Numero 11

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NUMERO XI- GENNAIO/FEBBRAIO 2013

Ecco a voi, o Lettori, il primo numero di questo nuovo anno. Abbiamo buone notizie per i nostri estimatori (meno buone, invece, per chi ci biasima): l'associazione culturale Charta Sporca, che edita questo periodico, ha ottenuto dall’Università, per il 2013, i fondi necessari alla stampa del giornale; riusciremo, inoltre, ad aumentare la tiratura fino a 750 copie per numero. Ma la nostra attività non finirà qui: abbiamo in mente di organizzare, dato il successo riscontrato lo scorso anno in iniziative simili, una serie di conferenze d’ambito culturale in cui la presenza di personalità affermate venga accompagnata e alternata da interventi di giovani studenti (e non). Proprio in questi giorni stiamo componendo il calendario degli appuntamenti, purtroppo non siamo ancora in grado di fornirvi delle date precise, ad ogni modo vi terremo costantemente aggiornati sia su queste pagine che sul nostro sito internet. Buona lettura!

“Scendere in campo” o “salire in politica”... “prestarsi” o “impegnarsi”…è questo il dilemma che ci porterà fino alle urne, in quella angusta cabina dove hanno cacciato la democrazia. Nel frattempo la Politica, quella con la P maiuscola, quella con centinaia di liste, simboli, facce (nuove), parole d’ordine, ha ripreso a macinare discorsi, ad offrirci visioni del mondo. Si, è vero, c’è la crisi, la sobrietà è d’obbligo, ma poi… poi è arrivata Lei. No, non la democrazia, quella è mimetica, si nasconde, ma la legge del mercato (o della televisione, che poi è la stessa cosa). E la legge del mercato sono enormi monopoli nazionali: si compra, si vende, si contratta e, se capiti nel posto sbagliato, ti spennano. Maxi formato famiglia a destra, convenienza e qualità a sinistra, soddisfatto o rimborsato al centro. Sono i saldi di fine stagione, è la Politica impegnata a svendersi in tristi e povere prestazioni, a caccia di voti (i vostri). Ai grandi magazzini della Repubblica Italiana si vende di tutto e noi, popolo di bocca buona, ci facciamo andare bene qualsiasi cosa. Non vi appesantiremo ancora con prolissi discorsi sulle prossime elezioni, che infarciscono tv e giornali. Vi daremo solo un consiglio: attenzione, il terreno è scivoloso, basta un passo distratto e…ssvvtt, vi trovate con il culo per terra. Capito lo scivolo?

I


Antonio Porta, provocatore di forme di Giuseppe Nava

«Non mi sono mai appagato di una forma, ho sempre cercato di provocarne molte». Così Antonio Porta nel libro Nel fare poesia, volume del 1985 in cui l’autore milanese raccoglie alcuni testi dalla sua produzione, iniziata quasi trent’anni prima, spiegandone i motivi, le tecniche, i contesti. Un proposito, quello della ricerca di forme, a cui Porta è sempre rimasto saldamente fedele, fin dagli esordi che lo hanno visto protagonista della stagione della neoavanguardia insieme a Balestrini, Sanguineti, Pagliarani e Giuliani. La critica è concorde nel riconoscergli una “marcia in più” rispetto agli altri, proprio in virtù di questo fervore di ricerca, che trascende lo sperimentalismo tout court per approdare a sempre nuove soluzioni espressive, riflesso formale di una posizione sempre critica e mai soddisfatta nei confronti della realtà. Sempre in Nel fare poesia si legge: «a me interessava, e interessa, solo la pars construens, la ricerca di una forma radicata in ciò che io ero e sono e posso diventare nella e per mezzo della poesia, nel fare poesia, trasformandomi per intero nell’opera, l’unica che conta». Negli anni ’60 e ’70 questo fare porta a esiti differenti, ma riconducibili ad alcuni punti fermi. In primis il rifiuto dell’io lirico tipico dell’ermetismo a favore di una prospettiva orizzontale, comunitaria, che denuncia una presa di posizione della poesia in senso civile e politico. Quindi un rapporto conflittuale con la realtà, la volontà di lavorare sulle dinamiche distorte del potere e su come queste agiscono nella società. Secondo Mengaldo, rispetto agli altri neoavanguardisti, in Porta «il sabotaggio dei meccanismi linguistici […] avviene […] dove le frasi dovrebbero combinarsi in discorso». Là dove gli esiti di altri poeti sperimentali raggiungono facilmente l’assenza di senso, Porta «offre piuttosto spezzoni, escrescenze di senso lacerate via drammaticamente dalla facciata del reale». Sanguineti invece sottolinea «l’alta percentuale di ambiguità rilevabile nel narrato di Porta». I procedimenti stilistici riflettono in vari modi queste posizioni: il poeta lavora per accumulo, un incedere singhiozzante e nervoso. Ma nonostante spesso si possa riconoscere una tendenza narrativa, questo incedere si blocca, si avvita su se stesso senza soluzione, perché è impossibile trovare una relazione

di senso unitaria e sovraordinata. Per esempio in Aprire (in I rapporti): «Dietro la porta nulla, dietro la tenda, / l’impronta impressa sulla parete, sotto, / l’auto, la finestra, si ferma, dietro la tenda / un vento che la scuote, sul soffitto nero / una macchia più scura, impronta della mano, / alzandosi si è appoggiato, nulla, premendo, / un fazzoletto di seta, il lampadario oscilla, / un nodo, la luce, macchia d’inchiostro, […]». Il martellamento ritmico è una costante, come se attraverso di esso Porta volesse davvero martellare il reale, mostrarne le crepe, le incrinature: è il caso di Come se fosse un ritmo (in Cara), dove il male, le sue azioni, spuntano a tratti nell’elenco monocorde di atti “normali”, a sottolineare quella che Hannah Arendt ha chiamato “la banalità del male”. Negli anni ’70, soprattutto nella raccolta Week-end, la ricerca portiana si orienta in due sensi. Da un lato abbiamo la creazione di personaggi emblematici (il passeggero, il nomade, il servo) attorno a cui costruire l’impianto poematico («l’opera, l’unica che conta», cfr. più sopra – anche se qui non ancora in modo sistematico come sarà nel decennio successivo). Dall’altro l’emergere di due polarità, di una dicotomia che ha origine ideologica e che si traduce stilisticamente in strutture binarie: dagli esempi estremi di Rimario (più che una poesia, una raccolta di materiali: «vergine / margine // luccica / stuzzica // profitto / conflitto») alla rappresentazione della ripetitività dei gesti umani, come un “uno-due-uno-due” che nasce dall’insensata violenza dei rapporti di potere (riconducibili, ai tempi, ai meccanismi di produzione, e che oggi accosterei anche ai meccanismi di consumo): «allora io esco e l’altro muove il capo / io muovo il capo / e l’altro alza le braccia e io / alzo le braccia si sie-

de e io / mi siedo così di continuo / e l’altro come gli altri / e poi tutti insieme ci alziamo e ci sediamo» (da Morte come vita). A partire dalla fine degli anni ‘70 Porta cambia nuovamente le direzioni del suo fare, e ci spiega uno dei motivi in Nel fare poesia: «Le composizioni che ho chiamato quasi subito “brevi lettere” sono nate da un’esigenza non rinviabile: la richiesta dei miei primi due figli (che nel 1976 avevano rispettivamente 17 e 18 anni) di comunicare per mezzo delle mie poesie che fino a quel momento erano sembrate loro troppo chiuse, troppo da interpretare». Porta introduce qui uno degli intenti che sarà dominante nel suo lavoro culturale fino alla morte (nel 1989), ovvero il recupero di una dimensione comunicativa della poesia in opposizione alle derive, in senso neoorfico o neo-avanguardista, di molta p o e s i a di quegli anni. Abbiamo quindi queste Brevi lettere (raccolte in L’aria della fine), ispirate da fatti di cronaca o da eventi personali, che per stessa ammissione dell’autore rischiano la didascalia, ma che sono animate dal «progetto di dare forma alla comunicazione». Senza perdere però il piglio secco e concreto dei suoi testi precedenti: «mi dici che hanno pubblicato la foto della ragazza / sprangata soffocata annegata e prima violentata / coi cazzi coi manici delle scope che ora giace / ai piedi dell’auto dove è stata rinchiusa / […] / che ora giace ancora una volta denudata contro la sua volontà / se lo hai voluto dire che c’è questa foto vuoi chiedere / e (io) dico che è come ripeterla questa violenza / moltiplicata in quattrocentomila copie e in due / milioni di occhi e in più ogni volta che si prende in mano / il giornale per riguardarla…». La produzione portiana degli anni ’80 viene da qualcuno accostata

II

alla lirica; Cucchi parla di un «recupero di vitalità poetica» nelle raccolte Passi passaggi e Invasioni, densa e corposa la prima quanto la seconda è scarna ed essenziale (ispirata, in tempi non sospetti, dagli haiku giapponesi). In Passi passaggi possiamo leggere questa poesia, ultima di un trittico dedicato al fratello morto: «fratello, ti vedo trasformato in lumaca / gli occhi sopra le antenne / esci dal sottobosco e le foglie non ti proteggono più / sei senza guscio e i merli ti dànno la caccia / dalla bocca socchiusa ti esce solo una bava / gli occhi già gonfi si stanno dilatando / è il tuo segnale: aiutami / io non posso». Ma l’opposizione lirica/sperimentazione è già ampiamente superata da Porta in virtù del suo progetto comunicativo. La sua visione del mondo non si è fatta più accomodante; né il linguaggio ha perso la sua caratteristica “povertà”, come ebbe a definirla Giuliani. Né tantomeno l’io ha assunto una posizione centrale: da voce di una comunità è diventato invece elemento consapevolmente laterale e provvisorio di un tutto, di una realtà che si costruisce senza sosta, traducendosi stilisticamente nel prevalere dell’immagine, soprattutto in Invasioni. Da qui gli slanci che ancora Cucchi definisce di «adesione all’esistere», «sovrabbondanza della luce vitale». L’esempio più rappresentativo è il poemetto Airone, che chiude la raccolta Il giardiniere contro il becchino, l’ultima pubblicata in vita: «quando non ci sarai più né io / sarò più con te / insieme sciolti nelle acque / un altro airone, un altro sguardo / altre parole simili a queste / e chi continuerà a parlarti / ci sarà non io / e il pensiero non mi dà tristezza né gioia / ma quiete, soltanto, felicità del limite / […] / vivere un intero mattino, / questo è un risultato, / la mia lingua batte su questo mattino, / voi stelle estranee siete dove siete / io rimango al di qua / in preda al vento». Questa inesauribile ricerca, questo continuo esplorare le possibilità della parola, è il riflesso di una ricerca ben più grande, ovvero capire cosa è la poesia. E Porta, in Nel fare poesia, ne dà molteplici definizioni, insieme uguali e contrastanti, influenzato dai diversi risultati del suo lavoro. Una risposta univoca non c’è? Forse non ci deve essere. Perché la poesia non dà risposte: «la poesia domanda».


Ripensare al conflitto. Oltre il terrore del “Terrore” di Davide Pittioni (davide_pit@hotmail.it) Tre momenti nella storia moderna e contemporanea hanno dato un contributo decisivo alla definizione dei diritti dell’uomo. La Dichiarazione di indipendenza americana, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, la Dichiarazione universale dei diritti umani. Tutte dichiarazioni, dove “si dichiara”, cioè formule giuridiche strettamente legate alle funzioni della sovranità: è il sovrano che dichiara. In questo senso il valore dei diritti umani è ciò che fonda la nuova sovranità, ma anche il risultato, l’effetto, della sanzione della sovranità. Un paradosso che risiede nel cuore stesso della sovranità. Un cortocircuito tra la funzione e la rappresentazione della figura del sovrano. Prendiamo la Dichiarazione di indipendenza americana. Sì, proprio la carta fondamentale di quella che, una volta esaurite le terre (immense per l’epoca) del Nord America, diventerà la potenza imperialista per eccellenza (gli sporchi yankees avevano anche un bambino nell’acqua sporca). La dichiarazione si apre con un paradosso: “noi riteniamo di per sé evidenti le seguenti verità”. Ma come, si potrà obiettare, se le verità (leggi diritti umani) sono di “per sé” (badare, non in sé) evidenti, perché c’è stato il bisogno di dichiararle esplicitamente? Semplicemente, ma è un problema mica da poco, perché non erano garantite, erano oscurate da un potere sovrano, la corona britannica, che le soffocava. È per questo motivo che le forme di pensiero del giusnaturalismo e del contrattualismo, le basi teoriche delle rivoluzioni settecentesche, furono costrette a recuperare una dimensione originaria, lo stato di natura, in cui si mostrassero nella loro

evidenza i diritti inalienabili dell’uomo. A partire da questa fondazione extragiuridica (o meglio pregiuridica) è possibile sviluppare una critica al potere sovrano, si può giudicare e condannare, di fronte al tribunale della ragione, un sovrano assoluto. Come mette in luce John Rawls, non è necessario che lo stato di natura si sia verificato storicamente, che sia effettivamente la condizione naturale da cui prende avvio la società, perché lo stato di natura può essere pensato come condizione

re una dichiarazione. La fondazione di un nuovo diritto si autogiustifica condensandosi nella dichiarazione. Il discorso giusnaturalista – che nella rivoluzione americana, poi francese, ha giocato un ruolo decisivo e prevalentemente progressivo (e ma Robespierre? E la ghigliottina? E Bush padre? Bush figlio?) – può però diventare un poderoso equivoco. Rischia di diventare verità a-storica, momento fondante ed immutabile della civiltà. E ciò non riguarda solo lo stato di

tualista. Ciò che viene rimosso è la condizione materiale del diritto: il conflitto. Non si dà diritto senza conflitto. Questa è la lezione, tuttora insuperata, di Hobbes.

del contratto: non è mai tematizzato, sembra un fantasma che aleggia nel pensiero contrattualista minacciando continuamente la pace sociale e lo status quo.

Potremmo definire il pensiero di Hobbes lo svelamento del discorso contrattualista: in Hobbes tutto avviene alla luce del sole. Il conflitto (lo stato di guerra) porta gli uomini ad unirsi nel contratto perché possano godere della pace e della sicurezza sociale: per eliminare, cioè, il conflitto. Il dirit-

mentale in cui immaginare, attraverso procedure neutrali (lo sono veramente?), i diritti e i principî di giustizia che dovrebbero governare la società. Si tratta quindi di un artificio retorico, di una strategia discorsiva che permette ai coloni americani di “sganciarsi” dalla nazione britannica per rifondare una società che tuteli le “evidenze della ragione”. Tornando al paradosso della sovranità, grazie all’apparato concettuale giusnaturalista, la dichiarazione ha una funzione retroattiva: dichiaro i diritti che mi permettono di emana-

natura del pensiero contrattualista, l’antecedenza cronologica della stato naturale, ma anche il neo contrattualismo di Rawls che, pur considerando la situazione originaria come un esperimento mentale, è costretto a universalizzare la Ragione (fondamentalmente Rawls è un illuminista), rendendola quindi fonte di diritto e giustizia che attraversa immutata la storia. La ragione di Rawls è in definitiva sovrastorica, data una volta per tutte. È qui che avviene la rimozione che permette lo svilupparsi del pensiero giusnaturalista e contrat-

to naturale, che non ha consistenza perché privo di garanzie, deve essere sostituito dal diritto positivo del sovrano. Il diritto naturale, infatti, è una condizione valida solo nello stato di natura (affermazione non così tautologica come sembra, altrimenti non esisterebbe un pensiero liberale). Di nuovo, l’infelice coscienza del contrattualismo in Hobbes si confessa: il diritto naturale è una virtualità, ma non per questo priva di effetti. Per Locke e gli altri invece il conflitto resta latente, ricacciato continuamente sotto al tappeto dal richiamo

In tutto il pensiero contrattualista, da Hobbes a Rawls, l’obiettivo è risolvere la tensione verso la giustizia (che è un processo inclusivo che “apre” continuamente - attraverso il conflitto – le norme del diritto), definendo i diritti una volta per tutte: in Hobbes sciogliendo i vincoli del sovrano (il Leviathan) dal corpo sociale, nel pensiero liberale enfatizzando la funzione sociale dell’accordo tra gli uomini. Sia Hobbes che Locke restano però incapaci di problematizzare il tema del conflitto. Si fermano ad ammirare la grandezza della costituzioni formali, delle dichiarazioni, dei valori universali, ma non si rendono conto che all’interno del diritto si combatte una battaglia per la ridefinizione dei suoi termini e dei “soggetti” che ne sono coinvolti. Ovvero, che la società è costitutivamente attraversata da contraddizioni. Così nonostante le Dichiarazioni dei diritti siano scritte in termini volutamente universali, c’è sempre un fuori escluso dal diritto. Che sia per motivi di genere, condizioni sociali, inclinazioni sessuali, religione, o etnia.

III

L’autorappresentazione ideologica che una società esprime in una costituzione ideale mistifica la costituzione materiale che ne è alla base: a questo livello si trova un campo di forze attraversato da una serie di conflitti che producono e riproducono continuamente il diritto (in barba alla Bicamerale e alla pax sociale). È per questo che non può mai bastare una Dichiarazione. E che Robespierre ci fa così paura.


Compromesso ideale di Valentina Gaspardo

R

ecentemente mi sono trovata a discutere su questa affermazione: no bianco o nero, ma scendere a compromessi. È un discorso che funziona solo nella prima parte, ovvero quando si dice che non va bene scegliere uno dei due - come spesso si sottolinea d’uso comune nei ragazzi - e disprezzare l’altro tanto da volerlo escludere, cosa che peraltro mi pare impossibile. In questo modo non vai a essere bianco o nero, semplicemente isoli, e ti isoli da ciò che non ti piace (per quanto sia legittimo pensarlo), arrivi ad un atteggiamento negativo dal quale non arrivi alla soluzione, dunque nemmeno al bianco o al nero. Però lo scendere a compromessi non può e non deve essere fine ultimo “per sopravvivere”, deve essere momento. Altrimenti all’opposto non vuoi più il bianco o il nero, ma arrivi a negarli entrambi per accettare ciò che è dato. Esempio: io vado all’università perché ho un’aspettativa, perché voglio fare, perché voglio trovare espressione di queste mie aspettative (bianco o nero). Ci vado e non la trovo. Allora, se mi comportassi scegliendo nero o bianco penserei: io non

voglio scendere a compromessi, io non voglio avere nulla a che fare con questa situazione, e mi isolo da questa. Certo, si può fare. Ma resta il fatto che sono io ad averci perso in ogni caso, non arrivando comunque al bianco o al nero. E se le mie aspettative erano buone (quindi non hanno avuto alcun riscontro in ciò che era dato) e rinuncio ad esprimerle ci hanno perso anche gli altri. Quindi, in conclusione: io scendo a compromessi, non ne resto fuori: «il nostro intendimento si può realizzare e consentendo e dissentendo; ma queste non sono due possibilità parallele, delle quali possa realizzarsi or l’una o l’altra: esse piuttosto sono due possibilità coordinate e successive; una delle quali necessariamente dev’essere di grado all’altra. Il primo grado evidentemente è l’assentimento. E perciò si dice che prima di giudicare bisogna intendere; e la verità è che quando s’intende e non ancora si giudica, non si giudica bensì per riprovare, ma si giudica intanto, provvisoriamente, per consentire». Altrimenti «non è possibile aver nessuna intelligenza» perché «si badi, anche dentro all’anima nostra [...] possiamo trovare questa

sproporzione e incongruenza non pure tra l’anima nostra e le altre, ma anche tra l’anima nostra e la nostra anima stessa, o quello che fu anima nostra o che noi possiamo pensarne: quello che è uno stato nostro, non l’atto». Allora sì, ha ragione chi sosteneva la tesi iniziale del compromesso, ma non basta. Fermandoti al compromesso non sei “realista” e “oggettivo” come si crede, è semplicemente, a mio avviso, un porre il tuo ideale (che non può non esserci) a livello di ciò che è già dato. Cioè se così ti poni, il tuo ideale sarà quello di sopravvivere per mezzo di compromessi, perché schierandoti sul bianco o nero a priori, è vero, non sopravvivi. Quindi “abbassi” l’ideale verso cui naturalmente tendi (nel caso specifico, bianco o nero) per accettare il grigio. E qui sta l’errore, secondo me. Il compromesso dev’essere momento. Ma Gentile (nella “Teoria generale dello spirito come atto puro”) come al solito la dice bene: «La realtà può essere guardata con due occhi affatto diversi: con uno dei quali non si vede essa se non quello che è, con l’altro si vede quel che essa dev’essere. [...] Una concezione morale della vita

non s’adagia su tale distinzione di una realtà da instaurare e una realtà da effettuale da superare e correggere, anzi annientare nella sua immediatezza, se la distinzione non implica la superiorità dell’ideale sul reale». L’ideale è altrettanto reale del reale già dato, è il reale già dato «elevato a più alta potenza». Ed è così che questa visione “realistica” di quello che è già dato viene a cadere: credi tutto sia così e così debba essere, e non possa essere diversamente, e non può funzionare, sopravvivere non è sufficiente se non a livello meramente materiale. Io non amo l’università per come si presenta, non voglio scendere a compromessi per essere a mia volta un giorno un compromesso per qualcuno, voglio andare oltre e per andare oltre devo accettare quello che non mi piace. Si ama quello che corrisponde, o meglio tende, all’ideale, volere quella realizzazione dell’ideale e realizzarla perché altrimenti «Su questa via non può trovarsi se non la mancanza di ciò che si ama ed è degno perciò di essere amato. Si trova il difetto, il male, il brutto: ciò che non si amerà mai, perché, per definizione, è ciò che invece si odia».

Fort da

di Matteo Mascarin

È

una giornata di fine ottobre e, come al solito, fuori piove e io non ho l’ombrello. Arrivo in aula molto presto e molto fradicio. Si sente nell’aria che è un giorno particolare, e ho infatti già intravisto un cameraman Rai con una videocamera del 1492. Lui deve essere un po’ più tardo, di poco però. Mi scolo velocemente due caffè Illy dalla macchinetta automatica, e inizio ad aspettare. Piano piano cominciano ad arrivare i primi personaggi con un sorriso baldanzoso in faccia. Io intanto prendo posto, e faccio bene perché in venti minuti la stanza si riempie di gente. C’è grande euforia nell’aria. I presenti si scambiano sguardi ammiccanti, sorrisi più o meno sinceri, strette di mano circostanziali. Mi sarei aspettato di vedere più facce giovani, o forse ci sono, anzi, i giovani intellettuali barbuti sui quaranta, ci sono eccome. Ad un tratto ecco spuntare i pezzi grossi, i docenti che contano, uno di loro si siede proprio accanto a me e non posso negare di sentire un lieve piacere per questo. Quando poi l’aula si è riempita come un uovo sodo, ecco che entra lui, l’eminente studioso, colui per il quale siamo tutti qui riuniti. La preside di facoltà, con cappotto rosso, introduce la lezione intitolata “Filosofia e scrittura”. Non si dilunga troppo in discorsi inutili: pronti, via!

Ricordo immediatamente di non essere filosofo, e di fare fatica a star dietro all’insigne professore e al suo specialistico eloquio. In soli dieci minuti ho già perso la metà dei nomi che vengono citati e allora mi guardo attorno. Per fortuna non sono l’unico a non capire un fico secco di ciò che sta dicendo il docente in cattedra, vedo pose scomposte, facce trasognate, occhi persi nel vuoto. Decido, grazie alla mia solita caparbietà mattutina, di prendere comunque qualche appunto, ed ecco cosa scrivo: “epoché”; “filosofia come stile di vita”; “tempo e racconto”; “Hegel: scrittura del pensiero”. Riguardo sconfortato le righe che ho appena buttato giù, e un po’ rimpiango di non essere rimasto nel mio letto caldo. Non riesco ad accontentarmi di essere qui solo per fare presenza; per timbrare il cartellino, farmi riprendere dalla telecamera e tornare a casa, assieme al 95% dei presenti, senza un arricchimento che mi ero onestamente aspettato da questa lectio magistralis. D’altronde, mi dico, queste cose funzionano così, è una sfilata, un narcisistico pro forma. Proprio quando ho ormai perso ogni reale speranza, ecco che l’eminente professore cattura la mia attenzione affermando: “Non c’è pensiero senza scrittura, essa è inevitabile per comprendere la filosofia. Essa inoltre non si concentra solo su un soggetto, ma quest’ultimo è sem-

IV

pre doppio o triplo (Marcel Proust). Quando scriviamo, non abbiamo padronanza assoluta di noi stessi, attuiamo un distanziamento: il soggetto, scrivendo, si allontana dalla propria soggettività”. EPIFANIA. E ancora: “Il filosofo deve cercare di inventare una lingua straniera, deve forzare i limiti del suo territorio”. EPIFANIA SECONDA. “Il rapporto tra filosofia e scrittura, tra soggetto e oggetto (o soggetto-soggetto), è il freudiano gioco del rocchetto: presenza e assenza. Fort (dal tedesco “via, lontano, partire”), e da (“ecco, qui”)”. COLPITO E AFFONDATO. In poche parole, non c’è distanziamento (fort) senza ritorno (da), la scrittura infatti è e deve essere un test per verificare la distanza da noi stessi. È grazie a questa dialettica di forze opposte che nasce il pensiero, la filosofia, l’arte. Casa non mancherà mai, se prima non la si abbandona. Non c’è felicità senza dolore, paura senza speranza. La lezione finisce, applausi scrosciano spontanei, i pensieri dei più tornano alle cose di ogni giorno, alle incombenze quotidiane. Velocemente schivo la folla ed esco dall’edificio universitario, la pioggia continua a cadere insistente e il mio cappotto, che avevo posato sul termosifone, torna a bagnarsi. “Fort da” penso. E non mi dà poi così fastidio quest’acqua.


Terza

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inserto letterario Era un barbone

Gaza 2012 Fischi da dietro il Muro scuotono il cielo azzurro.

E odorava di fabbriche scomparse, di ombre e radici prive di nazione. Gravemente ossidato dal suo genio tanto corroso da andare sul rosso. E le pieghe a grondaia che scendevano celando gocce timide di vita. E il puzzo fradicio e ferruginoso della sua barba scambiata per muschio. E quei sentieri storti ma piacevoli che percorreva, solo come un cane. Era un barbone per via del cappello insudiciato da vecchi pensieri. Era un barbone per via del silenzio che alle volte ruggiva nel suo ventre. E mentre ogni folgore festeggiò l’avvento di una notte spumeggiante io sentii un passo spoglio d’arroganza e vidi l’ombra del vecchio girovago invocare dal cielo qualche musa. Trillò la voce d’ogni sua disgrazia e si scoprì lo stesso che non era... un uomo ricco di ali e libertà, un uomo ricco di baci di rose, un uomo vivo senza essere stato un uomo morto senza avere avuto... felice e libero, infelice e solo.

Sono missili neri? No! ...col-pi-di-scu-re-nel-bur-ro... Lorenzo Natural

Bianco Amore La neve, le stelle, l’amore storie e dipinti così belli nel loro candore d’inverno e d’incanto. Tutto tace sotto il bianco regno dei bambini e delle speranze lievi al tocco degli innamorati. O mia bella principessa fai ora la tua mossa sorridi come le rose e sciogli questo cuore!

Mathias

Un cuore che vuole sentire il tuo canto e guardare le stelle accanto a te e la neve su di noi, amore. Andrea Franti

V


DICI? DICO. E quante cose ci insegnano, quante ci dicono che sono sbagliate, ma non ci spiegano il perché. Sono sbagliate e basta. Perché? Non lo so, tu lo sai? No? Nemmeno tu? Che ci stiamo a fare qui? Avanti il prossimo, così dice il dottore. Perché vai dal dottore? Stai male? No, mi piace respirare l’odore delle sale d’attesa. C’è quel qualcosa di indefinito che permea le pareti. Ci sono tutti i pensieri dei pazienti che aspettano di uscire. O forse non sono mai entrati, ma i loro piedi hanno attraversato quella soglia. Il mio corpo è qui ma la mia mente non si è mai alzata dal letto. Che diavolo dici? Non lo so, mi piace pensare di parlare di qualcosa blaterando sul niente. Tu sei pazzo. Dici? Può essere, altrimenti non starei a parlare davanti allo specchio del bagno. Credo di essere in bagno. C’è uno spazzolino, ma di solito non trovo mai nel posto giusto quello che lascio nel posto sbagliato. Forse non è una logica. Probabilmente non ha nessun senso stare qui a chiedersi perché. Perché non ha senso? Non lo so, ho cantato al karaoke ieri sera. Mi sono sentita stupida, ma non mi conosceva nessuno. Tutti cantavano a squarciagola la stessa canzone. Era come essere ad un concerto, essere l’artista che nessuno ha mai visto, ma di cui si sanno a memoria le canzoni. Mi sono sentita bene, forse viva, dopo tanto tempo. Quanto tempo? Puoi contarlo sulle dita? Non lo so, ho venti dita. Quanto ne vale uno? Non lo so, devi deciderlo tu. Di solito si ragiona per unità. Un dito, un anno dici? Sì, qualcosa del genere. Ah. Beh, di anni ne ho venti, come le mie dita. Dal prossimo anno potrò sentirmi più vecchia guardandomi i piedi. Sì, più o meno. Basta che abbiano lo smalto colorato. Perché? Perché ti da l’idea di essere una persona allegra. E se io non fossi allegra? Non lo so, non avevo mai considerato questa opzione. Come hai fatto a non pensarci? Si pensa sempre al rovescio della medaglia, alla zona d’ombra dietro il sole. È che ho gli occhiali scuri, per me è tutto uguale. Ma non è possibile, non prendermi in giro. Te lo giuro! Sono nato con gli occhiali io! Per quello non sono mai triste, perché non sono mai stato felice. Come fai a sapere che non sei triste se non hai mai provato ad essere felice? Non ho detto di non averci provato, ho detto che non so che cosa voglia dire esserlo. E non è la stessa cosa? No, non credo, sennò non staremmo qui a discuterne, non credi? Quello che credo io ha poca importanza. Perché ti svilisci in questa maniera? Sono stata abituata a non considerarmi. Sono frutto dei non-pensieri degli altri. Io e la negazione di me stessa facciamo a pugni ogni mattina. Io voglio scendere dal letto e lei mi tiene ancorata alle lenzuola, e viceversa. Non puoi mai sapere come sarà la giornata fino a che non ti alzi dal letto. Tu dici? Io dico. E qualcuno ha mai confutato questo tuo pensiero? Non l’ho mai proposto a nessuno. E come fai a dire che sia valido? Non l’ho detto. Sì che l’hai detto. Mi sarò espressa male. Dici? Dico. Come fai a dirlo? No, ti prego, non ricominciamo con questa storia. Quale storia? Quella del –dici? –dico –come fai a dirlo?. Ah, ho capito, ti da fastidio, scusa. No, non mi da fastidio ma metti sempre in dubbio quello che dico. Dici? Dico. Diciamo allora. Sì, concordo, diciamo. Almeno avremo sempre qualcosa da dire. Certo, sennò a quest’ora saremmo morti. Perché? Perché chi non dice più niente è morto. Può essere solo muto. Perché qualcuno dovrebbe diventare muto? Non lo so, forse perché ha finito le parole, forse perché non gli piaceva parlare. Perché non dovrebbe piacerti parlare? Non so, chiedilo al muto. Ma non può rispondermi. E allora scriviglielo. E se non sa leggere? Allora non ha mai imparato a parlare. Magari non ci vede nemmeno. Allora è una persona triste. Dici? Dico. Magari lui non la pensa così. Lui? Lui. Perché non lei? Non so, ho ragionato in termini di “essere umano”, non mi sono chiesta quale sesso avesse. Perché no? Non lo ritenevo importante. Magari per lui lo era. Lui? O lei, insomma. Vedi, anche tu non ti sei posto il problema. PostO? Non sei un maschio? Non lo so, posso essere qualunque cosa tu voglia. Allora non diamoci definizioni. Io sono nessuno. Come Ulisse? Una cosa del genere. Basta che non esci dalla caverna sotto una pecora. Perché? Perché non sai nasconderti. Non è vero. Sì che è vero, ti fai scoprire sempre. Forse perché voglio farmi scoprire. Oh, andiamo, chi vorrebbe farsi scoprire? Io. Non ti credo. Fai male. Ma va là. Stiamo parlando davvero di pecore? No, ho smesso qualche frase fa, tu hai continuato. No, tu hai parlato per metafore. Io parlo sempre per metafore. Perché? Perché mi fa sembrare intelligente. Ma sei intelligente. Oh, grazie, è il primo complimento che mi fai dopo tanto tempo. Tanto quanto? Non lo so, quante dita hai? Io venti, e tu? Anch’io venti. Direi dieci anni. Dieci? Forse sono troppi. Sì, hai ragione. Facciamo cinque? Facciamo cinque. Dici? Dico.

Elisa Kiraz VI


Lo sciopero delle Muse Gran subbuglio in Parnaso, le Muse oggi non lavorano e se ne stanno ad oziare sotto alberi fronzuti e rigogliosi. Maledizione per il poeta che impugna la penna e scuote il capo. Le puttane oggi non battono, niente canzoni, poesie, drammi, balletti oggi tutti a vagare con occhi vuoti imprecando. “Cantami oh Musa, ispirami oh Musa, oh Musa dove sei?” Ma le Muse oggi non si prestano facilmente, screzi sindacali si mormora, cassa integrazione per alcune si vocifera. E ora? Per quanto tempo staremo senza? E ce la faremo? C’era un tempo in cui fare l’amore con loro era cosa da poco Come un gioco. Poi è arrivata la chirurgia estetica e la cosmetica Poi sono arrivati i consumatori medi, i supermercati e le aperture domenicali. Calliope si sveglia al mattino con la sigaretta spenta Sul comodino. Barretta dietetica e pillola abortiva. È lei la diva Costa molto ma garantisce soddisfazione completa e tempestiva Con lei è sempre una cosa spinta e sporca Si veste e si sveste di marca. Roba seria. Da domani tutti a lavorare a sputare sangue Da domani niente più stronzate le Muse sono vecchie e sporche Hanno voglia di oziare Hanno voglia di dormire fino a tardi Ubriacarsi la sera e guardare tanta tivvù. Sit in alle pendici del Parnaso ci sono molti ficcanaso ma i più sono li perché realmente stupiti attoniti delusi. Al Ministero si parla già di provvedimenti disciplinari e di sospensioni cautelari Ma le Muse? Ove sono le Muse? Lo show deve continuare non ci si può fermare. Notizia dell’ultima ora: la pensione è anticipata E la cultura è costipata. Saremo tutti costretti a vivere nel grigio eterno Con il ricordo dell’amore che facevamo Dei vestiti ornati e dei visi puliti Delle pelli lisce e bianche e delle guance pallide Che si arrossiscono dolcemente col pensiero delicato Di un bacio rubato. Matteo Mascarin VII


15 Novembre 2012

(in una qualsiasi piazza d’Europa)

Chiaro che non verrà alle porte della Prefettura (picchiettata di luce alla Guardi in un memoriale d'estate) l'indizio della resa, né avverrà tanto meno una fantomatica presa e piovono sotto le arcate, sugli elmetti neri, sui visi recisi punte di carote come nasi di pagliacci che non sanno più ridere di sé. Sciamano ombre di rondini ventose nelle acque del canale che da qui passano e subito ripassano (stralci di un'estate un'estate dimentica che su tutto posi i fiati della Noia mansueta -) e una voce osa: “ma andate a lavorare!” in falsetto sapiente come da regola col berretto verde che si inclina e incrina le fugaci linee di prospettiva nel traffico incastrato, lasciate tacite le strade (vedi il silenzio semi notturno con uno scampolo di studenti alienati o un grappolo di lavoratori sul piede di una fermata al bar o talvolta tra amanti studenti e studenti allampanati fin troppo per la loro età che discutono degustare tabacchi vedi una coppia di invecchiati che anela - con il bene del loro solo nome ad una parte nel quadro, anch'ella). Schiamazzi si infilano alla svolta quando la processione avventa la meta i furgoni sciorinano canzoni e ritmi e inni disarticolanti ed è la frenesia la misura dello sciopero negli occhi di una studentessa con fiducia all'ultima moda.

Mentre un vigilante sta ai margini come il portinaio assordato dal bussare infernale (“I pray you: remember the porter!”) che farfugli i tre effetti del vino prima del fattaccio. Ma nessun fattaccio che insozzi stavolta d'inchiostro i quotidiani in deliquio né si da pace la marionetta dell'uccellaccio di legno che batte e ribatte il becco ripetendo un secco bla bla bla. I volti alla televisione sogghignano composti ed è il solito politicante con la parola pronta come una fetta di torta avvolta per la sera a distogliere il paese dalle ansie. A nulla vale - come corollario lo sprizzare di buccia d'agrumo nel campo ammutolito di luce e dal passaggio di un cavallo discolo a brucare le foglie degli aranceti oppure una guardata al lago di S.Lucia con i lavoratori attorno a cogliere olive riguardate dai monti con gelosie. Il vigilante anche oggi - per suo buon senso potrà rincasare in silenzio e senza che nessuno si avveda che rubicondo in viso lascia la scena e senza che nessuno lo vada a cercare per una noiosa intervista e dire ai figli al seno della madre “quello sono io!, sì, sono io, che riprendono” splendendo scioccamente in un angolino di fama stantìa.

Angelo Da Baciocchi


La normalità è un crimine di Vesna Pahor e Agata Venier

«Il matto è il miglior materiale per fare teatro, nel teatro tutto è più grande, tutto è esasperato, tutto è un eccesso», così racconta l’attore e regista Claudio Misculin, che ha fondato nel 1992 con Angela Pianca e Cinzia Quintiliani l’Accademia della Follia. Le radici di questo progetto teatrale e culturale risalgono all’epoca della grande riforma di Franco Basaglia, periodo in cui le mura dell’ospedale psichiatrico di San Giovanni venivano abbattute. L’accademia considera la follia come una fonte di ricchezza. Essa si distanzia dal punto di vista del normaloide che vive la sua vita come un susseguirsi di innumerevoli clichè. «La normalità è un crimine», ribadisce Misculin. L’Accademia della follia non ha una sua vera e propria sede e perciò si è dovuta spostare spesso. Le prove per il loro ultimo spettacolo, il laboratorio teatrale Crucifige a cui abbiamo assistito anche noi, si svolgevano presso la Direzione del Dipartimento di Salute Mentale di San Giovanni. La sua rappresentazione è avvenuta con successo dal 28 novembre al 2 dicembre 2012 al teatro Rossetti. Crucifige, riadattamento della passione di Cristo, mette in rilievo il motivo del capro espiatorio, ovvero colui che paga per le colpe di tutti; figura che nella nostra società viene frequentemente evocata un po’ in tutti i campi: economico, politico, medico, sociale... Un messaggio di ottimismo però traspare tra le righe: bisogna cercare di creare delle circostanze in cui una società migliore possa esistere. L’anima dell’accademia è costituita dai suoi attori, o meglio matt-attori, come si definiscono fieri. Pertanto abbiamo deciso di lasciare posto alle storie di alcuni di loro, alle loro esperienze di vita e teatrali. Il capocomico dell’accademia Gabriele Palmano detto Charly, un vero e proprio esempio per gli altri attori, ci ha raccontato che si occupa di teatro da 25 anni. Da quando ha conosciuto Claudio Misculin non l’ha più lasciato. Charly ci ha confidato il metodo più efficace per confrontarsi con il testo teatrale: «Non mi fido della mia memoria mentale. Lavoro con il metodo fisico: mentre corro in uno spazio aperto qualcuno mi legge la parte e io poi la ripeto ad alta voce. Imprimo il testo nella mia carne, nel mio muscolo. Il cuore mi pompa, il sangue mi pulsa nel cervello e creo l’emozione di quando recito davanti al pubblico. Dopo c’è la regia dei pezzi in sala, dove ripetiamo e studiamo insieme i vari passaggi del pezzo teatrale». Anche Claudio Misculin sottolinea l’importanza della memorizzazione dinamica. Ritiene infatti che la memoria logico verbale non funziona a

teatro oppure porta via tutta l’arte. Chi si avvale di questo tipo di memoria non sta recitando, ma ripetendo a memoria. «Quando dobbiamo imparare un testo, lo destrutturiamo e ricomponiamo ponendo il fisico sotto sforzo». Accanto al duro lavoro e alle prove ha una grande importanza anche il lato umano, personale. Con la luce negli occhi Charly ci presenta sua moglie, Donatella Di Gilio. Lei ci confessa che quando lo ha visto se ne è innamorata e oggi sono sposati da ben nove anni. Si sono conosciuti in un progetto dell’Accademia della follia in provincia di Ferrara, suo luogo di nascita. «La mia psichiatra mi ha consigliato di prendere parte a questo progetto. Claudio mi ha fatto leggere un pezzo di teatro. Mi è stata assegnata la parte dell’infermiera Gertrude nello spettacolo Dottor Semmelweis. Prima non avevo mai recitato», ci ha raccontato Donatella. Anche gli altri membri dell’accademia hanno bene impresso nella memoria questo spettacolo. Il medico ungherese Ignàc F. Semmelweis fece infatti a metà del 1800 una scoperta enorme: con la disinfezione delle mani e delle lenzuola si poteva salvare la vita della gran parte delle partorienti. L’importanza delle sue ricerche non gli venne però riconosciuta e morì isolato e solo in manicomio. L’attore Dario Kuzma si ricorda, tra i numerosi spettacoli di cui ha fatto parte, anche di molti altri come per esempio La vita è sogno di Calderón de la Barca e Stravaganza di Dacia Maraini. Dario, originario di Capodistria ma residente a Trieste già da molti anni, ci ha descritto così la sua carriera artistica: «Faccio parte dell’accademia dall’ottobre 2003. All’inizio ho avuto alcune difficoltà nell’adattarmi: arrivavo spesso in ritardo, non capivo la filosofia e lo stile di lavoro, che affiatamento c’era. Prima non avevo mai fatto teatro. Con il passare del tempo però sono migliorato, ho acquisito sempre più esperienza. La memorizzazione dinamica mi permetteva di ricordare le battute abbastanza facilmente». Dario Kuzma prima di diventare, tre anni fa, attore professionista, ha svolto vari lavori. «Solo con l’Accademia della Follia ho avuto la possibilità di viaggiare. Sono stato in aereo con loro ben trentadue volte. Abbiamo portato il nostro messaggio in tutto il mondo, dalla Germania e dalla Francia al Brasile. Gli psichiatri dicono che sono malato mentalmente. Vedremo con l’accademia se il mio mestiere sarà definitivo oppure no». Fabio Portas afferma che si è unito all’Accademia della Follia in un periodo difficile della vita, quando

ha dovuto affrontare problemi economici. Con il teatro si è messo in gioco ed ha ricominciato a vivere. Recitare nello spettacolo laboratorio Crucifige gli piace perché si diletta in due ruoli, quello più mascolino del centurione romano e quello dell’avvocato, figura più riflessiva. Accanto all’amore per il teatro Fabio coltiva anche quello per la chitarra, che suona già da diverso tempo. Spera così «di combinare qualcosa» anche in questo campo. Ci siamo sentiti ancora più vicini a Fabio perché, essendo membri della minoranza slovena in Italia, abbiamo anche noi come lui un’identità mista: «Io mi sento metà sardo e metà carsolino», afferma. «I miei genitori sono sardi, ma nei miei primi cinque anni d’infanzia ho trascorso molto tempo con nonna Lina e nonno Emilio che erano triestini e vivevano nella casa accanto alla nostra». Pur non essendo suoi «nonni di sangue» li ricorderà sempre con affetto. Fabio e il suo collega Derin Kennet si cimentano anche con l’aikido. Derin fa parte dell’accademia da circa dieci mesi, ma questa non è la sua prima esperienza teatrale: «ho recitato già in carcere», afferma. Lo spettacolo Crucifige rappresenta però il suo debutto con l’Accademia della Follia. «La follia significa calarsi nel personaggio, impersonare il testo e ricevere tanti applausi», ci ha confidato Paola di Florio, originaria dalla Costiera Amalfitana. Anche lei ha acconsentito volentieri all’intervista, ma solo dopo una sigaretta. Fumare in terrazza costituisce infatti un importante elemento di svago e condivisione tra una prova e l’altra. Aver avuto l’opportunità di conoscere gli attori dell’Accademia della Follia ci ha fornito una chiave di lettura unica sul vero significato dell’amore, dell’amicizia, dei sentimenti e del calore umano. Nel “nostro” ottuso mondo normale è difficile immaginarli in una tale grandezza. Questo è quello di cui tutti noi abbiamo bisogno, che tutti noi desideriamo ed è quello a cui ambiamo. In poche parole, questa è l’incommensurabile ricchezza della follia. L’incontro ci ha inoltre fatto riflettere sul tempo in cui è nata la ricerca dell’Accademia della Follia, il tempo della realizzazione del grande sogno di Franco Basaglia e sul faticoso cammino che ha portato ad essa. La routine quotidiana negli ex manicomi era costituita dal rumore delle chiavi, da metodi di cura violenti, da dosi altissime di psicofarmaci... Poi nel 1971 la svolta totale: Basaglia comincia, all’interno dell’ospedale psichiatrico di S. Giovanni, l’attuazione della sua epocale riforma,

IX

basata sulla precedente esperienza goriziana. Le porte del manicomio vengono gradualmente aperte e sul territorio prendono vita i centri di salute mentale. L’apice del suo grande progetto risiede nella legge 180, che segna l’inizio di un capitolo totalmente nuovo nella psichiatria italiana. Franco Basaglia voleva affermare un tipo di cura diverso. I malati di mente non dovevano più essere rinchiusi dietro a spesse mura, dove giorno dopo giorno morivano come piante senza acqua. «È stato un genio perché ha spostato tutto l’equilibrio della scienza dalla malattia al malato, dunque: aiutare l’uomo che soffre», così ci ha spiegato Claudio Misculin che in quel momento si trovava nell’ex ospedale psichiatrico. «Allora c’era un caos energetico e vitale totale. Invece di cominciare le terapie ho cominciato a fare teatro. Non so chi o come l’ha fatto però in questo modo mi ha salvato la vita». Lo psichiatra veneziano riteneva che ogni rinnovamento dovesse scaturire dai reali bisogni dell’uomo e non dovesse essere mai imposto. La coerenza politica e morale, il sapere, il lavoro quotidiano e la creatività costituivano gli elementi fondamentali della sua lotta contro l’esclusione di chi era ritenuto diverso e contro la sopraffazione del più debole. Ma com’era veramente Franco Basaglia? Misculin se lo ricorda come «un omone grande e grosso, normalmente gioviale ma molto incazzoso. Perciò se lo facevi arrabbiare urlava e pestava le manone». Anche noi lo vogliamo immaginare così. Sì, certo noi non lo abbiamo conosciuto di persona. Ma se chiudiamo gli occhi, abbiamo davanti a noi l’immagine di un uomo sensibile con tutti i tic e i difetti che una persona può avere. Aveva la capacità di ridare la speranza a chi soffre, rappresentava un esempio da seguire per le giovani generazioni. A Trieste arrivavano numerosi giovani medici, infermieri, operatori e studenti da tutto il mondo. Senza di loro la realizzazione del progetto di Basaglia sarebbe stata impossibile. Oggi si sentono più volte critiche e pareri negativi sull’attuale sistema psichiatrico italiano. È vero, nel corso degli anni sono venute a galla molte sue mancanze. In ogni caso è però inconfutabile che la riforma di Basaglia costituisce uno dei più importanti risultati della psichiatria del ventesimo secolo. Alcuni ritengono che ciò è stato possibile grazie all’unicità di quel periodo e sarebbe dunque oggi irripetibile. Basaglia ci ha dimostrato che le utopie possono diventare realtà. Lasciateci credere che anche noi possiamo realizzarle.


Yukio Mishima, Martirio di Lorenzo Natural

Poco più di anno fa, sul numero 0 di «Charta Sporca», scrissi un articolo su Yukio Mishima: oggi, rileggendolo, sorrido ad analizzare lo stile quasi agiografico e poco obiettivo che utilizzai per trarre un breve inquadramento della figura dell’uomo-Mishima, intesa come sintesi della sua forte dualità tra scrittore e soldato-samurai al servizio del Giappone. L’occasione di tornare a parlare di questo scrittore che, lo ammetto, rappresenta per me una piccola ossessione, è un racconto edito nel 2009 in sole duemila copie dalla casa editrice pistoiese Via del Vento, prima a tradurre in italiano, direttamente dal giapponese, questo scorcio quasi inedito di un poco più che ventenne Mishima. Il racconto venne pubblicato nel 1948 con il titolo Junkyo, ossia Martirio. Che grande parte della vicenda biografica e letteraria di Mishima ruoti attorno all’eterno incontroscontro tra Eros e Thanathos è cosa nota; tuttavia questo breve racconto ci fornisce dettagli e spunti interessanti sull’analisi della pulsione lirica, interiore ed estetica dello scrittore giapponese. La vicenda del martirio del giovane Watari, legato a un albero e impiccato da un gruppo di giovani scolari capeggiati da Hatakeyama, chiamato “il Re

Demone”, è, per Mishima. la rappresentazione di un’immagine che turbò e segnò profondamente la sua concezione di amore, di bellezza e il loro primordiale istinto di avvinghiarsi alla distruzione, alla morte. Francesco Cappellini, curatore e co-traduttore del racconto, nella postfazione riporta un passaggio del primo capolavoro di Mishima – Confessioni di una maschera – nel quale lo scrittore raccontò di un incontro sconvolgente, avvenuto a soli dodici anni, con un dipinto del pittore Guido Reni1 che ritraeva il martirio cristiano di San Sebastiano: «Quel giorno, nell’attimo in cui scorsi il dipinto, tutto il mio essere fremette d’una gioia pagana. Il sangue mi tumultuò nelle vene, i lombi si gonfiarono quasi in un empito di rabbia. La parte mostruosa di me ch’era prossima a esplodere attendeva ch’io ne usassi con un ardore senza precedenti, rinfacciandomi la mia ignoranza, ansimando per lo sdegno. Le mani, affatto inconsciamente, cominciarono un movimento che non avevano imparato mai. Sentii un che di segreto, un che di radioso, lanciarsi ratto all’assalto dal didentro. Eruppe all’improvviso, portando con sé un’ebbrezza accecante...»2.

I parallelismi tra la vicenda di San Sebastiano – specialmente nella raffigurazione di Guido Reni – e Watari sono sorprendenti. Il giovane martire giapponese è descritto come un bambino «dalla pelle di un bianco opaco come una gardenia. Le sue labbra, al contrario, erano così rosse da desiderare di strofinarle con le dita per accertarsi che non vi fosse stato messo del rossetto. Visto da vicino il suo volto appariva di una stupefacente bellezza […]. Faceva pensare a un oggetto d’arte la cui eccessiva cura nei dettagli aveva rovinato l’effetto d’insieme; e persino i dettagli risultavano seducenti in modo perverso»3. La delicatezza quasi femminea di Watari corrisponde all’immagine classica dell’iconografia di San Sebastiano, che nonostante il fisico da soldato – era comandante di coorte – viene raffigurato come un giovane dalla pelle chiara, dai lunghi capelli e dai lineamenti dolci, nonché dallo sguardo fanciullino. Proprio lo sguardo ci fornisce un secondo paragone: come d’abitudine in molte sue altre opere, Guido Reni raffigurò il santo con lo sguardo rivolto verso il cielo nel momento del supplizio, quasi in cerca di un aiuto divino; allo stesso modo Watari «aveva l’abitudine, quando veniva sottoposto a qualche prepotenza da parte dei suoi compagni, di gettare lo sguardo in alto, verso l’azzurro chiaro del cielo»4 e, più avanti nel racconto, poco prima di esser legato all’albero, «continuava a guardare in alto, verso il cielo, gli occhi sbarrati come un idiota»5. Il finale del racconto è ripreso dalla tradizione storica della vicenda di San Sebastiano: quando i ragazzini tornano poco dopo sul luogo del delitto, trovano la corda libera e il corpo scomparso. Ora, non posso

X

che dare interpretazioni aleatorie, ma appare probabile che il parallelismo con la vicenda della salvezza del santo, creduto morto e abbandonato, recuperato poi da Sant’Irene sia voluto; anche se in Martirio, come sottolinea Cappellini «tutto pare molto più “sospeso” e misterioso»6. Infine, mi preme sottolineare come entrambi i personaggi ricoprano nella loro storia il ruolo di capri espiatori: San Sebastiano, cristiano, venne ucciso per ordine di Diocleziano in una fase storica in cui i cristiani funsero da valvola di sfogo per una decadenza politica e di costumi molto forti; Watari in tutta la vicenda è oggetto di scherno e di derisione per la propria estraneità agli altri scolari e diviene l’oggetto su cui sfogare il proprio impeto primordiale in una spirale di violenza che porterà al suo junkyo. E se per il santo è facile capire perché si possa parlare di martirio, per Watari – oltre a rimandarvi alla nota 5 – entrano in gioco complesse dinamiche, nelle quali è la figura del Re Demone a entrare in gioco: Hatakeyama ha nei suoi confronti lo stesso atteggiamento che ebbe il fanciullo Mishima quando osservò per la prima volta il dipinto di Reni, tanto da seviziare Watari, per poi però, addormentarsi al suo fianco, in un vortice di lucida e fredda irrazionalità in bilico tra violenza e amore. A prevalere sarà, però, il sacrificio del giovane: è la tensione primordiale dell’adolescenza a emergere. L’ossessione di Mishima si protrasse poi in tutta la sua parabola artistica e umana. Nel 1966 si fece fotografare da Kishin Shinoyama nella posa del martire San Sebastiano: il corpo, trafitto dai dardi (in tutta la tradizione storica e in gran parte dell’iconografia il santo è così raffigurato, a differenza della trasposizione di Reni e di Watari, a riprova del suc-

cessivo interessamento di Mishima alla vicenda del santo), il corpo quasi nudo legato a una corda e appeso a un albero, lo sguardo rivolto verso il cielo. Mishima, soldato come San Sebastiano e «martire del Giappone»7, in una spirale di dualità che solo attraverso il sacrificio riesce a trovare il proprio compimento tra passione violenta e delicatezza interiore, tra Morte e Amore, tra Thanathos ed Eros? O Mishima, uomo incompiuto che attraverso la morte trova la propria liberazione dall’irrealizzabilità di sé e del proprio progetto? Martirio, forse, ci può aiutare a dipanare qualche dubbio. Almeno fino al finale, che ci lascia interdetti. «L’ennesimo irresolubile koan8 zen su una realtà che rifiuta di sottostare alle regole della razionalità»9. NOTE: 1 Guido Reni, pittore bolognese, 1575-1642. 2 MISHIMA, Y., Confessioni di una maschera, Feltrinelli, Milano, 2007, pp.40-41 (cit. in CAPPELLINI, F., Uccidere l’amore, in MISHIMA Y., Martirio, Via del Vento, Pistoia, 2009, pp.27-28). 3 MISHIMA, Y., Martirio, cit., p.9. 4 Ivi, p. 10. 5 Ivi, p. 24. Lo sguardo di Watari sembra quello di un’idiota: da notare che nella pura accezione etimologica, Cristo deriva dal greco Chrestòs, che significa “buono, umile”, ma anche “sciocco” – nel senso di “semplice”. Potrebbe qui il termine “idiota” dare un connotato di similitudine tra il martirio di Warati e quello cristiano di San Sebastiano? 6 CAPPELLINI, F., Uccidere l’amore, in MISHIMA Y., Martirio, cit., p.30. 7 YOURCENAR, M., Mishima o La visione del vuoto, Bompiani, Milano, 2005. 8 I koan, spiega Cappellini, sono breve storielle zen utilizzate per indurre, attraverso il loro percorso illogico e provocatorio, l’esperienza del risveglio. 9 CAPPELLINI, F., Uccidere l’amore, in MISHIMA Y., Martirio, cit., p.30.


Tracce di Cappuccetto Rosso di Tommaso Tercovich

S

guardo, punto di vista. La mia idea è di dare un supporto allo scorso articolo su Charta Sporca, “L’ultima tessera”, e a quello di settembre, “Relazioni”. A seconda della prospettiva che assumiamo nell’analisi della realtà che ci circonda ci accorgiamo di quanto essa cambi. Per questo motivo sono così importanti i segni in quanto questi formano un senso (una significazione). La significazione è la relazione che lega qualcosa di presente materialmente a qualcosa di assente, attivando un processo di comunicazione. Le relazioni definiscono un sistema che diventa presupposto del processo di comunicazione. Il primo studioso di semiotica che vorrei portare in questo scritto è il russo Jurij Lotman. Per Lotman un sistema culturale è «un’area chiusa sullo sfondo della non cultura»1 e si organizza tramite esclusioni (non cultura) e opposizioni. La cultura ha come compito quello di organizzare strutturalmente il mondo che ci circonda ed è come una memoria non ereditaria della collettività. Essendo un sistema condiviso può nascere e scomparire nel corso del tempo. La “durata” di una cultura dipende dalla sua capacità di portare insieme elementi stabili ed elementi dinamici che ne permettano il rinnovamento. La continuità è portata sia dall’aumento del volume delle conoscenze e dei testi che entrano nella cultura, che dalla “dimenticanza” ovvero dall’eliminazione di essi. Sarebbe interessante sviluppare due discorsi legati al nostro tempo culturale: il primo se esiste una «cultura del capitalismo»2 e quali ne sono i suoi caratteri e l’altro se la cultura cristiana, che per molti secoli ha pervaso l’Europa, è destinata a sopravvivere con i tanti fronti di discussione che porta nella società di oggi. Ma qui vorrei parlare dei personaggi che agiscono in una determinata cultura. Essi sono eroi (Soggetti) protagonisti. Possono essere fissi o mobili. L’eroe fisso rappresenta un’incarnazione dell’ambiente, mentre l’eroe mobile porta la possibilità di distruggere una data classificazione e di crearne una nuova. Facciamo un esempio: la favola di Cappuccetto Rosso. La nonna è fissa nella sua casa come il lupo nel bosco, ma è l’eroina Cappuccetto Rosso che si sposta tra i due ambienti e subisce delle trasformazioni. Lo spazio quindi per Lotman è di-

viso in frontiere. Si può identificare quindi in tutti i testi letterari (a livelli diversi di complessità) un “IN”, cioè uno spazio interno del “noi” per chi condivide la stessa cultura/ sistema, e un “ES” per “loro” cioè chi non condivide questo sistema di segni. L’interazione tra eroe e spazio lo porta a categorizzarsi: l’eroe della strada è colui che segue una precisa direzione lineare nello spazio e nel tempo, ogni momento della storia è un passaggio per la situazione successiva . Esempi di eroi della strada sono Dante nella Divina Commedia, Don Chisciotte e Sal Paradise in On the Road. L’eroe della steppa invece può muoversi in ogni direzione, realizzando la potenzialità della sua personalità varcando le frontiere tra IN ed ES. Il secondo studioso che porta nuovi elementi è il lituano Algirdas J. Greimas3. Lui delinea dei ruoli nella narrazione, non solo per esseri umani, ma anche oggetti, animali o concetti.

che ostacolano l’azione, oppure ostacoli ambientali, meteorologici, ecc.). Accanto al Soggetto ci può essere un Anti-Soggetto, che fa riferimento a un anti-Destinatore e che svolge un percorso narrativo opposto a quello del Soggetto pur mirando allo stesso Oggetto di valore. Un esempio classico per applicare questi discorsi teorici. Prendiamo ad esempio un film molto conosciuto: Indiana Jones. Il prof. Jones è il Soggetto alla ricerca di un Oggetto, il Graal. Questo oggetto, carico di valori per una determinata cultura (sistema di segni, vedi sopra) è stato dato da un Destinante cioè Dio che attraverso l’azione dell’eroe deve giungere al vero Destinatario: l’umanità nel suo insieme. I suoi Aiutanti sono tutti i personaggi che aiutano l’eroe nella sua ricerca mentre gli Oppositori sono i nazisti che cercano di ostacolarlo. Bisogna anche dire che questo schema funziona bene in una cultura, come quella occidentale, dove esiste una differenza netta tra bene e male (dove la conoscenza è creare degli opposti).

Questi ruoli sono 6: Soggetto/Oggetto, Destinatore/Destinatario e Aiutante/Oppositore come si può vedere dallo schema in figura. Soggetto e Oggetto sono il nucleo di questo modello in quanto sono legati da una Ricerca. Greimas scrive: “Quando una persona vuole un’automobile, forse non vuole tanto un oggetto quanto un mezzo di spostamento rapido, o un po’ di prestigio sociale, o un senso intimo di potenza. L’oggetto automobile diventa allora un pretesto, un luogo in cui si riuniscono e si fissano determinati valori”. Un Destinatore invece stipula un contratto con un Destinatario, per esempio gli trasmette il mandato a compiere una certa azione. Il Destinante è quindi colui che desidera lo svolgimento di una certa azione, e alla fine è colui che ne certifica il successo o l’insuccesso. Di solito l’impresa del Soggetto è contornata da circostanze favorevoli e/o sfavorevoli. Queste si traducono in Aiutante (animati o inanimati) e Oppositore (anch’essi animati o inanimati: cioè persone

Attraverso la semiotica si possono spiegare i fatti comunicativi dunque. Ora vorrei provare a fare un confronto di due figure storiche che però possono essere analizzate con questo schema, in modo distaccato. Queste figure sono Ernesto Guevara e Giuseppe Garibaldi. Non voglio riassumere le loro vicende storiche ma è importante conoscerle per poter provare a fare questo genere di discorso. Entrambi sono spinti da forti ideali. Essi possono dunque rappresentare quel Destinatore, che nel caso dell’archeologo Jones era Dio. Entrambi vivono in periodi storici (ambienti d’ azione) che hanno incentivato la diffusione di idee di ribellione e spinto verso una visione ideale del mondo. Certo è chiaro che le due posizioni risultano differenti, infatti non si mette in relazione il Risorgimento e la matrice romantica con l’ideologia comunista, si sostiene solamente che queste rientrano allo stesso modo come Destinatori nella spinta all’azione dei due combattenti.

XI

La Ricerca in entrambi i casi si svolge in diversi Paesi: Garibaldi sia nel Vecchio che nel Nuovo continente mentre l’argentino tra gli altri dall’isola di Cuba, passando per l’Africa fino in Bolivia. Il loro spostamento spaziale dunque li identifica come eroi della steppa. Si dirà: qual è l’Oggetto della loro ricerca? Bisogna tenere presente che non necessariamente esso deve essere materiale quindi potremmo dire che ritengono la sollevazione, la rivolta di un gruppo sociale contro il dominio di un potere ritenuto illegittimo secondo gli ideali di partenza, il loro interesse primario (entrambi lottano contro dittature o domini stranieri). Il Destinatario della loro azione? Probabilmente l’intera Umanità secondo una visione universale della società. Gli Aiutanti sono in entrambi i casi tutte le persone che condividono gli ideali dei Soggetti e viceversa sono gli Oppositori. Garibaldi con i Mille, Guevara con i suoi guerriglieri combattevano rispettivamente contro dittature e imperialismo. Entrambi hanno nella loro rappresentazione fisica un segno identitario: Guevara con la sua divisa da rivoluzionario (basti pensare al suo discorso alle Nazioni Unite nel 1964), Garibaldi con il poncho lascito delle sue battaglie sudamericane insieme alla camicia rossa. Entrambi nelle loro immagini-icona che tutti riconosciamo portano la barba lunga, un altro segno comune. Si potrebbe continuare questa analisi, ma forse intendevo scrivere qualche spunto di riflessione per dire che uno schema costruito per una trama narrativa può essere applicato alla realtà perché la trama narrativa è spunto e prosecuzione della realtà stessa, che infatti è molto più complessa e sfumata. Certo, tutto questo è solamente un punto di vista. ---------

1 Lotman Uspenkij, Tipologia della cultura, Milano, Bompiani, 1975. Per questo articolo si è usata anche la sintesi a cura di Marina Camboni rintracciabile in Internet. 2 Magari dovrei leggere Sennett, La cultura del nuovo capitalismo, Bologna, Il Mulino, 2006. 3 Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, 1979.


La cultura secondo un pazzo da manicomio di Manuel Geniola (manuelgeniola@hotmail.it)

M

i chiedo come faccio a parlare di culturA. Non che io ne sappia qualcosa eh, ma sono certo che lo share del 33% riscosso dal sign. Silvio Berlusconi e dal sign. Michele Santoro non ha nulla a che fare con ciò che, io, reputo e vedo sotto la parola e il concetto di CULTURA. Diceva uno psicologo inglese anni fa: “Ogni persona SANA di MENTE prenderebbe il televisore e lo getterebbe dalla finestra all’istante”. Penso che per farsi un’idea su una persona o un personaggio politico non basti un’intera biografia né un documentario, tantomeno (può bastare) un articolo di giornale o una trassimissione televisiva. Ebbene, la Cultura è quella scienza, quell’INSIEME di branche del sapere, dello scibile umano che ripudia la televisione e ancora di più la pubblicità. Quella branca della conoscenza che non ama l’apparenza e la superficialità, che cerca l’essere, l’originalità (intesa come unicità) e che cerca di dare un perché alle cose, e, se non ci riesce, semplicemente le descrive. Una parte di quelli (associazioni, istituzioni, ecc…) che cercano di fare propaganda, di tenere viva e di fare conoscere la Cultura al popolo, alle

masse, a NOI, riceve finanziamenti diretti dallo Stato (oggi meno di ieri) e da numerosi enti privati. Vogliono uccidere la Cultura. VOGLIONO UCCIDERLA. Vogliono ucciderla sotto gli infiniti click degli smartphone e dei tablet. VOGLIONO UCCIDERLA. Vogliono ucciderla facendoCI credere (INFINITI sono gli esempi, vedi Tv, giornali, pubblicità dappertutto, ecc…) che la scienza e la tecnologia valgano di più. Ancora più grave è che cercano di farci credere che dietro a loro (sviluppo materiale, tecnologico, scientifico, medico) si cela il SEGRETO della felicità (FALSO MITO dello sviluppo). BENE, NON è COSI! “Sono un pubblicitario – dichiara senza complessi Frèdèric Beigbeder – farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la GENTE FELICE NON CONSUMA”. VOGLIONO UCCIDERLA ma per Nostra fortuna non ce la faranno MAI,non ce la faranno mai a ucciderLA perché la Cultura è parte di ogni popolo, ogni popolo ha la sua Cultura. La Cultura è parte di noi. La Cultura è immortale. Non c’è bisogno che io vi parli di tutti

i tagli che ci sono stati, ci saranno e di tutti i tagli che entreranno in vigore solo quest’anno per via dei decreti e di leggi approvate negli anni scorsi; non penso ce ne sia bisogno perché se Voi leggete questa rivista, MOLTO probabilmente ne saprete più di me. Sapete meglio di me che oggigiorno nel NOSTRO VERAMENTE bel paese, sul Nostro Pianeta e quindi nel Mondo la cultura viene vista troppo spesso come un male e non un bene, troppo spesso viene vista come una spesa e non un investimento. La Cultura va di pari passo con la civiltà... Entrambi hanno molte cose in comune (con l’estinzione dell’una, scomparirà anche l’altra…), è piu facile spiegare cosa “è” la Cultura che non cosa “è” la civiltà e cosa “vuol” dire essere civili. Piccola parentesi, non credeRETE che la civiltà di un paese si possa giudicare dal PIL, dalla ricchezza di quest’ultima o dal fatto che i propri cittadini abbiano a disposizione uno o quattro stipendi, usino la carta igenica o il bidet. Il bidet, i cellulari, i vestiti del momento e la carta igenica non hanno nulla a che vedere con l’essere civili e sviluppati. NULLA. Oggi comunque parleremo solo della cultura. Per me, che sono una delle persone più ignoranti d’Italia (in parte giustificato dal fatto che sono immigrato, troppo spesso sbaglio il congiuntivo, ecc…) la Cultura è importante come l’aria che respiro, come il Tempo che scorre. Cerco di rispettarLa come la vita e la AMO, la venero e la ricerco COME la famiglia, la Natura e COME il mondo dei sogni. La cultura è curiosità, la curiosità come i songi e il tempo sono TUTTO, l’ASSOLUTO. “Vuoi uccidere un uomo, privalo del suo sogno più bello” ( Cit. Jim Douglas Morrisson). Personalmente aggiungerei : “Vuoi uccidere un uomo o una donna??? Privale del TEMPO e del suo SOGNO più grande”. Chi ha cultura se ricco o povero è FELICE. La Cultura a volte è cieca. La Cultura non è astratta. La Cultura aiuta i meno fortunati. La Cultura è tangibile. La Cultura è visibile. La Cultura è complessa. La Cultura è lucidità. La Cultura è coscienza. La Cultura è arte. La Cultura è musica. La Cultura è fatta di parole. La Cultura non ha marca.

XII

La Cultura non è omologazione. La Cultura è unica. La Cultura è contro la violenza ma può essere brutale. La Cultura non uccide ma, a volte quando colpisce, può ferire e fare molto male. La Cultura è vita. La Cultura non sempre piace. La Cultura fa la differenza. La Cultura DOVREBBE essere gratuita. La Cultura DOVREBBE essere di tutti. La Cultura non ha unità di misura. La Cultura distrugge e costruisce. La Cultura è infinita. La Culture partorisce. La Cultura è passione. La Cultura crea. La Cultura è entusiasmo. La Cultura è amore. La Cultura è amore, rispetto per la vita e per il pianeta. La Cultura è zelo e reverenza per l’ambiente. La Cultura è fare la cosa giusta al momento giusto. La Cultura è forte. La Cultura è infinita. La Cultura è “astratta”. La Cultura è invisibile. La Cultura è ricerca. La Cultura è vegetariana. La Cultura è per il boicottaggio. La Cultura è intelligente. La Cultura non cerca i punti di scontro se non per crescere. La Cultura cerca il confronto, il dialogo e i punti d’incontro. SEMPRE. L a Cultura abbatte i muri. La Cultura è fluida. La Cultura è in continuo movimento. La Cultura non conosce lucchetti. La cultura non conosce muri. La cultura non conosce né capi né colonie. L’uomo è schiavo della cultura. La Cultura è colorata. La Cultura è veramente apolitica. La Cultura era politica. La Cultura è ricca. La Cultura è dialogo. La Cultura è confronto. la Cultura è imprevedibile. La Cultura è allucinogena. La Cultura crea dipendenza. La Cultura boicotta il consumismo. La Cultura non prende medicinali. La Cultura è. La Cultura è coscienza. La Cultura è rara da incontrare. La si può incontrare e leggere anche sui muri e per strada. La Cultura non è data solo dai libri,dalla scuola e dai musei. La strada è Cultura. Io non sono un uomo di cultura e non so, se MAI riuscirò ad esserlo. La Cultura siamo io e te. La sua sopravvivenza dipende da te e da me.


Arte in prima linea, una Collezione che racconta la storia di Samantha Benedetti

6 novembre 1953, il nome di Trieste fiammeggia tra i titoli di cronaca italiana per le dimostrazioni studentesche soppresse nel sangue dalle forze dell’esercito inglese. L’attenzione della stampa si concentra così su una di quelle zone rimaste in precario equilibrio in seguito alla fine della seconda guerra mondiale, ed è in questo momento che tre eminenti personalità della cultura triestina, quali il Rettore Rodolfo Ambrosino, il Soprintendente Civiletti ed il primo titolare della cattedra di storia dell’arte Gian Luigi Coletti organizzarono l’Esposizione nazionale di arte contemporanea. Considerata la condizione politica e sociale in cui verteva la città, la scelta di organizzare una mostra che si limitasse agli artisti italiani diede adito a non poche discussioni, eppure proprio nella città libera di Trieste giunsero le opere più rappresentative dell’attività artistica di settantacinque professionisti. Il rettore volle che la mostra si tenesse all’interno dello stesso Ateneo e la

risposta della cittadinanza fu molto forte, tanto che si dovettero realizzare dei cambiamenti logistici sul piano dei trasporti per creare un collegamento migliore tra università e la popolazione, chiamata ad esprimere le proprie impressioni sulle opere. Santomaso e Afro ottengono i primi due premi-acquisto, mentre il terzo, destinato ad un artista locale, va a Nino Perizi; ma ciò che distingue la mostra è il fatto che offre uno spaccato di tutte le correnti artistiche che segnano il ritorno a gran voce dell’Italia nella scena artistica internazionale. In seguito alle donazioni avvenute dopo la mostra del ‘53, e all’acquisto di diverse opere da parte dell’università triestina, è stata istituita una ricca pinacoteca d’Ateneo negli ultimi anni, grazie all’impegno di alcuni docenti e studenti che si sono interessati al ripristino della mostra e al recupero delle opere. Entrando nel rettorato è oggi possibile ripercorrere il filo conduttore dell’esposizione a partire dal primo

dipinto Il cantiere di Santomaso, posto di fronte all’ingresso, che funge da presentazione per la raccolta.

L’occhio viene poi catturato dai fiammeggianti colori del “Ricordo di infanzia” di Afro, autore noto a livello internazionale per merito delle sue opere e che riscosse successo anche tra coloro che lo videro nel ‘53. Sempre nell’atrio è possibile osser-

XIII

vare il dipinto a tinte scure di Perizi, Omaggio a Garcia Lorca, che viene considerata l’opera esemplare dell’autore e con cui si distinse tra i partecipanti locali. Lungo le pareti della sala Cammarata sono esposti altri dipinti di artisti come Sambo o Baccaccio, che arricchiscono uno degli ambienti istituzionali più importanti dell’Ateneo. Tuttavia ciò che forse maggiormente colpisce l’attenzione del visitatore è la “galleria” che si scopre appena oltre l’atrio; attraverso opere che spaziano dall’astratto al concreto, dal soggetto paesaggio all’inconscio, si ha la sensazione di entrare in un luogo che prescinde da spazio e tempo, poiché rappresentante di un difficile scorcio di storia visto attraverso gli occhi di artisti, di persone, che l’hanno vissuto. Ritratti, dipinti e disegni che incrementano il valore della pinacoteca si trovano nell’atrio secondario e nello studio del Rettore come il Viso di Leonor Fini o il Ritratto di Umberto Saba di Carlo Levi, entrambe opere di inusuale forza espressiva. Volontà ed impegno hanno fatto sì che nel 2008 la mostra d’avanguardia venisse rievocata presso il Civico Museo Revoltella, ora corpo di una Collezione d’arte unica, specchio della città e di un’Italia che sta cambiando. A sessant’anni da quell’iniziativa che portò notorietà e fu fonte d’orgoglio per l’Ateneo di Trieste sarebbe auspicabile che coloro che quest’università la vivono quotidianamente fossero a conoscenza delle azioni concrete compiute da chi ha agito per cercare di cambiare le cose.


Merleau-Ponty davanti allo specchio di Stefano Tieri

Un uomo cammina lungo una strada assordante e affollata del centro. Che cosa vedono i suoi occhi? Sagome di persone per lui senza identità, che appaiono e scompaiono dal suo campo visivo con la stessa rapidità delle autovetture sfreccianti a lato del marciapiede. Smosso, ad un tratto, da una forte raffica di vento, nel momento in cui respira quel soffio entra in lui, gelandogli i polmoni; barcolla e colpisce accidentalmente una passante; anche lei, camminando sulla medesima strada, ha sentito sulla sua pelle il soffio del vento (già soffio dell’uomo?), entrato e uscito da lei mentre respirava; anche lei è finita addosso ad un passante, di cui fino ad un istante prima ignorava l’esistenza. Eppure c’era, eppure c’erano entrambi, ed in quel respiro1 di vento è racchiusa la loro conoscenza. Per Sartre nessuna sintesi è possibile nel rapporto io-l’altro. Nelle pagine de L’essere e il nulla dedicate allo sguardo viene affermato abbastanza chiaramente: «l’altro può esistere per noi sotto due aspetti: se lo sento con evidenza, non riesco a riconoscerlo; se lo conosco, se agisco su di lui, raggiungo solo il suo essere-oggetto e la sua esistenza probabile nel mondo; nessuna sintesi di queste due forme è possibile». O divento soggetto nei riguardi dell’altro, e pertanto lo oggettifico riuscendo a comprendere di lui solamente la sua natura d’oggetto, o vengo io stesso oggettificato dal suo sguardo, vengo “conosciuto” in quanto oggetto. Soggetto e oggetto, insomma, restano nettamente separati, due universi scissi l’uno dall’altro, due prospettive non conciliabili, avversarie, ognuna in grado di affermarsi solamente nel momento in cui riesce a sottomettere l’altra. Tutta la tradizione filosofica occidentale2 è stata caratterizzata da questa contrapposizione. Non a caso Merleau-Ponty, in una nota di lavoro de Il visibile e l’insibile, scrive che il problema io-l’altro (la cui formula diviene «insufficiente», incapace di racchiudere la reciprocità dei rapporti umani) è un «problema occidentale». Eppure, ci suggerisce Merleau-Ponty, il medesimo è «l’altro dell’altro», l’identità è «differenza di differenza»: noi stessi siamo l’altro, ed in questo

senso comprendiamo come l’altro sia il medesimo. C’è un modo per sperimentare il ribaltamento della dicotomia soggetto-oggetto, per riuscire a superarla nel chiasma di percipiente e percepito: guardarsi allo specchio. Lì davanti è me stesso che vedo specchiato, l’immagine è al di fuori di me e abita la superficie riflettente: «Il fantasma dello specchio trascina fuori la mia carne, e contemporaneamente tutto l’invisibile del mio corpo può investire gli altri corpi che vedo». Lo specchio mi mostra, mostra me (il mio essere nel mondo) vedente me, mostra l’io-me al tempo stesso soggetto e oggetto di uno sguardo (il mio? quello dello specchio?). Mostrandomi nell’azione di vedere, lo specchio proietta l’immagine di me vedente (della cui azione ho esperienza diretta: so cosa vuol dire, per me, vedere) “fuori” da me, e così mi mostra come il vedere, lo sguardo (il mio che è anche quello dello specchio) si diffonda e abiti il mondo; mi mostra come ogni cosa guardi, esattamente come me: qui sta il chiasma. Al tempo stesso faccio mio lo sguardo dello specchio, poiché vedo (oltre a

quello che mi è davanti, ovvero lo specchio stesso) anche alle mie spalle: sono vedente e visto, faccio mie due prospettive insieme, due sguardi. Lo specchio proietta “fuori” da me il mio vedere, il quale al tempo stesso ritorna su di me; il movimento è doppio3 e, nonostante ciò, sincrono: il mio sguardo va allo specchio nello stesso istante in cui lo specchio mi rivolge lo sguardo (cosa impossibile per un cartesiano, per il quale «l’immagine speculare non è niente di lui» e costituisce solamente un manichino). In questo modo ho esperienza diretta di vedere e di essere visto – insieme: la superficie dello specchio è la punta del guanto nell’atto di rivoltarsi. In ultimo il “fuori” manifesta il significato delle virgolette che lo cingono: il “dentro” è della sua stessa sostanza (quella della carne), l’uno è l’altra faccia dell’altro. Ma torniamo ora all’uomo sulla strada. Guardandolo più da vicino riusciamo a riconoscerlo, grazie al prominente naso: è proprio Maurice Merleau-Ponty, che passeggia sul boulevard Haussmann nella Parigi degli anni ‘50.

XIV

Che cosa vedono i suoi occhi? Un’estensione, un prolungamento della propria carne; nel prossimo il filosofo francese vede, insomma, se stesso: «il vedente, essendo preso in ciò che vede, vede ancora se stesso: c’è un narcisismo fondamentale di ogni visione». È se stesso che cerca nell’altro, il quale cessa quindi d’essere altro e diviene medesimo: «vedente e visibile entrano in un rapporto di reciprocità e non si sa più chi vede e chi è visto. È proprio questa Visibilità […] che prima chiamavamo carne». Qual è pertanto la funzione dell’altro, se non d’essere... specchio? «l’uomo è specchio per l’uomo», sentenzia Merleau-Ponty ne L’occhio e lo spirito4. Sarebbe sbagliato, però, nel momento in cui si ritiene l’altro uno specchio, concepire se stesso diversamente, proprio in virtù della reciprocità che caratterizza quest’idea di visione (se così non fosse avremmo, da una parte, un soggetto di cui tutto sarebbe solamente riflesso). All’incontro di due uomini, sono perciò due specchi ad incrociarsi. Due specchi paralleli che rimandano l’uno l’immagine dell’altro, all’infinito: da quale dei due proviene l’immagine? In quale dei due bisogna cercarne l’origine? La domanda non ha senso: «su due specchi prospicienti nascono due serie indefinite di immagini racchiuse l’una nell’altra, giacché ciascuna non è se non la replica dell’altra, che quindi fanno coppia, una coppia più reale di ciascuna di esse». Ecco la Visibilità «anonima» (senza nome e che pertanto non costituisce soggetto) la quale abita entrambi, l’apertura all’Essere (un Essere «che contiene anche la sua negazione, il suo percipi»): con la reversibilità del visibile (e, analogamente, del tangibile) «ciò che ci è aperto è [...] un essere intercorporeo, un ambito presuntivo del visibile e del tangibile, che si estende oltre le cose che io tocco e vedo attualmente». Ma la visibilità, nella nostra società, è un’altra cosa. L’invisibile non costituisce più la profondità del visibile: i due aspetti, nettamente separati, mettono in moto quella macchina ottica i cui meccanismi sono stati così bene dispiegati da Michel Foucault in Sorvegliare e punire. Siamo all’interno di un Panopticon, strumento di prigionia che dissocia «la coppia


vedere-essere visti»: da una parte la visibilità totale (nella quale è collocato il detenuto), dall’altra l’invisibilità totale (da cui sorveglia il guardiano). All’interno di questo regime di visibilità (a cui potremmo accompagnare, oggi, l’aggettivo “mediatico”), nel momento in cui cerchiamo questa stessa visibilità (poiché non riusciamo, da drogati quali siamo, a farne a meno), ne siamo – al tempo stesso – assoggettati.

dico, costruire artificiosamente un’immagine di noi persino quando siamo “assenti” dal mondo (la nostra assenza può trasformarsi in presenza, ad esempio, tramite i social network), per divenire in seguito schiavi di questa immagine costruita. No: noi siamo anche la nostra assenza, il nostro silenzio, il buio di una notte senza stelle. Siamo anche il “soggetto” che rifiuta lo statuto ontologico di soggetto.

Quello che possiamo fare, seguendo il pensiero di MerleauPonty, è ribaltare la concezione di visibilità “pura” e “positiva”, per scoprirvi l’invisibilità sottesa ad essa. Siamo sempre all’interno del campo di visibilità (siamo visibili proprio perché vediamo), sia quando recitiamo sul palcoscenico della nostra vita che quando ci rinchiudiamo nella solitudine delle nostre stanze: non occorre perciò cercarla in modo spasmo-

Tramite l’idea di visibilità messa in gioco da Merleau-Ponty, nella quale non sappiamo più chi vede e chi è visto, noi non “usciamo” dalla visibilità (sarebbe, come si diceva, impossibile) ma la impariamo ad abitare in modo diverso: «non c’è problema dell’alter ego perché non sono io a vedere, non è lui a vedere, perché ci abita entrambi una visibilità anonima, una visione in generale, in virtù della proprietà primordiale della

carne di irradiarsi ovunque e per sempre pur essendo qui e ora, di essere dimensione e universalità pur essendo individuo». Lo sguardo non mi assoggetta poiché non c’è più un soggetto dietro a quello sguardo. O, meglio, non c’è un soggetto a me alieno, che non faccia parte cioè di quella stessa carne cui appartengo anch’io. -----------

1 L’apologo non è scelto a caso: Merleau-Ponty, descrivendo l’opera dei pittori (molti dei quali hanno detto di essersi sentiti guardati da ciò che stavano ritraendo), parla di «inspirazione ed espirazione dell’Essere, respirazione nell’Essere». 2 Evocando la tradizione filosofica occidentale è chiaro che viene chiamata in causa, di conseguenza, quella orientale. Possiamo quindi dedurne che in Merleau-Ponty siano presenti aspetti del pensiero orientale? La considerazione non appare troppo errata, se è vero che – come nota Giorgio Colli nella sua tesi di laurea, pubblicata da Adelphi con il titolo Filosofi sovrumani

– «l’indistinzione tra materia e spirito» è «una caratteristica del misticismo, per esempio indiano». Poco più avanti affermerà che il principio capitale della conoscenza mistica è «la coincidenza del soggetto intuente con l’oggetto della sua intuizione». Sebbene MerleauPonty tenga a precisare che «non c’è coincidenza del vedente e del visibile», e che «ciascuno attinge all’altro […], si incrocia con l’altro, è in chiasma con l’altro», la distanza non è poi troppa: vedente e visibile, in quanto reciproci l’uno dell’altro, formano comunque un’unità (quella che Merleau-Ponty chiama “carne”). Stesso dicasi per il corpo e lo spirito: «Definire lo spirito come l’altra faccia del corpo – Noi non abbiamo idea di uno spirito che non sia sotteso da un corpo». 3 «il corpo sentito e il corpo senziente sono come il diritto e il rovescio o, anche, come due segmenti di un unico percorso circolare che, in alto, va da sinistra a destra e, in basso, da destra a sinistra, ma che è un unico movimento nelle sue due fasi». 4 Cfr. Jacques Lacan, per il quale l’io si costituisce sempre in rapporto all’altro.

“Il più grande uccello del mondo!” - un viaggio alla scoperta di due continenti e due culture di Solivagus Rima ASIA Minore: La volpoca dal becco rosso, l’uccello delle cavità, è l’“anello di congiunzione” fra famiglia delle oche e quella delle anatre. Alla famiglia delle oche si avvicina per quanto concerne l’apertura alare e il volo. La volpoca prende il nome dalla volpe, per il fatto che usa fare il nido proprio nelle vecchie tane abbandonate delle volpi. La storia della nostra volpoca ha origine in Asia Minore: essa infatti viveva lungo le coste basse dell’Anatolia, fra la sabbia e il fango, e si nutriva di piccoli molluschi e vermi. Un giorno, mentre se ne stava tranquilla nella tana, giunsero degli Ittiti a cavallo. La presero violentemente per il collo e la trascinarono via dalla sua dimora. Dopo essere stata chiusa in un sacco di feltro per ore ed ore, finalmente rivide l’accecante luce del Sole. Venne ripresa per il collo e venne portata in una casa ittita; poi in una stanza, la stanza del neonato di famiglia. Il capofamiglia, un soldato dalla grossa corporatura, cominciò a scuotere e ad agitare la nostra piccola volpoca attorno al guardaroba del neonato, ai fini di scacciare, con il cosiddetto “rito di Papanikri”, i demoni e le influenze maligne.

Presto il povero animale sarebbe servito anche per altri riti, ma non lo sapeva… ancora non lo sapeva… AMERICA Settentrionale: Tanto tempo fa un uomo vagava per le praterie delle terre degli indiani Pawnee. Ad un certo punto, mentre camminava, si trovò ai piedi un piccolo nido, nascosto nell’erba fitta. Lo osservò bene e vide che dentro stavano riposte sei uova. Da una di esse sbucò, in un momento, un becco e ne uscì un piccolo pulcino. Era minuscolo. I genitori uccelli, in volo sopra l’uomo, lo chiamavano con i loro stridii. I vecchi uccelli si stavano occupando di raccogliere delle provviste per il loro nuovo figlioletto. I pensieri dell’indiano si volsero alla sua gente, che era totalmente priva di attenzioni verso i bisogni dei propri figli, e rifletté sulla questione per alcuni dì. Dopo qualche giorno, egli desiderò tornare a vedere il nido. Quindi, quando raggiunse il luogo, vide che qualcosa era cambiato. Ora, era attorniato da tanti piccoli pulcini, che provavano a volare e a camminare sulle loro zampette. I genitori li incitavano a “sperimentare” e li proteggevano.

L’uomo, allora, pensò che se solo gli uomini della sua tribù avessero preso esempio dagli uccelli per quanto concerne l’educazione dei giovani, certamente avrebbero potuto sperare in un futuro assai rigoglioso e ricco di felicità. La loro tribù sarebbe divenuta forte e prospera. L’uomo divenne un sacerdote e la “storia degli uccelli” un canto, che si tramandò per secoli e secoli… Intanto, in un’altra zona dell’America Settentrionale, un ragazzo indiano stava digiunando nel tentativo di congiungersi con i Grandi Spiriti della foresta e di stabilire con Loro un qualche tipo di comunicazione. Per un giovane indiano quest’esperienza era di cruciale importanza. Nella foresta si sarebbe messo in contatto con gli Spiriti che l’avrebbero guidato per tutto il resto della sua vita. Ma ciò sarebbe accaduto solo se lui avesse avuto delle visioni. Purtroppo, non a tutti i giovani indiani raggiungevano subito la visione e, quindi, erano costretti a sfregiarsi o a mozzarsi le dita delle mani fino a quando uno Spirito non si fosse presentato nella loro mente. Il giovane indiano di cui si parla qui, però, apparteneva ad un po-

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polo che praticava una via alternativa per il raggiungimento delle visioni: la pratica del digiuno. Questi indiani usavano fumare tabacco, in particolar modo il cosiddetto “mapacho”, misto ad altre piante allucinogene, poiché ritenevano che fumare il tabacco puro con la pipa sacra fosse in qualche modo di dissacrante, oltre al fatto di essere terribilmente disgustoso. Ad un certo punto, una visione giunse nella mente del nostro giovane indiano. Era un uccello. Un enorme uccello. Probabilmente era quello che gli indiani non disdegnavano a chiamare uccello-tuono, dato che la sua venuta portava tempesta. Il ragazzo si spaventò nel vederlo, ne fu terrorizzato. Il grande uccello gli venne incontro con la sua enorme apertura alare e la sua mole. Intorno a lui cominciò a cadere la pioggia e i tuoni cominciarono a rombare. Il grande uccello era reale? Era frutto dell’immaginazione allucinata del giovane indiano? Alcuni ritengono che l’uccello-tuono sia esistito veramente e che non fosse solo frutto di una visione. Alcuni ritengono che questo non sia solo un mito. Potrebbe mai l’uccello-tuono essere stato uno pterodattilo sopravvissuto?


MONSONICO di Meex Iko In questo numero doppio l’indecisione riguardo alla band da sciorinarvi è stata enorme. Da una parte i Soundgarden, con il loro grande ritorno in studio, King Animal. Dall’altra i Metz, con il loro debutto omonimo. Partiamo dai primi, ben noti ai più. Il gruppo di Seattle, tra gli “inventori” del “genere” cittadino più noto al mondo, dopo una decade di successi continui a partire dagli anni ottanta, si sciolsero, per saggia decisione, onde evitare di divenire ripetitivi e noiosi. Mai scelta fu più azzeccata nella storia del rock, tanto che il loro ritorno recente ha confermato l’evidente saggezza dei membri della band. Se mentre Chris Cornell lo abbiamo subito tramite film e Virgin Radio nella sua desolazione pop, tanto che in molti si sono domandati il “perché” di tale nefasta scelta, Matt Cameron lo abbiamo visto e sentito per quindici anni alle pelli nei Pearl Jam, consacrando di fatto la band di Vedder e soci come una delle migliori al momento sul pianeta Terra. Gli altri due, Kim Tahyl e Ben Shepherd, sembravano scomparsi in un limbo creativo. E invece no: ascoltatevi King Animal, e noterete come la chitarra di Tahyl vola in sogni orientali e riffoni profondi tra Tony Iommi e Jimmy Page, scoprirete (con una breve ricerca) come molti pezzi siano accreditati al basso di Shepherd, ma soprattutto come il disco sia un lavoro corale, da vera band. È il disco che mancava, a metà tra Superunknown e Down On The Upside. La qualità audio del disco è impressionante, anche se magari il genere non piace, non si può non concordare sulla qualità del lavoro in studio, uno di quei dischi che faranno scuola dietro ai mixer. Il secondo gruppo di cui vorrei parlarvi oggi sono i canadesi Metz. Hanno debuttato per Sub Pop con un album omonimo travolgente: undici tracce di energia, potenza, violenza chitarristica, tamburi che marciano nel post-hardcore di fine Ottanta, che ti pulsano il sangue fino al cervello, e un basso trascinante. Valvole a go go, un rifiuto del presente che si riscrive nell’attualità scomposta dalle distorsioni, un uso del passato che va oltre l’ideologia, un futuro che sembra più che promettente (a breve dovrebbe uscire il secondo disco). Alcuni esseri umani online li hanno definiti i nuovi Nirvana. Effettivamente il power trio canadese ha molto in comune con i tre che hanno ucciso il rock: discepoli di un nuovo credo che rilegge Big Black, Melvins, Jesus Lizard e gli “altri” del miglior rock americano. È proprio quel rock primordiale che sa di Stooges, crudo e selvaggio, che ti arriva in faccia, e a cui non puoi sfuggire, proprio come l’angoscia primordiale di Wet Blanket, con quel basso distorto che scava negli anfratti della mente, un caterpillar di rabbia e risposte. A Febbraio saranno in Italia, bisognerà organizzare qualche macchina e andare a vederli. Infine, seppur opposti, Soundgarden e Metz hanno molto da insegnare, a mio parere, al conformismo di molte nuove band italiane, chiuse in schemi preconfezionati di genere, dimentiche a volte che non basta sembrare qualcosa, bisogna crederci fino in fondo, soprattutto in questo paese dove l’ignoranza musicale è divenuta un’ideologia. Consigli: Soundgarden – King Animal Metz - Metz

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