Numero 25

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Solitudini

Numero 25 - Novembre/Dicembre 2015

di Piero Rosso

“A lungo, mi sono coricato di buonora” è l’inizio di un libro – la Recherche di Proust – che parte da una stanza buia, una notte e molto silenzio. Una celebre prima pagina che vogliamo impiegare – quante migliaia di volte è già stato fatto? – per introdurre questo nuovo numero di Charta Sporca. È famosissimo il giudizio del direttore della casa editrice Ollendorff, Alfred Humblot, che rifiutò il manoscritto dello scrittore francese: “forse sono duro di comprendonio ma per me è inconcepibile che un uomo impieghi trenta pagine per descrivere il suo girarsi e rigirarsi nel letto prima di prendere sonno”. Possiamo concentrarci su questa frase fastidiosa che ci obbliga a ricordare: queste prime pagine, oltre a riprendere e superare il romanzo realista francese, oltre a cominciare una progressiva distruzione della soggettività dell’uomo borghese e a preparare il terreno alla lungo vagabondare della memoria e del tempo, è davvero il racconto di un uomo e della sua battaglia con il cuscino per andare a dormire. È questo filo che introduce il primo episodio di Marcel bambino che prova angoscia nella camera da letto; è dal ricordo di questa solitudine che nasce la consapevolezza di come la memoria volontaria non trattenga nulla di reale. Combray, il paese che ricorrente appare in questo modo, dice Proust, “in effetti, era morto”. Il mondo dello scrittore stava cambiando, visione e ascolto erano impegnati diversamente nella grande città, la solitudine non era più quella del piccolo paese ma sempre più un vuoto da riempire. La folla diveniva parte del paesaggio, il consumismo obbligava gli individui a farne parte (p. 2).

Ancora oggi, chi non riesce a dimostrare di aver “riempito” a sufficienza non è degno di far parte della società: il ladro in galera è un cliente che non ha comprato, il muto è una bocca che non ha parlato, il sordo è un orecchio che non ha sentito (p. 3). Alla luce di ciò, spendiamo un minuto per pensare diversamente la solitudine, non riconduciamola a una devianza. Possiamo ricordarci degli esperimenti del passato, quando isolarsi era combattere (p. 4); oppure, possiamo provare a raccontare in altro modo la vita dei solitari, per evitare il tranello mitologico delle biografie (p. 5). Sarà, forse, proprio una solitudine notturna, riscoperta in un sogno di paese (p. 11), a ricordarci che Proust non cercò di riempire i vuoti della notte; aspettò che affiorassero da soli, e che fossero loro a riempirlo.

In questo numero

La solitudine nella folla

Solitari, non soli.

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Ascoltare l’indiano in noi Intervista a Devis Bonanni

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Solitudini

La solitudine nella folla di Davide Pittioni

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ra gli appunti che Benjamin conserva in alcuni quaderni poi confluiti nei Passage di Parigi, c’è un passo tratto da Simmel che descrive la circostanza nuova che si determina nelle metropoli: “chi vede senza sentire è molto più turbato di chi ascolta senza vedere. È un tratto caratteristico della sociologia delle grandi città”. La vista, nelle metropoli, oscura l’udito, e prevale: “prima dell’avvento degli omnibus, delle ferrovie e dei tram del XIX secolo, la gente non si era mai trovata nella situazione di guardarsi in faccia per minuti o intere ore senza rivolgersi la parola”. Potrebbe facilmente essere considerata un’esagerazione. Tuttavia, prende di mira un bersaglio centrale: la vertigine dello sguardo muto, la stessa che si coglie fissando in maniera prolungata una fotografia avvolta nel silenzio, troppo reale per non ricordarci un qualche rumore di fondo. Al centro sta la città. Città stratificata, che sprofonda su se stessa (e qui il riferimento va a Parigi). Benjamin cerca di narrarne i caratteri nuovi, attraverso quelle immagini che definisce dialettiche, perché ambigue (“ambiguità è l’apparizione figurata della dialettica”, scrive nell’Exposés dei “I passages di Parigi”). Il passage, ormai superato, interiour e strada al tempo stesso. Le sue figure non conciliate, come Baudelaire. Il flaneur e il suo segno ambivalente. La città vive delle sue figure e architetture: le modificazioni del suo tessuto e il progresso industriale, come è quasi ovvio, modificano abitudini e itinerari, ma ne cambiano anche l’intero panorama, trasfigurandolo in un paesaggio. È come lo schizzo dell’artista di strada che

mostra la città sotto un volto nuovo, nelle sue fisionomie. Nella prima stesura parziale dell’opera che Benjamin sembra avere in mente (“Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato”, nella versione curata da Giorgio Agamben) si fa cenno ai phisiologies, “modesti fascicoli in formato tascabile, che si interessavano dei tipi come li si può incontrare girando per il mercato”. Inizi degli anni ‘40 dell’ottocento: si tratteggiavano delle silhoutte umane, “dal venditore ambulante all’elegants dei fourier”. Niente di clamoroso, eppure Benjamin ci scorge qualcosa. Un tentativo, forse, di cogliere delle tipologie note, stabili. Presto, però, questo strano genere letterario inizia a decadere e lascia spazio alla fisiologia della città. Poi dei popoli, persino degli animali. Il problema è il loro anacronismo: troppo innocue, sono immagini che non riescono a restituire l’inquietudine dei nuovi tempi e, anzi, “sono fatte apposta per rimuovere come qualcosa di trascurabile queste idee inquietanti”. Le fisiologie erano a modo loro delle “fantasmagorie delle vita parigina”, ma non andavano molto lontano. È al loro interno che si forma qualcosa di nuovo. Una propensione verso il tema della massa. O, meglio, della folla. Ci troviamo di fronte al paradosso di una solitudine moltiplicata, “una concentrazione mostruosa di persone private in quanto tali dovuta soltanto alla casualità dei loro interessi personali”. Il suo modello – sembra di intuire – è quello del mercato, del rapporto tra merci. È qui che il flaneur trova la sua casa: egli è un detective, “un vigile osservatore” solo apparentemente indolente, che scruta e indaga nelle sue peregrinazioni cittadine. “Il flaneur è l’osservatore del mercato […] egli è l’ispettore del capitalismo inviato nel regno del consumatore”. I passages, corridoi ricoperti di vetro dove trovano sede botteghe e negozi, gli permettono di trovare rifugio, ma lo sfondo del suo paesaggio resta quello della folla anonima. Qui un altro genere letterario ci viene in aiuto. Solitamente si fa risalire la nascita del giallo alla pubblicazione nel 1841 del racconto I delitti della Rue Morgue di Edgar A. Poe. Gli anni, si diceva, di una nuova in-

quietudine. Come nota ancora Benjamin, “l’originario contenuto sociale del racconto d’investigazione è la cancellazione delle tracce del singolo nella folla metropolitana”. In mezzo a questa “struttura amorfa e ingannevole”, infatti, si perdono le tracce del delitto e dell’asociale protagonista del racconto di investigazione. L’uomo nella folla, di Poe, è paradigmatico in questo senso. Accade lo stesso nelle Passanti di Baudelaire, anche se non in maniera palese: la folla nasconde, “si distende come un velo”. Ma contrariamente a quanto possa pensare il senso comune – e qui probabilmente sta il genio dialettico di Benjamin, il suo piacere del rovescio – non è un velo che occulta, che sottrae il delinquente dalla cattura o che confonde il flaneur nella sua trama, ma è precisamente ciò che permette l’apparizione. La passante non avrebbe nessun significato erotico se non sfuggisse tra la folla, una fra le altre, facendosi per noi “ultimo sguardo”. È il flaneur – come perditempo, come investigatore, come giornalista – a immedesimarsi nella folla pur mantenendo il suo carattere originale, scisso dal suo tempo, estraniato, grazie al suo osservatorio privilegiato, anonimo e perso nel labirinto dei corpi che si muovono nella città, eppure ancora “sulla soglia, sia della grande città che della classe borghese”. Il detective e il flaneur, allora, conducono la loro inattuale ricerca. Le istituzioni, invece, provvedono a compensare la scomparsa delle tracce individuali con una complessa rete di registrazioni e controlli: foto segnaletiche, numerazione delle case, illuminazione elettrica. Fenomeni apparentemente neutrali, e invece carichi di un senso primariamente politico. In un rapporto di polizia risalente al 1798 si legge: “è pressoché impossibile mantenersi onesti in mezzo a una popolazione fittamente ammassata, dove ogni individuo è in certo senso sconosciuto agli altri e non ha bisogno di arrossire di fronte a ognuno”. Sembra come la dimostrazione di una paura: la folla è un pericolo e inquieta, ma è anche la condizione della metropoli, del mercato, del pubblico e quindi del consumo. Dentro essa si nasconde il suo rovescio, l’asociale. E in fondo ognuno di noi.


Solitudini

Io resto qui, per i sentieri dove cresce l’erba ,

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il 1945. Il 26 maggio il capo della polizia di Arendal venne a Nørholm e dispose l’arresto domiciliare di trenta giorni per mia moglie e per me”. All’età di 86 anni, il nobel norvegese Knut Hamsun viene internato in una clinica psichiatrica in attesa che inizi il suo processo. L’accusa? Collaborazionismo con il governo Quisling, alto tradimento, apologia della Germania nazista, incapacità mentale. Hamsun, che aveva deciso di chiudere il cerchio della propria creazione letteraria già nel 1936, fu costretto a riprendere la penna in mano per dimostrare ai suoi compatrioti che no, non era pazzo, né malato, ma era “solo sordo”. Ne è uscito På giengroddle stier, riedito lo scorso anno dalla Fazi Editore con il titolo fedele all’originale Per i sentieri dove cresce l’erba (da cui tutte le citazioni). Un “diario dell’effimero e della vanità”, come l’ha descritto Claudio Magris, ma che se di effimero c’è nella misura stessa della caducità della vita, di vanitoso ha ben poco. Fiero, desolato, gelido è il diario degli ultimi anni di un uomo vecchio, solo, raccolto in sé, che ha poca forza oramai per combattere contro l’accusa infamante di infermità mentale e per difendere sé stesso. È il 1945. Hamsun viene internato in una clinica dove il tempo scorre immobile: scrive, legge qualche rivista, fa i solitari. I giornali no, quelli non li può leggere: il regime carcerario imposto dal governo non glielo permette. “Non c’è via d’uscita”. Il gigante fa paura anche da vinto. Non c’è rancore, né odio che serpeggia tra i sentieri dove cresce l’erba. Il tempo passa, “tutto segue il suo corso”. Un languore che non ha nulla del vitalismo di Bergson, dell’abbandono pirandelliano di Vitangelo Moscarda, dell’estranea indifferenza del Meursault di Camus. “Io voglio quel che vuole la polizia. Da parte mia non ho più alcun desiderio”: all’antieroe norvegese non resta nulla. Paradossalmente, è questo fatalismo a spaventare chi detiene il potere.

Un unico sussulto, tra le pagine del diario, anima il vecchio: il suo composto j’accuse alla giustizia che si abbatte inesorabile su di lui. “Giustizia, diritto, tutto un grande apparato”. Continua: “è stato un lungo, lungo sradicamento. Dovuto a che? A niente di speciale, era il sistema. Una dittatura sopra la vita, regolamenti stabiliti senza intelligenza e senza cuore, una psicologia fatta di tabelle e rubriche, in barba a una scienza intera”.

Le notizie mancano, la posta fa i capricci, gli operatori lo trattano con la spicciola umanità che si riserva a un “animale domestico” a briglia lunga nei suoi spostamenti, “tanto è legato”: la penna più adamantina della letteratura norvegese ridotta a uno scialbo vecchio pazzo da compatire, inascoltato. “Sono sordo, nessuno ha la pazienza di parlare con me, e alla fine ho dimenticato perfino come si fa, a parlare”; ma allo stesso tempo apprezza quell’alone di indifferenza calato su di lui: “non sono né odiato né disprezzato dalla gente. E questa è una cosa buona”. Nello scorrere placido dei mesi, a prevalere è il vissuto senso di sconfitta, che nella fierezza della monotona quotidianità è capace di richiedere umanità, ma senza pietismo né brontolii. “Che la nostra vita e il nostro tempo seguano pure il loro corso: non mi riguarda. [...] Io resto qui”. E poi la memoria istruttoria, la difesa di ciò che è stato, delle proprie idee, dei propri scritti e, seppure si allontani dalle accuse di appoggio concreto a Quisling, non abiura. Un processo alle idee, non a fatti compiuti: “quel che mi dovrebbero condannare sono dunque i miei articoli. Nient’altro può essermi imputato”. E ancora: “nella mia vita […] ho sempre ed eternamente venerato e custodito nel cuore la mia patria. Ed è nel mio cuore che intendo conservarla anche adesso, mentre attendo il verdetto finale”. Sarebbe potuto scappare, Hamsun, “potevo tentare di filarmela in Svezia, come hanno fatto in tanti. [...] Non ho fatto niente del genere, io, non mi è mai passato per la mente di muovermi. Pensavo che avrei servito la mia patria nel modo migliore rimanendo dov’ero, a

di Lorenzo Natural

natural.lorenzo@gmail.com

coltivare la mia terra meglio che potevo, in quei tempi duri […], e inoltre usando la mia penna per la Norvegia, che avrebbe occupato una posizione di primo piano tra le nazioni germaniche d’Europa”. Un’idea che la storia ha condannato senza appello. Ma il processo alle idee (“io non ho denunziato nessuno, non ho partecipato a riunioni, non sono stato neppure mai coinvolto in affari di borsa nera”) non può scalfire il cuore di un uomo all’oscuro delle “nefandezze compiute dai tedeschi”, convinto che “in quel momento era giusto” credere in quel progetto. Il sussulto titanico dura poco, lascia nuovamente spazio all’amarezza della propria condizione, inadatta a combattere e a sopportare un mondo che muore, sgretola, dilaga e ad arginarlo come Sisifo sul monte. È troppo solo e vecchio. Il processo è continuamente rinviato e gli anni che passano sono una condanna a rate. “Dopo il 1947 viene il ‘48, il ‘49, il ‘50... il ‘60”. La sua sconfitta è la fine dell’Europa per come l’avevano pensata in molti, sbagliata probabilmente, ma è la fine di un’epoca che apre all’“età del cemento”. Muoiono le saghe del nord, muore la terra, avanza “l’empireo dell’erudizione che non può essere mai confutata, del silenzio di fronte alle obiezioni, dell’arroganza della specie più comune”. Il progresso avanza, impone responsabilità e vendette per i vinti, condannati dal presente, dimenticati dal futuro, taciuti nell’eterno. Formiche solitarie d’un formicaio distrutto. Né uno schianto né una lagna: sic transit gloria Norvegiae. L’erba ricrescerà sui sentieri e coprirà di nuovo tutto, anche quell’“istituto a Oslo dove si trattava di stabilire se [Hamsun] er[a] matto, o forse [...] di decidere che er[a] matto”. Democraticamente, seppellirà vinti e vincitori. “S. Giovanni 1948 Oggi la Corte di Cassazione ha emesso la sua sentenza, e io non scriverò più”.

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Solitudini

Solitari, non soli di Daniele Lettig le tracce: ci ricordano “che questo è stato”, che è grazie ai loro sforzi che godiamo i frutti una libertà da noi mai abbastanza valorizzata. “Eccoli qui allora – scrive l’autore nel volume – i loro volti oggi, i volti dei ribelli di allora segnati dal tempo; volti che ci riguardano e ci concernono. L’inquadratura è ripetitiva e chiusa, come si usa con le foto segnaletiche dei delinquenti, dei banditi”. I loro occhi – perché sono quelli che colpiscono prima di ogni altra cosa: occhi buoni, diretti, chiusi, profondi – ci guardano e nel contempo ci raccontano che cosa hanno visto, che cosa hanno provato e combattuto per regalarci un dono così importante. E tuttavia: non sono soli, ma sono solitari: perché noi troppo spesso ci dimentichiamo o ci siamo dimenticati di loro, e perché, era ancora Cid a dirlo, “essere sopravvissuti è già difficile, ma la colpa maggiore che abbiamo è che non vole-

Sono solitario, non solo. Così esprimeva la sua condizione Sergio Cocetta, il partigiano ‘Cid’, “maestro e mentore” di Danilo De Marco. Ed è stato proprio Cid, scomparso due anni fa, il nume tutelare della ricerca ormai più che decennale (anche se “prossima alla fine”, come scrive l’autore) che ha portato il grande fotografo friulano a immortalare i volti di migliaia di reduci della guerra partigiana: prima in Friuli, e poi in tutta Europa. Un lavoro epico, necessario e vitale non solo per De Marco ma anche per chi questi ritratti li osserva da spettatore: sia nelle enormi, stupende stampe in bianco e nero della mostra allestita a palazzo Gopcevich a Trieste, sia nel bel libro omonimo Partigiani di un’altra Europa. Quelli immortalati da De Marco sono volti dei quali non ci si dimentica facilmente. Visi che esprimono una “forza del passato” di cui oggi sembriamo avere smarrito

vamo questo…”. Ma ciò non cancella il valore di una scelta, di molte scelte: ciascuna singola e individuale eppure legata intimamente a quella degli altri, compiuta a un’età in cui oggi noi tutti siamo non più che bambini che si trastullano con gli ultimi ritrovati tecnologici. Forse allora siamo noi ad essere soli seppure non solitari, in un ribaltamento di prospettiva che porta ciascuno a isolarsi sempre più, convinto per paradosso di essere connesso (“basta un clic!”) al mondo intero. E perciò essere guardati dai volti che De Marco ha scolpito nei suoi negativi – già, perché sono loro a guardarci, anzi a scrutarci in un profondo che non sappiamo di avere o preferiamo rimuovere – è un’esperienza che richiede non una mera contemplazione, o uno sterile ringraziamento o ricordo. Ci impone invece un impegno quotidiano, per squarciare il velo opaco della nostra indifferenza.


Solitudini

Le promeneur solitaire di W. G. Sebald Per raccontare la vita degli uomini soli.

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o avuto un solo pensiero, durante la lettura di queste pagine, un’idea insistente e al di là di molte fascinazioni: esiste la possibilità di pensare più liberamente alla solitudine? Se dovessi riassumere nello spazio di un articolo quello che ho letto, direi d’aver fatto esperienza, tramite le parole di Sebald, passeggiatore solitario (Wanderer), di una strana scampagnata che Walser un giorno fece nella vita, di questa sua solitudine che non fu mai un vuoto da riempire. È una scrittura lontana da ogni intento di restituzione, da ogni ricostruzione. Walser fu portatore di una solitudine carnevalesca, con tutte le sue maschere: non si trattò di una patologia; non fu una fuga esasperata; non una rimozione o un’elevazione. Il racconto di una solitudine, ci sembra dire Sebald, dovrebbe sempre partire da altrove. Facciamo finta per un momento che non esista opposizione tra letteratura e vita. In questo nuovo spazio, non pensiamo più alla solitudine del folle, del carcerato, dell’emarginato – non pensiamo più a una solitudine come follia, come reclusione, come emarginazione. Prendiamo un Don Chisciotte e il suo scudiero, girovaghi e solinghi – anche loro figure del Wanderer. Facendo finta, invadiamo per un momento, la vita di letteratura. Niente paura, non dichiariamo qui l’esistenza di Don Chisciotte; cerchiamo, invece, di comprendere il perché della sua apparizione, considerandolo come l’emergere di una necessità, un simbolo insieme della salvezza e della decadenza di un secolo: la sua solitudine ci parla ancora. Al contrario, in questo spazio che abbiamo appena aperto, non possiamo dare più la colpa delle sue visioni alla follia; è possibile entrare in sintonia coi mulini a vento o l’elmo di Mambrino anche se smettiamo di aggrapparci a questa scusa. Non siamo di fronte a un visionario: è la solitudine a essere una forma di visione. Evidenziare lo sguardo del solitario è una faccenda centrale anche per Furio Jesi, che ritrova – senza distinzione tra personaggi storici e letterari – una serie di casi

di Piero Rosso in cui eminenti intellettuali si rintanarono nei propri uffici sommersi dai libri, fino a murare con essi le finestre che davano all’esterno. Anch’essi volevano spiegare il mondo distanziandosene, come fanno i miti, che si nutrono di vuoto e cercano di riempirlo. Possiamo, così, smascherare quelle narrazioni dell’io che si distanzia e si separa dal mondo; ricordando, invece, quegli scritti che nascono da un’elaborazione della solitudine come visione. È il caso di Lévy-Strauss che racconta dei suoi Tristi tropici o di Warburg che ne Il rituale del serpente parla degli indiani Hopi; anche William Least-Heat Moon, in tempi più recenti, racconta in Strade blu la sua personale “guarigione dai de-

moni” tra viaggio picaresco e scrittura. Il rituale del serpente di Warburg, in particolare, nacque dall’esposizione che egli fece, davanti a dottori e pazienti della clinica in cui era in cura, per dimostrare la propria ritrovata sanità mentale. Pensando a questi autori, come a tanti altri, cresce l’urgenza di aggiustare la mira, perché sebbene continuiamo a leggere i loro libri come fondamentali appunti di viaggio, continuiamo imperterriti a trattarli come “diari di una guarigione da questo o quest’altro male”, e a cercare frasi salvifiche nelle loro pagine, sperando di innestarle nelle nostre personali solitudini, confidando che fioriscano. Da qui nasce l’importanza de Le promeneur solitaire, che di Walser non racconta la vita, ma la progressiva perdita di peso nel mondo – quasi avessimo davanti quel salto leggero di Cavalcanti sopra le tombe nel cimitero, di cui ci parlava Calvino ne Le lezioni americane. La solitudine,

così, diviene un processo, un movimento, non più uno stasi e uno stato mentale; essa non è più conciliabile con il genere letterario della biografia, la cui essenza più profonda è proprio la necessità di movimento continuo dei soggetti di cui racconta. “Cadere in uno stato di profonda solitudine”, frase tipica del genere biografico, è una frase che concentra tutto il movimento possibile nell’atto di “cadere” e non nella solitudine. Abbiamo bisogno, pertanto, della figura del picaro – che condivide pochi ma sostanziali aspetti col Wanderer – la cui prerogativa è sempre lo spostamento. Per raccontare la vita rifiutiamo la biografia, scoprendo come finora la solitudine ha fatto parte di quella schiera di miti che servivano a costruire identità; pensiamo, invece, a una solitudine creativa, capace di continuare a parlarci e di farci parlare al di fuori di tutte le precise ricostruzioni della vita e delle opere. Il Journal de deuil di Roland Barthes fu proprio la registrazione del lavoro del lutto di molte identità differenti, tutte rispondenti al nome di “Roland Barthes”, in seguito alla scomparsa della madre dell’autore. Così, suggerisce Sebald, possiamo uscire dalla scrittura biografica e raccontare la vita di Robert Walser come un grandissimo lavoro del lutto: riconoscere l’esistenza di molti “Robert Walser”, di molte identità divise, e considerare la solitudine soltanto come parte di esse. Di questo scrittore non sappiamo molto, Sebald non si dedica alla ricostruzione dei dati biografici, e d’altronde, chi farebbe lo stesso per Don Chisciotte? Ritroviamo Walser in clinica a Waldau; pota le piante, gioca lunghe partite a biliardo contro se stesso – tutte immagini della solitudine. Ma se la letteratura e la vita fossero intersecate per davvero, non lasceremmo le piante diventargli soldati davanti agli occhi e il rastrello una spada a mille punte? Non vedremmo apparire sul panno del tavolo da gioco la mappa della vecchia Europa, su cui disporre antiche cannoniere e nuovi fanti? Di che cosa avremmo paura? Di restare ancora una volta coinvolti nelle fantasie picaresche di un vecchio scrittore?

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Guardati alle spalle & Ragazzo con le spalle

Stella Telatin


Terza Pagina

inserto letterario

In cerca della sera avevo invano esaurito ogni strada J.L.Borges, Piazza San Martìn Prima le notti scorrevano più lente, più mansuete Ed io aspettavo senza sapere, davvero, cosa aspettavo. Ora che tu sei qui mi è chiaro che anche te aspettavo e guardo tentando di mandare a mente il contorno delle labbra, l’occhio richiuso di penombra – per tenerli un’ora, un giorno ancora. Poi soltanto il tuo silenzio nel buio della stanza.

Ettore Spada


Come non detto Jack non era un tipo adatto a insegnare. Tutti lo sapevano. Non che fosse impreparato o altro, solamente non era un insegnate. Guidava un bus. Allora quando si parlava al bar di politica, di donne o di calcio nessuno lo stava a sentire. Chiunque si sentiva in dovere di rimproverarlo, o quantomeno, di ignorarlo. Il più delle volte Jack aveva ragione ma nessuno gliene riconosceva mai il merito. In un pub come il Valentine’s nessuno ammette mai uno sbaglio. Innumerevoli erano le risse tra barmen e ubriaconi per ordinazioni sbagliate. Questo succedeva soprattutto il venerdì, la serata “disco”, quando il locale si trasformava in un girone infernale e le voci rimbombavano sui fondoschiena possenti e sudati di ragazze sovrappeso che si sbattevano con impegno per farsi offrire qualcosa. Non era divertimento, più lavoro e momento di dimostrare di valere qualcosa alle amiche. Tanti tedeschi e inglesi rugbisti, nessuna rimaneva insoddisfatta. Si era creato un comunismo delle pretese, eliminata qualsiasi proprietà privata di fascino, sogno, principe azzurro o amore a prima vista. Un covo di proletari che si volevano bene dopo qualche giro di bevute. Jack ogni tanto si toglieva l’aria spenta di dosso e ci dava dentro. Non spesso, però. Lo faceva quando la sua frustrazione raggiungeva il limite e solo un po’ di saliva mista a tabacco, mista a vodka poteva farla fluire giù fino all’orinatoio intasato vicino all’entrata sulla sinistra. Un altro bagno era chiuso da dieci anni. Non abitava ancora a Gants Hill all’epoca, non sapeva se fosse la verità. Quando stringeva una ragazza si sentiva felice, lei ascoltava le sue teorie e rideva educatamente. Non lo stava ad ascoltare, pensava parlasse di sua madre. Tuttavia un bacio è un bacio e il venerdì il pub chiudeva all’una e uno shot costava appena una 1,50£. I soldi meglio spesi della settimana. Quando tornava a casa appuntava su una lavagna quante volte era stato zittito. Di media 10. Una sera addirittura 30. Quella volta approcciò due nere dai seni grandi e si giocò la paga di una settimana. Uno psicologo sarebbe stato più caro. Dopo la lavagna si concedeva una doccia fredda per risparmiare. Una sua teoria economica. Il letto era l’ultima tappa del suo viaggio. Ricapitolando: letto-bus-Valentine’s-lavagna-letto. Ogni giorno vissuto con pacato disinteresse. Una vita senza ricordi e senza programmi. Forse sarebbe rimasto per sempre giovane, ormai non teneva più il conto degli anni. Aveva una data in mente come giorno della sua nascita ma nessuno gli dava retta, così riceveva gli auguri almeno tre volte l’anno. Per tanti aveva almeno cinquantadue anni, per alcuni trenta, per altri settanta. Gli si chiedeva spesso perché non fosse già andato in pensione ma nessuno ne ascoltava la risposta. Non si sentiva pronto per la pensione. Guidare il bus gli piaceva. Prima o poi sarebbe toccato anche a lui andare in pensione, a meno di non morire prematuramente, ma cosa gli avrebbe importato a quel punto? I giorni passavano senza molte gioie né dolori, qualche punta di amore e brevi attimi di irritazione che si risolvevano in uno stanco sfregare di gesso sulla lavagna. Aveva pensato di raccogliere il suo sapere in un libro, ma sarebbe stato talmente vasto da richiedere anni di gestazione. Non c’era motivo di immergersi in tale inutile impresa. Nessuno l’avrebbe letto, ne era certo. Peccato, aveva pure trovato un bel titolo “Quello che alla gente dispiace: le scomode verità di Jack K.”, ma più in là di questo si accumulavano pagine vergini come il gatto castrato della vicina Daisy. Strana donna quella Daisy, lo dicevano tutti nel quartiere. Pensava di morire un giorno sì e l’altro pure, ma non faceva altro che ringiovanire. Ne aveva visti di patti con il diavolo, ma quello gli pareva particolarmente salato. Un giorno la vide strappare le erbacce dal giardino. Se ne stava immobile con le ginocchia bene

impiantate nel terreno con il capo chino sul proprio petto, come se stesse ammirando il proprio seno generoso. C’era sicuramente molto di cui andare fieri, non si può discutere. Sembrava in trance, forse una puntura d’ape o forse la morte si era finalmente fatta viva. Osservando più attentamente vide che le sue labbra si muovevano come se stesse pregando. Era estate. Il sole delle tre batte forte d’estate. Forse stava svenendo, avrebbe dovuto fare qualcosa. Appena mosse un passo la signora Daisy si rianimò con uno spirito e un’energia che pareva posseduta. Forse lo era. O forse no. A Jack non importava, fatti suoi diceva sempre. Accantonata l’idea del libro, la sua vita si fece più piatta del solito e un poco ne soffriva. Lo dicevano tutti nel bar che la sua cera non era delle migliori. Sarà colpa dei continui sbalzi di temperatura, la cugina dell’idraulico di Ashurst Drive ne soffriva terribilmente anche lei. Una malanno comune, colpa dell’inquinamento che stava cambiando il clima al quale erano tutti abituati. Per Dio, sì che esistono le mezze stagioni! Jack accettava la diagnosi senza permettersi di rivelare il vero motivo. Cosa sarebbe servito? Avrebbe avuto più credito se avesse scritto anonimamente i suoi pensieri nel bagno che se avesse preso una laurea a Oxford. Di questo ne era certo. E se ne era certo, perché non provare? Il venerdì sarebbe stato perfetto, troppa gente e per di più ubriaca fradicia. Nessuno se ne sarebbe accorto. Cominciò a sentenziare risultati di partite di calcio sino a predire la vittoria del Chelsea e la terribile figura del Manchester United sin dalla seconda giornata. Predisse l’esito del voto d’indipendenza scozzese e persino il nome della figlia di William e Kate. Qualcuno parlò di intervento alieno, altri di un novello Nostradamus. A nessuno veniva in mente che le stesse identiche cose erano già state dette da Jack solo qualche giorno prima. La gente non ascolta le idee di uno come Jack, c’è poco da fare. Da un giorno all’altro il Valentine’s diventò una meta di pellegrinaggio. Cambiò il nome in “St. Valentine’s” e l’orinatoio sopra il quale apparivano le celestiali rivelazioni si pensò di trasformarlo in una fonte battesimale. L’Ufficio di Igiene sembrava farsi sempre più accondiscendente all’idea, sebbene all’inizio fosse categoricamente contrario. Non ci si può opporre ai miracoli, né tanto meno al volere della gente. Jack non si aspettava una tale degenerazione. Con tutta quella gente fuori di testa non gli era nemmeno più possibile scrivere. E che diavolo era quell’odore di erba? Non gli si staccava più dai vestiti e al lavoro i colleghi mormoravano. Glaucoma? Anoressia? Certo non era un buon motivo per farsi le canne. Jack stava perdendo il controllo, si vedeva che oramai non ci stava più con la testa. Jack non capiva più di che cosa stessero parlando, davvero non lo capiva. Era arrivato il momento di smetterla. Aveva dimostrato a sé stesso la validità delle proprie idee, semmai ce ne fosse stato bisogno. Una conferma in più non fa mai male, diceva sua madre. Così con l’arrestarsi delle scritte l’interesse intorno al caso del “Pub delle profezie” (come lo chiamavano i media) si spense e la vita tornò alla normalità. Il locale riprese il vecchio nome e le vecchie abitudini: mercoledì karaoke, venerdì serata disco, sabato gruppo dal vivo. L’orinatoio perse la propria sacralità e tornò a svolgere le sue funzioni con ammirevole dedizione. Smisero di servire la Coors Light. La birra preferita di Jack. Ciò lo rattristò a tal punto da renderlo ancora più silenzioso. Non era un insegnante, ma ne aveva il volto. Il volto della rassegnazione. Secondo il commesso della banca era colpa del tempo da cani di quei giorni. Era opinione comune che Jack fosse singolarmente meteoropatico. Questo Jack proprio non riusciva a capirlo, ma tant’è...

Giovanni Piva


‘Pesaggio invernale con pattinatori e trappola per uccelli’ (da P. Bruegel, il Vecchio) E giunge anche qui un altro inverno lo si avverte prematuro nell’aria e a poco vale scomodare responsi dell’Aeronautica più certi del volo degli uccelli per sapere l’ora esatta in cui le nubi rovesceranno la neve. Qualche dettaglio sbanda impazzito: la treccia primaverile pericolante di bellezza che la scolara ciondola via, il fiato di alcol caparbio che ‘la vita è ineluttabile’ dell’uomo piombato con la gamba storta sul fanale, il bacio che l’irato dispensa all’amata in pena mentre fuori si mitraglia a colpi di dio e di tutti i suoi nomi qualcuno fra un milione che pensa a dio quando si sciacqua i denti o per un esame o appena ha saputo la morte della madre. Qualcosa echeggia come uno sparo non solo nel vicolo dove è finita la palla ma anche nel cuore di Re Lear ed è la battuta del Matto alle sue spalle che acceca l’indiscutibile realtà e fa muovere il filo dell’altalena da cui altri Pulcinella e controfigure di Pulcinella dondolano sul precipizio. Ma noi fingiamo di non udire il cigolìo che si dibatte irreparabile e volgiamo lo sguardo all’inerte inverno che intrappola i bambini al gioco dei pattini sul ghiaccio mentre i corvi fioriti sui rami attendono lo scricchiolìo nell’ombra o il tuono che manda in fumo le navi al largo del mare crudelmente azzurro per tentare una fuga nelle città di sogno che vacillano fosche all’orizzonte. 19 Novembre 2015 A. D. Baciocchi

Albescunt campi vestimentis mortuorum lineis, Velut solent in autumno albescere avibus. Che scorno fu per molti, quando finito di ricostruire Si costruì ancora, e per me, col mio fiore Sempre malato che ti pregava di tenermi in mano, E Iddio col suo, senza trovare una briciola di macerie, Un segno di passaggio, un tralucere dei tuoi passi, Guerra non ci fu più né i campi di battaglia Furono bianchi di vesti ma trapunti di uccelli. Il futuro sembrava dritto e liso, stando appesi Alle lancette della torre, degradando verso valle Come le viti che crescono senza sapere Dove gli uomini arrivino al mare e salpino O dove il mondo abbia lasciato più grande il suo dettato.

Giacomo Pirani

piranigiacomo@gmail.com http://diecitulipaniblu.blogspot.it/


Pirandelliana Vecchio! La vita? Ti piaceva… “Sissì… Beh in fondo vivevo solo per ricordare me stesso: per non avere rimpianti o rimorsi”. E la seguivi, allora. La seguivi! “Sissì… Magari non per nobiltà o entusiasmo o speranza. Nonnò… Per una ragione, invece, molto più romantica: perché non mi scacciava… Ma sì! Poi l’eco di uno sguardo, l’eco di uno sguardo s’infrange nel cuore: e tutto quello che resta da vedere è il desiderio di guardare”.

Morte antologica permanente Siccome la vita ci rovina la vita (sempre!), a giugno ho visitato (un po’ turista, un po’ becchino e un po’ parente sconsolato) l’interessante morte antologica permanente delle mie speranze migliori: quanti sogni falliti imbalsamati in bella mostra! Li guardavo e piangevo desolato nero, dannandomi frenetico la salute. E adesso è soltanto stanchezza rabbiosa resistere ogni giorno al ripetersi ingombrante del respiro e della luce.

Pietro Pancamo


Solitudini

Il viaggio di Zia Michelina lungo la via della solitudine di Solivagus Rima

Z

ia Michelina è una donna centenaria di Roseto Valfortore, un paesino in provincia di Foggia. Ama il suo paese, che con i suoi pochi più di milletrecento abitanti le ha sempre regalato grandi emozioni. Il tartufo, i taralli, il pane dello storico panificio De Rosa, il miele, il vino, il caciocavallo, la Peroni, i pochi negozi di alimentari, la caccia al cinghiale: questi sono tutti elementi caratteristici della vita a Roseto. Solo un rosetano o uno che è stato a Roseto almeno una volta nella vita può capire. Zia Michelina ha sempre condotto una vita solitaria in una casa in via Piazza Vecchia. Ha sempre amato la solitudine, la quiete del Subappennino Dauno, il Monte Cornacchia, il Monte Saraceno, il colore della nebbia che cala in alcune giornate umide sia su Roseto che su Alberona, un paese vicino. Là stava bene, era felice. Una notte si coricò pensando a quella beata solitudine e durante il sonno sprofondò in una dimensione onirica, che la portò lungo la via principale del paese, la SP 130, mentre vi era il ricorrente evento del mercato del sabato mattina. Le bancarelle del mercato però non vendevano più i soliti prodotti: frutta, verdura, pe-

sce, fiori, vestiti, biscotti e cibi vari, ma sembravano esporre tutto quello che potesse riguardare la parola “solitudine”. Zia Michelina pensò che quelle bancarelle fossero perfette in quel paese dove la solitudine regnava sovrana. La bancarella dei prodotti tipici dei Monti Dauni era molto diversa dalle altre volte e si poteva leggere su un grande cartellone una frase di Thomas Mann: “La solitudine genera l’originalità, la strana e inquietante bellezza, la poesia, ma anche il contrario: l’abnorme, l’assurdo, l’illecito”. Il venditore parlò a Zia Michelina del duplice aspetto della solitudine, descrivendola sulla base delle parole di Mann come un’arma a doppio taglio che poteva rendere forti o deboli, geniali o pazzi, o per l’appunto “originali” o “assurdi”. Lei in fondo al cuore si sentiva più “assurda” che “originale”. La bancarella dei fiori invece esponeva una frase di Baudelaire: “Chi non sa popolare la propria solitudine, nemmeno sa esser solo in mezzo alla folla affaccendata”. La fioraia le spiegò che la solitudine era una benedizione, ma anche una maledizione. Le raccontò di come la solitudine fosse sia un’esperienza formativa per l’individuo sia la costante ricerca di qualcosa di misterioso. Questa volta la solitudine era un obiettivo da perseguire in ogni situazione, una condizione importante della propria esistenza, della propria personalità. Zia Michelina non l’aveva mai cercata, era nata e aveva sempre vissuto nella solitudine. Presso la bancarella dei vestiti vi era un cartellone con una frase di Pirandello: “La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l’estraneo siete voi”. Immerso fra le varie maschere grottesche in vendita, il commerciante spiegò di come ci si potesse sentire soli nel sentirsi estranei da un determinato contesto o da un luogo. A quelle parole, che lei comprese subito, pensò che in effetti lei non si sentiva per niente estranea al suo paese, forse era l’intera Roseto ad

essere estranea da tutto il resto: un paese proprio al confine fra Puglia e Campania, né carne né pesce, una realtà a sé stante. Ma lei si sentiva parte integrante di quella realtà, quindi in quel contesto non poteva dirsi sola. Presso la bancarella del pesce vi era invece una frase di Victor Hugo: “La solitudine unendosi alle anime semplici, le complica”. In effetti era proprio “un cancro” la solitudine, per certi versi. Zia Michelina si ricordò di quand’era bambina e di come non soffrisse per niente la claustrofobia di Roseto, di come la sua mente semplice pian piano avesse cominciato a sentirsi corrotta e di come poi in vecchiaia fosse tornata alla semplicità. Il pescivendolo le confermò che le vie della solitudine erano irte di ostacoli e di complicazioni. Era messa in risalto infine, proprio al termine della strada provinciale, una nuova bancarella, che nessuno aveva mai visto prima di quel giorno, la quale riguardava l’etimologia e le origini della parola “solitudine”. Vivikta, le disse il venditore, era il vocabolo sanscrito che significava “solitudine”. Aggiunse poi che una cosa curiosa fosse il fatto che il vocabolo derivasse dalla radice indoeuropea vic, indicante concetti come la “distanza” o la “separazione”. Dalla stessa radice però derivava pure il latino vicinus, che in italiano significa “vicino”. Quindi il vocabolo “solitudine” significava, oltre che “allontanamento” e “separazione”, anche “avvicinamento”, soprattutto nelle lingue della civiltà occidentale. E fu proprio quest’ultima consapevolezza a far capire a Zia Michelina perché fosse così felice a Roseto, pur stando in solitudine. Era l’avvicinamento delle persone care, dei compaesani, delle facce amichevoli e conosciute a farla star bene; era il calore di un paese solitario e sperduto della Puglia settentrionale: Roseto Valfortore, un paesino che, pur lasciando le persone libere di stare da sole, in fondo non le lasciava mai sole.

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Cinema

Visioni dallo spazio Italia

“Q

uesto film è costato 3742 euro”: così recitano i titoli di testa di Strings, uno dei film italiani presentati in questa quindicesima edizione del festival Trieste Science+Fiction. Sembra difficile da credere, considerando il risultato finale. Mentre si parla da anni di crisi del cinema italiano, con una deviazione considerevole dei già esigui finanziamenti verso produzioni più sicure dal punto di vista del ritorno d’investimento (si veda la proliferazione delle fiction televisive), il cinema cosiddetto indipendente si ritaglia spazi come e dove può. La storia è comune: i progetti-film vengono realizzati con budget molto ridotti, a volte grazie a fondi e borse erogati da enti e istituzioni; e si sviluppano quasi sempre all’interno di corsi, laboratori, scuole di cinema (confermando, loro malgrado, la dinamica dell’esperienza formativa come unica retribuzione per il lavoro svolto dai vari studenti e tirocinanti che partecipano al progetto). Come naturale conseguenza della sua natura di festival indipendente, il TS+F ha da sempre un occhio di riguardo per queste produzioni nostrane nell’ambito dello Spazio Italia. Film che spesso non sono strettamente “di genere”, e soprattutto film “giovani”: per esempio ha solo 24 anni Lorenzo Berghella, che ha presentato a

Trieste la sua opera prima Bangland, film d’animazione fumettistico nell’immagine e punk nello spirito. Bangland ci racconta un’ America speculare a quella che conosciamo attraverso il filtro mediatico (tv, film, musica), ma non per questo meno controversa. Solo che il presidente guerrafondaio è Steven Spielberg, il telepredicatore senza scrupoli ha il volto preso in prestito da Bill Murray, e Morgan Freeman è la star con la passione per le minorenni... Una sorta di noir metropolitano che si snoda sullo sfondo di crescenti tensioni razziali fra bianchi e afro-americani, fino all’esplosione finale. Si tira un po’ troppo la corda del gioco delle citazioni, ma nell’insieme tout se tient e si guarda con piacere, anche grazie a un’azzeccata colonna sonora (anche quella, manco a dirlo, “fatta in casa”). Giovani universitari sono anche i protagonisti di un altro dei film presentati quest’anno, Strings, citato in apertura: uno studente di fisica viene in possesso di uno strano oggetto che permette di “saltare” in una dimensione parallela alla nostra, e quasi identica – quasi, perché vi si è affermato un regime che impedisce le più normali manifestazioni di affetto e vicinanza tra le persone. Dal futuro parallelo il regime invierà degli agenti con la missione di sabotare l’oggetto e impedire al ragazzo di

di Giuseppe Nava diventare, nel “loro” mondo, il capo di una ribellione senza precedenti. Prendendo spunto dalla cosiddetta teoria delle stringhe, questa produzione altoatesina dimostra ancora una volta che per fare buona fantascienza non sono indispensabili alieni o astronavi o effetti speciali hollywoodiani. Un film molto curato sotto ogni aspetto, i cui unici nei sono alcune recitazioni un po’ legnose, e la trama, tanto affascinante quanto difficile da seguire. In una futuribile ma plausibilissima città-azienda (sullo stile della famigerata Foxconn), il metodo del “confessionale” reso famoso dal Grande Fratello televisivo è istituzionalizzato in una blanda forma di controllo sul personale: questo lo scenario di Monitor, opera prima di Alessio Lauria. Inaspettatamente, nonostante queste premesse, il film finisce per concentrarsi sulla storia d’amore che è il centro della narrazione, lasciando sullo sfondo le implicazioni sociali. E forse, piuttosto che diventare l’ennesimo film distopico uguale a tanti altri, è meglio che sia così. D’altra parte Monitor ci racconta un mondo che non ha nulla di fantascientifico, quale quello di chi lavora per le grandi corporation; e gli interrogativi che il finale lascia aperti riguardano più l’individuo e le sue scelte che le loro conseguenze sulla società umana. Il film, realizzato a tempo di record, è un web movie disponibile anche sul canale online di Rai 5. Questi sono solo tre dei molti titoli presentati anche quest’anno al festival. Che con questa edizione ha festeggiato alla grande i 15 anni, come “capitale europea del cinema fantastico”, e ha visto la partecipazione di artisti come Joe Lansdale (presidente della giuria Asteroide, che ha premiato lo zombie-movie Wyrmwood), Bruce Sterling (premiato alla carriera) e i Goblin (che hanno musicato dal vivo Profondo rosso).


Teatro

Magazzino 18:

vecchie cose abbandonate nell’incoerenza di una teatralità magistrale profondità di campo, sia ottica sia metaforica, per mettere in evidenza qualcosa e sfocare ciò che invece si preferisce lasciare indefinito.

C

onsiderando che Magazzino 18 tratta l’argomento dell’esodo giuliano-dalmata nello stesso identico modo in cui è stato trattato nell’ultimo mezzo secolo, ci si potrebbe aspettare che sia uno spettacolo deliziosamente narcotico. Invece, nonostante il testo scritto da Simone Cristicchi e Jan Bernes contenga la micidiale combinazione di luoghi comuni e sacralità epica che da sempre caratterizza la narrazione canonica di quegli eventi post-bellici, la rappresentazione è coinvolgente. Può anche darsi che funzioni così bene proprio perché si basa su un copione virtuale di immaginario collettivo che vanta un collaudo durato molti decenni, ma l’allestimento per la regia di Antonio Calenda ha dei meriti indiscutibili. Arti visuali e musica sono utilizzate con tecnica meticolosa. Il quadro scenico è disposto secondo la più classica regola pittorica dei due terzi: la scarna scenografia – un tavolino e una catasta di masserizie – collocata nel settore destro del palcoscenico, dove si muove Cristicchi quando veste i panni del burocrate-narratore, consente che tutto il resto dello spazio sia disponibile per accendere i frequenti flash-back, resi per mezzo della proiezione di immagini o di testimonianze recitate in prima persona; si lavora continuamente sulla

Simone Cristicchi, poi, è uno bravo. Sa recitare, e il Comune di Trieste gli ha persino conferito la cittadinanza onoraria. Conosce i tempi, le pause, muta con perizia toni e mimica. Scandisce con gravità profonda le parole quando descrive le persecuzioni e le violenze subite dalle popolazioni spinte all’esilio, è lì che concentra tutta la tensione indugiando su orrori e ingiustizie; poi, d’improvviso, costretto a riconoscere che quella follia perpetrata sotto stendardi rossi è la conseguenza del precedente delirio fascista, accelera il fraseggio verbale, condensa lesto lesto in poche battute cronache e spiegazioni che richiederebbero ben più respiro per poter essere collocate nel contesto, e finisce per somigliare agli speaker di quelle pubblicità di farmaci in cui la parte conclusiva, dove si dichiara che il prodotto può avere effetti collaterali anche gravi, viene riprodotta incrementandone esageratamente la velocità per dare la sensazione che sia un’avvertenza marginale, trascurabile. Trucchi del mestiere. Le musiche sono inni accuratamente progettati, gli intervalli armonici piazzati strategicamente per produrre commozione, afflato, coralità. E Cristicchi ha eccellenti corde vocali. L’enorme successo che è stato tributato al lavoro, rappresentato al Rossetti dal 5 all’8 novembre, si deve certamente alla confezione ben studiata e ad un contenuto dal forte impatto emotivo, ma anche alla riuscitissima campagna di marketing svolta dai suoi detrattori. Com’era prevedibile, e come forse gli autori si auguravano, polemiche, accuse, insulti, note e appunti non sono stati risparmiati da chi pretendeva che un musical si sostituisse a un testo di Storia, a una disamina critica di questioni politiche, a uno studio sulle zone di confine. Addirittura, attacchi violenti e personali nei confronti di Cristicchi e del

di Livio Cerneca suo lavoro erano partiti ancora prima che lo spettacolo debuttasse alla sua stagione iniziale, nel 2013. Pubblicità più efficace non si poteva desiderare. Il pubblico ha risposto affettuosamente, schierandosi decisamente dalla parte dello zazzeruto cantautore e riempiendo platee e gallerie ad ogni replica. Sulle evidenti lacune e omissioni che affliggono il testo, molti autorevoli storici hanno scritto analisi ben documentate, dalle quali Cristicchi e Bernes hanno debolmente provato a difendersi. Non è ben chiaro, tuttavia, come mai da uno spettacolo teatrale, la cui tipica funzione è quella di intrattenere un pubblico manipolandone le emozioni attraverso la finzione, qualcuno si fosse aspettato obbiettività ed equidistanza: se neanche la stampa e la stessa storiografia, che pure dovrebbero fondarsi su questi algidi intenti, sono capaci di tanto, perché dovrebbe tentare di farcela il teatro, il quale è per antonomasia solo messinscena, anche quando si ispira a vicende reali? Il fatto poi che a riscrivere un complicato frammento di storia dell’Istria, della Dalmazia e della Venezia Giulia siano autori che non hanno alcun legame diretto con questi territori – proprio come il personaggio del funzionario ministeriale, troppo empatico e umano per essere un burocrate credibile – può di primo acchito insospettire, ma riflettendoci è un bene: se ci avessero pensato degli autoctoni il risultato sarebbe stato, per un verso o per l’altro, ancora più storicamente impreciso, condizionato da insane passioni e rigide fazioni. Magazzino 18 è teatro di pregio, anche perché riesce a far passare inosservata la sua maggiore debolezza. Decidere infatti di volare alto denunciando l’idiozia umana, quella che separa gli individui in buoni e cattivi, in vincitori e vinti, in italiani e no, e poi fare ricorso a quelle stesse sciagurate categorie per evocare continuamente uno sproporzionato orgoglio nazionale, non è semplicemente incoerente: è sleale.

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Libri

Ascoltare l’indiano in noi Intervista a Devis Bonanni

, L

alternativa al modello di produzione capitalista esiste: si chiama decrescita, ed è ben diversa dallo stereotipo con cui questa corrente di pensiero viene raccontata dai mass media, dove l’oscuro quanto urticante concetto viene di fatto sovrapposto – in senso dispregiativo – a quello di crisi economica. E se invece il discorso si potesse ribaltare mostrando come, proprio attraverso delle pratiche di decrescita (individuali e collettive), si possa superare l’impasse determinato dall’attuale crisi economica? La posta in gioco è decisiva: si tratta di una radicale mutazione di prospettiva, che ridefinisca le nostre priorità e i valori che organizzano le nostre vite. Consumare di meno, eliminando il possibile (“i beni superflui rendono superflua la vita”, ammoniva Pier Paolo Pasolini), puntare alla sostenibilità alimentare ed energetica, mantenendo sempre un occhio di riguardo agli equilibri dell’ecosistema di cui facciamo parte. Un’alternativa che, pur partendo dalle iniziative del singolo, punti a riscoprire il valore della comunità e del suo auto-sostentamento, mirando a sviluppare piccole reti di economia solidale. Devis Bonanni, già autore di Pecoranera, torna in libreria con Il buon selvaggio, pubblicato sempre da Marsilio. Se il testo d’esordio era principalmente autobiografico e raccontava la vita di un informatico che decide di abbandonare il “posto fisso” per fare il contadino, qui l’autore entra di petto nell’attuale dibattito su tutto ciò che ruota attorno al buen vivir. Nell’Europa di oggi si discute sempre più di alimentazione sana, le aziende fanno a gara a sfoggiare il marchio “bio” e non è più possibile trovare un esperto che non spenda qualche buona parola sulla così detta “green economy”. Devis cerca di fare ordine in questa confusione, dove tutti – a parole

di Stefano Tieri – sembrano essere d’accordo, mentre la devastazione del pianeta continua indisturbata. “Il Buon Selvaggio non sono io o l’ultimo indio dell’Amazzonia. Il Buon Selvaggio è dentro ognuno di noi e se vogliamo darci una mossa per cambiare le cose dobbiamo ascoltarlo”. La responsabilità collettiva parte dai singoli, non possiamo sentirci chiamati fuori dalla sfida che determinerà il nostro prossimo futuro.

Partiamo dalla fine (del libro). L’Expo di Milano, optando per un titolo come “Nutrire il pianeta. Energie per la vita”, ha scelto di focalizzarsi sul tema dell’alimentazione. Scrivi di esserci andato “per dovere di cronaca”. Qual è l’idea che ci si fa una volta usciti dalla kermesse, dove il Mc Donald si trova a due passi dallo stand di Slow Food? L’Expo tradisce il suo slogan preferendo essere un evento eno-gastronomico.

Chi ci entra con poche idee esce con idee confuse. Sembra che gli organizzatori non si siano nemmeno posti la domanda “nutrire il pianeta, come?” ma che si accontentino di un risultato enciclopedico proponendo un itinerario nella world cousine e sulle diverse modalità di consumare il cibo (da Mc Donald a Slow Food, per l’appunto). Il cibo a Expo è sempre presente, abbondante, sicuro, facile e a portata di mano. Se un extraterrestre visitasse la manifestazione milanese si convincerebbe che la fame è l’ultimo dei problemi di quest’umanità. L’alimentazione è strettamente legata alla salute. A tal proposito hai una posizione molto chiara, in netta antitesi alla fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive”, riguardo l’aspettativa di vita delle giovani generazioni. Siamo d’accordo sul fatto che la medicina compia passi da gigante. Quello che non leggiamo tra le righe è che la sanità costa. È un po’ come sostenere una guerra: alla lunga, se hai troppi nemici su troppi fronti, i rifornimenti per le tue truppe inizieranno a scarseggiare. Curare malattie cronico-degenerative (diabete, tumori, problemi cardiovascolari, osteoporosi,...), che si stanno trasformando in epidemie, non è alla portata dei nostri sistemi sanitari. E infatti sottotraccia si inizia a parlare di sanità privata, polizze assicurative e i medici vi scongiurano di “camminare almeno mezz’ora al giorno a passo svelto ed evitare le bibite zuccherate”. Purtroppo non c’è peggior sordo... Uno dei tuoi bersagli critici è il nostro modello economico, “divinità assoluta” per la quale persino la patologia è fonte di business. Quale altra economia contrapporre e secondo quali strumenti? Che valore ha la comunità in tutto ciò?


Libri Io sento che come esseri pensanti abbiamo abdicato parte della nostra sovranità. Si dice: “il mercato” e questa parola galleggia nell’aria senza che ne afferriamo la sostanza, il significato. È un neo-paganesimo con tante nuove divinità: il “PIL”, la “domanda”, la “produzione industriale”. Tutto è sacrificato e tutto pare sottomesso a una nuova religione. Io a questo non so bene come oppormi. Forse si potrebbe ripartire dalle cose semplici. Ricreare filiere locali tra persone che si conoscono e che imparano a fidarsi le une delle altre. Magari per rispondere intanto ai bisogni primari come il cibo, la casa, la socialità, la mobilità. Sarebbe una buona palestra. Alcuni la chiamano “economia solidale”. Sento che c’è bisogno di sperimentare. A tal proposito, nel libro menzioni un esempio virtuoso: il caso della cittadina inglese di Todmorden, dove l’agricoltura è integrata e diffusa sul territorio. Come funziona? Si tratta di un piccolo centro che si è posto l’obiettivo di raggiungere l’autosufficienza nell’approvvigionamento di frutta e verdura in pochi anni. Per fare ciò ha coinvolto i suoi circa diecimila cittadini in un recupero e riuso delle aree pubbliche e private adibendo giardini pubblici e terreni abbandonati ad orto-frutteto. Ovviamente per fare ciò è stato necessario un dibattito pubblico, l’assistenza di amministratori attenti e corsi di formazione per la cittadinanza. La cittadina ha capito che si possono risvegliare energie sopite (il tempo libero, i disoccupati, i pensionati, i bambini) per creare piccole reti di auto-produzone gestite dal basso molto più performanti e sensate della grande distribuzione. A chi propone di “tornare tutti alla terra”, si potrebbe ribattere che la popolazione mondiale è ormai troppo grande per poterlo permettere. Nel tuo libro riporti l’opinione di Strauss, per il quale la libertà dell’indigeno è tanto maggiore quanto grande è lo spazio che egli ha a disposizione. L’autosufficienza alimentare è possibile anche su larga scala? Potrei rispondere con una domanda: il sistema agro-industriale è sostenibile? Per produrre una chilocaloria alimen-

tare ne consumiamo svariate di origine petrolifera. È opinione ormai diffusa che sistemi di produzione e distribuzione su piccola scala siano più sostenibili. Non si confonda produzione locale con abbandono della meccanizzazione. Mi piacerebbe solo capire perché importiamo zucchine dalla Germania in pieno agosto. Una società che delega al 3% della popolazione la produzione di tutto il cibo secondo me sottovaluta l’impatto e l’importanza che l’alimentazione ha nella storia dell’umanità. Nelle pagine del tuo libro emerge il forte legame che hai con la tua terra, la Carnia. Un territorio con forti problemi: come osservi, “molto dell’umanità rurale di queste contrade è già andato perso o è stato musealizzato”. Se nella campagna di un tempo società e natura trovavano un qualche bilanciamento, questa condizione sembra essere difficile da raggiungere ora. Dal momento in cui la terra diventa fattore produttivo la campagna si trasforma in un mero asset economico. A cosa serve la montagna? Qualche cava, un po’ di formaggio e una valvola di sfogo per chi vive e produce in città, nei grandi poli industriali. Sarebbe come dire che uno si chiude in casa (la città) per sei giorni su sette, poi la domenica esce in giardino ed esclama: ma qui è tutto abbandonato! La via “metropolitana” è un modo per creare masse ricattabili. Il contadino che in campagna aveva tutto (una casa, una famiglia, il cibo, una rete sociale) va in città ed improvvisamente si scopre solo, costretto al mutuo o all’affitto, obbligato all’acquisto coatto perché l’unica cosa che gli è rimasta è la sua forza lavoro da barattare per uno stipendio. Forse a noi sembra che vada tutto bene ma che mi dite dei paesi in via di sviluppo? Consiglio di leggere gli ammonimenti di Gandhi a proposito della situazione dell’India. Gandhi lottò per salvare l’India dei villaggi. Nel villaggio vedeva l’autonomia e la dignità di uno sviluppo possibile attraverso una tecnologia su piccola scala, gestibile da basso. Insomma una grande democrazia basata sulla democrazia delle risorse e della produzione diffuse e non centralizzate. Purtroppo, in India come altrove, si è verificato l’esatto opposto, cioè la crescita selvaggia delle megalopoli.

Il tema dell’eco-sostenibilità pare essere finito al centro dell’attenzione mediatica. Persino i grandi colossi industriali ora parlano di “green economy”... “Che tutto cambi affinché nulla cambi” si diceva ne Il Gattopardo. L’economia vince perché cattura l’anima di qualsiasi spinta al cambiamento assorbendola in se stessa. Ed ecco che la spinta al “green” diventa “green economy”. Della serie, ditemi ciò che vogliono e noi glielo daremo! In seguito alla pubblicazione del tuo primo libro aveva fatto scalpore la notizia che vivevi con soli 200 € al mese. Una vita in qualche modo legata alla “rinuncia”, parola che giudichi “abolita dalla neolingua che ha accompagnato i vari boom economici”. Qual è la posta in gioco di questo sacrificio? Rinunciare ha oggi un’accezione unicamente negativa. Io ho sperimentato che rinunciare è altrettanto appagante di soddisfare il desiderio. Ovviamente non una rinuncia fine a se stessa ma come puntello di una presa di coscienza delle mie vere necessità. Forse un percorso quasi liberatorio in un’epoca dove gli oggetti ci assediano. Per fare spazio alle cose che contano davvero. Nel corso de Il buon selvaggio tessi un dialogo continuo con la civiltà dei nativi americani, considerati una specie di antitesi rispetto alla nostra per quanto riguarda il rapporto tra uomo e natura. Qual è il loro principale insegnamento a cui oggi dovremmo prestare ascolto? Ciò che è stupefacente è come una società letteralmente all’età della pietra avesse conseguito uno sviluppo spirituale ed ecologico così profondo e ragionato. Ci si potrebbe chiedere chi fosse, all’epoca, il vero selvaggio. Gli Stati Uniti sono nati da un olocausto etnico ed ecologico innescato dagli europei dell’epoca. La storia stessa di questo popolo e le testimonianze raccolte dai pochissimi coloni che ebbero l’intelligenza di stabilire un dialogo con gli indiani ci parlano di un ecologismo ante-litteram. Consiglio, oltre il famosissimo testo Alce nero parla di J. Neihardt anche l’ottimo Strade Rosse di W. McClintock.

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Musica

SOLO RUMORE di Francesco Baldo Scrivere di musica dopo gli avvenimenti del Bataclan si sta rivelando più complicato del previsto. Io, a quel concerto degli Eagles of Death Metal, ci sarei andato. Non riesco a non immaginarmi tra la folla spaventata, è più forte di me: immagino che questo senso di autolesionismo faccia parte della nostra natura umana, un po’ come quando si tocca incessantemente un’afta in bocca con la punta della lingua. Ma stop alle riflessioni, quelle le lascio a ognuno di voi. Qui si parla di dischi, che sono ancora la cosa più bella che c’è.

FKA TWIGS – M3LLI55X

‘Formerly Known As Ramoscelli’ è insopportabilmente talentuosa. Danza, canta, se la fa con il vampiro preferito del mondo occidentale, porta acconciature complicatissime. Le riesce tutto troppo bene, come questo EP di 5 tracce. Nuova icona pop, altro che Icona Pop. Best Tracks: Figure 8, I’m Your Doll

PROTOMARTYR THE AGENT INTELLECT

Scoprire che una band con un nome così non instillava adrenalina a festival islandesi di death metal fu una grandissima sorpresa. Ascoltare il loro piacevolissimo esordio ‘Under The Colour Of Official Right’ un’ulteriore conquista. Poi arriva questo LP e allora tutti pronti per i canonici squilli di tromba: i Protomartyr fanno il miglior post punk in circolazione. Scarno, roco, lamentoso, industriale: d’altronde da una band di Detroit non ti aspetti un pas de bourrèe, ma una badilata di ghiaia negli occhi. Best Tracks: Pontiac 87, The Devil in His Youth.

ROYAL HEADACHE – HIGH

Garage rock australiano con dosi q.b. di anni ‘60: successo assicurato. Best Tracks: Need You, Another World.

DRAKE AND FUTURE – WHAT A TIME TO BE ALIVE

Drake e Future su 11 beat zozzi. Odio la trap music, ma qui è grassa al punto giusto.

Astenersi borghesucci italo disco. Astenersi dignità. Best Tracks: Big Rings, Plastic Bags.

DONNIE TRUMPET AND THE SOCIAL EXPERIMENT – SURF

Conoscevo Donnie Trumpet essenzialmente per un unico, bellissimo pezzo: Pasadena. E poi perché socio di quella macchina da rime che è Chance The Rapper. Beh, ha messo insieme un complessione di musicisti con cui ricama strumentali a trama pop che il rapper di Chicago impreziosisce a parole. Una roba bellissima davvero, telecinesi artigianale capace di elevare un pochino l’hip hop da quel pozzo nero e mortifero in cui rischia puntualmente di sprofondare a colpi di cazzate gangsta. Best Tracks: Sunday Candy, Wanna Be Cool, Familiar.

GIRLS NAMES – ARMS AROUND A VISION

Prima traccia, Reticence. A 1:15 circa parte un giro di chitarra che mi fa rimpiangere i tempi in cui il post-punk revival (cioè ‘quella cosa degli Arctic Monkeys chiamata indie’) lo facevano tutti. Basta, mi avete conquistato così, bandiera bianca (magari con una foto dei The Cure al centro). Best Tracks: Reticence, A Hunger Artist, An Artificial Spring.

THE SPOOKY SCHOOL – TRY TO BE HELPFUL

Probabilmente, se questo periodo dell’anno avesse avuto qualche nuova uscita in più, di questo lavoro non avrei mai sentito nulla, e sarebbe stato una di quelle cose che ‘ah porca vacca sono in ritardo di un anno non ne potrò mai scrivere’. Santa siccità pentagrammatica, grazie del regalo. Best Tracks: Try To Be Helpful, Friday Night, August 17th.

UNKNOWN MORTAL ORCHESTRA – MULTI LOVE Non si vive di soli Tame Impala. Al di là del nome inspiegabile, delle grafiche sempre curatissime dei dischi, del suono cal-

do e riverberante di ogni singolo pezzo, gli UMO sono una band molto solida. Un disco da ascoltare tutto d’un fiato, senza singoloni mirabolanti ma concreto ed effervescente in ogni sua nota. Neopsichedelia portami via. Best Tracks: Can’t Keep Checking My Phone, Extreme Wealthy And Casual Cruelty. Ah, un’ultima cosa. Questo è l’ultimo Solo Rumore, o perlomeno l’ultimo con la mia firma. E’ stato incredibilmente divertente e stimolante cercare di consigliarvi qualche bel disco che, verosimilmente, non avrete ascoltato perché ‘troppo qualcosa’. Inutile dirvi che la storia non la fanno i mediocri, Ringo Star escluso, ma i troppo. E allora, in fondo in fondo, covo ancora qualche speranza per voi, miei prodi (p minuscola), e prometto di lasciarvi con una compilation di fine anno (info sul nostro super sito). Ciao.

Periodico registrato presso il tribunale di Trieste (autorizzazione n° 1266 del 27/8/2013). Direttore responsabile: Stefano Tieri Grafica: Alberto Zanardo Terza Pagina: Giovanni Benedetti Editore: Associazione culturale “Charta Sporca” Presidente: Lorenzo Natural Vice-presidente: Davide Pittioni Segretario: Stefano Tieri Tesoriere: Ruben Salerno Stampa: tipografia “Centro Stampa”, Via Romana 46, Monfalcone (GO) Per contattarci:

redazione@chartasporca.it Web:

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fT

In copertina una parodia di David Barton del dipinto “La ragazza con l’orecchino di perla”


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