Wop di Piedicolle

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Il Wop di Piedicolle Gianfrancesco Gubiani

WOP era l’appellativo che gli inglesi avevano dato ai prigionieri italiani portati in Inghilterra. Tra questi c’era Mariano Montanucci, colono nelle campagne di Piedicolle, e protagonista di questa storia. Catturato in Libia l’8 gennaio 1941, inviato in Sud Africa nel più grande campo di concentramento della seconda guerra mondiale e trasferito a Manchester nel 1943, per essere liberato alla vigilia del referendum sulla Repubblica del 2 giugno 1946.

IL WOP DI PIEDICOLLE

Gianfrancesco Gubiani CESVOL EDITORE


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giornalista pubblicista. Nato a Gemona (UD) nel 1948.

Gianfrancesco Gubiani

Fin da giovane, nel tempo libero dal lavoro e dalla famiglia, si è impegnato nel campo della cultura creando e partecipando alla nascita di associazioni e cooperative culturali. Nel 1976 inizia la sua attività di giornalista nelle tendopoli del Friuli terremotato (Gemona, sua città natale, era l’epicentro sismico e culturale del territorio). Collabora con diverse riviste culturali friulane. Dal 1988, per tre anni, ha curato una rubrica settimanale sul quotidiano “Il Gazzettino”. E’ stato direttore responsabile di periodici a carattere locale, tra cui “La Patrie dal Friul”, storica rivista culturale regionale, scritta interamente in lingua friulana. Ha condotto (e conduce tuttora) trasmissioni radiofoniche e televisive sulla storia, cultura, orticoltura e gastronomia locale. Ha scritto diversi libri di storia e folclore locale, tra i quali: - 1997 “Vistude di ligrie” (Vestita di allegria) curatore del libro (postumo) di poesie della moglie Giuliana; - 1999 coautore del volume “Cirignicule 20 anni”. Storia di una cooperativa agrobiologica. - 2002 “Lant pa Taviele”. Storia e folclore di una borgata di Gemona; - 2002 “San Jacu in Taviele (San Giacomo Maggiore in Taviele) e la villa Glopplero”. Storia di una chiesetta e di una settecentesca villa veneta; - 2003 “Leiendis di aghe dolce” (Leggende di acqua dolce). Un volume contenente due fiabe, llustrate da Nadia Gubiani e Sabrina Copetti; - 2004 “Gemona liberata”. Storia della Liberazione di Gemona; - 2005 “Gianfranco, una stagione breve ed intensa”. Vita di un ragazzo gravemente malato. - 2007 “L’opera letteraria di don Antonio.Bellina”. Opera multimediale; - 2009 “Gotis di storie” (Gocce di storia) coautore di microstorie locali; - 2009 “San Daniele: L’anima commerciale”. Storia dell’omonimo prosciutto; - 2013 “Miti fiabe e leggende del Friuli storico. Friuli collinare III”. Coautore di una raccolta di 448 racconti popolari; - In stampa, un manuale per un “Orto senza veleni".


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Con il patrocinio del comune di Marsciano

e la partecipazione dell’Assciazione Culturale Pegaso

Il Wop di Piedicolle

Opera voluta da Lucrezia e Marcella Montanucci per non dimenticare la vita e i sacrifici della nostra gente.

Progetto grafico e impaginazione: Gianfrancesco Gubiani Edizione Agosto 2015

Stampa Digital Editor - Umbertide Ristampa Nov. 2015

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Gocce di Storia


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Gianfrancesco Gubiani

il wop di Piedicolle

Storia di un giovane umbro strappato dalla sua famiglia per la guerra di Libia, fatto prigioniero dagli inglesi e detenuto per oltre cinque anni nei campi di concentramento del Sud Africa e poi dell’Inghilterra. Una vicenda ricostruita attorno alla difficile, ma serena vita contadina del tempo, bruscamente condizionata dai cambiamenti sociali, culturali e tecnologici del periodo pre-bellico e del dopoguerra.

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Premessa Essere cresciute in una grande famiglia dove convivevano i parenti di primo, secondo e, fino al terzo grado, con le famiglie dei diversi figli ormai adulti, sposati e già con propri coniugi, ha rappresentato per noi una importante scuola di vita. Infatti, per vivere serenamente e pacificamente si doveva osservare una serie di regole non scritte che ponevano le basi sul rispetto reciproco, sul valore e sul ruolo di ogni persona, sull’onestà e sulla condivisione dei beni comuni, sulla saggezza degli adulti che permetteva di dare il giusto valore ad ogni cosa evitando sprechi e distruzioni, sulla collaborazione e sulla valorizzazione delle diverse attitudini e dei differenti saperi.

Ricostruire la vita di nostro padre ha significato ripercorrere le varie fasi della vita sociale in continuo mutamento. Una condizione vissuta in prima persona dal passaggio dalla coabitazione di più famiglie, alla famiglia ristretta a due soli coniugi quando i figli si allontanano per formare proprie famiglie. Un passaggio avvenuto nel momento in cui era in atto la metamorfosi sociale della famiglia contadina che passò dal modello di vita agreste, fatta di proprietari terrieri e coloni, a quella cittadina di oggi. Tutto ciò all’interno di eventi straordinari, come la guerra, la rivoluzione industriale e i rapidi cambiamenti sociali ed economici che hanno modificato non solo il modo di vivere personale e sociale, ma anche il pensiero e le priorità dei valori umani. Non ultimo il rapporto tra il valore della persona e quello del denaro. Una storia che può rappresentare una scuola di vita a cui attingere valori e segreti dove si possono trarre ancor oggi insegnamenti e riflessioni.

Un grazie, quindi, ai nostri genitori che, pur nelle loro limitatezze, ci hanno fatto assorbire e condividere i grandi valori della vita. Un grazie particolare ai tanti che (inaspettatamente) ci hanno stimolato a mettere assieme queste esperienze spronandoci a stamparlo e pubblicarlo affinchè, queste “gocce” di storia vissuta, rimangano parte viva ed accessibile a tutti, come segno tangibile del patrimonio culturale della nostra gente.

L u c r e z i a e M a r c e l l a M ontanucci

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Prefazione

Questa è la storia di un uomo buono e pacifico, strappato alla sua terra e alla sua famiglia per essere trasformato in un guerriero. Un soldato inviato a combattere nell’infuocato deserto africano, per soddisfare il bisogno di potere, le manie di grandezza e le ambizioni di potenti facinorosi, sprezzanti della vita dei propri uomini figli della nostra gente. Il racconto è stato realizzato attingendo, oltre che alle memorie delle figlie Lucrezia e Marcella e dei loro parenti, alle rimembranze scolastiche, a notizie e ai dati ricavati dai libri di storia e a qualche sito web riguardante il fronte africano ed i campi di prigionia. Mi è sembrato opportuno inserire anche alcune descrizioni di vita agreste nella quale il protagonista ha vissuto la sua infanzia e gran parte della sua esistenza. Ho considerato importante raccontare anche alcuni aspetti di vita sociale, familiare e civile per meglio immergere il lettore nell’epoca di quegli accadimenti del tempo. La seconda parte, che nel racconto viene descritta per prima, vuole cogliere la ricchezza di valori e di principi morali, su cui si basava la vita familiare dei contadini umbri e italiani. La narrazione, il cui protagonista principale è Mariano Montanucci, non vuole essere l’esaltazione di una persona ma costituisce solamente il tentativo di riportare in forma scritta alcune memorie che altrimenti sarebbero andate perdute con la mancanza di coloro che le custodivano. Va da sé che, non solo non si vuol escludere altri contributi qui meno citati, ma si intende offrire semplicemente uno stimolo per tutti i possessori di documenti, di ricordi e memorie dei loro parenti affinché facciano altrettanto. Magari meglio. Gianfrancesco Gubiani

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Mariano e Ida nel giorno del loro 50째 anniversario di matrimonio.


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PARTE PRIMA

MARIANO: IL WOP DI PIEDICOLLE

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a storia che vogliamo raccontare è comune a molte altre del tempo, ma anche assai diversa perché vissuta da una persona unica, con una storia unica, con espressioni uniche, con sentimenti unici, con una cultura e una gente unica. Il protagonista è Mariano Montanucci, nato a Piedicolle, in provincia di Perugia, il 21 aprile 1916, un piccolo borgo che sorge a 324 metri s.l.m. Nel censimento del 2001 il borgo contava 115 abitanti, rappresentando la terza frazione più popolata del comune di Collazzone. Il nome del paese significa letteralmente “ai piedi del colle”. Un nome che potrebbe sembrare un controsenso considerando che il borgo si trova su di un cocuzzolo. In realtà il poggio si distende su di un’altura (una gobba) che precede un colle più alto dove è insediato il capoluogo Collazzone, sede del comune. I primi riferimenti storici di questo piccolo borgo della Media Valle del Tevere li troviamo nel 1437, quando il condottiero Niccolò Piccinino al servizio di Filippo Maria Visconti, duca di Milano, rovinò il maniero ivi esistente. La rocca fu poi ricostruita in tempi diversi e completata in maniera definitiva nel 1544 da Mariotto da Marsciano, che eresse anche la possente cinta muraria ancora esistente. Vicino al piccolo centro si trova la Chiesa della Madonna dell’Acquasanta, che conserva al suo interno un affresco di scuola umbra risalente al

La chiesa di San Giacomo incastonata tra le mura di Piedicolle.

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1527. Tale Affresco raffigura la Madonna col Bambino e San Giovannino tra i Santi Bernardino da Siena ed Antonio Abate. In un periodo successivo, a cavallo tra il 1500 e il 1600, fu costruita anche la chiesa parrocchiale, incastonata fra le mura e intitolata a San Giacomo. La chiesa, inizialmente, aveva l’accesso solo dall’interno, successivamente venne aperto anche un ingresso dall’esterno. In origine, l’edificio, era molto ricco di opere d’arte, ma dei cinque altari documentati, oggi non rimane alcuno. A memoria di tale arte rimane comunque un bel fonte battesimale ricavato da una pietra scolpita, recante la data del 1632. Il Comune annovera tra i suoi personaggi uno dei più insigni poeti italiani: il frate francescano e poeta Jacopone Il fonte battesimale della da Todi, che trascorse gli ultimi anni della sua vita nel con- chiesa di Piedicolle. vento di San Lorenzo di Collazzone dove si spense nella notte di Natale del 1306. L’Abbazia di San Lorenzo venne donata ai frati minori francescani dal vescovo di Todi nel 1235. Una donazione che esaltò il francescano Enrico Menestò Simone (il cui processo di canonizzazione è iniziato nel 1252, e mai concluso), la sistemò, e vi insediò le monache clarisse a quel tempo in grande espansione. Simone da Collazzone era nato nel 1208 da una ricca famiglia del luogo, rinunciò a tutte le sue ricchezze per diventare un fedele seguace di San Francesco (All’interno della chiesa si trova Ritratto di Jacopone da Todi con a fianco la chiesa e Abbazia di San Lorenzo. ancora il sepolcro della madre del beato Simone da Collazzone (Matilde Marzia), deceduta nel 1240 lasciando nel convento le sue spoglie. Il beato Simone si spense a Spoleto, nel 1250, dieci anni dopo la scomparsa della madre, a soli 42 anni. Tra le curiosità di questo comune, troviamo, nella frazione di Gaglietole, che dista 7 km circa, una “chiesa-castello” con quattro torrioni che collegano un possente muro. Una chiesa che ricorda l’epoca delle guerre tra i signorotti locali che dovettero cedere alla forza della fede quando dilagò il diffuso “bisogno” di edifici sacri . Molti castelli, infatti, furono modificati per essere utilizzati come edifici di culto. A Gaglietole si trova un raro esempio di trasformazione senza modifica dell’asLa piazzetta di Collazzone dedicata al beato Simone da Collazzone. setto architettonico.


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La famiglia di Mariano

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ariano Montanucci vide la luce in una delle tante famiglie di contadini dell’Umbria che vivevano nei poderi, circondati dalle terre dei signorotti possidenti. Il padre, di nome Raffaele, figlio di Giuseppe e di Comassini Luisa, era nato l’11 ottobre 1872 a Compignano di Marsciano, e morto a Piedicolle il 22 gennaio 1941 mentre il figlio Mariano si trovava prigioniero di guerra in Sud Africa. La madre Lucrezia Campanella, originaria anch’essa di famiglia contadina, proveniva da Pantalla. La famiglia di Raffaele, come si evince dalla lettera degli zii Carolina e Pietro Belli, redatta nella frazione di Compignano, si insediò a Piedicolle dopo il 1898. La missiva indirizzata a Raffaele, che a quel tempo stava svolgendo il servizio di Leva, lo informava che i proprietari di un fondo avevano diviso tra di loro i possedimenti di famiglia e che avrebbero permesso alla famiglia Montanucci di alloggiare in una casa situata in località Acquasanta. Nella lettera si legge: “(…) in quanto alla divisione la cosa è stata stabilita così: Il vostro padre viene lì da l’Acqua Santa su quello della congregazione. L’affittuario Francesco Vescovo dice che il luogo è buono. Lo zio Battista va dove sta Biagioni perché ora ha comLettera del 30.1.1895 da Carolina e Pietro Belli a Raffaele prato il fabbro Titone.(…)”. Montanucci.

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Non si conoscono bene i termini di questa divisione, si sa invece come ricorda la lettera stessa - che la casa a loro assegnata era di proprietà della “Congregazione di carità” di Todi, ovvero di un ente di beneficenza nato dal lascito delle famiglie Veralli e Cortesi di Pantalla. Val la pena di ricordare che Il citato ente venne costituito il 20 ottobre 1860 (con inizio Raffaele Montanuccci. Lucrezia Campanella e il marito attività nel 1861) con il compito di amministrare i beni delle seguenti opere pie: “Brefotrofio, Ospedale degli infermi, Ospedale dei santi Filippo e Giacomo e Università dei sarti, Ospedale e Università di sant’Antonio e dei calzolari, Pio relitto Tolomei, Pio relitto Longari, Pio relitto Rinaldi, Pio istituto della concezione, Pia scuola del Pian di San Martino, Istituto della misericordia, Asilo della Santissima Trinità per le povere giovani, Asilo infantile, Monte dell’onestà, Monte di pietà, Istituto della Consolazione e colonia agricola, Conservatorio delle orfane e pio dotalizio Gazzoli, Istituto delle maestre pie, Istituto Coreli Pericoli, Monte frumentario”. Nel 1947, con la fine del fascismo, la “Congregazione” venne assorbita dal-l’I.P.A.B. (Istituto Artigianelli Crispolti), un istituto di assistenza della diocesi di Orvieto-Todi, con sede a Todi, in via Santa Prassede, 36. Dai documenti conservati nel SIUSA (Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche), di Todi, sappiamo che il citato ente fu soppresso nel 1977, per essere inglobato nell’ECA (Ente Comunale di Assistenza). Infine, nel 2003, assegnato all’ETAB (Ente Tuderte di Assistenza e Beneficenza) di Todi. Alcuni anni dopo la data della citata lettera di Belli, la famiglia di Raffaele si trasferì nuovamente, insediandosi nel podere del conte Francesco Bennicelli, dove rimase fino all’inizio degli anni ’70. Prima che avvenisse il trasferimento nel nuovo podere, Raffaele aveva avuto modo di conoscere Lucrezia Campanella, nata a Pantalla il 9 marzo 1876, che sposò diventando padre di cinque figli: - Luigia, detta Marietta (n. 30.11.1905, - m. 28.6.1977), che prenderà come marito Aquilio Luchetti (n. 21.11.1901 - m. 6.3.1978); - Adamo (n. 8.1.1908 – m. 3.10.1983) che sposerà Adalgisa Vigilanzi (n. 16.6.1911 - m. 29.1.1998); - Gervasio (n. 8.10.1909 – m. 7.3.1972), che rimarrà celibe; - Luigi (n. 25.10.1914 – m. 6.4.1981), anch’egli celibe;


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- Mariano (n. 21.4.1916 - m. 22.10. 2001) che sposerà Ida Celesti (n. 16.9.1927 - m. 18.3.2002). Raffaele era alto 157 cm, di statura, appena inferiore alla media del tempo che era di 164 cm, e, come il figlio Mariano, fu richiamato alle armi due volte: la prima il 5 marzo 1894 e posto in congedo il 30 novembre 1894; la seconda il 6 maggio 1898 per essere congedato definitivamente il 13 luglio 1898. Come gran parte degli uomini del tempo, era di carattere rude e poco incline alla socializzazione. Per contraltare la moglie Lucrezia era una donna affabile, soave e generosa. Doti che attingeva da una forte fede cristiana. Si racconta, infatti, che, all’insaputa del marito (ma forse solo in parvenza, poiché in quel periodo un uomo non poteva mostrare troppo pietismo e compassione), era solita prendere mezzo filone, o un filone intero di pane, e portarlo ai vicini di casa che non avevano di che sfamare i propri figli. Un’attenzione e una generosità che manifestarono anche nei confronti dei nipoti Cappelli (Giovanni, Nazzareno, Carlo, Marinella, Assuntina e Cesira) figli di Veneranda, sorella di Raffaele, rimasti senza padre, morto in guerra, quando erano ancora in tenera età. Questi nipoti, trascorrevano l’intera giornata con gli zii che provvedevano ad accudirli e a sfamarli. Rimasero con loro, in cambio di lavori nel podere, fino a quando si sposarono. Non possiamo dimenticare, infatti, che a quel tempo l’assistenza e la previdenza pubblica non erano quelle di oggi; alcune situazioni sociali si potevano superare solamente con la generosità e l’aiuto di istituzioni di carità o della generosità di altre persone. Tra questi parenti emergeva Nazzareno, ritenuto “strambo” perché

La casa di Piedicolle, residenza della famiglia Montanucci, prima dell’ampliamento.

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era solito fare delle goliardate, anche se, invece, si dimostrava ben consapevole di cosa faceva. Tuttavia, un giorno, scendendo per una strada di Perugia, contromano, in bicicletta, si trovò di fronte un carro trainato da un somaro. A causa della velocità, l’uomo non riuscì a evitarlo e cozzò violentemente la sua testa contro quella dell’asino. Il somaro morì poche ore dopo, mentre Nazzareno fu portato immediatamente in ospedale dove rimase in coma per alcuni giorni per poi riprendersi quasi interamente. La botta fu talmente invalidante che gli riconobbero il diritto a una pensione di invalidità che gli permise di poter vivere dignitosamente per il resto della vita. Non solo, grazie alle sue “goliardate”, ma sicuramente anche alla sua intelligenza, riuscì a far studiare fino alla laurea i suoi tre figli: una cosa assai rara per il ceto operaio del tempo. La casa Montanucci, come già Libretto militare di Raffaele Montanucci. altre case coloniche dell’epoca, rappresentava anche un punto di riferimento per le famiglie dei dintorni che si rivolgevano a loro per far fronte alle molte esigenze della vita dell’epoca, per risolvere alcune situazioni operative, scambi di lavoro, scambi di cose e altre occasioni familiari e sociali. Si trattava di una famiglia in cui la solidarietà era di casa. Nella cultura contadina di quel momento storico, il lavoro fatto a terze persone (parenti, amici, conoscenti) non veniva remunerato, ma restituito con lo stesso tipo di lavoro: ad esempio, la raccolta delle olive effettuata da vicini o conoscenti in un uliveto, veniva “pagato” con la restituzione dello stesso tipo di lavoro. Ricorrere alle famiglie vicine era un classico per tutti: ci si rivolgeva per chiedere una fila di pane (forma dialettale per indicare il filone) quando la produzione settimanale veniva esaurita prima del tempo, una manciata di sale, un cucchiaio di zucchero, un uovo, un attrezzo e anche un servizio o un lavoro che era ricambiato con la stessa merce o con altri servizi o cose od oggetti di valore più o meno corrispondente. Il medesimo scambio avveniva con i piccoli lavori artigianali che erano di casa nella famiglia Montanucci. Infatti, ogni attrezzo o strumento di lavoro aveva bisogno di essere costruito artigianalmente da mani esperte, richiedeva manutenzione nonché eventuale riparazione. Ser-


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vizi, questi, che tutti i vicini sapevano di poter trovare a casa Montanucci dove c’erano gli attrezzi e le professionalità per ideare, costruire, riparare e manutenere quasi l’intera gamma dell’attrezzatura contadina necessaria. Qui si trovava l’incudine, la morsa, la pialla, gli scalpelli, il cavalletto del bottaio (formato da una spessa base con quattro gambe con due aperture nel mezzo a forma di zampe di granchio, lungo circa 80 cm), la fornacetta, attrezzo necessario per piegare le doghe delle botti, e ogni altro utensile occorrente per svolgere le indispensabili attività artiMaria Montanucci, figlia di Adamo e Adalgisa, seduta sul lavatoio gianali come una sega appena costruito accanto alla casa paterna. elettrica a nastro, costruita da Mariano, con un motore di Lambretta e due pulegge. C’erano anche due vasche di cemento molto grandi, circa tre metri di lunghezza, due metri di larghezza e un metro di altezza, costruite per lavare i panni. I lavatoi - rari a quel tempo - erano importanti per le donne del luogo in quanto, altrimenti, sarebbero dovute scendere, con i pesanti canestri ricolmi di biancheria, fino al Tevere che si trovava diverse centinaia di metri più in basso. L’acqua necessaria alle vasche veniva attinta da una risorgiva reperibile poco più a monte e fatta scendere per caduta in modo che si rinnovasse continuamente affinché i panni, le lenzuola o le coperte sporche e insaponate, potessero essere immerse sempre nell’acqua pulita. Il tubo di raccolta dell’acqua della sorgente alimentava anche l’abbeveratoio delle vacche. L’acqua dove le donne si recavano a lavare i panni, era quasi sempre fredda, se non gelata, in quanto doveva scorrere per rinnovarsi. Fino alla fine degli anni cinquanta del secolo scorso, il compito del lavaggio a mano dei panni ad uso quotidiano era affidato esclusivamente alle donne. Era un lavoro molto faticoso in quanto dovevano trasportare pesanti ceste e sbattere i panni con forza sui sassi o sulle apposite piastre.

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Era anche particolarmente doloroso d’inverno, quando, a mani nude, immergevano, strizzavano, insaponavano e sbattevano i panni nell’acqua gelida dei fiumi, dei ruscelli, delle polle o delle fontane. Nei mesi invernali, infatti, il freddo, non solo provocava i geloni alle mani, ma creava forti dolori che si attenuavano solo dopo che il corpo umano, attraverso la circolazione arteriosa, riusciva a irrorare abbondantemente gli arti così esposti. Il lavaggio dei panni era un rito cui nessuna donna del ceto contadino poteva sottrarsi. “L’iniziazione” avveniva già in Luigi Montanucci. giovane età, spesso contemporaneamente all’approccio alla prima classe della scuola elementare. Per fortuna la scienza ha creato quell’insostituibile elettrodomestico, chiamato lavatrice, mettendo fine a detto supplizio. Se consideriamo a quali sacrifici e a quali patimenti erano costrette le donne, non possiamo che meravigliarci se l’inventore dello straordinario elettrodomestico, non abbia ricevuto il premio Nobel per la scienza e per la salute delle donne. Le professionalità presenti all’interno della famiglia Montanucci erano molteplici e divise tra i numerosi membri della famiglia: - Adalgisa sapeva castrare i polli affinché diventassero capponi, una professione rara cui si rivolgevano molte donne della zona impegnate all’accudimento dei pollai di famiglia; - Mariano costruiva e riparava botti, bigonci, telai, infissi, manici per i vari attrezzi e manufatti di legno. Una professione che aveva imparato in Sud Africa, nel campo di prigionia di Zonderwater; - Luigi, detto Luigetto, era esperto nella costruzione di casse di fucili. A lui, infatti, si rivolgevano i numerosi cacciatori della zona che, prima o poi dovevano mettere mano all’arma per le loro battute di caccia; - Gervasio faceva il “barbiere” ed era attrezzato con un tagliacapelli di marca tedesca. Con l’aiuto di un paio di forbici ben affilate e con destrezza, provvedeva al taglio dei capelli degli uomini residenti nella campagna circostante. Gli uomini e i bambini si rivolgevano a lui, generalmente di sabato o domenica, per potersi presentare più curati ed eleganti nel giorno di festa, alle funzioni e agli incontri domenicali. - Ida, la moglie di Mariano, era una provetta materassaia, esperta nella creazione e riparazione di materassi e di coltri di lana che realizzava con un telaio costruito dal marito. Questa era la sola attività che, anche se minimamente e forse unicamente per la materia prima necessaria, ve-


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niva remunerata. Il materasso e la coltre, infatti, oltre al lavoro richiedevano una materia prima costosa (tela, filo per cucire, aghi, lana ecc.) non reperibile in casa. Accanto all’abitazione, i Montanucci avevano scavato una grotta nel renone (rena grossolana) compatto del greppo, dove molti abitanti della zona ebbero modo di ripararsi dai bombardamenti del 1944. A est della casa, infatti, si alzava un ripido scoscendimento, quasi a parete, che si adattava molto bene a essere bucato senza grandi rischi di crolli, giacché la parte di terra soprastante che formava la striscia coltivata era di uno spessore contenuto. Dal piano di entrata della grotta, alla parte coltivata che si trovava sopra il greppo, vi erano quattro-cinque metri di sedimenti. Fu facile, quindi, bucarla per ricavarne una galleria che si estendeva per una lunghezza di una decina di metri, mentre la larghezza poteva svilupparsi per due Marcella e Lucrezia sulla Lambretta del padre. Sullo sfondo a sinistra la grotta costruita nel renone. metri circa. L’altezza invece era a misura d’uomo. Oggi la galleria è chiusa perché franata. L’antro servì non solo alla famiglia, ma anche a vicini e parenti. Infatti, quando gli Alleati, per accelerare la ritirata dei te,deschi nella primavera del 1944, trasvolarono con degli aerei rombanti sopra questi territori lanciando bombe contro gli invasori, poteva accadere che qualche bomba scoppiasse in zone vicine distruggendo edifici e còose o uccidendo quanti si trovavano sul posto (com’è purtroppo accaduto). Così, quando gli abitanti della zona sentivano il rombo lontano degli aeroplani, correvano a ripararsi nella grotta. Tra i tanti accadimenti di quei giorni, rimane vivo il ricordo di Raffaella (figlia di Adamo) che a quel tempo aveva circa tre anni. Quando sentiva l’allarme, la bimba cominciava a correre buffamente mettendosi le mani sopra la testa. L’arrivo degli aerei, infatti, era preceduto da un potente rombo che si sentiva da lontano. All’udire quel rumore, i genitori o i parenti chiamavano la piccola affinché corresse al riparo dentro la grotta. La bambina, inconsapevole di quanto stesse accadendo, si copriva la testolina con le mani, intanto che correva verso la grotta. Arrivata al riparo, si accorgeva di dover dividere quello spazio con altre persone che a volte potevano superare la trentina di unità. Era gente che conosceva poiché parenti o vicini di casa e, a volte, anche persone a lei del tutto estranee. La grotta, infatti, ospitava chiunque si trovasse

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nei dintorni al momento dell’allarme aereo. Non va dimenticato poi che i tedeschi, durante la ritirata, nel tentativo di non cedere alla resa, lasciavano una lunga scia di sangue. Questi soldati si accanirono anche verso la popolazione civile, oltre che nei confronti di strutture belliche che ancora erano rimaste in piedi. La violenza degli invasori tedeschi mostrò il suo volto velenoso, anche nei confronti di queste genti: - a Castello delle Forme, dove si fermarono per rallentare l’arrivo degli Alleati, misero il paese al centro di forti combattimenti; - nella vicina Marsciano, il 15 Giugno uccisero il carabiniere Giuseppe Briganti; - sempre a Marsciano, il giorno precedente alla Liberazione (16 giugno) vi furono altri due morti: Marchino Fabbri e Giannino Volpi, eliminati a causa di un’azione partigiana effettuata per evitare che i tedeschi facessero saltare le Monumento ai fratelli Ceci accanto al Municipio fornaci. di Marsciano. Nella zona di Marsciano era attivo il “Gruppo Patrioti di Marsciano” che si era particolarmente attivato dopo il 28 marzo del 1944 a seguito dell’eccidio dei fratelli Ulisse, Armando e Giuseppe Ceci. I tre fratelli erano stati accusati di renitenza alla leva, per non essersi presentati alla chiamata alle armi della Repubblica Sociale Italiana, e condannati alla fucilazione che fu eseguita dietro le mura del cimitero di Marsciano. L’allarme bombe terminò nel giugno 1944 quando la guerra stava volgendo lentamente al termine. In quel mese, gli Alleati avanzavano verso Perugia, sia da sud-est che da sud, lungo l’asse viario della Tiberina. La liberazione di Piedicolle venne realizzata ad opera del 13° reggimento inglese il 18 giugno 1944. In quei giorni furono liberate anche Bastia Umbra, Bettona, Castello delle Forme, Castiglion Fosco, Cerqueto, Cibottola, Compignano, Costano, Mercatello, Montesanto, Morcella, Olmeto, Ospedalicchio, Palazzo, Pale, Papiano, Passaggio, Piedicolle, Piegaro, Ponte Nuovo, Preci, San Nicolò di Celle, San Valentino, Santa Elena, Sant’Angelo di Celle, Sant’Enea, Spina, Torgiano. Poi, finalmente la pace! Finita la guerra, il rifugio Montanucci venne utilizzato per conservare gli alimenti grazie al fatto che nel suo interno si manteneva una temperatura costante abbastanza fresca e poteva sostituire il frigorifero che, in casa Montanucci, comparve verso la metà degli anni sessanta. Questa famiglia, infatti, fu una delle prime della zona a possedere il


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prezioso elettrodomestico, grazie ad un omaggio della cognata Marina che l’aveva recuperato da una “rottamazione” effettuata da una famiglia agiata residente nel palazzo romano dove il marito aveva assunto il portierato. Il frigorifero era talmente ben fatto che ancor oggi (giugno 2015) funziona regolarmente, anche se non in linea con gli attuali parametri del risparmio energetico, nella casa della nipote Marta, a Schiavo di Marsciano. A quel tempo, la grande richiesta di portierato nei palazzi romani, aveva attratto molte famiglie umbre che si trasferirono definitivamente nella capitale. Nella famiglia di Ida, oltre a Marina e al marito Gustavo, avevano intrapreso la stessa strada anche il fratello Ernesto con la moglie Regina, la sorella Annunziata col marito Guido, e con essi anche la famiglia di Stefano Pesci, fratello di Gustavo e Nello. Oltre a ricavare un decoroso stipendio, questi portieri, entravano spesso in possesso di mobili, elettrodomestici, vestiti e altro che i residenti dei palazzi (per lo più, persone benestanti) sostituivano con modelli più moderni. Gli oggetti sostituiti, il più delle volte, erano ancora in buono stato e i portieri cercavano di recuperarli per loro o per i loro parenti. Quando questi parenti tornavano nel loro paese, sempre ben vestiti e con vari oggetti d’uso quotidiano che gli stessi avevano recuperato dalle “rottamazioni” romane, si creava attorno un curioso interesse, non solo per i bambini, ma anche per gli adulti che cercavano di scoprire le novità portate dalla città. Alcuni anni dopo la morte del capostipite Raffaele (21 gennaio 1941), scomparve anche la moglie Lucrezia che morì il 23 agosto 1947. Fu allora che Adamo assunse il ruolo di capofamiglia e con esso la responsabilità della tenuta contabile e delle relazioni con il proprietario del podere. Adamo, persona pacata ma decisa e intransigente su alcuni principi, chiese al proprietario, il conte Francesco Bennicelli, di poter rela-zionare direttamente con lui anziché con il fattore. Il conte, infatti, abitava a Genova e, per Adalgisa Vigilanzi e il marito Adamo Montanucci. ovvie ragioni, non poteva essere sempre presente in Umbria, dove aveva molte proprietà. Tuttavia, l’insistenza di Adamo lo portò ad accettare un rapporto diretto, escludendo, di fatto, il suo fattore. Non trascorse molto tempo però, che il conte Francesco decise di disfarsi di quel podere. Ad acquistarlo giunsero i fratelli Gramaccia di

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Todi, di professione contadini, che permisero alla famiglia Montanucci di continuare a lavorare il podere con la formula della mezzadria. Alla morte di Adamo, avvenuta nell’ottobre 1983, il conte Bennicelli inviò un telegramma di condoglianze alla famiglia. La cosa sorprese tutti poiché non era consuetudine che i nobili si preoccupassero della vita dei contadini, ancor più di questa famiglia con cui, ufficialmente, aveva interrotto i rapporti di mezzadria da quasi trent’anni. Evidentemente, il conte aveva avuto modo di conoscere e apprezzare Adamo e l’intera famiglia Montanucci che per circa mezzo secolo aveva lavorato la sua terra in cambio della metà delle produzioni derivate. L’arrivo dei nuovi proprietari migliorò per alcuni aspetti le relazioni interpersonali, ma il positivo rapDa sinistra, Ginetto Luchetti, Maria Montanucci, Adalgisa porto di stima tra Adamo e il conte Vigilanzi, Edwige, Assuntina, Raffaella, Franco e Lucrezia Francesco Bennicelli, rimase come Montanucci. un segno indelebile. La Famiglia Bennicelli, oltre ad essere possidente poiché proprietaria di alcune tenute in Umbria, rappresentava anche un importante riferimento nel campo dell’industria italiana. Filippo (nella foto) era ingegnere navale ed ebbe importanti incarichi nei cantieri navali di Genova, mentre il fratello Alfredo, fu considerato il padre dell’arma corazzata italiana. Quest’ultimo, nel 1915, venne richiamato alle armi, per dedicarsi alla manutenzione, e alla progettazione di mezzi speciali utili a superare il concetto di guerra di trincea. Per i suoi importanti studi nel campo dei carri blindati cingolati e similari avanzò di grado fino a colonello e, su richiesta del Prefetto di Perugia, fu nominato senatore del Regno ricoprendo diversi incarichi nel campo dell’agricoltura e dell’economia. Fu chiamato anche a dirigere la cattedra Il conte Filippo Bennicelli, padre di Francesco.


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ambulante di agricoltura di Perugia, dove la famiglia aveva i suoi possedimenti. La famiglia di Adamo era composta dalla moglie Adalgisa e da cinque figli: - Edvige, che nel frattempo si era sposata con Giuseppe Falini e aveva preso residenza nella casa del marito in località “La Barca” di Piedicolle; - Assunta che si era sposata con Fortunato Carloni andando a risiedere

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Cleofe Pesci e Giuseppe Cecchini (al centro), nel giorno del loro matrimonio. Alla destra dall’alto, il padre Nello Pesci, la nonna Adelina, le sorelle Mafalda, Lea, Maria, Anna e Francesco Pesci; dietro lo zio Stefano (detto Ruggero), il nonno Antonio Pesci, la mamma Giulia, la sorella Elia e il fratello Domenico; sullo sfondo il classico pagliaio del fieno e, a destra, il pagliaio della paglia. Al centro la capanna del paiolo (la pula).


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a Pantalla; - Maria che aveva sposato Franco Baldassarri residente a Terni; - Raffaella che sposò Gino Zaccheo trovando residenza in un’abitazione di Marsciano; - Gianfranco sposò Adele Venturi con la quale trovò residenza a Collepepe. Adamo e Adalgisa avevano un’altra figlia di nome Annunziata, detta Nunziatina, mancata nel 1947 pochi giorni dopo che era scomparsa la nonna Lucrezia. Annunziata manifestava un forte attaccamento alla nonna. Si racconta che: “Tanti passi faceva la nonna, tanti ne faceva Annunziata. Ovunque andava la sua ava, Annunziata la seguiva”. Lucrezia, preoccupata del morboso attaccamento, un giorno le disse: “Cara Nunziatina, non puoi vivere in questo modo accanto a me, come farai quando morirò?" E la bimba rispose: “Quel giorno – cara nonna – verrò con te!” Quando Lucrezia morì (28.8.1947), Annunziata si ammalò e pochi giorni dopo si spense inspiegabilmente nell’ospedale di La piccola Annunziata Montanucci. Perugia. Il fatto sconvolse tutta la famiglia che, a quel tempo, non disponeva di mezzi per trasportare la salma al proprio paese per onorare nel miglior dei modi la piccola. Per questo motivo, ogni cosa venne affidata alle suore dell’ospedale. A preoccuparsi di mantenere un ricordo tangibile, ci pensò lo zio Nazzareno che incaricò un fotografo affinché scattasse un’istantanea della piccola Nunziatina. Una foto che ritrae la bambina bella e serena, come se si fosse appena appisolata. La sorella Luigia era conosciuta da tutti con il nome di Marietta e nessuno l’avrebbe riconosciuta con il nome di battesimo. Era la sarta di famigli; cuciva pantaloni e camicie per tutti. Un’arte che continuò a praticare per la parentela stretta anche dopo uscita dalla famiglia. Questa donna era anche la produttrice familiare di canestre (ceste) in vimini bianchi spellati, per la biancheria. Era rinomata anche perché si dedicava molto alla lettura di testi sacri e di libri di approfondimento religioso. Coltivava anche il vezzo della scrittura che espletava con vena poetica. I suoi componimenti riguardavano, generalmente, il campo religioso e quello naturalistico (alla fine di questo racconto proponiamo un suo poemetto dedicato a Piedicolle). Luigia si era sposata con Aquilio Luchetti che abitava a Piedicolle e avevano due figli: Zaira ed Egidio. - Zaira sposò Giuseppe Sisti trasferendosi a Terni dove il marito lavorava in un’acciaieria. - Egidio (chiamato Ginetto), sposò Vera Tintillini, rimanendo a Piedicolle con i genitori. Era un bravo calzolaio, a lui si rivolgeva l’intera parentela sia per farsi fare le scarpe nuove sia per effettuare riparazioni. Con l’arrivo dell’industria calzaturiera, Egidio abbandonò l’attività di calzolaio trovando lavoro in una ditta di trasporti come autista di camion.


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La vita contadina

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a vita della famiglia Montanucci, come quella della gran parte dei contadini del tempo, era scandita da giorni intensi dedicati ai lavori nei campi e da giorni meno impegnativi nelle giornate corte dell’inverno. Le lunghe giornate d’estate richiedevano un impegno molto generoso con l’alzarsi all’alba, se non al crepuscolo (anche alle 3-4 del mattino), per recarsi a falciare l’erba dei prati prima che il sole fosse alto nel cielo. L’erba veniva falciata e lasciata esposta all’essicazione naturale del sole e del vento affinché si trasformasse in fieno. Quando l’erba era secca, doveva essere girata con la forca e ranghinato il prato con i classici rastrelli di legno. Infine, quando il foraggio era affienato, veniva ammucchiato in andane, per ridurne la superficie esposta e poi costruire le pagliarozze (piccoli covoni). Dopodiché, dette pagliarozze venivano caricate sui carri per essere trasportate nell’aia per erigere il pagliaio del fieno. Nondimeno, in una casa contadina non mancava mai il lavoro. Oltre al fieno che veniva raccolto e conservato per alimentare i bovini allevati, si coltivava il grano che, dopo aver tolto la parte occorrente per la semina dell’anno successivo, era diviso a metà con il proprietario del podere. La parte rimanente serviva per alimentare gli animali da cortile (polli, oche, galline, maiali) e per le esigenze della famiglia che lo impiegava per fare il pane o per scambiarlo con altri generi di necessità. In tempi più lontani, la raccolta veniva effettuata con la falce a mano, raccogliendo gli steli con la spiga, raggruppandoli in gregne (piccoli fasci di piante di grano), che erano poste sul campo in maniera da formare delle croci dette cavalletti o cavallotti. Poi, in casa Montanucci, arrivò anche la falciatrice trainata dalle vacche, che movimentava la lama falciante senza bisogno del motore. Questa lama accelerò notevolmente il lavoro. Infatti, dietro la falciatrice lavoravano più persone per raccogliere i mucchi delle spighe che la macchina preparava e per leSul greto del Tevere, anni ‘60, da sinistra: Lucrezia Montanucci, Rita Luchetti, garle con il balzo Francesco Pesci, Liliana Pesci, Marcella Montanucci, Domenica Celesti, Gianfatto con due mazfranco Montanucci.

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zetti di spighe annodate da un lato, girate attorno a fascio per essere riannodato dall’altro, stringendo così la gregna. Qualche decennio dopo giunse anche la mietilega, una macchina mossa dal motore di un trattore che mieteva e legava con uno spago le gregne lasciandole pronte a terra. Le gregne così legate, venivano raccolte in mucchi a forma di cavalletto in modo che le spighe si asciugassero e l’eventuale acqua piovana non ri-

Falciatrice con coloni a seguito, negli anni ‘30 del secolo scorso Foto di Vita in campagna).

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stagnasse. Quando il grano era secco, veniva caricato sui carri e trasportato nell’aia dove veniva eretto il metone (una grande meta). Il grano così raccolto rimaneva sano in attesa che giungesse la trebbiatrice. Nel casale dei Montanucci la trebbiatrice arrivò molto presto, forse già nella prima metà del ‘900 quando queste macchine venivano spostate nelle diverse aie di trebbiatura. Merita essere ricordato che la trebbiatrice fu inventata dallo scozzese Michael Menzies nel 1733. Inizialmente era mossa da una ruota idraulica; successivamente, furono costruite trebbiatrici movimentate da motori a vapore e poi da motori a scoppio. La prima mietitrebbiatrice meccanica (a vapore) risale al 1812. Nella prima metà del ‘900, la macchina fu migliorata e azionata direttamente dal motore del trattore che includeva anche la funzione di traino della trebbiatrice. Oggi, la trebbiatura avviene direttamente nel campo mediante il lavoro delle mietitrebbie che sono in grado di mietere e allo stesso tempo di trebbiare i vari tipi di colture: principalLucrezia e Marcella alla fine degli anni ‘50. mente cereali e leguminose.


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Al tempo della gioventù di Mariano pochi di loro potevano possedere una trebbiatrice, pertanto bisognava attendere che i proprietari delle poche macchine esistenti facessero tappa nell’aia dei Montanucci. Inizialmente, queste macchine richiedevano un cospicuo coinvolgimento dell’opera umana per scaricare i fasci dei cereali, per raccogliere il grano trebbiato nei sacchi per costruire il nuovo covone di paglia trebbiata. Questa esigenza era svolta con l’aiuto dei parenti e dei vicini che si offrivano puntualmente e volentieri. A volte, forse raramente, nell’aia dei Montanucci, altri contadini che non avevano spazio sufficiente o quantità tali da ospitare la predetta macchina, potevano recarsi nella corte dove si era fermata una trebbiatrice, con il carro carico di gregne di grano o di orzo per eseguire la trebbiatura. Col passare degli anni le trebbiature nelle aie erano diventate una consuetudine, tanto che i bimbi aspettavano questa occasione per fare festa. Ai bambini era affidato il lavoro di fornitura delle bevande (vino e acqua) a tutte le persone che lavoravano in mezzo ad un continuo volteggiare di polvere che seccava le ugole dei convenuti. Per i piccoli era una gara a chi raggiungeva più persone o a chi riusciva a raccogliere qualche carezza da chi riceveva la bevanda. Le loro grida superavano il fragore della macchina e il loro rincorrersi e saltare come pulcini in un pollaio, rendevano l’aia un luogo di festa che ricordava la sagra del patrono. Alla trebbiatura non poteva mancare Filiberto Grilli, un vicino di casa specializzato nella costruzione dei pagliai. Infatti, la paglia pulita dal grano dopo la trebbiatura, veniva raccolta per costruire dei grandi pagliai, attorno ad un mallone (stollo) piantato per terra, per essere poi utilizzata come lettiera per le vacche. Filiberto era anche un bravo stornellatore che, in queste occasioni metteva in mostra la sua arte canora. Durante la costruzione del pagliaio, nei momenti di sosta, intonava uno stornello

Trebbiatrice in attività dimostrativa dei lavori di un tempo, a Ospedaletto di Monte Peglia.

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portando allegria a tutti i convenuti, finché qualcuno lo seguiva da lontano creando un’eco o un richiamo allegro. Lo stornello è un tipo di poesia, generalmente improvvisata, molto semplice, d'argomento amoroso o satirico, affine alla filastrocca. E’ una forma di poesia tipica dell'Italia Centrale, che in questa zona dell’Umbria veniva cantata - come fanno i cantastorie - a voce alta, in modo che fosse sentita anche da chi stava più lontano. I motivi intonati raccontavano della vita quotidiana, dei loro problemi, delle vicende che li avevano coinvolti, dei piaceri e delle soddisfazioni che qualche volta rallegravano la loro esistenza. L’arrivo della trebbiatrice richiamava anche alcuni personaggi da tutti conosciuti perché svolgevano un servizio importante alla comunità. Si trattava del barcaiolo, del campanaro e del frate torsone. Il primo gestiva una piccola barca in riva al fiume Tevere e, al bisogno, traghettava (gratuitamente) la gente da una parte all’altra del fiume. Il secondo gestiva il funzionamento delle campane, suonandole al momento dell’occorrenza per richiamare i fedeli alle funzioni eucaristiche, per annunciare il decesso di qualche parrocchiano, per i funerali. Il campanaro svolgeva anche il ruolo di necroforo o becchino (sempre gratuitamente). Il frate torsone (così chiamato perché mancava degli studi necessari a svolgere appieno il servizio sacerdotale e perché incaricato ai lavori più umili), seguiva le trebbiatrici per chiedere la questua per il convento di Spineta. Costoro passavano nei luoghi dove si faceva la trebbiatura a chiedere quell’antico tributo. Nessuno mancava all’impegno verso il barcaiolo, il campanaro e il frate, poiché tutti erano coscienti dell’importante servizio che questi perso-

Idelio Montarani, il barcaiolo di Piedicolle, con la moglie Triesta sua collaboratrice in una delle numerose traversate sul fiume Tevere.


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naggi svolgevano gratuitamente. Ciascuno sapeva che questa era la loro unica entrata (se si escludono eventuali altre mance o donazioni) e che il ricavato doveva servire per l’intero anno. Questo tipo di questua un tempo era una vera tassa chiamata “decima”, e rappresentava, come lo stesso nome ricorda, la decima parte dei prodotti del suolo e del gregge. Questa tassa è ricordata nella Bibbia per sostenere leviti e sacerdoti e nell’antica Roma come imposta generale. La produzione annua del grano, della famiglia Montanucci, prima degli anni ’30, si aggirava attorno ai 25-30 quintali (circa 3-5 quintali a ettaro), aumentati a 12-15 q/ha con l’introduzione delle sementi “elette”, al tempo della “battaglia del grano” (iniziata nel 1931), per raggiungere i 25-30 q/h con le nuove varietà introdotte dopo la seconda guerra mondiale, che raggiungeva circa 90-100 quintali nell’intero podere coltivato dai Montanucci. Nelle annate più ricche, capitava di poter superare la soglia dei 100 quintali. Il raggiungimento di questo traguardo veniva annunciato all’intero vicinato con il suono della sirena azionata attraverso lo stridore che creava l’inserimento di un disco (una puleggia) sulle cinghie della trebbiatrice. Oltre al grano si coltivava anche l’orzo che serviva principalmente per nutrire gli animali allevati. Una piccola parte era utilizzata anche in cucina, dove trova ancor oggi molteplici usi culinari quali minestre (liquide o asciutte come il conosciuto orzotto), impanature, crostate, crocchette, zuppe, insalate, crepes, bevande calde, ecc. In campo industriale, è ancor oggi utilizzato per fare la birra, una bevanda conosciuta già dagli egizi e dai greci i quali però preTecnico in atto di porre la puleggia per azionare iil suono della sirena dei 100 quintali, in una dimo- ferivano il vino, o bevande alcoliche come strazione a Ospedaletto di Monte Peglia. il whisky anch’esso derivato dalla fermentazione di questo cereale. I veri artefici della diffusione della birra in Europa furono comunque le tribù Germaniche e Celtiche. In casa Montanucci, come in altre case, l’orzo si utilizzava soprattutto come surrogato del caffè; una bevanda accessibile a tutti, che in Italia ha visto la sua massima diffusione tra il 1936 il 1945 quando la Società delle Nazioni mise l’embargo sul caffè, come ritorsione per aver utilizzato le armi chimiche contro le popolazioni civili durante la Guerra d’Etiopia. Tuttavia, finita la guerra e l’embargo, il caffè, quello vero, rimase comunque proibitivo poiché il costo incideva sensibilmente sulle magre entrate delle classi meno abbienti. Al suo posto si usava l’orzo abbrustolito che, in qualche famiglia, veniva mischiato con radici di cicoria seccate, anch’esse abbrustolite. Il consumo di questa bevanda subì, comunque, una grande flessione negli

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anni del boom economico, quando il maggior benessere permise anche alla classe operaia e contadina l’acquisto del vero caffè con molta facilità. Nei decenni a cavallo del 2000 è tornata una bevanda comune come surrogato del caffè senza caffeina. Oggi, viene chiamato “caffè d’orzo” anche se questo appellativo è improprio, in quanto il caffè deriva da una pianta completamente diversa. Al tempo di Mariano, la preparazione dell’orzo era diventata una specie di rito praticato nelle serate buie e fredde dell’inverno, quando il calore e la luce che regalava il focolare acceso richiamava attorno al fuoco tutta la famiglia. Ogni famiglia aveva il suo modo di socializzare questa operazione culinaria. In casa Montanucci essa rappresentava un momento Uno degli antichi brustolini utilizzati per to- molto schietto, semplice e stare l’orzo. finalizzato a trarne un’economia familiare. L’orzo si abbrustoliva in un secchio di latta con attaccato un lungo manico che teneva l’operatore ad una distanza sufficiente per non scottarsi. Il secchio, in questo caso, sostituiva il più costoso “brustolino” o tostatore che aveva forme diverse: il più “elegante” era fatto a cilindro con uno spiedo che lo attraversava; altri erano a palla o a forma di padella. L’orzo veniva tenuto sul fuoco per un tempo relativamente lungo. Intanto che si abbrustoliva, le ragazzine venivano chiamate accanto al fuoco per preparare il corredo di nozze. Cucire, a quel tempo, per le ragazzine costituiva una condizione naturale e non rappresentava un peso. Ricamare, più che un bel momento di socializzazione, diventava occasione di lavoro in attesa di andare a letto. Questo modo di stare assieme nelle serate d’inverno era chiamato veglia in quanto le famiglie (non solo le ragazzine) si raggruppavano in una o nell’altra casa e, al calore del focolare e alla Un antico macinino del caffè. fievole luce di un lanternino o delle prime lampadine, trascorrendo la serata ravvivando ricordi, raccontando eventi, pettegolezzi e altre storie. Nessuno doveva stare con le mani in mano e pertanto le donne e le ragazzine dovevano portare appresso gli strumenti per ricamare, fare le calze, maglie e così via. La veglia richiamava le famiglie ogni sera escluso il sabato, la domenica e il giovedì, poiché queste serate erano dedicate agli incontri tra i fidanzati che, comunque, rimanevano sempre sotto l’occhio vigile dei genitori. Alla fine, quando l’orzo era cotto al punto giusto, il tostino veniva retratto dal fuoco e, con la dovuta attenzione per non scottarsi le mani, il


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contenuto veniva rovesciato in un vaso o altro recipiente. Poi, sempre con una buona dose di ritualità, una parte dell’orzo, diventato ormai di color nero, veniva versato in un macinino di legno che presentava uno strano coperchio a mezza volta. Chiusa la volta del coperchio, la mano del “tostatore” faceva girare la piccola maniglia che creava uno strano stridulo rumore. Di tanto in tanto, interrompeva la macinatura, apriva un piccolo cassetto che si trovava sulla base del macinino, osservava il contenuto e, con un dito lo spianava, riprendendo a girare la manovella fino a quando il rumore creato cambiava suono perché girava a vuoto. A questo punto, l’operatore estraeva il cassetto del macinino e lo versava in un vaso con il coperchio. In un pignattino (piccolo tegame di terracotta di colore nero) contenente acqua, venivano versati alcuni cucchiaini di orzo tostato e macinato, fatti bollire per almeno mezz’ora. Poi, ancora bollente, il caffè veniva versato in un colino posto sopra un recipiente di terracotta o di maiolica avente una piccola maniglia da un lato e un beccuccio nel lato opposto. Dal recipiente, il contenuto veniva versato in apposite tazze, addolcito con un cucchiaino di miele o di zucchero e consumato come colazione assieme ad un tozzo di pane. A casa Montanucci, il “caffè” così preparato veniva utilizzato per la colazione. Oltre ai lavori dei campi, nella casa di Piedicolle ci si doveva dedicare anche all’accudimento del bestiame che rappresentava una delle maggiori risorse della famiglia. Le vacche allevate, infatti, oltre ad essere utilizzate per trainare i carri e lavorare la terra, servivano per la produzione di vitelli L’illuminazione elettrica lungo le da macello (normalmente uno al- strade, negli anni ‘50. l’anno per ogni vacca), il cui ricavo veniva diviso con il proprietario del podere. A differenza di altre regioni d’Italia, i contadini della zona non allevavano mucche, ma solamente vacche. Infatti, in questo territorio non si trovavano caseifici o luoghi di raccolta del latte vaccino. Il latte e il formaggio necessario erano forniti dalle pecore e dalle capre. L’allevamento delle vacche, al pari degli altri bovini, significava comunque dover provvedere a cospicue quantità di foraggio, costituito principalmente di erba e fieno, che doveva essere preparato nei mesi estivi quando incombevano molti altri impegni agricoli. Il grande impegno estivo era ripagato con un lavoro meno intenso e pesante nella stagione invernale quando, le giornate più corte, concedevano meno ore di luce, obbligando le persone a ritirarsi in casa, vicino ai bagliori del focolare, attorno ad una lampada a olio e poi, al chiarore di quella fievole luce emessa dalle prime lampade elettriche.

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La luce elettrica, infatti, arrivò quando Mariano era già giovincello, dopo che Edison aveva inventato la lampadina a incandescenza e la ditta Siemens aveva iniziato a produrre le lampade a filamento di tungsteno (secondo decennio del ‘900). A seguito di questa invenzione, il gruppo di centrali idroelettriche delle Marmore iniziò a costruire grandi linee di distribuzione facendo arrivare la luce anche nelle case più modeste. Nel bacino delle Marmore, la prima centrale idroelettrica venne costruita nel 1886 per fornire l’energia alle fabbriche di armi di Terni; ne seguirono diverse altre, come quella di Galleto che, con i suoi quattro gruppi idroelettrici, nel 1929 produceva 160.000 kw/h, rappresentando la più grande centrale idroelettrica d’Europa. La famiglia possedeva una porcilaia costruita accanto al rifugio antiaereo lungo il greppo che sosteneva il terrazzamento superiore che, con l’arrivo del freddo richiamava al lavoro anche i norcini che arrivavano puntualmente per ammazzare i maiali. In detto locale si allevavano normalmente due o tre scrofe che davano una decina di maialini cadauna, che venivano allevati con i cereali, legumi, verdure e altre erbe da foraggio coltivate in proprio. I maialini, quando avevano raggiunto il peso “forma” (70-80 kg) venivano venduti vivi e il ricavo diviso con il proprietario del podere. Uno o due di questi maiali veniva trattenuto e fatto crescere fino a raggiungere i 100-140 kg. Per sant’Andrea piglia il porco per la sèa; se tu non lo puoi pigliare, fino a Natale lascialo stare, racconta un antico proverbio toscano. A macellare il maiale di casa Montanucci veniva chiamato il norcino Lelletto (Nello), padre di Enzo Luna gestore della cooperativa dell’Acquasanta. Lelletto era un personaggio d’altri tempi: lo si notava da lontano quando arrivava avvolto in un grande mantello nero (tipico dell’800), con la pipa in bocca e una tosse asmatica, probabilmente causata dal fumo. Vederlo arrivare dopo che aveva nevicato –ricorLa stagionatura in un dipinto di Lucrezia Montanucci. dano le sorelle Montanucci-, era uno spettacolo: quando si avvicinava, da lontano appariva come una “sagoma” nera che si muoveva su di un “lenzuolo” bianco, una sagoma che sembrava barcollasse come fosse mossa dal vento.


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Questo norcino, si presentava una prima volta solamente per ammazzare il maiale, pelarlo con l’acqua bollente, spezzarlo in due parti e quindi pulirlo per appendere i grossi pezzi di carne ai pioli di una scala affinché scolassero gran parte dei liquidi contenuti nelle carni. L’indomani (a volte anche due giorni dopo) ritornava per lavorare le carni. Dopo aver diviso le diverse parti a seconda del tipo di insaccato che si voleva ottenere, Lelletto procedeva con la salatura e aromatizzazione dei pezzi da stagionare e La porcilaia accanto all’abitazione dei Montanucci. quelli da insaccare per ricavare salsicce, salami, coppa, sanguinacci. Oltre ai maiali si allevavano altri animali da cortile come oche, anatre, galline, faraone, conigli, anch’essi da condividere con il proprietario del podere. Non lontano dall’abitazione, vicino alla grotta, c’erano anche tre o quattro arnie che i Montanucci curavano per produrre il miele che veniva impiegato per le esigenze della famiglia. L’esperto nella cura degli alveari era Luigetto (fratello di Mariano), mentre ai lavori di smielatura partecipavano tutti, bambini compresi. Importante era anche la produzione dell’uva e delle olive che i Montanucci coltivavano con passione per trarne vino e olio. Anche questi prodotti erano divisi con il proprietario del podere. Quanto rimaneva, era in parte trattenuta per le necessità della famiglia e in parte venduta o utilizzata per lo scambio con altra merce e prodotti di prima necessità. Dagli allevamenti si ricavava un altro importante prodotto: le uova, che venivano raccolte ogni mattina e, dopo avere trattenuto quelle che servivano per la famiglia, si portavano alla cooperativa e al negozio di coloniali, situato poco più a valle. I Montanucci lavoravano anche un campo vicino alla cooperativa. Quando capitava di doversi recare sul posto per svolgere i lavori agricoli quali la mietitura del grano o la falciatura dell’erba per la fienagione, era una festa per i bimbi che, oltre a gioire del trasporto sul carro trainato dalle vacche per raggiungere il campo, la “trasferta” costituiva sempre un’occasione per gustare un Torchio per la spremitura delle vinacce, di bicchiere di spuma che lo zio Gervasio comprava casa Montanucci. nell’osteria della cooperativa di cui erano soci.

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Mariano Montanucci nella classica posa per la fotografia delle giovani reclute.


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La vita sociale e familiare

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ariano, il personaggio di questa saga, dopo la prima infanzia, all’età di sette anni iniziò a frequentare la scuola elementare di Piedicolle dove, nell’anno scolastico 1926/27, conseguì la licenza di 3ª elementare. A quel tempo, per i ceti meno abbienti, l’obbligo dell’adempimento scolastico era ritenuto importante solamente al fine di imparare a leggere e scrivere. Non solo, ma tale “privilegio” era riservato esclusivamente ai maschi poiché le donne erano assai meno considerate. Questa condizione era condivisa da tutti i ceti sociali. Tutti, infatti, (salvo rare eccezioni) compreso lo stesso rango inferiore, ritenevano che l’istruzione fosse una prerogativa e un “bisogno” dei soli ceti abbienti. Per quelli medio-bassi e bassi “l’unica cosa necessaria” era rappresentata dalla capacità lavorativa da esprimersi nel campo agricolo (necessario per produrre alimenti) e nel campo artigianale (indispensabile per produrre strumenti, vesti o oggetti essenziali alla produzione del lavoro). Coloro che cercavano di uscire da questa condizione di sottosviluppo, oltre a trovare molti ostacoli derivanti dagli alti costi e dalle difficoltà di accedere alle scuole, dovevano fare i conti con il “bisogno” di braccia. Le uniche possibilità di uscire da questa condizione culturale era data dal seminario dove si studiavano le scienze teologiche arricchendosi culturalmente. L’industrializzazione che si stava avviando in quel periodo, pur bisognosa di “braccia” per le catene di montaggio, richiedeva un diverso approccio al lavoro e un maggior acculturamento. Ciò comportava una capacità d’innovazione e di rischio che la classe contadina faceva fatica ad assorbire. I primi a intraprendere questa strada, infatti, furono gli artigiani che perdevano il lavoro a causa dell’industrializzazione (il trattore al posto dei buoi, ad esempio, obbligava i maniscalchi a trovare una nuova e diversa occupazione). Il calzolaio Ginetto (Egidio) Lucchetti che dovette cambiare lavoro a causa dell’arrivo dell’industria calzaturiera ne è un altro esempio. Ma l’ambiente contadino rimaneva fortemente legato alle tradizioni, alla stagionalità della vita, alla semplicità dei rapporti sociali. Erano quasi sempre gli ultimi a dotarsi delle innovazioni tecnoPagella di Mariano, dell’anno scolastico 1926/27. logiche e delle prospettive offerte dal

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progresso. Eppure, anche se il clima socio-politico del fascismo scuoteva gli animi, chi viveva in campagna si accorgeva poco delle innovazioni. Il lavoro agricolo richiedeva un’assidua continuità in quanto gli animali dovevano essere alimentati e abbeverati ogni giorno e le stagioni si susseguivano senza sosta. Non servì neanche la riforma Gentile, emanata dal Governo Italiano nel 1923 (quando Mariano aveva sette anni) e rimasta in vigore fino al 1962. La riforma, pur elitaria e aristocratica, rivolta ai migliori e non a tutti, aveva portato l’obbligo scolastico per tutti, senza distinzione di ceto e sesso, a 14 anni. Molto probabilmente le strutture pubbliche che si dimostrarono impreparate a novità così dirompenti, ma soprattutto le famiglie, consideravano quella legge come un’opportunità piuttosto che un obbligo. L’obbligo (solo per gli uomini) di fatto rimaneva quello previsto dalla legge Coppino del 1877 che prevedeva la frequentazione di tre classi. Ottenuta la licenza scolastica, il 19 giugno 1927, Mariano si accinse a ricevere il sacramento della prima comunione che fu impartito nella chiesa parrocchiale di San Giacomo di Piedicolle. Papa Pio X con la lettera Qual singolari Christa Amore, emanata il 10 agosto 1910, aveva stabilito che per ricevere la prima comunione era necessario sapere tutto il catechismo e non bastava aver raggiunto l’età della “discrezione”, considerata al compimento del 7° anno di età. Un’innovazione che richiedeva una maggior maturità e un crescente coinvolgimento del fanciullo che doveva poter comprendere che quella particola non era pane comune bensì il Corpo di Gesù. Tuttavia anche in questo caso, la classe contadina era considerata diversa e inferiore a quella di città. Infatti, a dimostrazione di ciò, a Mariano si applicarono le disposizioni antecedenti al decreto di Papa Pio X. Mariano trascorse i primi anni di vita in questo contesto socio-pedagogico, limitando lo spazio sociale all’ambiente agricolo del tempo. Questa “iniziazione” alla vita fortificò Mariano nel suo carattere già mite, mansueto e docile; attitudini che gli ritorneranno utili quando sarà tenuto prigioniero dagli inglesi a Johannesburg e in Inghilterra dove, pur disponendo di ogni cosa necessaria alla vita, sarà privato della libertà e spesso della dignità. Della stessa tempra di Mariano erano anche gli altri fratelli. Gervasio, ad esem- Ricordo della prima comunione di Mariano pio, con il suo andamento lento mostrava celebrata il 19 giugno1927.


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grande pazienza in ogni attività che svolgeva; a chi gli stava accanto faceva sentire un senso di pace e di tranquillità in ogni occasione, anche quando capitava qualcosa di poco piacevole. Sembrava che ad ogni problema o situazione particolare si potesse trovare risposta e soluzione. La più “feroce” imprecazione che sapeva dire Gervasio era “diavolo cane!” E fu con questa “contumelia” che gli amici e i paesani lo identificavano simpaticamente. Si racconta che Aldino (vezzeggiativo di Aldo), il figlio di un vicino di casa che si era fatto frate, quando si stava recando a celebrare la sua prima messa, passando casualmente accanto a Gervasio, aprì il finestrino dell’auto che lo trasportava, e salutò l’amico e vicino di casa dicendogli: “Ciao Diavolocane!” Gervasio rimase per tutta la vita nella casa paterna, prima con i genitori, poi con i fratelli Adamo, Luigetto e Mariano ed infine con la famiglia di Mariano. Venne chiamato alle armi il 24 aprile 1930, dove rimase fino al 20 marzo dell’anno successivo, quando fu congedato. Di fatto, però, restò attivo alle armi fino al 2 settembre 1931 quando consegnò ogni cosa e firmò il foglio congedo, in cui si trovava scritto che: “Nel congedarmi dichiaro di prendere residenza a Piedicolle (Perugia)”; residenza dalla quale venne richiamato durante la guerra. Nel foglio militare risulta, infatti, che il 24 febbraio 1942 venne richiamato al comando e, considerata l’età, venne trattenuto per svolgere lavori funzionali alle esigenze belliche del momento. Per questo, il comando militare lo assegnò ad opere minerarie. Gli concesse una licenza di 60 giorni più 4 di viaggio, con l’obbligo, al termine del permesso, di recarsi nella miniera di Collazzone, dove si presentò il 13 maggio 1942. Nel libretto dell’INFPS (L’ente di previdenza lavoratori del periodo Fascista) risulta comunque coperto da assicurazione dall’inizio del mese (1 maggio 1942). Lavorò in codesta miniera dal 13 maggio 1942 fino al 29 febbraio 1944 percependo un compenso di 799,25 lire. La miniera di Collazzone era uno dei tanti punti di estrazione mineraria situati lungo la linea del Tevere che va da Pistrino - Città di Castello, fino a Narni - Piediluco. In questo sedimento fossile composto di rami e tronchi di conifere, querce, castagni, fortemente compresse e schiacciate, risalenti a 5-1,7 milioni di anni fa, si estraeva la lignite. Un carbone marrone, ancora giovane, ovvero non pronto per essere utilizzato per sviluppare le normali funzioni caloriche del vero carbone. Per farlo diventare tale bisognava ricorrere alla carbonizzazione attraverso il classico processo delle carbonaie di legna con la costruzione di una catasta di legna, coperta con terra, dotata di un piccolo camino centrale posto Il soldato Gervasio Montanucci.. in modo che la combustione avvenisse con

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scarsa presenza di ossigeno. Un materiale, quindi, che, pur essendo di buona qualità nel suo genere, il migliore in Italia, non era competitivo sul mercato. Fino al 1941 l’attività estrattiva era limitata alle esigenze locali, come l’impiego della lignite nelle fornaci Briziarielli di Marsciano o le centrali termo-elettriche disposte nel territorio. La produzione di lignite nella miniera di Collazzone, nel 1940 raggiungeva circa 40.000 tonnellate/anno con un’occupazione di 381 persone. Con l’inizio della guerra, e il conseguente maggior bisogno di energia per le fabbriche belliche, presenti soprattutto a Terni, anche questo materiale assunse un grande valore tanto che vennero attivate numerosissime cave di estrazione che, in una cartina dell’opuscolo “La Miniera Lavori nella miniera di Collazzone. della memoria”, si elencavano circa 25. L’attività estrattiva fu affidata alla “Società Terni” che costruì nuove gallerie e una serie di infrastrutture portando l’occupazione dai 3-400 minatori precedenti a circa 10.000. La rinnovata esigenza occupazionale fu garantita attraverso i soldati richiamati alle armi, tra cui il nostro Gervasio Montanucci. La nuova attività estrattiva coinvolse, e sconvolse l’intero territorio situato lungo l’alveo del Tevere: furono ampliate numerose stazioni ferroviarie, costruite e consolidate nuove strade, realizzati ponti, baracche per ospitare gli operai. In una proprietà dei conti Bennicelli, a Ponte Bacarello presso Collepepe, vennero rafforzati gli uffici realizzati precedentemente nonché edificate altre costruzioni. Col finire della guerra la lignite qui estratta dovette nuovamente fare i conti con il mercato che costrinse a chiudere tutte le attività estrattive. Alcune meno importanti vennero abbandonate subito, altre negli anni successivi: la miniera di Collazzone smise nel 1948 e, l’ultima in ordine di tempo, quella di Pietrafitta diLibretto della mutua di Gervasio. smessa nel 1988.


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Tradizione e fede

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ornando al nostro protagonista Mariano, osserviamo che venne richiamato alle armi il 14 giugno 1940, richiamato in quanto aveva già svolto il servizio di Leva dal 12 ottobre 1936 al 17 agosto 1938. Ma, dal giorno del richiamo alle armi ed alla successiva prigionia in Sud Africa, nessuno della famiglia aveva ancora ricevuto sue notizie. Le sole informazioni che avevano ricevuto riguardavano le drammatiche sconfitte dell’esercito italiano in Africa, da cui il timore che fosse capitato qualcosa di grave anche a questo figliolo. Nel periodo del decesso del padre (22 gennaio 1941) Mariano era considerato disperso di guerra e nessuno sapeva cosa veramente gli fosse accaduto. Il bisogno di sapere dov’era, se era vivo o morto, rappresentava l’argomento che assillava tutti. Finché un giorno di quel ‘41, di buon mattino, il fratello Adamo prese la cavalla dalla stalla e, attaccata al legnetto (calesse), si recò a Terni per consultare una sensitiva, una famosa “stregona” di cui tutti parlavano. La distanza da Piedicolle a Terni è di circa 60 km che al passo di un calesse poteva richiedere almeno sei ore di viaggio. Giunto nella casa della donna, Adamo chiese se ella potesse dirgli qualcosa sulla sorte di suo fratello Mariano. La sensitiva assicurò il fratello dicendogli che Mariano era ancora vivo. La notizia consolò i familiari, ma ciò non bastava, perché la fiducia in questo genere di persone era, giustamente, alquanto vacillante. Finché un giorno, una lettera spedita dal Sud Africa confermava che Mariano era vivo e prigioniero a Johannesburg. Trascorsero gli anni e, anche se Mariano ebbe modo di scrivere a casa più volte, la madre non riusciva a darsi pace, anzi a quattro anni dalla partenza di Mariano decise di porre il figlio sotto la protezione divina. La sua ferrea fede la portò alla vicina chiesetta dell’Acquasanta, dove fece un voto di ringraziamento e di protezione all’“amato figlio”. Lucrezia prese la sua collana di coralli (una preziosità specialmente a quel tempo) e la pose nella parete destra, all’interno della chiesetta, allegando un bigliettino con su Santuario Madonna dell’Acquasanta. scritto: “Montanucci

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Lucrezia offre alla Vergine Santissima. dell’Acquasanta in attestato di viva gratitudine questo vezzo di coralli, perché continui a proteggere l’amato figlio, prigioniero di guerra da quattro anni in Inghilterra, onde possa quanto prima avere la gioia di riabbracciarlo sano e libero. Piedicolle 26 novembre 1944.” Si trattava di un ex voto Bigliettino che accompagnava la collana di coralli che Lucrezia Campanella lasciò nella chiesetta dell’Acquasanta di Piedicolle. che a quel tempo, molto più di oggi, i fedeli usavano fare per chiedere l’aiuto Divino o per ringraziare per la grazia ricevuta. Gli Ex voto sono una forma religiosa molto diffusa in quasi tutti i santuari, anche non cristiani; il significato di tale gesto sta a ricordare una richiesta precedentemente fatta e l’impegno preso “secondo la promessa fatta”. A volte, come nel caso di Lucrezia, con il doppio significato di ringraziamento e quindi di mantenimento dell’impegno assunto e di richiesta di

Affresco della Madonna dell’Acquasanta dopo il restauro, nell’omonima chiesetta.


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continuare a concedere tale grazia fino al completo ottenimento. I doni offerti ai santuari vengono posti in apposite pareti o nicchie per ringraziare il destinatario del dono (Dio, la Madonna, un Santo) per aver esaudito una preghiera. La chiesetta della Madonna dell’Acquasanta, all’inizio degli anni cinquanta, conservava ancora numerosi doni tra cui alcuni anche di valore. Questa cappella, infatti, oltre ad essere un punto di riferimento religioso per gli abitanti della parte bassa di Piedicolle, era meta di pellegrinaggio di molti fedeli provenienti anche da altre zone, che portavano le loro preghiere e oggetti “Per Grazia Ricevuta”. Ma proprio in quegli anni venne depredata da alcuni zingari (i ladri non furono mai identificati, tuttavia la gente del luogo asserì che il furto era opera degli zingari) che rubarono quasi tutti gli oggetti votivi ivi contenuti e, tra questi, anche la collana di coralli di Lucrezia. I malviventi lasciarono però i bigliettini che accompagnavano gli ex voto. Tra i bigliettini recuperati dopo il furto si trovavano anche quelli dei soldati in guerra, i cui parenti decisero di rinnovare gli ex voto Quadretto votivo dei reduci dell’ultima guerra mondiale posto nella riportando tutti i nochiesetta dell’Acquasanta di Piedicolle. minativi in sei mattonelle di ceramica che vennero unite in modo da comporre un unico quadretto, come si può osservare nella foto. Le due piastrelle centrali dell’ex voto riportano l’effige della Madonna con la dedica: “Alla venerata Madonnina questa memoria a perenne gratitudine devotamente vollero reduci dell’ultima guerra. Gli ex combattenti”. Nelle altre piastrelle, poste ai lati, sono incisi i nomi dei 38 ex combattenti; tra questi si trova anche il nome di Mariano Montanucci e del suo amico e cognato Gustavo Pesci. Una curiosità è fornita dalla mattonella centrale del quadretto riportante la scena dell’affresco dipinto nell’abside della chiesetta, dove si vede la Madonna avvolta in un manto blu, mentre nell’affresco dell’abside il manto è di color rosso. Tale incongruenza deriva dal fatto che negli anni successivi alla costruzione del quadretto, venne fatto un restauro al dipinto e, durante i lavori venne alla luce la pittura originale, realizzata da un anonimo pittore umbro dei primi anni del XVI secolo, dove la Madonna appare con il manto color rosso.

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La chiesetta della Madonna dell’Acquasanta di Piedicolle rappresentava (e per molti lo rappresenta ancor oggi) il punto di riferimento religioso delle persone che abitavano nella zona bassa lungo il Tevere, mentre la chiesa parrocchiale situata dentro le mura del borgo, rimaneva per tutti la sede principale dove il parroco celebrava le funzioni religiose. La chiesetta a valle aveva assunto un ruolo di maggior vicinanza alla gente contadina della zona che la frequentava abitualmente ed in particolar modo nella ricorrenza della sua solennità che si celebra la seconda domenica di maggio. La festa, oltre a convogliare molte persone della zona antistante, rappresentava un’occasione di ritorno al paese natio per i parenti allontanatosi per lavoro o altri impegni. La casa Montanucci, in questa occasione, si riempiva di gente. Qui si radunavano tutti i parenti diretti o acquisiti, residenti Irma Campanella e Antonio Caputo in viaggio nelle più disparate località: da Pantalla ardi nozze. rivava Antonio Caputo in sella alla sua Vespa, con la moglie Irma Campanella (cugina di Mariano) e la figlia Nevia; da Roma e da Terni arrivavano i parenti delle diverse famiglie. Tra coloro che non mancavano mai a questo appuntamento c’era il francescano padre Marcello Falini (il vicino di casa dei Montanucci) che ritornava appositamente ogni anno al suo paese per celebrare la messa. La grande partecipazione di fedeli richiamava anche numerose bancarelle di dolciumi, frutta secca e giocattoli. Parimenti il porchettaio era sempre presente, poiché l’acquisto della porchetta faceva parte del rito di quella festa. Quest’ultima era la bancarella che Gervasio frequentava abitualmente per acquistare abbondanti porzioni di carne. La porchetta, affettata e incartata, veniva portata in tavola e condivisa con i parenti che per quell’occasione si erano fermati per partecipare al giubilo. Tra i tanti, giungeva da Pantalla anche lo zio Serafino, cugino di Mariano, con la sua inseparabile fisarmonica e un cestino con una squisita ricotta da lui stesso prodotta con il latte delle poche pecore che allevava. Per lui era un’occasione per far ascoltare ai Banchetto con la tipica porchetta umbra. parenti e amici convenuti i suoi


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virtuosismi. Le preghiere e le suppliche affidate alla Madonna furono ascoltate e, un anno dopo la fine della guerra, Mariano fece ritorno a casa. Il 3 aprile 1946, si presentò al distretto militare di Perugia dove ricevette il foglio di congedo definitivo. Il 2 giugno successivo, Mariano uscì dalla caserma per ritornare alla sua casa, e, senza attendere permessi speciali o biglietti gratuiti previsti dal Ministero, cercò un mezzo di fortuna diretto verso la sua casa che distava da Perugia circa 30 km. Trovò un carro carico di paglia trainato dalle vacche, dove salì accomodandosi nel “comodo” giaciglio. Giunto nei pressi dell’abitazione lasciò proseguire il carro per la sua destinazione, e, a piedi, s’incamminò verso la casa paterna. Era ancora lontano dall’abitazione quando la mamma Lucrezia lo riconobbe, quasi lo stesse aspettando a quell’ora precisa. Col suo passo traballante, gli corse incontro gridando è lu è lu er tornato! (È lui, è lui. È ritornato!). Al ritorno da quella interminabile prigionia durata sei anni (compreso il breve periodo di guerra) Mariano, e il suo compagno di prigionia Gustavo, trovarono nelle loro rispettive famiglie una situazione molto cambiata. La sorpresa maggiore l’ebbe Gustavo che, ritornato Gustavo Pesci, nel 1939 in divisa nella sua casa, trovò il figlio Franco già in età scolamilitare. stica, avendo compiuto già sette anni. Il figlio che aveva lasciato ancora in fasce era cresciuto al punto da non permettere ad ambedue di riconoscersi. Lo shock maggiore fu sicuramente quello sofferto da Franco che non identificava il padre che era partito quando aveva meno di un anno di vita; in casa, infatti, si ritrovò un uomo che per lui era un estraneo. L’amore e la pazienza di Gustavo riuscirono nel miracolo di farsi riconoscere come padre, cosa che non fu sicuramente facile e neppure immediato. Mariano, invece, ritrovò la famiglia di sempre che l’accolse festosamente facendo sapere subito a tutto il vicinato che quel figlio mancato per così tanto tempo era ritornato sano e salvo. Mariano, quindi, si inserì immediatamente riprendendo l’attività agricola e continuando a frequentare la casa del commilitone, ormai intimo amico. In questa casa arrivava spesso anche Ida, la cognata di Gustavo, che la madre Adelina mandava a Piedicolle per aiutare l’altra figlia Giulia (che aveva Franco Pesci all’età di 3 anni.

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sposato Nello Pesci, fratello di Gustavo) oberato da un gravoso carico familiare. Ida, infatti, era di casa anche da Gustavo che abitava poco lontano. Frequentando la casa di Gustavo, per Mariano divenne facile e naturale conoscere e corteggiare Ida e, come capitava spesso, diventare fidanzati e sposi. In presenza di difficoltà economiche o di dissenso dei genitori, la tradizione del posto richiedeva una “ritualità” particolare prima di portare la fidanzata all’altare. Un rito che consisteva nel “rapimento” della futura sposa. Lo stratagemma prevedeva che lo sposo, o gli amici, “rapissero” la donna nascondendola nella casa del pretendente affinché potesse Ida Celesti a ventun anni. giacere con lui e, quindi, dover riparare con le nozze. Fu così che, nel marzo 1949, il fratello Adamo e la moglie Adalgisa, presero la cavalla con il legnetto e si recarono a Colle del Marchese , frazione di Castelritaldi, a “rapire” (prendere) la promessa sposa: un viaggio di circa 30 km. La tradizione voleva che la mamma di Ida, il padre era già morto, saputo del “rapimento” e della notte trascorsa con Mariano, dispiaciuta e piangente, “imponesse”, ossia permettesse, di sposare Mariano. La sceneggiata, che comunque si collegava ad un’antica tradizione, serviva anche a evitare grandi e costosi ricevimenti. Le nozze “riparatrici”, infatti, si celebravano senza clamore e con pochi intimi invitati. Anche a causa della grande ristrettezza di quel periodo, il matrimonio fu di grande privazione, tanto che solamente la fede nuziale di Ida era d’oro, mentre quella di Mariano fu costruita da lui stesso in ferro. Fu così. che la festa si concluse senza invitati, senza festeggiamenti, e senza il consueto viaggio di nozze. Tutto si svolse nella più assoluta semplicità della cerimonia religiosa. Ida, pur lontana una trentina di chilometri dalla casa Calesse simile a quello utilizzato da Adamo per “rapire” Ida.


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paterna, continuò ad avere relazioni familiari frequenti con i cugini Giuseppe e Dante residenti a Colle del Marchese e con il resto della parentela. L’affettuosità del legame con il parentado fu rafforzata grazie al loro carattere generoso che portava a condividere le poche cose che avevano e con il sostegno reciproco nei momenti di difficoltà. Ancor oggi, parenti di 2° o 3° e a volte anche 4° grado, si frequentano e si stimano come fossero fratelli o figli di fratelli. Ne sono una prova le comunicazioni instaurate per raccogliere le memorie di questo racconto che ha visto interessati e “preparati” molti dei parenti interpellati. Adelina, la madre di Ida, era rimasta vedova ancora giovane. Nel 1942, infatti, il marito Domenico Celesti rimase vittima di un fulmine che gli fece cadere addosso un albero. Il fatto accadde in un’afosa giornata d’estate quando lo sorprese un improvviso temporale, che lo costrinse a cercare riparo sotto un albero che proprio in quel frangente venne colpito da un fulmine. L’albero si spezzò e un ramo cadde addosso al pover’uomo che lo ferì gravemente. Disgrazia volle che in quel campo o nelle vicinanze, non ci fosse nessun’altra persona che potesse aiutarlo. Così, la mancanza d’aiuto, ebbe per lui un esito infausto. La famiglia di Ida era composta dalla madre Adelina Clementini e da altre tre sorelle e un fratello: - Annunziata (n. 25.3.1909 m. 28.12.1998) che sposò Guido Celesti (un lontano parente n. 21.11.1998 m. 2.4.1981) dal quale ebbe quattro figli (Renato che sposerà Giuseppina Profili, Alfonso che sposerà Ida Sciabordi, Domenica che sposerà Luigi Colombaria, Adelina Clementini con la figlia Ida Celesti. Adelma che morirà molto giovane all’età di 18 anni); - Giulia (n. 25.8.1911 m. 25.11.2002) che sposò Nello Pesci (n. 14.8.1911 m. 17.4.1974) ed ebbe otto figli: Cleofe che si unirà con Giuseppe Cecchini, Elia che sposerà Gino Tenca, Mafalda che sposerà Ivo Cavalletti, Maria che sposerà Renato Spazzoni, Lea che sposerà Bruno Montanucci, Francesco che sposerà Gabriella Fattorini, Anna che sposerà Santino Pazzaglia, Domenico che sposerà Giuseppina Ficola; - Marina (n. 5.3.1917 m. 14.6.1977) sposata con Gustavo Pesci (n. 29.10.1915 m. 6.1.2000) ebbe due figli: Franco che sposerà Maria Luisa Tursi, detta Marisa, Liliana che sposerà Carlo Colonna. - Ernesto, detto Lello (n. 20.4.1922 m. 3.2.1991) che sposò Regina Piancatelli (n. 25.1.1926 m. 12.6.2009) dalla quale ebbe una figlia di nome Domenica che sposerà Piero Stentella. Mariano e Ida si sposarono il 24 marzo 1949 costruendo il loro “nido

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d’amore” nella casa colonica di Piedicolle dove Mariano viveva assieme al fratello Adamo, la cognata Adalgisa ed i fratelli Luigi e Gervasio. Quando Mariano si sposò, la casa ed il podere erano ancora di proprietà dei conti Bennicelli . Alcuni anni dopo, nel 1953, la tenuta venne venduta ai fratelli Rino e Vincenzo Gramaccia che mostrarono una grande umanità. Infatti, questi nuovi proprietari rimasero nei ricordi della famiglia Montanucci, tanto che fanno ancora memoria di un fatto accaduto quando, un temporale portò una violenta grandinata che s’abbatté con forza sul grano che stava maturando. Uno dei fratelli Gramaccia visitò il podere e, constatato il danno causato dal temporale, disse ai Montanucci che quell’anno non voleva la parte a lui spettante. Il raccolto, anche se faticoso più del solito a causa delle spighe piegate a terra e spezzate, fu comunque cospicuo, sicuramente superiore a quanto sarebbe rimasto in una stagione normale dopo la divisione con il proprietario del podere. I fratelli Gramaccia, essendo anch’essi contadini, tenevano in grande considerazione la vita di chi coltivava la terra. Sapevano quanti sacrifici e privazioni richiedeva questo lavoro. I nuovi acquirenti, al fine di valorizzare maggiormente questa loro proprietà, decisero di apportare anche dei miglioramenti all’abitazione. In un primo momento fecero montare una pompa e dei tubi di ferro per portare l’acqua corrente all’interno dell’abitazione. Alcuni anni dopo, nel 1958, ampliarono lo stabile aggiungendo una nuova ala all’abitazione. Le figlie di Mariano ricordano che questa ulteriore miglioria rappresentò una grande conquista. D’incanto si trovarono con una propria camera molto spaziosa che permise loro di rimuovere il precedente disagio che le vedeva costrette a dormine in un solo lettino, una nel verso opposto all’altra, e nella stessa camera dei genitori. I nuovi proprietari avevano preso a cuore la famiglia Montanucci al punto che Ada, la moglie di Rino Gramaccia, chiese di fare da madrina di cresima alla figlia Lucrezia. Come abbiamo già accennato, sulla strada Tiberina, che scorre parallela al Tevere, gli abitanti della zona avevano costituito una cooperativa di consumo. Lo stabile serviva loro per approvvigionarsi La Famiglia di Mariano nel giorno della prima comunione di Marcella. delle cose necessarie, per scambiarsi ser-


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vizi come lo stoccaggio di cereali destinati alla vendita e come riferimento sociale. La cooperativa era proprietaria di un edificio chiamato mulino. In verità non si trattava di un vero mulino, bensì di un locale dove i soci portavano il grano che il gestore dello stabile provvedeva a trasportare in un vero mulino che stava più lontano. La società era composta da soci provenienti dalle case contadine della zona, tra cui anche i fratelli Montanucci. Quando apparve la televisione, i soci della cooperativa decisero di acquistare uno di questi apparecchi catodici per metterlo a disposizione dei soci avventori, al fine di rafforzare il senso di comunità e di socializzazione. La novità coinvolse particolarmente i ragazzini della zona che accorrevano a vedere i primi caroselli (il primo e allora unico stacco pubblicitario che la RAI trasmetteva alle 20.50, prima del programma serale) e l’allora famoso programma di quiz intitolato “Il Musichiere”, condotto da Mario Riva, che debuttò il 7 dicembre 1957 e terminò il 7 maggio 1960. La comparsa della televisione fu un’occasione per le ragazzine delle case contadine sparse nel territorio per uscire la sera con il consenso dei genitori, anche se il programma iniziava alle ore 21, ora in cui finiva il carosello ed i bambini dovevano andare a letto per potersi svegliare riposati il mattino seguente. Quella sera, infatti, era consentito fare lo strappo alla regola perché l’indomani, domenica, le scuole erano chiuse. L’uscita in occasione di quelle 90 puntate, fu un’occasione per fare “baldoria”. Le bambine e le ragazze di Piedicolle, il sabato sera, protette dall’oscurità della notte, si ritrovavano lungo la strada per scendere in gruppo verso il mulino, cianciando festosamente. Era il tempo in cui gli italiani volevano sognare. Gran parte della popolazione italiana era ancora contadina, semianalfabeta e, dicono le statistiche, con i denti guasti: solo 2 italiani su La copertina di Carosello. cento avevano i denti sani. La popolazione mangiava poca carne, parlava prevalentemente in dialetto e si divertiva al cinematografo che in quegli anni era presente in ogni grosso paese. L’arrivo della televisione, che portava il cinema e gli spettacoli dentro le case, rappresentò una grande conquista specialmente per le famiglie che risiedevano nei centri più piccoli, come Piedicolle dove il grande schermo non poteva arrivare. A Piedicolle, come in altre località della regione e d’Italia, il desiderio di spensieratezza, dopo i nefasti periodi dell fascismo e della guerra, aveva

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restituito la voglia di divertirsi. A tale scopo, Livio Crispolti, nel 1956 aveva costruito, vicino alla chiesetta dell’Acquasanta, una spaziosa casa e, per arrotondare le sue magre entrate, aveva trasformato il pian terreno in una piccola balera. L’ambiente consisteva in una sala da ballo di 65 metri, una cucinetta ed un buffet dove servivano vino, aranciata e altri generi di consumo. Ad allietare le serate veniva chiamata l’orchestra Mosè, della vicina Marsciano. Le ragazze arrivavano sempre accompagnate dalle mamme che vigilavano attente affinché i giovani non molestassero le proprie figliole. I contendenti facevano a gara nel scegliersi le ragazze più belle ricorrendo ad ogni stratagemma per ballare più volte con la ragazza preferita. Le rivalità che spesso si accendevano portava a scontri verbali e, a volte, a vere scazzottate che richiedevano anche l’intervento delle forze dell’ordine. La sala da ballo rimase in funzione fino al 1961 quando nuove leggi portarono alla nascita di balere più moderne. Era il tempo in cui gli italiani acquistavano un gran numero di dischi di musica leggera. Nel 1951, quando iniziò il festival di Sanremo, vennero venduti oltre 3 milioni di dischi. La famiglia di Mariano, che era composta dal capofamiglia, dalla moglie Ida, dalle figlie Lucrezia (nata il 12 aprile 1950) e Marcella (nata il 26 aprile 1953), rimase nella casa di Piedicolle e, come abbiamo detto, dal fratello Gervasio che continuò a collaborare nei lavori agricoli necessari per condurre il podere. La vita di questa famiglia non era delle migliori. A quel tempo, infatti, le condizioni dei mezzadri era particolarmente difficile in quanto l’industrializzazione ed il conseguente benessere che coinvolgeva gran parte della società italiana, li metteva in grave difficoltà perché non riuscivano ad aumentare la loro produttività e quindi a mantenere un reddito adeguato alle crescenti necessità. A compromettere maggiormente la situazione giunse anche una grave malattia che debilitò il capofamiglia per lungo tempo. La patologia si manifestò nel novembre del 1963 quando Mariano venne ricoverato nell’Ospedale Civile di Marsciano dove venne trattenuto per un congruo periodo prima di essere dimesso. All’atto delle dimissioni, il 19 dicembre, il primario di medicina, prof. Bufalari si dimostrò preoccupato e, nel redigere la diagnosi, scrisse al medico di base dott. Vincenzo Dionisi che: “si consiglia intervento chirurgico da praticare nel mese di Domenica Celesti e Lucrezia Montanucci sul greto gennaio successivo.” del fiume Tevere.


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Mariano ritornò a casa e dopo un periodo di attesa venne nuovamente ricoverato nell’ospedale di Marsciano dove, nel mese di marzo 1964, venne trasferito nel reparto di chirurgia per essere operato per una supposta calcolosi. Venne portato in sala operatoria laddove, durante l’intervento, il chirurgo s’accorse che si trattava di un tumore in uno stato molto avanzato, tanto da indurlo a togliere solo i calcoli e richiudere la ferita. Terminato l’intervento, il chirurgo informò i parenti del male che affliggeva Mariano e che non aveva potuto eseguire l’asportazione del tumore in quanto aveva ormai invaso tutto il fegato e non si poteva fare altro che lasciarlo così com’era e assisterlo cristianamente. Mariano venne trattenuto in ospedale ancora per molto tempo prima di essere riportato a casa. Colta dalla paura che potesse accadere il peggio in breve tempo, la moglie Ida decise di affidarsi alla fede ed alla preghiera. Decise anche di recarsi a Collevalenza, frazione del vicino comune di Todi, dove svolgeva opere di misericordia una suora chiamata “Madre Speranza”, a cui la gente accorreva numerosa per ottenere delle grazie. Di questa suora, la cui beatificazione è avvenuta il 14 maggio 2014, si racconta che il 14 maggio 1949 ebbe modo di scrivere nel suo diario, di aver avuto la premonizione che, con l’aiuto divino avrebbe realizzato un santuario dedicato all’Amore Misericordioso del Signore nonché strutture di accoglienza per pellegrini, infermi e sacerdoti. Da quel giorno, madre Speranza venne colta da un grande fervore:

Santuario dell’Amore Misericordioso di Colle Valenza di Todi.

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nel 1953 inaugurò la Casa dei Figli dell’Amore Misericordioso (FAM); nel 1954 il Seminario Minore; nel 1955 la Cappella del Crocifisso che, nel 1959, venne eretta canonicamente come “Santuario dell’Amore Misericordioso.” Successivamente, il 28 aprile 1957, Madre Speranza si recò a vedere un appezzamento di terreno dove si trovava anche un roccolo. All’inizio del 1960 acquisito il terreno, diede ordine di realizzare alcune piscine per il bagno dei malati, indicando il punto preciso dove avrebbero trovato l’acqua necessaria, cioè a fianco della futura “Basilica dell’Amore Misericordioso.” Si iniziò a perforare il pozzo con una trivella a mano azionata da uno dei religiosi che l’accompagnavano in questa avventura. Raggiunta la profondità di 9 metri la trivella si ruppe. Si guastarono anche le altre trivelle azionate dalle diverse ditte chiamate ad effettuare la perforazione. Il dubbio e i commenti di molti all’esterno divennero malevoli. Tuttavia la suora non si scoraggiò e così, il pomeriggio del 6 maggio 1960, la sonda di perforazione, dopo essere rimasta incagliata per più di un’ora ad una profondità di 92 metri, finalmente incontrò un’abbondante falda acquifera. L’escavazione del pozzo fu, a dir poco, snervante in quanto le complicazioni meccaniche e tecniche che si verificarono furono a lor dire inspiegabili. Per trovare la falda d’acqua ideale si dovette comunque raggiungere 122 metri di profondità. I lavori dell’intero progetto durarono 10 mesi: dal 1° febbraio al 1° dicembre del 1960. All’inizio dei lavori del santuario, il 14 luglio 1960, fu gettata una pergamena in fondo al pozzo con scritto: “A quest’acqua e alle piscine va dato il nome del mio santuario. Desidero che tu dica, fino ad inciderlo nel cuore e nella mente di tutti coloro che ricorrono a te, che usino quest’acqua con molta fede e fiducia e si vedranno sempre liberati da gravi infermità; e che prima passino tutti a curare le loro povere anime dalle piaghe che le affliggono per questo santuario dove li aspetta non un giudice per condannarli e dar loro subito il castigo, bensì un Padre che li ama, perdona, non tiene in conto, e dimentica”. I racconti che seguirono l’evento crearono subito un grande interesse religioso, storico e di curiosità. Le narrazioni che raccontavano le cose accadute poco lontano dalla sua abitazione fecero breccia nella già salda fede di Ida che, con una rinnovata speranza, si recò da Raffaele Passagrilli, parroco di Piedicolle, a chiedere consiglio e aiuto. Il parroco accolse le suppliche di Ida e, con la propria automobile l’accompagnò, assieme alle figlie Lucrezia e Marcella, dalla suora. Giunti al santuario il parroco chiese di essere ricevuto da Madre Speranza. Le suore chiamarono la Madre che ricevette separatamente il sacerdote che le presentò il problema dei Montanucci. Poco dopo il parroco tornò da Ida riferendo che la Madre gli aveva detto di stare tranquilla perché suo marito avrebbe superato anche questa crisi. “Prendete una bottiglia d’acqua che sgorga dal pozzo e quando la bevete pregate”, disse loro.


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Lettera del chirurgo Cancellotti al medico di famiglia di Mariano.

Ida, con le figlie, uscì dal santuario con la speranza nel cuore e, giunta a casa fece come aveva suggerito loro la beata. Da quel giorno, il marito Mariano progredì miracolosamente e sempre di più fino a guarire completamente. Di tale guarigione certificò anche il chirurgo che l’aveva operato e, in occasione di una visita di controllo, il 4 aprile 1966, dopo averlo visitato, scrisse al medico di famiglia: “Montanucci Mariano lo trovo molto bene e quindi penso ormai che il mio sospetto sia stato errato. Il drenaggio delle vie biliari ha risposto alla canalizzazione anche nelle vie superiori e perciò è da pensare si sia trattato di una grave angiocolite intraepatica. Ancora non si può dire con certezza ma il dubbio del cancro è sicuramente da escludere. Ti prego di proseguire [con la cura] per un lungo periodo. Firmato prof. Cancellotti.” Gli esiti della malattia furono comunque invalidanti per Mariano che non poté più sopportare i lavori pesanti che richiedeva la vita del contadino. Fu così che, nell’autunno del 1971, abbandonò anche lui il podere e si trasferì con la famiglia a Schiavo, una frazione del vicino comune di Marsciano. Durante quel trasloco mancava la figlia Lucrezia che si era sposata il 7 settembre 1969 con Enrico Marchesini dal quale aveva già avuto Claudia nata il 22 agosto 1970 e poi Marta che nascerà il 25 ottobre 1977. La figlia Marcella, invece, si sposerà l’anno dopo, il 3 settembre 1972, con Antonio Pazzaglia ed avrà due figli: Alessandro (n. 29.3.1974) e Silvio (n. 9.6.78). Mariano si adattò presto alla nuova residenza nella piccola frazione di Schiavo dove, pur con gli acciacchi dell’età e le conseguenze della malattia, aveva trovato un sereno equilibrio economico e familiare. Inizialmente viveva con una piccola pensione di invalidità e ad un piccolo reddito derivante da alcuni lavoretti che svolgeva in loco, come la fornitura di bombole di gas alle famiglie della zona.

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Al bilancio domestico contribuiva anche la piccola pensione di vecchiaia del fratello Gervasio che però venne a mancare già nella primavera del 1972, all’età di 63 anni. Fu così che, la numerosa famiglia di appena nove anni prima, si era ridotta alla sola coppia di Mariano e Ida. Mariano continuò a fare il fornitore di bombole di gas GPL fino alla primavera del ’78 quando, tornando a casa da una fornitura, a cavallo della sua Lambretta, fu investito da un’automobile che lo scaraventò a terra causandogli gravi fratture. Trasportato al vicino ospedale di Marsciano, fu medicato per un primo soccorso e subito trasferito all’ospedale di Perugia dove osservarono che le ferite erano molto gravi, al punto di costringerli a programmare un intervento per amputare una gamba. Mariano, comunque, mostrò una buona capacità di recupero, tanto da indurre i medici a rivedere l’infelice pronostico. A causa delle gravi condizioni, lo trattennero per tre mesi. Dopo di ché, finalmente, poté ritornare a casa ancora integro. Ma, da quell’incidente non si ristabilì mai perfettamente pur riconquistando un’autonomia sufficiente ad autogestirsi; per questo ottenne anche una pensione di invalidità, che gli permise di vivere dignitosamente i restanti giorni della sua vita. Tra i tanti avvenimenti che coinvolsero Mariano nella sua nuova condizione familiare all’inizio degli anni ’80 quando le figlie, pensando di far cosa gradita al padre, decisero di portarlo al mare. Giunti sulla spiaggia chiesero al genitore se gli faceva piacere rivedere il mare. Mariano, con un fare sconsolato rispose: Io manco me ne ‘ncuravo! (Proprio non ci tenevo!). Alle figlie apparve subito chiaro che quel mare gli aveva riportato alla mente le tante sofferenze e le paure passate durante la guerra. Lucrezia ricorda anche un fatto accaduto nel maggio 1992 quando ricevette una lettera dal padre Marcello Falini, un frate, amico di famiglia. Nella lettera, il frate, che prima di prendere i voti si chiamava Valente, ricordava la figura di Mariano: «(…) la tua famiglia mi è molto cara e il tuo papà è un caro amico il cui ricordo si perde nell’infanzia; un’infanzia povera ma molto felice (…).» Padre Marcello era nato a Piedicolle, nei pressi della casa Montanucci e trascorse la sua infanzia assieme a Mariano La famiglia Falini. Da sinistra Mauro e Vittoria con al centro il figlio suo vicino e quasi padre Valente. A destra padre Marcello e la sorella Maria con in coetaneo (Valente braccio il figlio neonato.


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aveva solo cinque anni in meno). La famiglia del frate era conosciuta per la sua generosità in quanto, tra le altre cose, dopo aver perso il loro primogenito Giuseppe, colpito dalla scheggia di una bomba durante il secondo conflitto mondiale, avevano adottato una bambina di nome Maria. Padre Marcello entrò in seminario a 11 anni accolto dai padri Cappuccini di Todi, divenne frate francescano missionario il 10 marzo 1946. Venne destinato in Brasile nel bacino dell’Amazzonia, dove prestò la sua opera. Successivamente, anche il fratello Aldo, scelse la via francescana facendosi frate. Per amore del fratello prese il nome di battesimo dello stesso: assumendo il nome di padre Valente. Aldo, da tutti chiamato con il nomignolo “Aldino”, molto più giovane del fratello Valente, essendo quasi coetaneo di Lucrezia e del cugino Gianfranco, ed abitando a poche decine di metri verso Piedicolle , trascorse l’infanzia assieme a loro. Tra un acciacco e l’altro, la vita di Mariano e Ida scorreva velocemente fino a giungere, nel 1999, al fatidico anniversario di 50 anni di matrimonio. Le figlie Lucrezia e Marcella, ben sapendo che la cerimonia del loro matrimonio, avvenuto nel marzo 1949, era stato celebrato senza fasti e festoni a causa della crisi economica in cui vivevano, organizzarono una gran-de solennità. L’anniversario venne ricordato nel Santuario di Collevalenza dove il celebrante ricordò ai fedeli la preMariano e Ida nella casa di Schiavo, con a fianco Claudia figlia di senza degli sposi Lucrezia. Di spalle: Giulia e il figlio Domenico con la cugina Laura. uniti da cinquant’anni di convivenza e condivisione della vita. Le feste, quelle della rimembranza e della goliardia, furono accompagnate da un fastoso pranzo di “nozze” che si svolse nel castello di Titignano, tra antiche mura e dipinti

ricchi di storia. Ai festeggiamenti parteciparono tra amici e parenti, un’ottantina di invitati che non fecero mancare il loro affetto agli ormai ottantenni sposi. Ma la salute di Mariano stava vacillando sempre più, peggiorando di giorno in giorno fino a costringerlo a muoversi con grande difficoltà e a perdere quasi completamente la vista: riusciva a vedere a malapena le sagome delle persone e degli oggetti. Negli anni successivi, le condizioni di Mariano si aggravarono ancor di più finché, il 22 ottobre 2001 all’età di 85 anni), venne a mancare. Ida lo seguì il 17 marzo 2002, meno di cinque mesi dopo.

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La guerra e la prigionia

PARTE SECONDA

Mariano richiamato alle armi per la Campagna dell’Africa Orientale.

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a vita di Mariano, come abbiamo visto, anche se unica e ricca di grandi valori familiari, è quella di tanti uomini dell’Umbria e d’Italia. La sua esistenza però è stata tormentata da una terribile esperienza: la guerra e la prigionia. Una dura prova che Mariano non ha mai voluto raccontare nei dettagli se non per sommi capi riguardanti aspetti a volte secondari rispetto ai patimenti ed agli espedienti vissuti nel deserto dell’Africa e nei campi di prigionia inglesi. La vita militare di Mariano iniziò il 7 luglio 1936 quando venne chiamato al servizio di leva obbligatorio presso il Distretto Militare di Perugia dove il 6 ottobre 1937 venne assegnato alla 1ᵃ batteria. L’11 gennaio 1938 fu destinato alla 7ᵃ batteria e il 15 maggio 1938 alla 10ᵃ batteria con la qualifica di “specialista per il tiro”. Durante il servizio gli fu consegnata una maschera antigas la cui taglia era della IIᵃ misura. Dopo aver svolto il servizio militare di leva, il 17 agosto 1938 venne collocato in “Congedo illimitato”. Un “illimitato” che non mantenne fede al suo significato in quanto, un anno, otto mesi e 19 giorni dopo venne richiamato nuovamente alle armi per istruzione. Infatti, come si legge nel Foglio Matricolare di Mariano Montanucci «Matricola n. 31631, il 5 maggio 1940, in base alla circolare n. 9500 del 9 aprile 1940, venne richiamato al 203° Artiglieri del CC.NN. (Camicie Nere) “21 Aprile” (definito 7° Artiglieria di Corpo d’Armata) a Livorno per istruzione.» Il richiamo, determinato dall’entrata in guerra dell’Italia, comportò l’inserimento nell’ex Divisione delle Camicie Nere “21 Aprile” che, però, nel frattempo (maggio 1940) era stata disciolta. Gli uomini dipendenti dall’esercito (come Mariano), assegnati a questa compagnia, furono destinati a costituire la Divisione “Catanzaro” inviata in Libia, dove giunse alla vigilia delle ostilità, mentre i legionari fascisti furono inquadrati per completare le altre divisioni delle Camicie Nere. Sempre nel medesimo foglio matricolare, osserviamo che, sei mesi dopo la partenza per Derna, la domenica del 5 gennaio 1941, Mariano fu catturato dagli inglesi che lo tennero prigioniero fino a 1° aprile 1946. Al rientro dalla prigionia, Mariano si presentò al Distretto Militare di Perugia il 3 aprile 1946, dove venne trattenuto fino all’8 maggio, quando gli fu regolarizzata la posizione matricolare e amministrativa. Il Distretto di Perugia, dopo aver valutato la posizione di Mariano, scrisse nel foglio matricolare che “Nessun addebito può essere elevato in merito alle circostanze di cattura e di comportamento tenuto durante la prigionia di guerra.”


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Prima di essere congedato definitivamente, il 7 maggio 1946, venne ricoverato nell’Ospedale Militare della città per verificare il suo stato di salute. L’indomani (l’8 maggio) fu dimesso e, il 2 giugno 1946, definitivamente “collocato in congedo illimitato.” Giunse a casa appena in tempo per poter partecipare alla nascita della Repubblica Italiana realizzata attraverso il referendum del 2 giugno 1946 indetto per determinare la forma di stato dopo la Seconda Guerra Mondiale. Val la pena di ricordare, a tal proposito, che il diritto a partecipare al voto era determinato, tra l’altro, dall’iscrizione all’Albo Elettorale, come prevedeva il Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 98, del 16 marzo 1946. Tale decreto sanciva che i dipendenti civili e militari dello Stato avrebbero dovuto iscriversi alle liste elettorali entro il termine di 30 giorni dalla data del decreto luogotenenziale che indiceva le elezioni dell’Assemblea Costituente. Alla consultazione elettorale parteScheda per il referendum del 2 giugno 1946. ciparono 24.947.187 votanti, l’89% degli aventi diritto, che ammontavano a 28.005.449. I risultati furono del 54,3% a favore della repubblica, pari a 12.718.641 voti e del 45,7% per la monarchia, pari a 10.718.502 voti; il restante 6%, pari a 1.498.136 voti, venne dichiarato nullo. La storia militare di Mariano - come abbiamo visto - dopo la prima ferma del 1938, iniziò il 5 maggio 1940 quando fu richiamato e inviato in Africa, nella “Libia Italiana”. Ovvero nel territorio conquistato durante la guerra italo-turca del 1911 contro l’impero Ottomano. Un territorio che Mussolini voleva ampliare costruendo l’ASI (Africa Settentrionale Italiana) che rappresentava l’insieme delle colonie e dei territori controllati dal Regno d’Italia in Nord Africa. Di fatto, la guerra iniziata nel 1911, non era mai conclusa. Infatti, proseguì con stragi e violenze inaudite con l’impiego, negli anni tra il 1923 e il 1931, anche di bombe contenenti gas fosgene e iprite, proibite da un trattato internazionale siglato dalla Società delle Nazioni il 17 giugno 1925. Un documento che l’Italia ratificò solo il 3 aprile 1928, continuando, comunque a lanciare bombe a gas contro i pastori libici fino a luglio del 1930. Le cronache ricordano che il 1° giugno 1930, le autorità militari italiane organizzarono la migrazione forzata e la deportazione dell'intera popolazione del Gebel al Akhdar, in Cirenaica. Ciò comportò l'espulsione dai loro insediamenti di quasi 100.000 beduini, ovvero metà della popolazione della Cirenaica, ai quali vennero tolte le terre per assegnarle ai coloni italiani. Solo una piccola parte di quei contadini riuscì a fuggire in Egitto. Le 100.000 persone cacciate, erano in massima parte donne, bambini e anziani, costretti dalle autorità italiane a una marcia forzata di oltre mille

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Beduini in un’oasi libica durante la guerra.

chilometri nel deserto verso una serie di campi di concentramento circondati da filo spinato, costruiti nei pressi di Bengasi. Le persone furono falcidiate dalla sete e dalla fame; gli sciagurati ritardatari che non riuscivano a tenere il passo con la marcia venivano fucilati sul posto dagli italiani. A queste incredibili violenze perpetrate dai soldati italiani, si aggiunsero quelle derivanti dal lancio aereo di gas. Il generale Rodolfo Graziani divenuto vice governatore della Cirenaica, scrisse un rapporto indirizzato al Ministro delle Colonie in cui dettagliava l’esito dell’azione aerea del 31 luglio 1930, quando vennero bombardate le oasi di Taizerbo. Il bombardamento – scriveva Graziani - fu effettuato da quattro apparecchi Ro armati con 24 bombe da 21 kg, 12 bombe da 12 kg e 320 bombe da 2 kg, tutte cariche di gas iprite. Gli effetti sull’uomo di questi gas – come rileviamo nei siti La Tripolitania italiana. web specializzati - risultano


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letali con concentrazioni di 0,15 mg per metro cubo; concentrazioni minori producono gravi lesioni, dolorose e di difficile guarigione. L’azione di questi gas è lenta (da quattro ad otto ore) ed insidiosa, poiché non si avverte dolore al contatto. Gas che sono estremamente penetranti ed agiscono sulla pelle infiltrandosi anche attraverso gli abiti, il cuoio, la gomma. Graziani riferisce che: "Il bombardamento venne eseguito in fila indiana passando sull'oasi di Giululat e di El Uadi e poscia sulle tende, con risultato visibilmente efficace." Per tali azioni, la Società delle Nazioni, il 18 novembre 1935, impose all’Italia un embargo economico e il divieto di importazione di alcune merci. Le sanzioni risultarono comunque inefficaci poiché numerosi Paesi, pur avendo votato la loro imposizione, continuarono a rifornire all’Italia le materie prime richieste. Rimasero inaccessibili solo alcuni prodotti come ad esempio, il caffè, provenienti dalla Gran Bretagna, dalla Francia e dalle loro colonie; gli Stati Uniti d’America non avevano ancora aderito a quella società. Il 3 dicembre 1934, il Governo Fascista proclamò il Governatorato Generale della Libia che prevedeva il riordino dell'Africa Settentrionale Italiana, con l'unione della Tripolitania italiana e della Cirenaica italiana. Il regio decreto prevedeva che tutti i cittadini africani potessero godere dello status di "cittadini italiani libici" con i diritti che ne conseguirono. Mussolini inaugurò una politica favorevole agli arabi libici costruendo villaggi con moschee, scuole ed ospedali, chiamandoli "Musulmani Italiani della Quarta Sponda d'Italia." Il primo governatore della Quarta Sponda d’Italia fu Italo Balbo che, nel 1937, divise la Libia Italiana in quattro province: Tripoli, Bengasi, Derna e Misurata, e un territorio sahariano chiamato “Territorio Militare del Sud.” Il 9 di gennaio del 1939 la colonia della Libia fu incorporata nel territorio metropolitano del Regno d'Italia. Italo Balbo, fino al 1940, aveva fatto co- Il maresciallo Italo Balbo durante la sua presenza in Africa. struire 4.000 km di nuove strade, la più nota era la via Balbia, che si snodava lungo la costa, da Tripoli a Tobruch, e 400 km di ferrovie. Un fervore che può apparire positivo ma che porta con se le terribili cicatrici della violenza perpetrata dai soldati italiani alle popolazioni indigene. Mariano, quando menzionava qualcosa riferita a questa esperienza africana, si limitava a rappresentazioni di aspetti macroscopici come la caduta dell’aereo di Italo Balbo o il rischio di perdersi nel deserto. Non si capiva se voleva rimuovere ricordi tragici o se non voleva che i suoi fa-

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Scheda inviata dall’Associazione Prigionieri di Zonderwater

Zonderwater richieste@zonderwater.com14:54 (20.2.2014)

Salve Lucrezia Montanucci (figlia)

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I dati per il POW numero * Nome: Mariano Cognome: Montanucci Pow Numero: * Campo Prigionia: Zonderwater Corpo Appartenenza: Reggimento 203 Artiglieria D. F. Di Catanzaro. dello S.m.r.e. Uff. O. At.- Sez. Oltremare Data Cattura: 05/01/1941 Luogo Cattura: Bardia Data Rimpatrio: 01/04/1946 Luogo Rimpatrio: Napoli Luogo Nascita: Colazzone (pg) Data Nascita: 21/04/1916 Data Morte:22.10.2001 Biografia: - Soldato MONTANUCCI MARIANO, Nato a Colazzone (PG) il 21.4.1916 - Imbarcato a Napoli per la Libia il 14.9.1940 Sbarcato a Derna Alina 19.9.1940, in territorio dichiarato in stato di guerra, con reggi mento 203 artiglieria D. F. di Catanzaro. dello S.M.R.E. Uff. O. AT.sez. Oltremare. "Parificato a Livorno il 4. Febb. 1942 anno XX" Contenuto nel capo V della Circ. 0263800/334 in data 22.6.1941 – XIX dello S.M.R.E. Uff. O.M. – sez. Oltremare - in data 30.6.1941 da ri tenersi disperso durante le operazioni militari in Cirenaica (Cire)” 027580/307 XX Mobilitato il 10.6.1940 alle armi dal 11.6 1940 al 5.1.41 partecipa alla campagna Africa Settentrionale con il 203 reggimento Artiglieria Catturato prigioniero dalle truppe inglesi nel fatto d’arma di Bardia e internato nel Sud Africa il 5.1.1941. Rientrato dalla prigionia via mare e giunto a Napoli l’1.4.1946. Giunto al Centro alloggi di Roma il 2.4.1946. Dal 5.1.1941 al 1.4.1946 prigioniero degli inglesi. Nel campo di concentramento di Zonderwater svolse il lavoro di fa legname. miliari avessero a soffrire dei suoi patimenti. Anche le indicazioni sintetiche scritte nella scheda ottenute dal Distretto Militare di Perugia, raccontano poco delle vicende e degli spostamenti di Mariano. Stessa cosa dicasi della scheda avuta dal campo di prigionia in Sud Africa.


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Nella scheda militare osserviamo che: "Mariano Montanucci, mobilitato il 10.6.1940, alle armi dal 11.6 1940 al 5.1.41, partecipò alla campagna d’Africa Settentrionale con il 203° Reggimento Artiglieria dello S.M.R.E. Uff. O. AT.sez. Oltremare.” In un’altra parte della scheda risulta che Mariano era partito per la Libia il 14 settembre 1940 e sbarcato a Derna Alina il 19.9.1940 in territorio dichiarato in stato di guerra, con il Reggimento 203° artiglieria D.F. di Catanzaro, dello S.M.R.E. Uff. O. AT. Sez. Oltremare. L’incongruenza dei tempi: “alle armi l’11 giugno 1940” e “l’imbarco a Napoli per la Libia il 14 settembre 1940 per sbarcare a Derna il 19.9.1940” potrebbe significare che Mariano si era fermato in Italia fino a settembre ma Foglio matricolare di Mariano Montanucci. anche, come ricordava spesso, di essere stato presente in Libia il 28 giugno, dove ha assistito all’abbattimento dell’aereo di Italo Balbo avvenuto a Tobruch il 28 giugno di quell’anno. Potremmo supporre, quindi, pur senza riscontri cartacei, che l’assegnazione al 7° Artiglieria della 203ᵃ Divisione, possa aver significato che era stato inviato una prima volta in Libia con sbarco a Tobruch per la campagna della Cirenaica e poi richiamato in Patria e nuovamente rispedito.

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In quell’area, il maresciallo Italo Balbo comandava un contingente di circa 200.000 uomini ripartiti in quattordici divisioni, tra cui il 203° reggimento a cui era stato assegnato Mariano. Non esistendo ragione di pensare che Mariano si sia inventata la sua presenza a Tobruch durante l’abbattimento dell’aereo di Balbo, e mancando indicazioni precise di come egli sia stato impegnato nel periodo che intercorre tra il suo richiamo (11 maggio 1940) e la data di imbarco per Derna (14 settembre 1940), consideriamo come possibile la supposizione ora esposta. Mariano, quando ricordava l’evento dell’abbattimento dell’aereo di Balbo, diceva che era diffusa l’idea che fosse stato abbattuto volutamente dal fuoco italiano, anche se, studi generali e analisi anche recenti, hanno dimostrato il contrario. La morte di Balbo era un atto di vendetta interna, un momento di propaganda militare, o cos’altro? A quel tempo trovava maggior credito la tesi di un complotto, piuttosto che di un errore; e ciò anche perché, sull’aereo di Balbo c’era Nello Quilici (padre di Folco Quilici), direttore del Corriere Padano, giornale che più volte aveva sfidato la censura del governo fascista. La tesi di Mariano, riguardante la morte di Balbo, era la stessa dalla moglie di Balbo, Emanuela Florio, la quale sosteneva che la morte del marito fosse dovuta a un ordine giunto da Mussolini. Questa ipotesi fu liquidata come una "stupidaggine" da Claudio Marzola, il capopezzo imbarcato sull'incrociatore della Regia Marina San Giorgio che riteneva di aver abbattuto l'aereo di Balbo. Ma fu decisamente esclusa negli anni successivi del 1965, del 1986 e del 2006 da parte di numerosi studiosi. Le successive analisi storiche raccontano che dalla sua torretta fu esplosa la raffica che abbatté l'aereo di Balbo, che si schiantò e bruciò a lungo nella notte, rendendo quasi irriconoscibili i corpi. Le analisi giunsero alla conclusione che doveva essersi trattato di un incidente causato dal mancato riconoscimento della nazionalità dell'aereo, essendovi stata da poco sul campo aeroportuale T.2 un'incursione di velivoli britannici. L’invio in Libia scosse sicuramente Mariano che, a differenza dei volontari delle Camicie Nere (CC.NN.), non era psicologicamente preparato a combattere contro altri uomini. La sua indole contadina era pacifica e piena d’amor proprio e dei propri familiari, incapace di procurare danno ad altre persone. La guerra però pone di fronte a decisioni vitali: se non si combatte, se non ci si difende, se non si è guardinghi si rischia la vita. A quel tempo, Tobruch, con un'estensione di almeno 10 km, aveva l’aspetto di una fortezza inespugnabile. La città era circondata da ben tre linee tattiche, da almeno un centinaio di postazioni difensive anticarro con i relativi reticolati e fortini vari. La sua importanza nel Mediterraneo non era casuale, in quanto rappresentava un punto strategico per la marina italiana. Infatti, nel suo porto affluivano mezzi e uomini per far fronte alla campagna di Cirenaica, oltre che un punto di controllo per i rifornimenti nel Mediterraneo. Nel giugno 1940 vennero inviati in Africa Orientale circa 91.000 uomini ai quali si aggiunsero 200.000 soldati Ascari (militi indigeni dell'Africa Orientale Italiana) inquadrati come componenti regolari del Regio Corpo


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Truppe Coloniali. Le forze italiane erano così inquadrate: Forze italiane presenti 59 divisioni di fanteria 3 divisioni della Milizia 2 divisioni coloniali libiche 5 divisioni di alpini 3 divisioni celeri 3 divisioni corazzate 2 Divisioni motorizzate

Gran parte di queste formazioni erano dislocate nel territorio metropolitano (Tripolitania e Cirenaica) o in Libia, e solo due si trovavano nell’Africa Orientale Italiana. Nello scacchiere dell’Africa Settentrionale, come su tutti gli altri della seconda guerra mondiale, erano presenti soprattutto i volontari della Milizia, le cosiddette Camicie Nere. Al 10 giugno 1940, le forze della Milizia presenti e pronte ad entrare in combattimento erano composte da: Soldati italiani presenti 900 ufficiali 1.000 sottufficiali 16.000 CC.NN.

Nel settembre 1939 venne unita a queste forze anche la III Divisione CC.NN. «21 Aprile», che fu disciolta nel maggio 1940. All'atto dell'inizio dell'avanzata verso Sidi el Barrani le truppe erano così inquadrate:

Corpo d'armata XXIII C.A. XXI C.A. XXII C.A. Gruppo Divisioni Libiche

Comandante Bergonzoli Dalmazzo Pitassi Mannella

Divisioni «Cirene», «Marmarica» e CC.NN. «23 Marzo» «Sirte» e CC.NN. «28 Ottobre» «Catanzaro» e CC. NN. «3 Gennaio»

Secondo la valutazione delle forze italiane, in Africa Settentrionale le forze contrapposte erano di: 130.000 uomini italiani

314.000 uomini francesi (Marocco, Algeria, Tunisia) 100.000 uomini anglo egiziani

Le memorie degli apparati fascisti del tempo ricordano, con non poca retorica, che, malgrado le eccezionali avverse condizioni di terreno, di clima e delle bufere del ghibli, i nostri soldati, costretti a riposare sul nudo terreno, molestati da topi, scorpioni e camaleonti, tormentati dalla sete, resistendo ai forti sbalzi delle temperature, seppero far fronte alla crisi dei rifornimenti. L’acqua la raccoglievano di notte scavando fossi nelle dune sabbiose

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Soldati italiani prima della guerra ‘30-45. Gervasio è il settimo in piedi da sinistra.

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dove l'atmosfera surriscaldata di giorno cedeva al terreno raffreddandosi durante la notte. Ma, al di là della retorica italiana, gli inglesi e le forze loro alleate conquistavano ogni giorno nuove posizioni. Nelle operazioni di guerra svolte tra il 13 ed il 18 settembre 1940 le perdite italiane furono di 424 caduti così suddivisi: 187 della Divisione CC.NN. «23 Marzo» 12 della Divisione «Marmarica» 140 tra le truppe del Comando d’Armata 16 della Divisione «Cirene» 69 del Raggruppamento Malett

L’avanzata inglese era inarrestabile: il 16 dicembre 1940 l’esercito italiano aveva ripiegato nella piazza di Bardia dove i britannici cominciarono a bombardare con l'aviazione colpendo soprattutto l'abitato ed i magazzini distruggendo 70.000 scatolette di carne. Seguirono bombardamenti aerei continui sulle opere di difesa e sui lavoratori. Il 17, 18 e 19 dicembre ci furono anche bombardamenti dal mare. Il 20 dicembre l’accerchiamento degli inglesi era ormai ultimato. Il 3 gennaio 1941 i mezzi corazzati australiani, con l'ausilio di nebbiogeni, sferrarono un nuovo attacco che proseguì fino al giorno 5, quando l’ultima resistenza italiana dovette cedere di fronte alla potenza inglese e dei suoi alleati. Tutti i soldati italiani furono fatti prigionieri e internati nei campi di conBeduini egiziani alleati degli inglesi nel conflitto centramento del Sud Africa. Libico del ‘40.


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Operazione “Compass”

L

’attacco inglese era stato organizzato dettagliatamente nell’«Operazione Compass» (bussola) che iniziò il 9 dicembre 1940. Quel giorno, il generale britannico O’Connor, attaccò Sidi el Barrani che venne conquistata il giorno successivo. L’operazione proseguì nei giorni seguenti, fino alla conquista di Bardia.

Schema dell’avanzata degli inglesi secondo il piano detto “operazione Compass”.

Il 16 dicembre gli Inglesi, durante la marcia verso occidente, superarono la linea Sollum–Halfaya, raggiungendo Balbia, una località tra Bardia e

Comandanti italiani

Comandanti inglesi

Italo gariboldi

Henry Maitland Wilson

Rodolfo Graziani Mario Berti

Forze in campo italiane 150.000 uomini

600 mezzi blindati

1600 bocche di fuoco 331 aerei

Archibald Wavell

Richard O’Connor

Forze in campo britanniche 36.000 uomini

275 carri armati 60 autoblindo

120 pezzi d’artiglieria 142 aerei

Tobruch. L’Operazione Compass è stata una parte importante della Seconda Guerra Mondiale ed ha avuto come teatro della battaglia la zona tra Sidi Barrani (Egitto) ad El Agheila (Libia) e si è svolta dall’8 dicembre 1940 al 9 febbraio 1941. Gli schieramenti militari erano l’esercito del Regno d’Italia e quello del Regno Unito. Le divisioni italiane erano numerose sulla carta ma in realtà, al mo-

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mento della dichiarazione di guerra, la maggior parte di esse si dimostrarono incomplete sia in termini di uomini che di materiali. Su 78 divisioni appena 35 potevano dirsi complete di organico e materiali. Il 10 giugno 1940, alla data dell'entrata in guerra dell'Italia, in Libia si 2 Comandi di armata 1 Comando dello Scacchiere Sahariano 5 Comandi di corpo d'armata 9 divisioni fanteria autotrasportabili tipo A.S. 3 divisioni camicie nere libiche 2 divisioni fanteria libiche 1 raggruppamento fanteria sahariano 1 gruppo battaglioni paracadutisti (2 battaglioni) 1 battaglione sahariano (incursori motorizzati) reparti minori

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trovano: L'armamento a disposizione (incluso quello della Regia Marina, della Regia Aeronautica e della M.V.S.N.) comprendeva (vedi tabella nella pagina a fianco). L’invio di rinforzi in Africa era dovuto al fatto che Mussolini aveva ordinato l’invasione dell’Egitto partendo dalla Libia il 13 settembre 1940. A sostegno dell’Italia, intervenne anche l’alleato tedesco. Hitler pensò fosse necessario aiutare l’Italia che da alcuni mesi accumulava continui disastri. Decise l’invio in Libia di due divisioni corazzate e due divisioni motorizzate (Afrika Korps), al comando di Erwin Rommel che, in una lettera all’Alto Comando Tedesco, il 2 marzo scrisse: “Gli italiani sono ottimi camerati e valorosi soldati, se avessero i nostri mezzi potrebbero gareggiare con le nostre truppe. Ma la loro antiaerea risale alla guerra ‘15-’18, i fucili si chiamano modello ’91, perché risalgono al 1891, e i carri armati da 3 tonnellate sono semplicemente ridicoli.” Ciononostante questa spedizione non cambiò le sorti della disfatta. L’Inghilterra riconquistò la Cirenaica preparando l’invasione dell’Egitto. La battaglia intrapresa contro gli inglesi mostrò subito numerosi grandi limiti. Prima della fine di febbraio, infatti, l’esercito inglese, come abbiamo visto precedentemente, aveva ricacciato gli italiani al punto di partenza penetrando in Cirenaica, conquistando Tobruch e Bengasi, catturando circa 60.000 prigionieri. Fra questi anche Mariano Montanucci, catturato a Bardia il 5 gennaio 1941. Perdite italiane 3000 morti 115.000 catturati 400 mezzi blindati persi 331 aerei 1292 pezzi d’artiglieria persi 202 aerei persi

Perdite inglesi 500 morti 55 dispersi 1373 feriti 15 aerei abbattuti

In quella battaglia le perdite furono così suddivise: Anche nell’Africa orientale, "l’Impero d’Etiopia” fu rapidamente con-


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Armamento a dispodizione dei soldati italiani presenti in Libia.

28.452 pistole 174.449 fucili e moschetti 3.796 fucili mitragliatori 4.423 mitragliatrici

456 mortai d'assalto da 45 83 mortai da 81

138 mitragliere controaeree da 13,2 221 cannoni controaerei da 20/65 48 cannoni controaerei da 37/54

127 cannoni controcarro da 47/32

146 cannoni d'accompagnamento da 65/17 499 cannoni campali da 75/27

27 cannoni controaerei da 75/27 CK 4 cannoni antinave da 76/40

44 cannoni controaerei 76/40

8 cannoni controaerei da 76/45 336 cannoni campali da 77/28 172 obici campali da 100/17

16 cannoni controaerei da 102/35

97 cannoni pesanti campali da 105/28 48 cannoni da posizione da 120/25 37 obici pesanti campali da 149/12

90 cannoni pesanti da 149/35 (ad affusto rigido) 8 cannoni pesanti da posizione da 149/47 13 cannoni antinave da 149/47 6 cannoni antinave da 149/42

8 cannoni antinave da 190/39

3 mortai pesanti da posizione da 210/8 332 carri leggeri L 3/35

7 autoblindo AB 39/40

8 autocarri armati SPA 25 C 8.039 autoveicoli

1.809 motociclette 568 biciclette

7.161 quadrupedi

12 fotoelettriche (obsolete)

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Mariano, il primo a sinistra, durante il servizio militare .

quistato dagli inglesi, imprigionando Amedeo Duca d’Aosta ed entrando in Addis Abeba nel maggio del 1941. L'amministrazione italiana in Nord Africa ebbe fine il 13 maggio 1943, con la resa delle forze armate italo-tedesche. La Tunisia rimase l’ultimo territorio amministrato dagli italiani fino alla completa occupazione da parte delle forze americane e britanniche. Nel maggio del 1943 gli Alleati vincitori della campagna di Tunisia, restituirono l’intero territorio tunisino alla Francia, le cui autorità coloniali provvidero a chiudere tutte le scuole ed i giornali italiani.


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La seconda guerra mondiale devastò la Libia italiana e costrinse i coloni italiani a lasciare in massa le loro proprietà. Con il Trattato di Pace del 1947 l'Italia dovette rinunciare a tutte le sue colonie, compresa la Libia. Vi fu comunque nel 1946 il vano tentativo di mantenere la Tripolitania come colonia italiana, assegnando la Cirenaica alla Gran Bretagna ed il Fezzan alla Francia. Nel 1962 gli Italiani in Libia erano ancora 35.000 circa. Ma dopo il colpo di stato del colonnello Gheddafi del 1969, almeno 20.000 italiani furono costretti a cedere improvvisamente i propri beni e le proprie attività economiche, ancora oggi le varie associazioni di profughi e rim-

Schema degli italiani in Libia secondo diverse stime e censimenti.

Anno Italiani

%

Abitanti Fonte

1936

112.600 13,26%

848.600

1962

35.000

2,1%

1.681.739 Enciclopedia Motta, Vol. VIII, Motta Editore, 1969

22.530

0,4%

1939 1982

2004

108.419 12,37% 1.500

0,05%

876.563

Enciclop. Geografica Mondiale K-Z, De Agostini, 1996 Guida Breve d'Italia Vol. III, C.T.I., 1939)

2.856.000 Atlante Geografica Universale, Fabbri Editori, 1988 5.631.585 L'Aménagement Linguistique dans le Monde

patriati si battono per ottenere un risarcimento dallo Stato italiano. Dopo la nazionalizzazione delle imprese italiane, rimase in Libia solo un ristretto numero di compatrioti. Nel 1986, dopo la crisi politica tra Stati Uniti e Libia, il numero degli italiani si ridusse ancora di più, raggiungendo il minimo storico di 1.500 persone, cioè meno dello 0,1% della popolazione. Negli ultimi anni, a seguito del riavvicinamento tra l'Occidente e la Libia e la fine dell'embargo economico, alcuni italiani dell'epoca coloniale sono ritornati in Libia. Attualmente rimangono solo alcune decine di vecchi pensionati.

Foto a sinistra: Copetti Luigi sul bastimento Nazario Sauro in viaggio verso la Libia. Foto a destra; sbarco a Tripoli di coloni italiani, nel 1936.

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La battaglia di Bardia e la cattura di Mariano

L

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a Battaglia di Bardia vide per la prima volta nella seconda guerra mondiale l'Esercito Australiano prendere parte ad una operazione militare in Nord Africa dove intraprese uno scontro che fu combattuto per tre giorni tra il 3 e il 5 gennaio 1941. Il 3 aprile, la 6ª Divisione australiana del generale Iven Mackay, assaltò la fortezza italiana di Bardia, assistita dal supporto aeronavale e sotto la copertura del fuoco d'artiglieria. La 16ª Brigata australiana attaccò all'alba da ovest, dove le difese erano ritenute deboli; i genieri aprirono dei varchi nel filo spinato con il bangalore torpedo, riversandosi nei varchi stessi e smantellando le sponde dei fossati anticarro con picconi e badili. In questo modo permisero alla fanteria e a 23 carri Matilda II, del 7º Reggimento Reale Carri, di penetrare nella fortezza e raggiungere i loro obiettivi, incluso la cattura di 8.000 prigionieri. La vittoria degli inglesi fu facilitata anche dalla sottovalutazione da parte italiana. Infatti, il generale italiano Rodolfo Graziani considerò Bardia priva di qualunque funzione tattica e strategica. A metà dicembre 1940, decise di rinunciare a qualsiasi tentativo di rompere l'accerchiamento inglese, abbandonando al loro destino tutti gli uomini asserragliati nella città. La difesa di Bardia fu affidata al generale Bergonzoli che poteva disporre di 45.000 uomini, tra cui la Divisione Fanteria “Catanzaro” nella quale era inquadrato anche Mariano. Questi uomini vennero impiegati lungo un perimetro di 29 km fatto da un fossato anticarro, una recinzione di filo spinato ed una serie di ridotte belliche. Va da sé che tutte le postazione costruite dagli italiani per la difesa di Bardia erano conosciute dagli australiani in quanto, questi, avevano trovato

Area dell'Operazione Compass.


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le mappe dettagliate nella conquista di Sidi Barrani (in Egitto) dove lo stesso Bergonzoli che comandava le difese, fu costretto alla fuga. In quell’occasione venne catturato anche Mariano che - come ebbe a raccontare alle sue figlie - si trovava assieme ad altri commilitoni dentro una buca fatta a cerchio, con una sponda sul mare che fungeva da trincea. Questi uomini si trovavano in quel luogo da una ventina di giorni resistendo agli attacchi inglesi che avevano fatto saltare i serbatoi d’acqua e di viveri che si trovavano nei pressi della trincea. Riuscirono a resistere grazie ai rifornimenti d’acqua e di cibo che portavano i sottomarini italiani che giungevano di notte, via mare. Il 5 gennaio 1941, verso le 9 del mattino, un gruppo di nuovi, fiammanti carri armati guidati dai soldati australiani accompagnati dalla fanteria indiana, accerchiarono l’avamposto italiano. I soldati si difesero fino a quando il tenente che comandava l’avamposto ordinò loro di arrendersi. A quel punto, circa 400 soldati uscirono con le mani alzate. Dopo essere stati catturati giunsero duetre autoblinde inglesi con alcuni comandanti che presero il comando dei prigionieri. Per evitare fughe li costrinsero a marciare dentro l’infuocato deserto libico. Il convoglio di prigionieri era composto da oltre 2.000 soldati; mancavano gli ufficiali che erano stati portati separatamente in altri luoghi. I prigionieri vennero inquadrati a file serrate e fatti marciare in un primo viaggio interminabile viaggio a piedi: da Derna al forte di “Ridotta Capuzzo”, situato sul confine con l’Egitto; circa 300 km di deserto. Eppure, per quegli uomini la cattura sembrò un sollievo in quanto la condizione di prigionieri Fototessera consunta del giovane Mariano . dava loro una speranza maggiore di salvezza. Infatti, la carenza di equipaggiamento e di armi li aveva messi in condizioni di rischio elevato. Lungo il viaggio, i prigionieri venivano fatti accampare in tende montate velocemente nella sabbia del deserto al fine di ripararli per la sola notte di sosta. Non tutti riuscirono a superare le insidie del deserto dove l’acqua ed il cibo erano razionati al punto che non potevano sprecare una goccia d’acqua per nessuna ragione se non per bere quel poco necessario per sopravvivere. Il lavaggio dei panni veniva fatto strofinandoli nella sabbia del deserto. Naturalmente non potevano neanche lavarsi. Mancando l’igiene tutti erano zeppi di parassiti: zecche, piattole e pidocchi. Così tanti da causare la morte di alcuni che si trovavano già indeboliti da malattie o deperimento. Mariano, - ricordano le figlie - quando raccontava queste cose, cambiava la voce e gli scendevano le lacrime dagli occhi.

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Le condizioni di quel viaggio si presentarono piuttosto pesanti. Tra i molti che erano inglobati in quel lungo corteo di sventurati c’erano alcuni esausti e sofferenti che non ressero a un simile sforzo. Quando capitava che qualcuno cadesse a terra esausto, interveniva un militare inglese che, per non rallentare la marcia, senza andar troppo per il sottile, provvedeva a mettere fine alle sofferenze del povero soldato. Infatti, in presenza di un prigioniero che cadeva per sfinimento o per sete, gli inglesi intervenivano drasticamente ed il cadavere veniva lasciato sul posto, abbandonato alle insidie del deserto. Il cibo era insufficiente: bisognava sostenersi con la misera zuppa di cipolle che veniva giornalmente distribuita. La razione alimentare che gli inglesi fornivano a questi prigionieri era composta da un brodo di cipolle al giorno, tre litri di acqua e un po’ di te. Nemmeno le razioni alimentari previste per i soldati inglesi erano generose e i prigionieri lo sapevano e accettavano più volentieri quella misera zuppa che veniva loro dispensata. Anche il tè che veniva distribuito giornalmente rappresentava un cibo. “Noi prigionieri - raccontava Mariano - mettevamo la borraccia dell’acqua nella sabbia dove il calore la scaldava fino a portarla vicino alla bollitura. Poi versavamo il tè e in poco tempo l’infuso era pronto.” Ma i rischi maggiori del deserto erano le dune. Questi accumuli di sabbia sono di origine eolica, cioè determinati e modellati dall'azione dei venti, e quindi soggetti a continui spostamenti e ridimensionamenti, causati dalla loro direzione il cui variare modificava l’assetto orografico. Rimanere fuori dell’accampamento, specialmente di notte era pericoloso in quanto la continua trasformazione delle dune modificava il paesaggio facendo perdere l’orientamento con conseguente smarrimento e rischio di perdersi e morire. Accadde, infatti, che alcuni prigionieri usciti dall’accampamento, magari solamente per fare i bisogni fisiologici, si fossero persi senza farvi ritorno. Il deserto non perdona! Dicevano i Beduini del posto.

Prigionieri italiani in fila nel deserto sotto il controllo di un carro armato inglese.


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Questa pesante situazione permetteva agli inglesi di rallentare la guardia dei prigionieri che, comunque, erano costretti a marciare a ranghi serrati. Mentre marciavano nel deserto, la tradotta in cui era stato inquadrato il nostro protagonista incrociò un altro squadrone di prigionieri. Mariano vide che, sulla scia del loro passaggio era rimasta a terra un’arancia mezza ammaccata. Mariano pensò subito ai rischi che avrebbe corso se fosse uscito dalla fila per prendere quel frutto. Un gesto del genere poteva significare la morte, in quanto gli inglesi, se l’avessero visto, gli avrebbero sparato. Ma la forza della sopravvivenza, dell’istinto e, ovviamente la fame e la paura di non farcela, ebbero il sopravvento; così, con uno scatto fulmineo, uscì dall’incolonnamento, raccolse l’arancio e rientrò repentinamente. Quell’arancia, ammaccata e forse anche parzialmente marcia, oltre alle vitamine e all’acqua che conteneva, gli diede nuova forza che gli permise di proseguire in quel deserto maledetto. Durante una delle tante giornate di marcia, incontrarono anche i beduini che vestivano con panni di lana. Mariano, meravigliato di vedere quegli uomini con simili indumenti, non fece a tempo a doman-

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Possibile itinerario della marcia dei prigionieri italiani verso l’imbarco per il Sud Africa.


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darsi come mai si vestissero così, che subito gli venne detto che ciò che ripara dal freddo (la lana) protegge anche dal caldo. Da allora e per tutta la sua vita indossò sempre, d’estate e d’inverno, la maglia di lana. Mariano ebbe a raccontare che, durante la traversata del deserto, s’imbatterono in una pozza d’acqua. Una risorsa preziosa per le migliaia di prigionieri estenuati dalla lunga marcia. La presenza di quell’oro bianco del deserto, portò tutti gli uomini a riversarsi, uno dietro l’altro, su quella pozza d’acqua, fino a esaurirla quasi completamente. Le tante gavette che si immersero in quell’acqua fecero abbassare vistosamente la pozza al punto che si vedeva bene il fondo sabbioso. Fu così che s’accorsero che la sabbia sul fondo non era piatta, bensì modellata in strane forme. Assieme alla sabbia, infatti, si trovavano anche ossa e teschi umani e animali. A quel punto ebbero il sospetto che l’acqua fosse avvelenata, o che quelle ossa l’avessero inquinata. Ma ormai tutti l’avevano bevuta. Preoccupati, ripresero comunque il cammino senza che alcuno accusasse conseguenze sulla propria salute. Giunti al forte trovarono i depositi italiani di viveri e di La lunga marcia dei prigionieri italiani da Solum al porto di Safaga. acqua che erano ormai quasi vuoti. Infatti, servirono a dissetare soltanto i soldati che stavano in testa al convoglio mentre quelli dietro dovettero attendere nuovi rifornimenti che sembrava non giungessero mai. A Forte Capuzzo i soldati vennero lasciati liberi perché se qualcuno avesse tentato di scappare si sarebbe trovato attorno solo sabbia e sicuramente anche una scarica di fucilate provenienti dalle diverse automobili che continuamente giravano attorno al campo. Trascorsa la notte in quel forte, ripresero la marcia verso il porto di Sollum, in Egitto: un tragitto di altri 10 km nel deserto. Il percorso fin qui descritto e quello che andremo a illustrare ora, è stato ricavato da pochissime note trovate in diari di prigionieri italiani che, come Mariano, hanno attraversato il deserto libico verso il Sud Africa. Il viaggio nel deserto africano, infatti, aveva come destinazione la costa Est dell’Africa, l’imbarco su navi militari inglesi, sbarco nella punta più meridionale del continente, viaggio a piedi all’interno del Sud Africa, per raggiungere il più grande campo di concentramento dell’ultima


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guerra mondiale: Zonderwater! Un viaggio che, come ha raccontato Mariano, venne percorso da diversi convogli di prigionieri, divisi in gruppi più o meno grandi. È assai probabile, infatti, che tutti avessero percorso il medesimo itinerario. Un percorso che un parroco friulano, prigioniero anch’esso in Sud Africa, don Raffaele Virgolini, riportò sommariamente in un suo diario che il nipote ha pubblicato su internet. In questo diario troviamo elencati: Marsa Matruh, Alessandria d’Egitto, Il Cairo, Qena e, molto probabilmente, Safaga sul Mar Rosso, dove li attendevano le navi per il Sud Africa. Un percorso che a piedi, in situazioni normali, richiede 310 ore (da Sollun a Marsa Matruh, 290 km, 58 ore; da Marsa Matruh a Alessandria, 287 km, 58 ore; da Alessandria a Il Cairo, 203 km, 41 ore; da IL Cairo a Qena, 600 km, 120 ore; da Qena a Safaga, 164 km, 33 ore). Croce al merito di guerra assegnata a Mariano. Mariano ebbe a raccontare che il tragitto era delineato interamente nel deserto ma, come si legge dalle memorie del parroco, da Alessandria a Asyut affiancava il corso del Nilo. Non poteva essere altrimenti poiché permaneva la necessità di tenere i prigionieri lontano dalle città per evitare tentativi di fuga e, nello stesso tempo, assicurarsi un collegamento con le città, per garantire quel minimo di rifornimenti di acqua e cibo necessari ai prigionieri ma anche e soprattutto per i soldati inglesi di guardia ai sopraddetti. Arrivati al porto di Safaga, Mariano venne imbarcato su di un piroscafo inglese per raggiungere il Porto di Durban in Sud Africa (10.000 km). Non sappiamo quale sia stata la nave in cui si imbarcò Mariano, sappiamo però che il parroco friulano venne imbarcato sulla nave “Mauritania”. Da Durban, la prima meta del parroco fu Pietermaritzburg, 90 km (circa 20 ore di marcia). Da questa città, altre 120 ore di marcia e poi, “finalmente” Zonderwater: il campo di concentramento dei prigionieri italiani in Sud Africa, dove Mariano rimase per oltre due anni (altri, tra cui anche il parroco, fino al 1946 e 47). Da Durban a Pietermaritzburg ci sono 89 km di distanza, percorribili in circa 19 ore, mentre da Pietermaritzburg a Zonderwater ci sono 570 km, e altre 119 ore di marcia.

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La prigionia a Zonderwater

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n Sud Africa, gli inglesi avevano costruito il più grande campo di concentramento di prigionia della Seconda Guerra Mondiale. Il complesso di Zonderwater, nello stato del Transvaal, vicino a Joannesburg, fu realizzato in una conca tra le immense distese di un arido altopiano che si trova a 1.700 metri sul livello del mare. Le condizioni naturali di questo altopiano erano tali da rendere quasi impossibile la fuga. Pertanto, il campo non era stato recintato con il consueto filo spinato. Questa struttura iniziò a funzionare nel febbraio 1941 quando arrivarono i primi prigionieri italiani catturati in Africa Settentrionale e Orientale. M o l t o probabilmente, co n s i d e rando il tempo necessario per percorrere la strada da Bardia a Zonderw a t e r, Mariano fu uno dei primi a giungere Panoramica del campo di Zonderwater in Sud Africa. in quel campo. Dopo di loro arrivarono continuamente nuovi prigionieri, con un incremento massiccio in seguito alla sconfitta italo-tedesca di El-Alamein, il 3 novembre 1942. I prigionieri italiani furono suddivisi in gruppi diversi tra loro e sistemati separatamente in baracche: da una parte coloro che si dichiararono fedeli al fascismo, dall’altra quelli che invece non avevano fermi ideali politici ma decisero di non collaborare e, infine, da un’altra ancora quelli disponibili a collaborare. I diversi gruppi venivano identificati con un interrogatorio effettuato al loro arrivo. Tra i gruppi presenti, a Zonderwater c’era anche una minoranza di prigionieri tedeschi, comunque separata dagli italiani. Il primo comandante del campo fu il colonnello Rennie il cui comportamento pare fosse stato poco ortodosso. Per questo fu sollevato dall'incarico dal colonello De Wet che non tollerava più che i prigionieri disperati provassero continui tentativi di fuga scavando dei tunnel. Va detto, comunque, che i diversi resoconti confliggono in quanto da una parte si asserisce che non c’erano recinti con filo spinato, dall’altra che i prigionieri scavavano delle gallerie per tentare la fuga. Mariano non ebbe mai a raccontare particolari riguardanti il campo di


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concentramento. Possiamo quindi supporre che fosse recintato con le baracche stesse o/e con palizzate in legno o dei muri, comunque sorvegliati dalle guardie armate. Nel 1942 un certo dottor Diogo dal Brasile venne chiamato a ispezionare il campo. I risultati non furono positivi, giacchè constatò che il morale nel campo era molto basso. Fu così che De Wet mise al comando dell’accampamento il colonnello Hendrik Fredrik Prinsloo che gestì il campo dal 1943 al 1947. Con Prinsloo, i prigionieri furono trattati con maggior dignità e il morale e l’autostima di costoro aumentò sensibilmente. In quell’occasione migliorarono anche gli edifici presenti e vennere eretti altri. Venne costruita anche una biblioteca per i prigionieri contenente circa 10.000 volumi. Quando chiesero dei volontari per costruire una scuola per i prigionieri si presentarono in 1500, molti dei quali analfabeti ma desiderosi di potersi muovere per fare qualcosa di utile e, soprattutto, poter imparare a leggere e a scrivere. Con la scuola, l’analfabetismo passò dal 30% al 2%. Anche Mariano frequentò questa scuola. Non per analfabetismo, ma per acquisire quel minimo indispensabile della lingua e della cultura inglesi. Quando il campo venne definitivamente completato, poteva contenere complessivamente 120.000 detenuti. Ma il maggior numero di prigionieri nel campo di Zonderwater, si ebbe il 31 dicembre 1942, quando erano presenti 63.000 internati. Il campo era diviso in 14 unità, e ognuna di queste era progettata per alloggiare 8.000 uomini. Ogni unità era ulteriormente suddivisa in quattro campi, ciascuna con una capacità di circa 2.000 uomini. Vi era inoltre un accampamento di transito, uno di disinfestazione ed un altro con funzioni di ospedale centrale. Quest’ultimo disponeva di circa 1600 posti letto con 14 ambulatori satelliti, uno per ogni campo. A quel tempo era considerato uno dei più grandi ospedali mai costruiti in Sud Africa. Il personale medico era rappresentato interamente da militari italiani

Santino pasquale (fronte e retro) con dedica di don Luigi, Granato cappellano militare di Zonderwater.

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che, grazie al materiale fornito dai sudafricani, poteva far fronte alla maggior parte dei trattamenti chirurgici necessari. Una sala operatoria dell’Ospedale nel Campo di Zonderwater, era gestita direttamente dai prigionieri italiani. Per collegare tutte le zone del campo erano state costruite oltre 30 chilometri di strade interne al perimetro, mentre il problema dell’igiene venne superato grazie alla realizzazione di un’ampia rete fognaria. Ben quattromila persone vennero impegnate per la fornitura dei campi e dei detenuti. Costoro fornivano quotidianamente le derrate necessarie ai prigionieri, l’indispensabile alla gestione sanitaria, alla vita culturale, al lavoro, e quant’altro occorreva. Tutti i prigionieri avevano un lavoro; la maggior parte di loro trovò occupazione nelle fattorie della zona. Altri, in particolar modo i prigionieri italiani, hanno contribuito soprattutto alla costruzione di una serie di progetti civili come il Tom Jenkinsrylaan: una strada che collegava Arcadia a Rietondale Pretoria (circa 3 km). Il suo nome deriva da quello dell’allora sindaco di Pretoria. I prigionieri non condussero certo vita agiata, ma tutti convennero nel riconoscere che furono trattati con umanità e decoro, e che venne fatto di tutto per alleviare le loro sofferenze. A sostegno di questa tesi possiamo osservare che furono costruite e messe a disposizione dei prigionieri diverse strutture per lo sport, come il calcio, atletica, tennis, pallacanestro, pallavolo e pugilato. Vennero costruiti teatri per spettacoli, cinema e concerti, oltre a orti, biblioteche e scuole che tolsero dall’analfabetismo più di 9.000 italiani. Per di più, considerato che la quasi totalità dei prigionieri italiani era di religione cattolica, vennero erette cappelle, affidate ai 23 cappellani militari detenuti nel campo. Uno di questi era il parroco friulano prima ricordato. A coloro che decisero di collaborare si diede anche la possibilità di lavorare fuori del campo e ciò grazie ad oltre 4.000 sudafricani che si proposero come datori di lavoro, soprattutto di tipo agricolo, ma anche costruzione di strade, ponti e edifici. In tutte queste attività molti italiani si distinsero per la loro abilità e genialità, inSala operatoria del campo di Zonderwater.


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staurando con i sudafricani un rapporto di fiducia che a guerra finita indusse oltre 800 italiani a restare in Sudafrica. A Zonderwater, Mariano imparò il mestiere di falegname che svolse per i due anni che rimase in quel campo di prigionia. Va detto, comunque, che ogni giorno, per non soffrire di noia, dovevano trovare un motivo o un’occupazione per vivere la giornata. Una di queste attività era quella di recarsi al luogo dove ogni giorno venivano appese le liste dei nuovi prigionieri che entravano nel campo. Un giorno, Mariano lesse che tra i prigionieri appena arrivati c’era anche Gustavo Pesci, un suo vicino di casa e amico. Si recò immediatamente nel luogo dove venivano accolti i nuovi arrivati. Osservò i soldati che sfilavano inquadrati, ma non riconobbe nessuno. Ritornò l’indomani, e, osservando meglio uno di costoro, pensò si trattasse del suo vicino. Con timore chiese conferma direttamente all’uomo. Si trattava proprio di lui. I due amici, pur nella condizione di prigionia cui si trovavano, s’abbracciarono gioiosamente. Mariano gli ricordò di averlo cercato il giorno precedente e di non averlo identificato per colpa dello stato di patimento fisico in cui si trovava. Gustavo rispose che pure lui, non lo aveva riconosciuto. Tra i ricordi di quella prigionia conservati da Mariano e lasciati in eredità alle figlie Lucrezia e Marcella si trova un libricino di preghiere: “Libro di preghiere offerto dal Santo Padre” a cura dei cappellani mili-

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Copertina e ultima pagina del libretto di preghiere ricevuto da Mariano a Zonderwater.

Penultima pagina del libretto di preghiere dove Mariano annotava i nomi dei suoi compagni.

tari. Un libricino fatto stampare da Papa Pio XII, che conteneva una frase che recitava: “… Nostra intenzione è (…) che si ottengano i celesti conforti della grazia agli esuli, ai profughi, ai dispersi, ai prigionieri, a tutti coloro insomma che soffrono e piangono per le calamità del presente conflitto. Firmato Pio XII nel motu proprio del 27 ottobre 1940”. Nella penultima pagina di copertina del libretto, lasciata bianca dall’editore, Mariano ebbe modo di annotare con una matita: «Costanzi Pasquale (561809) campo 83, Bececco Domenico (M. 496626) Campo 28, Temperoni (496355)». Si trattava, molto probabilmente, dei numeri di matricola di alcuni suoi paesani (di Piedicolle o di Collazzone) presenti nel campo di prigionia. I


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nomi, infatti, li troviamo anche nell’elenco dei prigionieri di Zonderwater. Mariano lasciò il campo nel 1943, verosimilmente appena dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre. In quel campo persero la vita 279 italiani, di cui 203 morti a causa delle ferite riportate in combattimento e per malattia, 12 suicidati, 76 deceduti per incidenti, in gran parte per folgorazioni durante i frequenti temporali della regione: 12 vennero colpiti dai fulmini che entravano nelle tende attraverso i pali d'acciaio che le sostenevano. Oggi il campo di prigionia di Zonderwater non esiste più ed in un piccolo settore della sua area è stato eretto il Cimitero Militare Italiano. La Comunità Italiana del Sudafrica, mantiene ancora viva la memoria raccogliendo dati dei prigionieri trattenuti durante questa guerra (Parte delle informazioni relative alla prigionia di Mariano le abbiamo ricevute da un’associazione fondata a questo scopo). Inoltre, la prima domenica di novembre, molti italiani che vivono in Sud Africa, si ritrovano nel Cimitero di Zonderwater ed in quelli minori di Worcester (Città del Capo) e Hillary (Durban) per commemorare i soldati italiani morti durante gli anni della prigionia.

Mariano Montanucci nella foto di Leva.


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Da Zonderwater a Manchester

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a vita nel campo di prigionia di Zonderwater proseguiva nella sua stanca routine finché un giorno del 1943 Mariano, assieme a numerosi altri prigionieri dei diversi campi di Johannesburg, venne chiamato per essere trasferito per un’altra destinazione, che poi si saprà essere l’Inghilterra. Mariano cercò disperatamente tra i presenti se c’era anche il suo amico Gustavo. Ma non lo trovò! I due grandi amici vennero così divisi. La scelta delle persone da prelevare nei campi africani, indiani e australiani aveva lo scopo di assicurare manodopera ubbidiente e poco avvezza alla ribellione. Gli irriducibili, nazisti o fascisti, o coloro che non risposero in modo consono alle esigenze degli inglesi, rimasero nei campi di concentramento sopraddetti. Restarono anche gli italiani di origine meridionale e coloro che mostravano flebili segni di ribellione. Gustavo (di carattere un po’ estroverso) venne trattenuto nel campo con grande dispiacere di ambedue gli amici che dovettero separarsi dopo due lunghi anni di vita non solo condivisa in costrizione, ma anche con affiatamento e profonda amicizia. Non abbiamo trovato documenti riguardo al tragitto svolto per uscire da Zonderwater verso l’Inghilterra, dov’erano diretti. Si suppone che i prigionieri siano stati portati in un porto situato nella costa est dell’Africa (probabilmente a Maputo che dista da Pretoria circa 500 km). Il percorso fino al porto, quasi certamente, venne effettuato nuovamente a piedi. Il viaggio che stavano per intraprendere era ancor più lungo di quello di arrivo. La destinazione, infatti, era Liverpool (porto di arrivo per Manchester) che via terra dista oltre 13.000 km, ma molti di più via mare dovendo percorrere un viaggio fino alla parte Nord/Est dell’Africa, per proseguire verso il Canale di Suez, il Mar Mediterraneo, lo Il possibile iitinerario dal porto di Durban al campo di Zonderwater. Stretto di Gibilterra,

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Rotta della nave che portò i prigionieri italiani attraverso il Canale di Suez.

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l’Oceano Atlantico e infine l’Inghilterra. Le figlie ricordano che il padre disse che il solo viaggio in mare ebbe una durata di 44 giorni. Mariano rammentava, inoltre, che in pieno Oceano Atlantico, le onde sembravano montagne tanto erano alte. La nave veniva sollevata dall’onda fino alla cresta che poteva raggiungere anche una decina di metri. Un carosello di saliscendi che faceva venire il mal di mare a molti di loro. Per di più, oltre alle onde vi era anche il rischio di incontrare qualche sommergibile o una nave che potesse silurarli. Raccontava anche che durante il viaggio un prigioniero non riusciva a sopportare i sobbalzi che creava il mare in tempesta. L’uomo rimase disteso a terra per tutto il tragitto, torcendosi per il mal di mare. Mariano, molto compassionevolmente, lo assistette per l’intero tragitto portandogli le razioni di rancio che gli spettavano ed aiutandolo per quanto gli era possibile. Dopo quarantaquattro giorni di navigazione, finalmente l’Inghilterra. Lo sbarco avvenne nel porto di Liverpool per proseguire verso la destinazione finale che era Manchester, lontana 34 miglia (circa 55 km). In Manchester era stato allestito uno dei tanti campi di lavoro predisposti nel Regno Unito per impiegare gli internati in attività agricole. I prigionieri italiani prelevati dai campi di concentramento Nave inglese in transito nello stretto di Gibilterra, nel 1943.


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Al centro dell’Inghilterra la città di Manchester dove Mariano venne tenuto prigioniero.


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inglesi dell’India, dell’Australia, del Sud Africa, del Kenia, della Rhodesia, del Tanganika e dell’Uganda, vennero portati in Gran Bretagna, dove erano stati creati circa 530 campi di internamento. Nei primi mesi del 1945, risultavano essere presenti in Gran Bretagna circa 158.000 prigionieri italiani. Gli inglesi trasferirono In Gran Bretagna anche 404.000 prigionieri tedeschi che, dalle cronache raccontate dopo la guerra, ricevettero un trattamento meno positivo rispetto a quello degli italiani. La maggior parte dei prigionieri tedeschi in Inghilterra venne impiegato nei lavori agricoli e nelle costruzioni.

78 Cattedrale di Manchester in una cartolina del periodo della guerra.

Alcune memorie ricordano che, in previsione delle olimpiadi del 1948, gli inglesi utilizzarono alcuni prigionieri tedeschi per pulire la zona dalle sigarette e dalla spazzatura nella zona dove stavano costruendo gli stadi per le olimpiadi che si tennero nel 1948. Successivamente, a seguito di alcune critiche, questi prigionieri vennero impiegati nella costruzione della pavimentazione dell’accesso allo stadio. I prigionieri tedeschi furono rimpatriati entro il 1948 (tre anni dopo la fine della guerra). Mariano, anche di questa prigionia, ebbe a raccontare molto poco. La famiglia seppe da lui solamente che visse nelle baracche di un campo di prigionia a Manchester e che fu destinato ad una fabbrica di concimi agricoli. Raccontò anche che in Gran Bretagna il trattamento che gli inglesi utilizzarono verso gli italiani è stato molto buono. Ma, se il nostro protagonista fu restio a raccontare il periodo di prigionia a causa del suo carattere, la mancanza della storiografia ufficiale


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non ha giustificazioni. Non dimentichiamo, infatti, che ciò che accadde nei campi di prigionia del Regno Unito, rimase nell’oblio fino a poco tempo fa, quando alcuni intrepidi studiosi iniziarono ad effettuare ricerche in Inghilterra e negli archivi di Stato e, contemporaneamente, grazie al web, alcuni prigionieri o loro parenti, cominciarono a pubblicare on-line, lettere e diari di prigionieri italiani in Inghilterra. Un lavoro importante verso la conoscenza di questo fenomeno è stato quello della dott.ssa Isabella Insolvibile dell’Università di Napoli 2 che analizzò numerosi documenti degli archivi inglesi ed italiani. La signora Insolvibile ha raccolto e commentato un numero rilevante di dati e notizie nel volume “WOPS: i prigionieri italiani in Gran Bretagna (1941-1946)”, edito da ESI (Edizioni Scientifiche Italiane), nel 2012. La dottoressa Insolvibile, nel suo saggio, spiega che il termine Wops veniva utilizzato nei paesi anglosassoni per indicare in senso spregiativo gli “italiani”. Il termine deriva dal napoletano “guappo” ed è traducibile con il termine dispregiativo di “terrone”. Ma è anche simile all’acronimo P.o.Ws., Prisoners of War (Prigioniero di guerra) che spesso veniva utilizzato sostituendolo con l’offensivo W.O.Ps. La scritta P.o.Ws. (Prisoner of war - Italy) era stampata addosso alle divise che i prigionieri italiani portavano durante la prigionia. La ricercatrice napoletana sottolinea che la condizione psicologica degli italiani fu caratterizzata da una costante malinconia e da un cre-

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Tessera di riconoscimento del Wop Montanucci..

Interno tessera di riconoscimento del Wop Montanucci.

scente malcontento, causati da una prigionia che fu lunghissima da un punto di vista temporale, immutata dal punto di vista dello status giuridico, nonostante il variare della posizione dell’Italia nei confronti degli Alleati. l’Italia, dopo l’8 settembre 1943, si era alleata con l’Inghilterra e gli USA. Non v’era ragione quindi di trattenere degli alleati in prigione. Ma gli inglesi non apprezzavano molto gli italiani e così fecero orecchie da mercante e prolungarono la prigionia dei nostri soldati ben oltre la fine della guerra.


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Questa parte di storia d’Italia fino ad ora è stata dimenticata nei cassetti, forse per il fatto che, un’altra volta ancora, i gerarchi ed i politici nostrani ben poco si preoccuparono di questi soldati inviati nella cruenta e stupida guerra d’Africa e poi abbandonati nelle mani dei nemici anche quando dimostrarono una pur fievole disponibilità a restituirli alle loro famiglie. Come sottolinea la curatrice della documentatissima ricerca su questa pagina di storia, i PoWs italiani, rimasero immutabilmente e sempre Wops: “guappi mafiosi”. Una condizione che non venne modificata neanche quando il Paese passò dalla parte degli anglo-americani, né dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, né dopo che il governo Badoglio firmò Soldati italiani prigionieri degli alleati nel 1945. l’atto di cobelligeranza (29 settembre 1943), che portò alla dichiarazione di guerra alla Germania, a fianco degli Alleati (Stati Uniti, Regno Unito e Unione Sovietica), né dopo l’atto di “cooperazione” nel maggio 1944. Il cambio di strategia di gestione dei prigionieri da parte del governo inglese (da prigionieri in campi di concentramento sparsi per il mondo a prigionieri lavoratori in Inghilterra) fu realizzato per motivi essenzialmente economici per i soldati tenuti in Gran Bretagna e per motivi di sfiducia verso l’Italia sospettando che potesse nuovamente cambiare partnership. Va detto che, mentre la gran parte degli inglesi adulti era sotto le armi, nelle fabbriche, nelle officine e nelle campagne la mano d’opera scarseggiava. Per questo motivo gli anglosassoni decisero di affidarsi ai prigionieri di guerra, soprattutto a quelli italiani che erano ritenuti più tranquilli e meno pericolosi rispetto ai tedeschi. I WOPs erano considerati militarmente, politicamente, culturalmente e anche razzialmente esseri inferiori. Disprezzati dalla popolazione britannica e abbandonati al proprio destino dalle autorità nostrane. I nostri soldati tornarono uomini liberi solo dopo il raccolto di barbabietole da zucchero dell’inverno ‘45/46 e, tutti liberi solo alla fine del 1946. Qualcuno rimase nel Regno Unito o vi ritornò tempo dopo, come emigrante e soprattutto in qualità di “sposo di guerra”. Nonostante il no fraternization, molti prigionieri avevano instaurato relazioni con giovani donne britanniche, e la conseguenza più evidente di queste storie d’amore proibite, come scrisse Elena Albertini Carandini moglie dell’ambasciatore italiano a Londra, furono i tanti bambini inglesi “brunetti”.


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Tanta durezza portò a esiti del tutto paradossali, perché il veto nella fraternizzazione fu applicato così rigidamente dalle autorità inglesi, da opporsi, ancora nel 1946, ai «matrimoni di guerra» tra prigionieri italiani e donne britanniche. Il divieto si applicò anche quando si trattava di «matrimoni di riparazione», impedendo così che fossero riconosciuti molti figli illegittimi nati dalle relazioni “proibite”. Gli impedimenti inglesi a questa “fraternizzazione” creò ostacoli di ogni genere, compresa la perdita della nazionalità inglese, alle donne disposte a recarsi in Italia per sposare i loro partner ex prigionieri. “Quel che risulta chiaro dal lavoro di Insolvibile – si legge nella presentazione del libro curata da Paolo Ponzi - è la determinazione del governo inglese, per tutta la durata del conflitto e oltre, di disporre liberamente dei POWs italiani per poterli impiegare come manodopera anche in attività lavorative esplicitamente vietate dalla Convenzione di Ginevra perché direttamente connesse con lo sforzo bellico.” “Il trattamento riservato dagli inglesi ai militari – si legge ancora - non era lontanaSoldati italiani al tempo del fascismo. Primo a destra Gervasio Montanucci . neppure mente paragonabile a quello durissimo, realmente disumano, che sarebbe stato imposto dopo l’8 settembre 1943 dai tedeschi ai militari italiani internati nei lager nazisti (…)” Nella seconda parte del conflitto (dopo l’8 settembre 1943) i prigionieri italiani potevano frequentare i pub, i cinema e gli altri locali pubblici eventualmente esistenti nei centri abitati a ridosso dei campi di internamento. Disponevano anche di una piccola paga che utilizzavano come meglio credevano.[ros.fag.] “I prigionieri italiani – si legge ancora - erano tenuti a lavorare sodo e per una paga molto modesta, per gli standard inglesi, ma il lavoro non fu mai eccessivamente pesante e fu comunque sempre sostenuto da buone condizioni fisiche, perché, di norma, era loro assicurata un’alimentazione soddisfacente, con tre pasti al giorno e razioni abbondanti, alloggi puliti, efficienti, riscaldati, dotati di corrente elettrica e di acqua, anche calda, un adeguato vestiario e una assistenza medica di buon livello. I prigionieri, infine, poterono sempre contare dell’azione di sostegno materiale e di conforto morale prestata con grande generosità dai volontari dell’YMCA (Young Men’s Christian Association)”. “Gli italiani – si legge ancora nella premessa dell’opera della dott.ssa Insolvibile - erano ritenuti sommariamente e indiscriminatamente sporchi,

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ignoranti, scarsamente o per nulla dotati di valori etici; nella migliore delle ipotesi erano giudicati simpatici ma indolenti; in ogni caso erano considerati pessimi combattenti, totalmente privi di virtù militari, ed erano guardati con sospetto persino per la loro religione, perché erano ritenuti «papisti». Era, inoltre, mantenuto pienamente in vigore il divieto di fraternizzazione, in particolare per quanto riguarda le relazioni tra i militari italiani e le donne britanniche, ed erano ancora duramente punite le infrazioni a questo divieto, con pesanti multe e a volte persino con condanne e pene detentive, imposte non solo ai prigionieri ma anche ai civili britannici, donne comprese.” La situazione degli internati italiani era resa ancor più difficile dall’uso strumentale dei prigionieri di guerra anche da parte degli stessi governi democratici italiani, che li trattavano come merce di scambio con gli anglo-americani. Utilizzavano la «cooperazione» forzata (dei soldati prigionieri) per acquisire benevolenze presso gli Alleati così da strappare condizioni migliori nei futuri negoziati di pace, e a volte, anche solo per conseguire e soddisfare l’orgoglio nazionale. Isabella Insolvibile scrive che, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, “il West Office distribuì ai comandi la lettera che sarebbe stata letta in tutti i campi e che, accompagnata da una lettera di Badoglio dell’11 ottobre 1943, rappresentava un invito estremamente esplicito alla cooperazione volontaria (…) gli italiani che accettarono «l’offerta» britannica divennero cooperatori dal 1° maggio 1944. A metà del ’44 (…) La manodopera italiana risultava sempre più necessaria agli inglesi. In un memorandum del DPW (Directorate of Prisoners of War) - Direttorato dei prigionieri di guerra - si faceva presente che essa sarebbe stata indispensabile fino a che «le truppe impegnate in Estremo Oriente non fossero ritornate ai rispettivi paesi e fossero state mobilitate». Poiché lo stato di prigionieri di guerra non poteva essere sostituito con quello di cobelligeranti, il War Office propose di trasformare gli italiani in «manodopera italiana alleata». Tale accordo fu fatto con il governo Bonomi, in carica dal 18 giugno 1944. A marzo del 1944 l’ambasciata italiana a Londra, nel frattempo insediatosi a marzo del 1944, trasmise a Santino ricordo della Madonna del buon Ritorno gelosamente Roma le stime della coope- conservato da Mariano nel suo portafoglio.


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razione. Su un totale di 153.982 italiani in Gran Bretagna all’inizio di marzo, 116.435 erano cooperatori (75,6%), 35.242 non cooperatori (22,8 %), 2.305 coloro che rifiutavano completamente di lavorare, cioè i fascisti (1,4 %). (…) La differenza principale tra cooperatori e non cooperatori era rappresentata dall’entità della paga: i primi, se impegnati in agricoltura, ricevevano 7 scellini a settimana per lavori non specializzati, 9 per lavori specializzati; i secondi ricevevano invece solo 3 scellini a settimana”. A fine maggio 1944 i prigionieri italiani detenuti in Gran Bretagna erano 90.134, di questi ben 51.227 impiegati in agricoltura, 2.252 utilizzati nell’industrie di materiali refrattari, 772 non utilizzabili perché fascisti. I cooperatori italiani risultavano destinati ai seguenti settori: strade (manutenzione, posa di catrame, estrazione di materiali, cura e drenaggio di canali), ferrovie (manutenzione di rete, segnaletica e ponti, pulizia e riparazione di vagoni e motori, accatastamento e rimozione carbone), veicoli e mezzi nautici (manutenzione, costruzione di zattere, galleggianti), rifornimenti (munizioni), estrazione (cave e miniere), agricoltura (compreso le fabbriche di fertilizzanti e di macchine agricole), selvicoltura e industria (gas, fertilizzanti e macchinari agricoli). Anche Mariano, come ci ha raccontato la figlia Lucrezia, risultava essere attivo in uno di questi settori, essendo impiegato in una fabbrica di fertilizzanti. Durante la Seconda Guerra Mondiale la Gran Bretagna internò nei suoi campi di prigionia, siBuoni del tesoro acquistati da Raffaele tuati in Medio Oriente, Egitto, Kenia, India, SuMontanucci il 28 agosto 1937. dafrica e nella stessa Inghilterra, ben 397.916 prigionieri. In Gran Bretagna i prigonieri italiani destinati a sostituire la manodopera inglese prevalentemente in agricoltura, nell’industria e nelle miniere, raggiunsero il numero di 158.029. I detenuti in questo paese provenivano in maggioranza dalle regioni settentrionali: Lombardia, Piemonte, Liguria, Veneto, Trentino, Friuli e, in minor numero dai paesi del centro Italia (Emilia Romagna, Toscana, Abruzzo, Umbria). Il 13 maggio 1944 il W.O. (Ufficio della Guerra della Gran Bretagna), come incentivo alla cooperazione, autorizzò i prigionieri italiani a frequentare le case private inglesi. Per le regole della cooperazione, i prigionieri potevano allontanarsi dal campo per un massimo di due miglia, ma non potevano recarsi nei grandi centri abitati se non per motivi di lavoro. Tuttavia - ricorda la dott.ssa Insolvibile - era un passo troppo piccolo in un contesto che diveniva via via più drammatico: la sensazione di una prigionia percepita come interminabile aveva conseguenze concrete

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nel peggioramento e nella diffusione di patologie nervose tra gli italiani. Isaabella Insolvibile ricorda che a fine luglio 1944 sbarcarono a Taranto 543 prigionieri ammalati, di cui, ben 306 malati mentali. Le ragioni in base alle quali la maggior parte dei prigionieri scelse di cooperare con gli Alleati – scrive ancora la signora Insolvibile - sono facilmente intuibili: il miraggio di un trattamento, soprattutto materiale, migliore; la speranza di avere la priorità in un eventuale rimpatrio; la consapevolezza del fatto che passare dalla parte del vincitore, ormai riconosciuto, fosse, con ogni probabilità, la cosa più sensata da fare. Il rimpatrio dei PoWs italiani fu continuamente rinviato fino alla conclusione del raccolto delle patate e delle barbabietole del dicembre 1945, perché per la sua riuscita era indispensabile l’apporto dei prigionieri italiani. Il rimpatrio dei prigionieri italiani poté perciò essere avviato solo alla fine del 1945, ma, a causa della mancanza di posti sulle navi dirette in Italia, non poté venire effettuato che per piccoli scaglioni mensili tanto da essere portato a termine solo nell’agosto-settembre 1946. La documentazione utilizzata da Isabella Insolvibile mette bene in luce come la responsabilità dei ritardi nel rimpatrio dei PoWs ricada in buona parte sulle stesse autorità italiane, che non si mostrarono mai particolarmente interessate al rientro dei prigionieri o, addirittura, cercando in ogni modo di incoraggiarli a restare in Gran Bretagna e negli Stati Uniti come immigrati permanenti, per ridurre al minimo la pressione dei reduci sul già disastrato mercato del lavoro in Italia e per poter utilizzare la valuta fornita dalle loro rimesse al fine di finanziare la ricostruzione nazionale. Lo stipendio dei prigionieri italiani – scrive Insolvibile - veniva in gran parte trattenuto dal governo britannico e consegnato agli italiani alla cessazione delle ostilità. O almeno così si sosteneva ufficialmente. Il problema per il Ministr of Lobour, Ministry of Agricoltural e l’Agricoltura Wager Board (AWB) era rappresentato dall’entità del salario che i singoli agricoltori avrebbero dovuto corrispondere allo Stato per il lavoro effettuato dagli italiani. Fin dai primi arrivi, infatti si era stabilito che in nessun caso i datori di lavoro pagassero direttamente i prigionieri, ma che essi fossero retribuiti dal War Office (circolare del 21 luglio 1941). Va da sé che nello stimare il salario dei prigionieri bisognava tenere conto del fatto che gli agricoltori erano tenuti a versare anche una somma per i servizi di sorveglianza. Dai racconti di Mariano, non si è ricavato alcun accenno a questo denaro trattenuto dal governo inglese. Si può ipotizzare che sia accaduto quello che fecero gli americani ai prigionieri portati negli Stati Uniti. Costoro, - racconta in un’intervista video il prigioniero Jacu (Giacomo Buttò) di Ronchis (UD) - qualche decennio dopo la fine della guerra inviarono il denaro a lui spettante al governo italiano, informando lo stesso Buttò della somma a lui dovuta (divesi milioni di lire di allora, sufficneti a compasi un piccolo appartamento). Di quella somma però, il prigioniero Jacu non riuscì mai ad impossessarsi in quanto i vari uffici interpellati, pur in possesso della documentazione americana che certificava l’invio del denaro, non esaudirono mai le richieste di consegnare quanto dovuto, adducendo la causa a pastoie burocratiche.


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Finalmente il rimpatrio

N

el 1945 iniziarono i primi rimpatri degli italiani. Nel marzo di quell’anno il War Office decise di far rientrare 2.550 ufficiali, poco utili dal punto di vista lavorativo, e 580 uomini tra sottufficiali e truppa. I selezionati dovevano essere tutti cooperatori e trovarsi soprattutto in India e Nord Africa, dove gli ufficiali non erano di alcuna utilità. A metà giugno 1945 il Cabinet decise di non rimpatriare dalla Gran Bretagna i prigionieri italiani prima della fine del raccolto dell’anno in corso, e comunque di non prendere nessun impegno preciso riguardo a tempistica e modalità di rimpatri. Il rappresentante del Ministry of Agricolture avanzò tuttavia delle obiezioni relative al fatto che, per due tipi di raccolto – patate e barbabietola da zucchero - si sarebbe dovuto aspettare fino a dicembre, e quindi le operazioni non avrebbero potuto iniziare prima del 1946. Inoltre, come fu specificato nei giorni successivi, era presumibile che i primi ad essere rimpatriati non potevano essere stati i circa 30.000 italiani alloggiati e impiegati nei billets e divenuti, con il tempo, lavoratori esperti e difficilmente sostituibili. Del resto, - scrive la dott.ssa Insolvibile - le autorità italiane non erano ansiose di vedere tornare tutti insieme i prigionieri dispersi per il mondo. Si poneva, tuttavia, il problema delle elezioni, che prima o poi

1° foglio congedo di Mariano,17 agosto 1938 .

2° foglio congedo di Mariano, 2 giugno 1946.

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si sarebbero tenute e avrebbero dovuto prevedere la partecipazione dei prigionieri, la cui quantità era, nel 1945, talmente elevata da mettere a rischio la validità del voto nel caso in cui gli italiani ancora detenuti all’estero non avessero potuto prendervi parte (di tutto ciò gli inglesi ne erano perfettamente consapevoli). Anche se non è detto che i britannici avrebbero mantenuto la parola se in Italia si fosse votato prima del giugno 1946. Così, fino al mese di ottobre 1945 erano tornati dalla Gran Bretagna solo 4.761 prigionieri su un totale di 155-158.000. Per di più si concretizzavano le previste difficoltà nei trasporti. Verso la fine di ottobre fu reso noto che non ci sarebbe stato spazio per gli italiani sulle navi almeno fino al marzo 1946. Al 30 novembre 1945 risultavano rimpatriate dalla Gran Bretagna circa 6.300 persone. Alla fine, giunto il 2 giugno 1946, 260.000 italiani, di cui 38.000 ancora in Gran Bretagna, avrebbero mancato il primo appuntamento democratico nazionale dell’Italia post-fascista e repubblicana. Mariano, probabilmente perché non legato direttamente al lavoro dei campi, fu rimpatriato nel mese di marzo 1946. Egli giunse al porto di Napoli il 1° aprile 1946 e fu subito inviato al centro alloggi di Roma, dove arrivò l’indomani, il 2.4.1946. Il giorno successivo, il 3 aprile 1946 (come risulta dai documenti), Mariano si presentò al Distretto Militare di Perugia, dove venne trattenuto fino al 7 maggio per essere ricoverato nell’Ospedale Militare di Perugia per verificare lo stato di salute. L’indomani, l’8 maggio, fu dimesso e, il 2 giugno 1946, “collocato in congedo illimitato.”

Nozze d’oro di Mariano e Ida con le figlie Lucrezia e Marcella nel castello di Titignano, nel 1999..


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Giovanni Cappelli con la figlia Maria e la nipote Edvige Dietro Adele e il marito Franco Montanucci, Raffaella Montanucci e Marisa Cappelli; Assunta, Alessia e Maria Montanucci.

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Nozze d’oro di Mariano e Ida al centro della foto. Da sinistra in prima fila: Antonio Pazzaglia, Marcella Montanucci, Enrico Marchesini. In seconda fila da sinistra: Claudia Marchesini, Lucrezia Montanucci, Marta Marchesini, Silvio Pazzaglia, Giulio Falcone e Alessandro Pazzaglia.


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Piedicolle visto dai tetti di Collazzone.


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Dal quaderno di pensieri poetici lasciati da Luigia Montanucci, sorella di Mariano, abbiamo scelto la ode a Piedicolle.


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Santino della Madre del Buon Consiglio.

Santino della Pasqua del 1943 con dedica del cappellano militare di Zonderwater.

Santino del Divin Pastore.

Santino con la polvere della vite di Santa Rita.

Santino del Bambinello.

Santino del Santissimo Cuore di Gesù.

Alcuni dei santini che Mariano Montanucci conservava nel suo portafoglio

Santino con l’immagine della Madonna del’Acquasanta,1940.

Santino di Sant’Antonio da Padova (1892).

Santino di Santa Rita di Cascia (1933).

Santino della Pasqua 1943 ricevuto da Mariano a Zonderwater.

Santino della Fuga in Egitto.

Santino dell’Università Cattolica di Milano(1930).

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Annunziata Celesti e il marito Guido celesti.

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Marina Celesti

Regina Piancatelli

Giulia Celesti.

e il marito

Gustavo Pesci.

e il marito Ernesto Celesti.

Luigia Montanucci.

Nello Pesci.

Nazzareno Cappelli.

Giovanni Cappelli.


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Elenco di 300 (degli oltre 150.000) prigionieri italiani “ospiti” nel campo di concentramento inglese di Zonderwater (Sud Africa). N°

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61

Cognome

Abbagnato Abbenda Abbruzzese Alonzi Alonzi Anfuso Angioli Argentino Arignome Artioli Asara Attuoni Bacchio Baldassarri Baletta Barbagallo Barbaro Barbato Barcucci Basile Basile Bassi Battista Battistella Bece Bellini Benvegna Bergamaschi

Bertelli Berti Bertola Bianchi Biasoni Binetti Boccia Bonatti Bonzi Bosco Bosco Branci Brazzale Brazzoli Bressi (Brezic) Brunelli Bruno Busi Cabiddu Cafaro Caldarde Campa Campisi Campo Cannas Canzano Capasso Caputo Crapa Caravello Cargiulo Carnevale Carozza Carrasco

Nome

Carlo Pietro Giuseppe Giovanni Giuseppe G. Bruno B Angelo G. G. F. Domenico Giuseppe Pietro C. Sebastiano Michele Giuseppe Gaetano A. S. Dino P. Duilio F. Panfilo Antonino Giuseppe Celso Giuseppe Giuseppe Ettore Benvenuto Angelo T. Alberto Mario Bruno Tommaso Vincenzo V. Giovanni Enrico Salvino Francesco (Franco) G. M. I. D. G. Pietro G. Sebastiano Gioacchino Giuseppe

Aniello Rocco V. Giovanni A. Michele V. A.

Corpo e qualifica

Caporal Magg. del Genio Aeronautica a Squadra. Autoc. Soldato V.c.s.

Camicie Nere Soldato Soldato 1.btg.Eritrea Gen.Min. 1 Artigl. Contr. Vercelli Camicie Nere Div. 3 Gennaio Caporale Maggiore Bersagliere 12° Rgt. P.A.I. Camicia Nera Caporale Camicia Nera Soldato

Camicie Nere s.c. 201 Rgt.Artiglieria Soldato di Sanità 116a Fanteria Motoriz. 2° Rgt. Artigl. Celere Camicie Nere 81° Btg Ravenna 8° Rgt. Bersaglieri Ariete Sergente 5° Rgt. Art.

V° Bat. Carri M13/40 Camicie Nere, LXXXI Btg. Regia Marina 86° Legione C C N N Caporale F. Sergente Caporale Caporale Maggiore Caporale Maggiore Soldato Sergente Cor. Automob. Soldato 2° Regg.Fanteria D’Africa Marò Della Regia Marina

2° Btg. Genio d'Africa Artiglieria Soldato Reggimento Fanteria Me Bersagliere 16a Fanteria Savona Soldato Sergente

Data nascita

09/04/1912 01/08/1917 12/02/1912 10/06/1908 05/09/1913

03/10/1919 18/10/1908 14/05/1012 18/10/1913 02/02/1915 24/01/1920 17/08/1917

27/10/1916 07/08/1916 25/03/1914 29/10/1919 05/08/1916

07/01/1920 29/03/1917 12/07/1910 03/09/1917 06/12/1911 27/12/1911 02/05/1912

02/11/1916

08/02/1917 12/01/1912 25/09/1917 02/08/1908 14/10/1918

31/03/1914

26/08/1920

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Carrese Caruso Castagna Celin Cerone Chelotti Chiaretti Chieffo Ciancone Cinelli Cistercienze Clerici Codroni Colasanti Commella Corazza Corbo Cosentino Cozzolino Criscuolo Crusca Cugno Cugnod Cuzzilla D'alto D’Aniello De Ambrosis De Amicis De Angelis De Barba De Luca De Lucia De Manzini De Martino De Michele De Rosa De Sena Deidda Del Ben Del Gallo Delia Derdalo Di Bernardo Di Grazia Di Natale Di Torio Ermini Esposito Faedo Fattori Fava Ferrara Figliuzzi Fiordispina Fiorillo Fontanot Formenti Fossati Fulino Gaglianese Gallotti Gambaccini Gambucci Ganora Garrafa Gazzini Gentilini

L. Arturo Rodolfo Giuseppe Antonio Cafiero Alfonso R. Paolo Nazzareno L. Mario F. F. G. Giuseppe Pasquale F. A. G. Giovanni Antonino A. A. A. Antonio Pietro Venanzio Antonio Pasquale Antonio F. Paolo P. Rocco Giuseppe Domenico F. Bellus A. Pietro M. P. B. G. F. Reginaldo (Rinaldo) A. Alessandro Dino Giuseppe Vincenzo Vincenzo Nunziato G. A. Luigi Angelo Felice P. F. Enrico Marcello G. Guido Emilio Mario A.

Sergente Maggiore Btg.Razza Camicie Nere

Fanteria Corazzata Vicenza 204° Battaglione Genio

Sergente 12° Regg. Art. Ippotrainata

10/05/1907 02/10/1915 07/06/1915 04/11/1919 11/11/1919

Soldato Bersaglieri Soldato Soldato Soldato Artiglieria Artiglieria Div. Sabratha Soldato Soldato Marina

18/11/1914 03/01/1920

Soldato Soldato Caporale

07/12/1920

Aviazione 158° Fanteria 63° Div. Cirene P.A.I. Esercito Sergente Magg. Artigl Soldato 47° Battaglione Coloniale Soldato

Soldato 4° Regg. Carristi Caporale 10° Regg.Savoia Soldato Soldato Soldato Soldato di Fanteria Caporale Maggiore Soldato Aviere Sergente Maggiore Soldato Genio Soldato Genio Bersaglieri Cannoniere

Soldato Soldato Sergente Maggiore Div. Ariete

15/05/1914 24/09/1917 03/02/1920

11/12/1916 11/10/1919 26/06/1918 19/02/1904 17/07/1912 05/11/1913 04/07/1912

02/03/1918

30/03/1916

23/11/1908

13/03/1911 13/03/1915 23/03/1915 27/01/1919 18/04/1920

Carrista Div. Littorio Soldato Soldato 11/07/1920 Sergente Magg. Genio Raditelo. Marina Militare Soldato 02/04/1911 Regia Aeronautica Divisione Gen. Pralormo Sergente

23/10/1916 01/02/1920


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129 130 131 132 133 134 135 136 137 138 139 140 141 142 143 144 145 146 147 148 149 150 151 152 153 154 155 156 157 158 159 160 161 162 163 164 165 166 167 168 169 170 171 172 173 174 175 176 177 178 179 180 181 182 183 184 185 186 187 188 189 190 191 192 193 194 195

Gerolomino Ghiselli Giacchetti Giacobazzi Giantomaso Giovini Giuffre Giulioni Golfieri Granello Grasso Greco Greco Greco Grillo Grossi Guarienti Gullotta La Luna La Tena Lanconelli Liati Libratti Litterio Lo Cicero Lolfene Longarato Luccaroni Luperini Luraschi Magnanini Malgarini Mammi Mammoliti Marchese Marciano Mariani Marinelli Marino Marinoni Marizzoli Marolato Maronese Martinelli Martinenghi Martini Mattazzi Mattia Mattucci Meneghini Menon Messana Micalizzi Miccoli Miele Miggian Minenza Minopoli Mirabelli Missere Montoneri F. Montanucci Monti Mora Narcisi Natale Natali

Pasquale Alfredo A. Luigi Umberto Giuseppe V. Trentino Guido Guido G. Cosimo Giuseppe P. M. N. A. Gaetano N. A. Delfino Angelo Sabbatino Arvaldino Antonio Emilio V. Vittorio Sante Osvaldo Carlo Ivo (Renzo ?) F. Otello Giacomo Gaetano R. Francesco Cesare Salvatore ? R. Pietro Giuseppe G. Nino Dante G. D. A. Q. L. Leonardo Domenico Antonio V. S. Pasquale Luigi Giuseppe Angelo Mariano Vittorio Gennaro Pietro D. Gino

14° Battaglione Camicie Nere Art. Sabauda Libia Soldato 132° Regg. Artiglieria Camicia Nera 14° Btg. Cc Nn Mobilitato Soldato 42° Reggimento Artiglieria 1° Regg. Bersaglieri Napoli Artiglieria Soldato 20° Reggimento Art. Camicia Nera s. Vice Capo Squadra Soldato Sergente Maggiore Marò scelto Regia Marina Caporale Maggiore Caporale Maggiore 66° Regg. Fant Motorizzata

Fanteria 201° Btg. Misto Genio Sottotenente Camicia Nera 8° Regg. Bersaglieri Fanteria 81° Btg. Marconista

Caporale 62° Regg. Fanteria Trento Soldato Marina S.

60° Regg. Art. Grana Savoia 22ma Comp. Marconisti Marinaio 8° Bersaglieri, Div Ariete 27° Fanteria Soldato 1a Div. Camicie Nere Aviere Soldato Soldato Caporale Maggiore Soldato Regia Marina Soldato Soldato

14/05/1910

15/07/1909 19/05/1919

04/11/1914 24/07/1905 27/05/1910 19/07/1916 15/02/1911 26/01/1920 25/11/1916

15/01/1920 18/08/1918 26/03/1915 19/11/1917 06/10/1917 28/04/1917 05/02/1913 18/10/1920

14/09/1917 09/10/1898

11/03/1916 28/11/1907 02/12/1913 20/04/1914 15/04/1921 27/09/1914

21/12/1914 09/10/1913

18/12/1920 116° Regg. Fant. aramaica Soldato 12/11/1913 Artigl. Catanzaro Sez. Oltremare 21/04/1917 Soldato D'artiglieria 21/04/1916 Ragrup. Guardia Frontiera 22/05/1917 Soldato 01/01/1906 V. C. Squadra 44° Btg Ccnn. 01/03/1919

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196 197 198 199 200 201 202 203 204 205 206 207 208 209 210 211 212 213 214 215 216 217 217b 218 219 220 221 222 223 224 225 226 227 228 229 230 231 232 233 234 235 236 237 238 239 240 241 242 243 244 245 246 247 248 249 250 251 252 253 254 255 256 257 258 259 260 261

Nencini Ugo Niccolai D. Niccolucci Alfio O Alfo Noccioli Roberto Odoardi Fileno Oppi Orazio Opulente Vincenzo Orsini Tommaso Osti Pio Palumbo Aniello Pantano Giuseppe Paoletti Natale Paolucci N. Paone Francesco Papagni Amedeo Papini Giusto Parmeggiani Edgardo Parroncini Osvaldo Pasini Paolo Pasteris Rodolfo Pederzoli Luigi Pedrazzoli Bruno Pesci Gustavo Peli Ezio Pepe Antonio F. Perri P. Piergentili Idreno Pinna Efisio Pizzi Leo Porta Davide Privitera Carmelo Proietti Mattia Domenico Prola Domenico Pulvirenti Alfredo Raducci Antonio Raffa Francesco Raffi Antonio Ragazzoni (Reguzzoni)Renato Resasco (Gabbiani) Renato Resta N. Riboldi Giovanni Ricco Andremo Ricco Fortunato Roccoli Giulio Romanelli Guerrino Romani Ruggero Romanucci L. Rondin Antonio Rosati N. Rosmino Fiorindo Rossetti L. Rossi Mariano (o Mario) Rossoni G. Rubino G. Sabato Vito Filippo Sabini A Salvo V. Santarossa B. Santoro Fernando Sanzaro Gaetano Savio Luigi Scaramello G. Sciampi Cesare Scillia Pietro Scocchi /skok Giovanni /ivan Scola G. Seguirini Edoardo

Regia Marina Italiana Soldato Autiere (g.a.f.)

20/12/1913

Serg. Magg. Ariete Regg Camicie Nere

16/06/1918 05/11/1919

Lx Btg Carri Leggeri

Carabinieri Reali

Soldato Sergente Fanteria Serg. 62° Rgt. Fant. 157°reg.Fanteria"cirene"

18/10/1920

08/10/1916 28/04/1902 10/12/1910 08/11/1916

01/10/1918 16/01/1915

Genio Pontieri Piacenza Serg. Magg. Fanteria Serg. Div. Littorio Novara Soldato Guardia Scelta (P.A.I.)

29/10/1915 21/06/1909

12° Rgt.artiglieria Genio Minatori Div. Ariete 8° Bersaglieri

02/04/1913 07/08/1919 13/11/1918 19/02/1919

Caporale Maggiore

Sergente Di Artiglieria Genio Esercito Italiano

Capti. Arnaout. Nord Btg. Alpini Uork Amba Artiglieria Contraerei Camicie Nere 38° Rgt. Fant. Anticarro Div. Ariete - Porta Feriti 26° Rgt. CC.NN 1^ Aviere Areonautica 1 Aviere

Sottotenente Areonautica Soldato Genio Idrico Caporale Soldato Soldato Soldato Caporale Maggiore 2° Btg. Genio Spec. Autiere Marina Sergente Maggiore

2° Autoragrup/te A.o Camicie Nere s. 81° Battaglione

30/06/1914

19/07/1920 24/11/1908 06/01/1920 29/06/1914 03/02/1916

13/04/1920 06/01/1920 28/01/1901 06/05/1920 27/06/1918 06/02/1902 21/12/1912 27/05/1908 04/02/1914 28/11/1914 23/03/1919 22/01/1911 13/12/1899

11/07/1909

01/09/1913


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262 263 264 265 266 267 268 269 270 271 272 273 274 275 276 277 278 279 280 281 282 283 284 285 286 287 288 289 290 291 292 293 294 295 296 297 298 299 300

Sensini Sergi Signore Signore Sisto Sisto Soma Sorato Spada Spavento Stella Suriano Taccari Taddei Taricco Terrarella Testino Tiberio Toccarelli Tonella Tonon Traina Trento Triccoli Trovanelli Vadi Varangelli Ventura Ventura Venuta Verga Vignolini Villa Vitale Vitale Zamburro Zanchi Zanti Zeni

* Giuseppe Vincenzo Vincenzo Francesco Francesco F. * Guerrino Mario Andrea L. Vittorio Cesare Vincenzo A. G. Vittorio Luigi A. G. C. G. Ezio Vincenzo Basilio Salvatore Enzo Trento G. Alberto Siro Edoardo A. Mario A. B. G. Vittorio Emanuele

Regia Marina Italiana 12/12/1913 Caporale

Camicia Nera

4° Rgt Artiglieria Soldato

45° Rgt. Art. Cirene 10° Rgt. Granat. Savoia Soldato Caporale 30° Rgt. Fant G.a.f. Camicie Nere Caporale Maggiore Soldato Camicie Nere

Tenente 2° Autor. Manovra Aeronautica

IV° Reggimento Carristi Soldato Btg. Corazz. Babini 21° Rgt. Artiglieria Fanteria Caporale Maggiore Regia Marina Soldato Camicie Nere v. Soldato

16/06/1913 14/12/1918 02/08/1915 26/06/1913 23/03/1920

13/02/1915 24/01/1921

04/11/1918

11/04/1920 02/02/1917 31/05/1915 28/04/1914 21.04.1913

97


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Indice Parte prima IL WOPS DI PIEDICOLLE Mariano: il Wops di Piedicolle La famiglia di Mariano La vita contadina La vita sociale e familiare Tradizione e fede

Parte seconda LA GUERRA E LA PRIGIONIA Mariano richiamato alle armi per la Guerra dell’Africa Orientale Operazione “Compass” La battaglia di Bardia e la cattura di Mariano La prigionia a Zonderwater Da Zonderwater a Manchester Finalmente il rimpatrio Elenco di 300 prigionier a Zonderwater

Pag. 7 pag. 9 pag. 21 pag. 31 pag. 35

pag. 50 pag. 59 pag. 64 pag. 70 pag. 75 pag. 86 pag. 97


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Bibliografia

- “Wops. I prigionieri italiani in Gran Bretagna (1941-1946)”, di Isabella In solvibile, editore: Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2012. - “Collazzone e il suo territorio ieri e oggi”, AA.VV., Ed. Colophon, Montedit, Arti Grafiche Bianca e Volta, Truccazzano (MI), 1996. - “La miniera della memoria”, ed. Comune di Collazzone, AA.VV., stampa Grilligraf, Collazzone, 2003.

Intervista televisiva a Giacomo Buttò, VTC (VideoTeleCarnia) del 20.11.2014. http://it.wikipedia.org/wiki/Triticum. http://www.cortonaweb.net/it/tradizioni/civilta-contadina/13-raccoltagrano-frumento-cortona. http://www.umbrialeft.it/node/3449. http://www.anpibevagna.nelsito.it/La-resistenza-in-Umbria-p7.html. http://it.wikipedia.org/wiki/Africa_settentrionale_italiana. http://it.wikipedia.org/wiki/Campaghttp://it. http://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Bardiana_del_Nordafrica. http://it.wikipedia.org/wiki/Crimini_di_guerra_italiani. http://www.controstoria.it/italia-in-guerra/guerra-in-africa.html. http://it.wikipedia.org/wiki/Campagna_del_Nordafrica. http://it.wikipedia.org/wiki/Italo_Balbo. http://it.wikipedia.org/wiki/Libia_italiana. http://www.marsciano7.it/notizie/337_17_giugno_1944_marsciano_venne_liberata.html. http://www.biblioteche.regioneumbria.eu/default.aspx?IDCont=200206. Iconografia

Le fotografie sono state fornite da Marisa Cappelli, Giancarlo Cappelli, Domenica Celesti, Assunta Montanucci e Nevia Caputo. Alcune fotografie sono tratte dai siti: Vitoronzo Pastore http://www.pastorevito.it/posta-militare-19401945/corr-prigionieri-2/98-dal-campo-di-zonderwater.html; httpww.collevalenza.it Note Storia.asp; http://it.wikipedia.org/wiki/Campo_di_internamento_di_Zonderwater; http://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Bardia;http://www.corriere.it/unitaitalia 150/11_agosto_23/romano-battaglia-tripoli-italia_c51ced62-cd8c 11e0-8914-d32bd7027ea8.shtml; http://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Bardia, Zonderwater Prisoner of War Museum – South Africa; www.casimages.com/img.php?i=121212111013923323.jpg" title="upload image", http://mospalazzolo.it/2012/05/15/attestato-di-benemerenza-alsignor-giulio-volpi/; http://www.gettyimages.it/detail/illustrazione/portrait-of-jacopo-de-benedetti-called-jacopone-da-todi-grafica-stock/109267333. la foto del Conte Bennicelli è tratta dal libro Collazzone e il suo territorio ieri e oggi; rivista Mensile “Vita in CampagnaN° 6 Giugno 2012 Ed. L’Informatore Agrario Verona. Foto pag. 25; foto della miniera è tratta dal libro: La miniera della memoria. Le foto di famiglia sono di Lucrezia e Marcella Montanucci. Le foto panoramiche e altre attuali sono dell’autore.


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