi veri e propri ‘fari abbaglianti’, come diceva una sciocca canzone della sua infanzia, la cui eloquenza rendeva inutili, talvolta le parole, per lei le ore e ore di dedizione ai bisognosi, fossero essi poveri da sfamare o malati di morbi repellenti da curare, non parevano rappresentare mai un sacrificio, ma qualcosa da svolgere per necessità naturale, prima e al di sopra di ogni altra priorità. Disponeva di un fascino involontario prodotto dal suo modo di parlare un italiano, imparato dai nonni a cui era stato imposto, che lo inteneriva. Frasi e parole che suonavano dolcemente ridicole come diosauro che faceva scaturire la visione di una divinità e quindi della chiesa persa in un’era geologica lontana dall’attuale. E questo lo convinceva ancora di più a spartire con lei i suoi giorni e a non pentirsi minimamente dell’aver consolidato il legame con un atto ribelle ma indispensabile.
Per la verità la Chiesa cattolica perdonava ipocritamente un congiungimento carnale di un suo pastore, ancorché reiterato, perfino in “costanza di peccato”, ma non la sua consacrazione pubblica. Benché il termine stridesse con l’atto vero e proprio, in quanto l’ufficializzazione era avvenuta davanti ad un funzionario civile, perché, ovviamente, non sarebbe stato possibile altrimenti. Inoltre a malincuore il concistoro rinunciava ad una figura come la sua, che aveva acquisito una reputazione tale, un tale prestigio che era utile a controbilanciare le infamie di
uno stuolo di suoi colleghi che avevano attinto la fama grazie a ben altre imprese. Così si poteva invocare l’alibi dello Spirito Santo che sovrintendendo all’operato dei cattolici e non solo, consentiva che l’Organizzazione mantenesse la sua vitalità e la sua credibilità, nonostante le malefatte e gli errori continuamente riconosciuti in ritardo dai suoi caporioni. La storia era piena, a cominciare da S. Francesco, di esempi di ‘eretici’ adatti allo scopo. Ma all’eresia si doveva coniugare l’obbedienza, la sottomissione. Lui, che di queste sofisticherie teologiche non si preoccupava e che si era messo inconsciamente a disposizione della struttura, aveva compiuto un indebito coniugio, compromettendo gli esili equilibri. E anche in tempi in cui si discuteva se fosse il caso di abbandonare questo maledetto celibato, gli ecclesiastici curiali, plantigradi ed orgogliosi, non avrebbero mai ceduto e concesso di rimessa, volevano stabilirlo loro con una bolla, non subirlo. Quindi, dopo reiterate richieste indirette, si era giunti alla decisione: sospensione dagli uffici sacri, in cui, in caso di resipiscenza, avrebbe potuto essere reintegrato; nelle Sacre scritture non era contemplato, ma grazie alla teologia, il diritto canonico che si equiparava al Verbo, sarebbe stato possibile; già lo avevano fatto, era il caso di Gianni Baget Bozzo, per motivi meno nobili o, addirittura, era stata rimessa la scomunica al vescovo Marcel Lefebvre, seppure dopo morto.
Certo la storia non lo favoriva. Un passato che era più invasivo del presente e, soprattutto, del futuro, l’uno languido, l’altro evanescente e sfocato nell’oltremondano e da esso condizionato, giustificato. Si rassegnò sottomettendosi, almeno formalmente, al potere di scioglie-
re e di legare di Pietro, quindi della sua longa manus. Decise di smettere di rimuginare su quanto stava accadendo, avendoci già ragionato a lungo, anche se, fino al momento della sentenza, non aveva abbandonato la speranza che le cose potessero andare diversamente, ma realisticamente si era preparato alla piega che stavano prendendo gli eventi. Non sottovalutava la gravità della nuova situazione, perché credeva nella sua investitura e quindi nella chiesa, ma non si privava della possibilità di interpretare il panorama, non tanto nel suo interesse, a cui, tutti glielo riconoscevano, non aveva mai badato, ma per l’affermazione di alcuni valori di cui la fede, la religione, il mondo ecclesiale dichiaravano di essere convinti assertori oltreché depositari. Un discreto margine di tranquillità persisteva nel suo animo in quanto era certo che i suoi fedeli avrebbero innocentemente continuato a prendere i sacramenti da lui dispensati, sospeso ma non ridotto allo stato laicale, ed era fermamente convinto che sarebbero stati efficaci e validi agli occhi di Dio, nonostante la condanna. Si era dibattuto in passato se il ministro del culto mantenesse il potere di rendere sacri i suoi gesti una volta che la chiesa lo aveva inibito, se i devoti avrebbero beneficiato di sacramenti assunti in buona fede e la questione non era mai stata risolta in senso definitivo. Tommaso D’Aquino aveva sentenziato in proposito e lui non era particolarmente sensibile ai suggerimenti del santo teologo, ma in questo caso lo favoriva; lo stesso Concilio tridentino sentenziava l’”ex opere operato”, cioè che il ministro compiva il gesto la cui efficacia non dipendeva dalla sua immacolatezza. Si era documentato su questo nelle more
della sentenza e si sentiva ‘professionalmente’ tranquillo. La macchia sarebbe rimasta visibile agli occhi degli informati, trascurata però dai suoi fedeli delle terre misere e bisognose di speranze spirituali oltre che materiali, perciò, pensò, i maligni invece di fare teologia andassero a servire la gente come Cristo comandava.
Luba lo stava aspettando e non sapeva con certezza quali potessero essere gli esiti della convocazione, anche se li immaginava. Erano comunque pronti a tutto. Le procedure ecclesiali non prevedevano più torture e condanne al rogo, erano sfibranti per la lentezza, ma in ragione di ciò davano ai rei la possibilità di prefigurare un futuro su più scenari. In ogni caso per loro, a questo erano addivenuti, non cambiava alcunché, soltanto lo stato d’animo. Appena chiusa la porta di casa si sentì spaesato. Come se le pareti domestiche, che tali per la verità non erano in quanto si trattava di una modesta sistemazione provvisoria in affitto per seguire la vicenda processuale, non lo accogliessero come avrebbe voluto, come se le sentisse illecite, ostili. Anche Luba aveva subito un condizionamento della spontaneità dei sentimenti, un certo ritegno ad accostarglisi, anche a domandare. Ma dall’atteggiamento di lui la risposta sarebbe stata chiara. Aveva invece qualcosa da dirgli, Luba, che lo stupì. «Monsignor Teofilo Pratti ha fatto sapere che vorrebbe incontrarti al più presto in privato». Fatto sapere, come? Lui era lì, non avrebbe potuto dirmelo direttamente o prendermi in disparte e parlarmi? Il suo desiderio, la volontà di entrambi era di porre fine alla questione e ciò poteva avvenire soltanto allontanandosi dal luogo del contenzioso, tornare alla missione, tagliare i ponti. Laggiù tutto sarebbe
stato dimenticato in breve tempo, perché quello non era certo un territorio di vacanze per prelati, in specie per quelli del Santo Uffizio (attenuato in ‘Congregazione vaticana per la dottrina della fede’) e i parrocchiani erano affatto ignari e sarebbero stati ben felici di rivedere lui e l’infermiera che curava loro corpi ed anime. Perciò non si stette troppo a lambiccare il cervello e decise di aderire supinamente alla sentenza, mentre si predisponeva a partire. Cominciò a mettere insieme le poche cose da riportare indietro, telefonò al padrone di casa – la curia non aveva avuto nemmeno la delicatezza di mettergli a disposizione un alloggio – e a lei che non partecipava disse di aiutarlo per chiudere la pratica al più presto, magari di sostituirlo, mentre andava al colloquio con il prelato. Luba mestamente disse che il colloquio doveva essere fissato a breve, tramite una sua risposta su data e orario, che lei stessa avrebbe comunicato recandosi nell’appartamento dell’arcivescovo, direttamente, senza intermediari esterni né telefonate o altro, come era avvenuto per farglielo sapere. Infatti era stato un seminarista che le aveva portato l’ambasciata. Un po’ di perplessità, come mai questa modalità di comunicazione, il cardinale non era un eccentrico, forse era curioso di vedere la donna che non conosceva e così avere un quadro più chiaro della situazione. O magari fare pressione sul supposto elemento debole per far loro cambiare idea. Ma, stante la volontà di andarsene al più presto decisero che l’avrebbe raggiunto nel giro di un’ora. Un foulard in testa e Luba uscì di casa per avviarsi nella direzione di Borgo Pio. Svoltò l’angolo e scomparve. Un rombo di una moto, una frenata, un tonfo, gente che ac-
correva concitata. La sirena dell’ambulanza e quella della polizia. La macchina dei gendarmi ferma a fare rilievi per interpretare le dinamiche e raccogliere testimonianze, l’ambulanza che ripartiva quasi subito con a bordo un corpo esanime. Glielo avrebbero fatto sapere da lì a poco. La condanna decadde e la chiesa riabbracciò pienamente il suo sacerdote.
SE SBAGLI LE BATTUTE C’È POCO DA RIDERE
La sera si inoltrava senza indugi, abituata com’era a scendere alla fine del giorno, di ogni giorno.
E qui si interrompe
Era piaciuto, ma l’avevo scritto male. Due errori fondamentali, quelli che ti estromettono non soltanto da ogni competizione, ma dalla considerazione del mondo della letteratura. Escluso. Nonostante lemmi ricercati, ma non pretenziosi; costruzioni ardite ma percorribili; tropi confortevoli non repulsivi; periodi brevi di facile assunzione, legati tra di loro, ma non incatenati.
Un prodotto ben cucinato, o ben confezionato se vogliamo. C’era di tutto: gli ingredienti a km 0 freschi o ben stagionati, manipolati con cura e portati alla giusta temperatura fino alla crosta dorata, senza bruciacchiature, l’interno soffice che si sposava mirabilmente con il croccante della crosta. E i sapori, i sapori, creavano tra lingua e palato una fastosa cerimonia, non una banale festa sull’aia, ma sontuose e scoppiettanti solennità, scintillanti e soffuse, ardite e delicate, permanendo nei meandri del piacere con gradita persistenza. Fosse stato un vino avremmo detto sapido, di pronta beva, dal retrogusto persistente.
Ma purtroppo tutto questo era risultato inutile, gli ingiustificabili sbagli, giustamente sanzionati, ti collocavano al di fuori della cerchia in cui erano circoscritte le Lettere, mortificandoti.
E dire che la sintassi scorreva, la grammatica era rispettata e non c’erano veri e propri errori d’interpunzione, qualche virgola slittata, ma inoppugnabile accuratezza nell’ubicazione degli asindeti. Introvabili, grazie anche
all’indicatore gli errori di battitura, oltre all’attenzione specifica, i cosiddetti refusi, che comunque non sarebbero stati oggetto di esclusione, stando al Regolamento. Si sa, se ciò si verifica, se commetti un abbaglio di tale portata – mai dovrebbe accadere – questo, per etica intrinseca, non è tenuto segreto, chi ne viene a conoscenza non lo tiene per sé, non ha pietà, né comprensione, non può averne, lo diffonde, non si limita a dire che è successo restando sul generico, attribuendolo ad un anonimo maldestro scribacchino, ma fa nome e cognome, il tuo, lo stesso che hai dichiarato con supponenza, ritenendo che sarebbe risuonato dall’alto dell’Olimpo, a cui davi la scalata, dimenticando che Titani, meglio attrezzati di te ne erano stati scaraventati alle pendici. Così l’onta si spalma sulla persona e ti cambia l’esistenza, i momenti che precedono il giudizio, di sereno e ardito ottimismo, vengono travolti dall’infamia severamente, ma purtroppo giustamente, riversata, su di te, sulla tua famiglia: i figli che tentano di cambiare nome, la moglie che chiede la separazione con addebito, in attesa dell’annullamento del legame matrimoniale. Sugli amici e conoscenti che prendono le distanze, che si fanno crescere barba e baffi, anche le amiche, per rendersi irriconoscibili, che ti rinnegano, che non temono nessun canto di gallo, che se non ha condotto alla resipiscenza traditori ben più autorevoli…
Inutilmente tenti di richiamare l’invio del testo, chiedere l’annullamento della partecipazione, dire che hai sbagliato il destinatario, il postino si è confuso, che è la prima volta che partecipi ad un concorso letterario e ignori l’assoluto indefettibile rigore delle sue leggi. Magari magnanimamente ascoltano le tue suppliche, ti ascoltano,
escludono l’elaborato dalla terna. Ma ormai quello che hai fatto è nella storia, compiuto, sancito, scolpito a caratteri indelebili, impresso nella memoria e sparso per il mondo. È la fine! E non c’è salvezza, puoi cambiare città, regione, continente, pianeta, il tuo misfatto lo porterai con te e anche se non ci dovesse essere nessuno a rinfacciartelo, è la tua coscienza che te lo ripropone a cadenze dal breve intervallo, che seguono un ritmo sincopato, ma inarrestabile. E gli eventuali anni luce, che avrai messo tra te e il luogo del giudizio e le persone che lo abitano e ne sono a conoscenza, saranno comunque anni bui.
Dopo esserti invano appellato al fatto che il testo era buono, ricco, originale, pieno di quel senso che si richiede ad una composizione concorsuale, dove il caso e la necessità ti hanno guidato nella scelta delle parole, delle frasi; dove anche il carattere e la giustezza del dattiloscritto figurano degnamente creando un andamento della scrittura che non stona, non si affloscia né s’impenna, non declina pur senza insuperbirsi.
Dove anche l’uso del puntoevirgola è dosato e appropriato per ogni passaggio, né carente, né ridondante.
E gli ‘a capo’ mai inopportuni. Anzi, scanditi perfettamente, quasi perfettamente, non è il caso di eccedere, con lo sviluppo grafico del racconto. In sostanza l’estetica e il contenuto che si bilanciano in maniera pressoché esatta. Pur riconoscendoti tutto ciò, la condanna, la proscrizione non sono evitabili.
È una lezione!
Ridimensionando le ambizioni si impara una maggiore proprietà. Questo sì. Varrà per la prossima volta. Sempre che si abbia il coraggio di desiderare che ci sia una prossima volta, di affrontare, visti gli esiti, una prossima
volta.
Forse, sotto mentite spoglie – ricorrendo ad uno pseudonimo – si potrà tentare altrove, in un altrove indicibile, introvabile, irraggiungibile, incoercibile, trascorso un tempo ragionevole. Se basterà. Intanto questa volta è proprio andata male, considerando che era la prima, la voglia di ripetere l’esperimento ti passa. Alla prima esperienza ti schianti contro il regolamento. Un regolamento chiarissimo ed estremamente sintetico: due soli punti a caratterizzarlo, entrambi, con imperdonabile leggerezza, disattesi. Le restrizioni davvero minime, eppure…
Gli incisi, le parentesi, i trattini, i puntini di sospensione, se necessario anche le rime e le assonanze, tutto, con generosa larghezza, ammesso. Potevi usare neologismi e idiotismi a profusione, la giuria non avrebbe eccepito alcunché. Nessuno avrebbe impedito per altro, fatta salva la buona qualità della scrittura, e la coerenza di senso, di inserire termini o, addirittura, frasi di altre lingue (mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa latino ecclesiastico compreso), non escluso l’azero, ammesso che sia una vera e propria lingua o il sardo, per il quale vale lo stesso dubbio. Assenti vincoli relativi al gender, ‘ə’ schwa impiegabile liberamente: «Carə signorə della giuria” “Care signore della giuria” “Cari signori della giuria”, accettati in tutte le forme, anche se rivolti con ammiccamenti tesi a carpire la benevolenza di componenti amici, forse parenti, una parentela tra conterranei è sempre probabile, che tanto la loro incorruttibilità è a prova di attacco insinuante, quindi inefficaci per definizione. È pur vero che non richiedono l’anonimato, forse perché garantiti dalla loro tempra morale, adamantina. E per quel che ne so
potrebbe anche essere.
Ma se il pezzo supera le settemila battute e l’interlinea è diverso da due, il premio Nobel per la letteratura (per fortuna non è previsto per la matematica, altrimenti addio anche a quei sogni di gloria) è pregiudicato per sempre.
I N D I C E
LEGGE 1° APRILE ‘99 N° 91 p.9
RANA p.31
FACILE p.45
SINTESI p.61
LA PRIGIONE RIEDUCA p.66
URBANISTICA. RACCONTO SENZA STORIA p.75
TODO MODO PARA BUSCAR… p.83
SE SBAGLI LE BATTUTE C’È POCO DA RIDERE p.91
Enrico Sciamanna, già docente di storia dell’arte, critico d’arte di Micropolis è nato e vive in Assisi.
Si dedica da tempo alla scrittura. Questa è la sua prima raccolta di racconti.
“…incalzante ironico beffardo al punto giusto.
Un gradevolissimo condensato di motivazioni sul valore della propria creazione letteraria… che stimola il lettore ad una crescente curiosità…
Il racconto si configura dunque come un sapiente gioco di ironica amarezza, una lunga riflessione che si legge tutta d’un fiato…
È davvero un bell’esercizio di stile e di spirito narrativo!!!” (dalla motivazione della Giuria che assegna il primo premio del XX Concorso letterario nazionale Gens Vibia, sezione narrativa, a Se sbagli le battute c’è poco da ridere, con le parole della professoressa Rosella Cruciani.)
Il giudizio, estensibile a gran parte della raccolta, coglie molto della scrittura dell’autore. Nei diversi testi la voce narrante e quella dei protagonisti si alternano e si confondono, esprimendosi con una sintassi a tratti trasgressiva e sconcertante. Personaggi stralunati accettano le assurdità e le tentazioni dell’esistenza che ognuno di noi è chiamato ad interpretare.
In copertina: Cosmos di Colombo Manuelli.
Elaborazione grafica di Marco Francalancia.
Gens Vibia
Premio Letterario Nazionale
2022