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Calendario agricolo

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Ruoli e famiglia

Ruoli e famiglia

La vita dei contadini era scandita dall’alternarsi delle stagioni e dalle condizioni meteorologiche. Osservare la natura e cercare di prevedere il tempo erano elementi necessari per le attività quotidiane. Così il contadino aveva acquisito una sapienza tradizionale che gli permetteva di fare previsioni meteorologiche. Aveva anche sistemi di previsione come per esempio, all’inizio dell’anno, si prendevano dei veli di cipolla, tanti quanti i mesi dell’anno, e si ponevano sul davanzale di una finestra con sopra del sale. In base a come il sale reagiva si faceva la relativa previsione. Inoltre erano tenute in considerazione le fasi lunari ed era in base ad esse che si seminava, si raccoglieva, si piantava, si fecondava, si tramutava il vino.

C’erano inoltre storie, proverbi e filastrocche. Una filastrocca molto simpatica per la Candelora, che si celebra il 2 febbraio, era:

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“Per la Candelora o che nengua o che piova dell’inverno semo fora, sole solicello 40 giorni più d’inverno.“

Anche se può sembrare paradossale, il più delle volte le previsioni erano veritiere.

Quando pioveva o nevicava non si poteva lavorare nei campi, però i contadini erano comunque attivi e occupati in diverse incombenze.

Gli uomini si dedicavano ad intrecciare canestri e contenitori da usare poi per il trasporto di olive, erbe e quant’altro, mentre le donne filavano la lana, ricavata dalle loro pecore, per farne maglie, calze, guanti e cuffie.

L’anno era segnato da un vero e proprio calendario di lavori:

Dicembre/Gennaio uccisione del maiale

Febbraio/Marzo potatura delle viti e degli olivi Aprile/Maggio falciatura del fieno

Giugno/Luglio mietitura e trebbiatura del grano Agosto/Settembre preparazione del terreno e vendemmia

Ottobre/Novembre semina di grano e cereali Novembre/Dicembre raccolta delle olive

Nei primi giorni dell’anno il contadino iniziava la potatura delle piante, che necessitava di una certa esperienza, perché richiedeva una selezione accurata dei rami da tagliare e di quelli da non eliminare. In particolare modo era richiesta abilità nel potare le viti, in quanto secondo il loro vigore dovevano essere lasciati più o meno “occhi” prima di cominciare il processo di piegatura dei capi e legatura ad un filo, facendo attenzione a non romperli.

Quando nei filari c’era uno spazio vuoto tra una vite ed un’altra, si piegava un capo fino a terra e si interrava, facendo uscire fuori l’ultimo pezzo all’altezza di dove mancava la vite. L’anno successivo si sarebbe avuta una vite autonoma.

Si procedeva poi alla pulizia sotto i filari delle viti togliendo le erbacce e allentando il terreno per le piogge primaverili, in un secondo momento avveniva la “scacchiatura”, che consisteva nel togliere le “femminelle”, cioè capi che non producevano grappoli, e alcune foglie per permettere ai grappoli di ricevere abbastanza sole per una perfetta maturazione.

Successivamente si iniziava a falciare l’erba per fare il fieno. Questo lavoro era particolarmente faticoso perché veniva fatto a mano con l’uso di una falce, che andava sapientemente manovrata con la forza delle braccia e facendo roteare anche il busto con movimenti che andavano da sinistra a destra e viceversa.

Il mietitore

Una volta falciato il fieno, si aspettavano un paio di giorni perché si seccasse, sperando che non piovesse perché si sarebbe rovinato, quindi si caricava sul carro, si trasportava nell’aia e si ammucchiava a forma di cono con un palo in mezzo. L’operazione non era facile, considerando lo sforzo fisico necessario per dargli una forma e far sì che non cadesse.

Si procedeva poi al trattamento antiparassitario delle viti, degli olivi e delle piante da frutto, utilizzando il rame e lo zolfo.

A primavera inoltrata si iniziava a preparare l’orto, seminando i semi che erano stati conservati accuratamente dall’anno precedente.

Tra le piante dell’orto solitamente non mancavano: pomodori, peperoni, melanzane, cipolle, insalata, patate, legumi, meloni e cocomeri.

Seguiva poi la mietitura del grano, anch’essa fatta a mano con la falce, stando ricurvi sotto il sole cocente, dalla mattina alla sera tardi, senza interrompere il lavoro. L’unico momento di pausa era quando si mangiava, all’ombra di qualche albero.

Per comporre i fasci si intrecciavano alcuni steli di grano e poi si faceva la legatura, in modo da avere fasci più o meno uguali.

A fine giornata il grano veniva radunato in covoni trasportando i fasci sulle spalle.

Si procedeva poi a trasportare i fasci tramite un carro trainato da buoi sul piazzale antistante l’abitazione, dove si sarebbe proceduto alla trebbiatura, che era il momento culminante dell’anno agricolo.

Il pagliaio

Scorgendo la trebbiatrice, che con il suo color rosso acceso attirava l’attenzione, i bambini strillavano di gioia e le persone più anziane spesso si commuovevano.

Quando si iniziavano le operazioni, tutti i contadini del vicinato si riunivano in gruppi con compiti differenti. Alcuni uomini si dedicavano a porgere i fasci del grano al macchinista che li inseriva nella trebbiatrice, altri provvedevano a sistemare la paglia e altri ancora portavano le balle del frumento al coperto.

Siccome la trebbiatura avveniva a luglio/agosto, il caldo era torrido e l’aria, impregnata dalla polvere del grano, era irrespirabile. Quindi i ragazzini giravano continuamente con delle fiasche di acqua e di vino per fornire un ristoro ai lavoratori.

Erano considerati di grande importanza i manutentori e gli imboccatori della trebbiatrice, azionata da una cinghia fatta girare velocemente da un trattore. Durante i pranzi questi operatori avevano un tavolo riservato al coperto e venivano servite loro le migliori pietanze.

Comunque la trebbiatura, nonostante la fatica, era una grande festa, perché si facevano dei grandi pranzi, accuratamente preparati dalle massaie che si mettevano all’opera qualche giorno prima, quando iniziavano a macellare una grossa parte degli animali da cortile per poi cucinarli, nei diversi modi. La carne era accompagnata da pasta, pane e dolci.

Si procedeva quindi alla preparazione del terreno, arando le stoppie e i prati con aratro trainato dai buoi.

Questo lavoro, che richiedeva un notevole impegno fisico, veniva svolto da una sola persona.

Il bifolco era colui che si occupava della stalla, nutrendo e accudendo gli animali, che venivano spazzolati, lavati e con l’aiuto di un fabbro ferrati.

Un altro momento importante era la vendemmia, ma prima che si iniziasse, una persona esperta sceglieva accuratamente i grappoli migliori che erano destinati alla maturazione speciale su cannicci e quindi successivamente usati per il vinsanto. Le vinacce erano usate notte tempo per la grappa.

Si procedeva poi a cogliere tutta l’uva che veniva posta nei canestri poi versati sui bigonci e portati al casolare.

L’uva veniva pigiata dalle ragazze che salivano a piedi nudi nei tini colmi, quindi veniva macinata e posta in un grande tino a fermentare per alcuni giorni, dopo di che si toglieva il mosto travasandolo in botti e aspettando che diventasse vino.

La pigiatura dell’uva

In cantina

Una volta finita la vendemmia, si procedeva alla raccolta del granturco che si trasportava al coperto e quindi alla scartocciatura e intrecciatura delle pannocchie, che venivano poste ad asciugare al sole, alcune sopra una tettoia, altre in trecce appese a un palo.

Quando il granturco era asciutto, si effettuava la sgranatura, operazione che avveniva tramite l’utilizzo di un ferro del caminetto o di una zappa, il cui manico veniva tenuto fermo sedendocisi sopra, con la lama verso l’alto su cui le pannocchie venivano strisciate.

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