Charta Sporca - Numero 27

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Numero 27 - Maggio/Giugno 2017

Scenari di viaggio di Lilli Goriup Tra le esperienze umane che più si avvicinano all’universale vi è quella del viaggio. Le immagini più attuali del viaggio sono oggi quelle degli ultimi della terra in fuga dai conflitti, che si vedono sbarrare davanti, una dopo l’altra, le frontiere del mondo come tante morse. L’umanità si è però messa in cammino ben prima, e cioè subito dopo essersi sollevata sulle due gambe. Da allora non si è più fermata. Si dice che durante la sua infanzia fosse nomade e solo in seguito abbia imparato a coltivare la terra, recintandola. Spinti da necessità i popoli hanno risalito continenti, attraversato mari, scalato montagne, raggiunto le estremità impervie del pianeta. Se non costretti, poi, gli individui hanno viaggiato e viaggiano seguendo la scia di innumerevoli altre istanze. “Per un solo dolcissimo umore del sangue, per la stessa ragione del viaggio viaggiare”, recita Khorakhané, la canzone di Fabrizio di Andrè ispirata all’omonimo popolo Rom. È stato detto che si viaggia per spirito di scoperta, di avventura, per fuga da sé o, al contrario, alla ricerca di sé. Esistono viaggi immaginari e allegorici, come quelli compiuti da Dante Alighieri o dall’omerico Odisseo. Vi sono poi i viaggi interiori. Un frammento di Eraclito mette in guardia dall’impossibilità di conoscere i confini della propria anima, pur percorrendone la strada. Sigmund Freud descrive la psicanalisi nei termini di una discesa archeologica. Il viaggio, attraverso il movimento, finisce per farsi immagine stessa del divenire. Lo Zarathustra nietzscheano, filosofo del divenire, è in cammino. Non ci è interessato, qui, tentare di definire l’essenza del viaggio ma solo (e umilmente) offrire una serie di spunti, di riflessioni, di prospettive, di narrazioni – di scenari, appunto, di viaggio. La nostra sequenza si apre con un reportage dalla Val di Susa. Una recente manifestazione corale a supporto del popolo No Tav diventa il pretesto per offrire uno scorcio sulla sua più che ventennale storia (Pittioni, p.2). Prosegue con Il tempio è sacro perché non è in ven-

dita. Appunti pellegrini dove il viaggio, nella figura del pellegrino, diventa portatore di una verità spirituale non corrotta (Natural, p.3). Ne La macchina dell’eterno presente un io narrante in prima persona ci conduce per mano attraverso un viaggio psichedelico. (Cerneca, pp. 4-5). Anche la consueta rubrica fotografica Camera Oscura stavolta è a tema, con alcuni scatti provenienti dall’Europa orientale (p. 6). Non solo ferie critica la concezione del viaggio inteso come un pacchetto preconfezionato da acquistare all’occorrenza e pertanto non in grado di apportare un’autentica crescita a chi ne fa esperienza (Salerno, p.11). Più moderno di ogni Occidente: Fosco Maraini in movimento è un viaggio attraverso l’opera e la biografia di Fosco Maraini, intellettuale poliedrico, scrittore di viaggio e non solo, fotografo, poeta, etnologo ed esploratore (Rosso, p.12). Non mancano la Terza pagina (Baciocchi, Rossi e Pacor alle pp.7-10) né le recensioni (Mignani, Goriup e Basileus alle pp. 13-15). Il retro di copertina è dedicato al festival Letteraria.

In questo numero

“C’eravamo, ci siamo, ci saremo” - Cronache dalla valle che resiste

pag. 2

La macchina dell’eterno presente pag. 4

Più moderno di ogni Occidente Fosco Maraini in movimento

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Scenari di Viaggio

“C’eravamo, ci siamo, ci saremo” Cronache dalla valle che resiste

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ccola, la Val di Susa. Non ci arrivi gradualmente, per progressiva “perdita di civiltà”, come sembrerebbe da molte rappresentazioni di questo luogo diventato “magico”. Per la sua storia, da sempre animata nei racconti popolari da creature e miti, e per il suo presente, perché lì si consuma, o meglio, si produce quotidianamente un tempo liberato, sospeso, con altre regole, altre consuetudini, altre pratiche – alterità politiche di un tempo lontano dal nostro, sempre più asfissiante. Ci arrivi con l’autostrada A32 che ti lascia in Valle ad ogni svincolo, e finisce per attraversarla tutta – chi non ha mai sentito parlare alla radio del traffico in direzione “traforo del Frejus”! – ci arrivi dopo aver incontrato Torino, proprio lì dietro. Non è uno scontro tra civiltà e preistoria, questo, perché la Valle è già abbondantemente antropizzata. Ti ritrovi disorientato, nelle prime impressioni, mentre si attivano le sinapsi mediatiche che ti parlano di persone vecchie e fuori dal progresso, preda delle razzie di antagonisti à la molotov e stupefacenti. Senza TAV non perdi nulla, in sostanza, e lì a fianco sfrecciano comunque i treni, sulla linea storica. La bassa Valle, abitata dal popolo No TAV e dove oggi sembrano spostarsi le più recenti mosse del progetto, ti accoglie da ogni casa con le sue caratteristiche bandiere. E quando entri a Bussoleno e ti infili tra le stradine del borgo alla sinistra della Dora, ti ritrovi alla “Credenza”, osteria molto nota nel movimento, gestita da Nicoletta Dosio, storica No TAV che negli ultimi mesi ha trasgredito le disposizioni dei suoi arresti domiciliari in un classico gesto di disobbedienza civile. Questure e Tribunali per mesi interi sotto scacco: cosa si fa adesso? È uno dei tanti spiazzamenti che produce la storia No TAV. Nonostante tutto. Perché a contarli, gli episodi sordidi subiti sarebbero tanti: ci sono le morti degli anarchici Sole e Baleno, ci sono le battaglie, le ossa rotte, i dispositivi di sicurezza quotidiani e sfiancanti, il maxiprocesso, le accuse, le carceri, i lacrimogeni, l’aria tumefatta. Ombrelli, bandiere, striscioni e una lunga fila di corpi, mentre il corteo prende forma a Bussoleno, direzione San Didero, lungo la statale. Comitati, movimenti, lotte, amministrazioni, da tutta Italia, perché non è solo questo territorio a subire saccheggi e sfruttamenti. Si spaccano contraddizioni, esplodono

di Davide Pittioni nodi che normalmente non vedresti. Cos’è un corpo preso in ostaggio? Cos’è un popolo schiacciato dall’Entità? Cos’è uno sgombero manu militari di un presidio popolare? Cos’è uno “scontro”? E dove sono i Black Bloc? Forse sono quei due uomini incanutiti che in una storica operazione di situazionismo politico-mediatico – smascheramento quasi comico dell’incessante propaganda di stato – si scoprono militanti incappucciati che battono le reti del cantiere. “Non ci hanno voluti portare in caserma!” commentano delusi nel video, facilmente reperibile su YouTube. Disturbo incessante, paziente, consapevole, di un movimento che ha saputo trovare tempi e modi del proprio agire politico ogni volta diversi, reinventandosi, perdendosi, ritrovandosi. Imparando a combattere un modello che non è solo produttivo – la logica neoliberista dell’appalto – ma complessivo, escogitato da un apparato che è politico, cioè regolativo, economico-finanziario, cioè estrattivo, e giudiziario, e quindi repressivo. “Si parte, si torna, insieme... Siam tutti Black Bloc”, canta il corteo. Alè, alè, alè. Nella Valle che resiste ci arrivi in un sabato di maggio, sotto la pioggia scrosciante. L’assemblea che governa il popolo NoTav ha chiamato ad una grande marcia popolare sotto le parole “C’eravamo, ci siamo, ci saremo”. Una storia non si cancella in un attimo, soprattutto dopo venticinque anni. E in fondo i segnali c’erano tutti: da un parte la voracità di un progetto faraonico, dall’altra la resistenza di una Valle tenace, dalla pellaccia dura. Un viaggio che non promettiamo breve, come titola l’ultimo libro pubblicato da Wu Ming 1 proprio sull’epopea di questa lotta. Che parte all’alba, se non prima, dei cantieri, ancora sui progetti, che prosegue poi durante gli espropri e la militarizzazione della Valle, e si dà appuntamento al domani. Un futuro che resta incerto: perché nel frattempo il progetto è stato rivisto, modificato, adattato alle resistenze e ancora adesso si interroga sui propri passi. L’entità – come la rappresenta Wu Ming 1 nel suo racconto – rimane una bestia di fantasia: tutt’al più materializzata in un cantiere fantasma, nelle delibere, in qualche cunicolo esplorativo, nelle opere di servizio, nello sguardo innocente della Digos che ti chiede i documenti, nei camion, nella terra: la linea ad alta velocità, proprio mentre sembra trovare nuovi varchi,

si smaterializza e scompare nelle pompose cerimonie dei trattati italo-francesi da cui “non torna più indietro”. Quanti ne hanno firmati? E intanto della Tav si sa ancora poco, o meglio si sa della grande opera grazie al paziente lavoro di inchiesta popolare su tutti i progetti, e le operazioni attorno, finora presentati. All’inconsistenza della razionalità speculativa dei promotori del progetto, si oppone il tempo storico della Valle: le industrie e le lotte operaie, le ferrovie – perché i NoTav, paradossalmente, sono anche un popolo di ferrovieri – le lotte partigiane e le azioni di sabotaggio dei trasporti controllati e usati dai nazi-fascisti, le lotte nonviolente, gli anarchici e il cattolicesimo di base. Stravaganze, sembrerebbe, che intersecandosi trovano l’unicità di questa lotta. Non si tratta di farne un’idealità – come dappertutto, in fondo, è facile immaginarne gli scazzi, le difficoltà, i punti ciechi e gli sbagli – ma di coglierne la concretezza: tecniche, lotte, movimenti da immaginare come sostrati che si depositano nell’archeologia della lotta NoTav. “In Valle ogni conflitto riguardava, in ultima istanza, i trasporti. Spostamenti, attraversamenti, scavallamenti”, scrive WM1. E ancora lì ci troviamo: non contro i trasporti, ma per i trasporti e i transiti, i suoi tempi, che sono anche i tempi di vita di una Valle come questa. Inzuppati a bordo carreggiata vedi scorrere il corteo: qua l’impressione è sempre imponente, i costoni della montagna, larghi, che ti avvolgono, li senti ai fianchi. Non è solo la montagna, non è solo un treno: è la lotta, senza aggettivi. L’entità che cresce e fagocita pezzi di territorio, pur disturbata, continua nei suoi progetti, ma ogni volta costretta a cercare soluzioni per aggirare le continue barricate di un popolo variegato e fantasioso. L’aneddotica si spreca. È una parabola popolare di una comunità che trova la forza di raccontarsi, senza demandare ad altri la narrazione di se stessa. A sarà düra! ti dicono.

Questo piccolo contributo prende spunto dalla marcia popolare NoTav del 6 maggio e dal bel libro sulla storia NoTav di Wu Ming 1, Un Viaggio che non promettiamo breve. Ringrazio i compagni di viaggio, là in Val di Susa e qua nelle nostre città, in particolare un giovane collettivo grazie a cui non serve andare in montagna per respirare aria fresca.


Scenari di Viaggio

Il tempo è sacro perchè non è in vendita. Appunti pellegrini.

di Lorenzo Natural

natural.lorenzo@gmail.com

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proposito delle contestazioni nate qualche anno orsono all’ombra di Wall Strett, Pietrangelo Buttafuoco giudicava con la sua solita vis polemica gli “occupanti” del centro del potere finanziario mondiale: “Hai voglia a occupare, contestare, frignare se poi si è spiritualmente i gemelli omozigoti delle oligarchie combattute negli slogan. Se invece avessero letto Pound saprebbero che il contrario del mercato non è la democrazia, ma il tempio”. Il tempio inteso non solo nella sua veste meramente mastodontica, come edificio religioso, ma come cifra, simbolo del sacro, di ciò che non è corrompibile né monetizzabile. Un sistema di valori individuali e/o comunitari che vive in un orizzonte di senso e significato al di là della quantificazione monetaria e che si riferisce ad altri – e superiori – livelli di corrispondenza. La versione neoliberista del mercato – penetrato in tutti i gangli della vita sociale dell’uomo, fin nel profondo del sistema educativo e scolastico, che, come casa della formazione dell’individuo dovrebbe essere avulso da ogni logica legata al profitto immediato – per sua stessa natura tende a espandersi in ogni direzione: è la machine deleuziana che opprime l’individuo nella quotidianità della vita stessa e che lo svuota dal di dentro, rendendolo meccanismo stessa della sua ripetitività. Seriale, non ciclica. In questo senso, lo spazio sacro si trova in opposizione alla lex mercatoria: non è in vendita, non può essere quantificato con tali strumenti. È uno spazio, quello a cui si riferisce Pound, che non è necessariamente confessionale o religioso, ma presuppone un’opposizione netta con il profano: non vi può essere tempio laddove vi sia guadagno – o usura, per usare una semantica cara al poeta –, non vi può essere guadagno laddo-

ve vi sia tempio. Muovendo in campo più strettamente religioso, la difesa del tempio si scontra ineluttabilmente con l’apertura al mercato da parte di coloro i quali dovrebbero garantirne la separazione: ecco che i grandi centri del potere ecclesiastico hanno ricoperto, sin dalle loro origini, con una patina sacralizzante l’anima utilitaristica dell’istituzione religiosa. Allo stesso modo i santuari della cristianità – per restare in territori a noi prossimi – sono stati invasi da carrozzoni circensi che risulterebbero tragicomici nella loro essenza kitsch se non travalicassero il limite della dissacrazione. Proliferano i business men (e le business women) della fede che attorno a questi luoghi e alla fragilità di certi credenti hanno costruito un impero, con il benestare del tessuto locale, rendendo turistico ciò che dovrebbe appartenere alla sfera mistica o devozionale. Il potere dell’istituzione religiosa si lega da sempre a quello del denaro: non scandalizza osservarne la progressiva degenerazione. I tentacoli della piovra giungono ovunque si emani profumo di soldi, tentando di ridurre anche l’esperienza più profonda a un fatto economico e, di riflesso, di guadagno. Se il devoto volesse raggiungere, per esempio, Lourdes, avrebbe a disposizione una gamma infinita di opportunità per poter delegare a un tour operator il proprio pellegrinaggio. Dove la dimensione mercantile, pur essendo già arrivata, sembra rimanere ai margini, è nel pellegrinaggio a piedi. L’Europa è intessa di antiche rotte che di volta in volta sono state riscoperte nel corso dei secoli: probabilmente la più celebre di queste è il cammino che dai Pirenei francesi porta a Santiago de Compostela, sino a Cabo Fisterre, sull’Oceano Atlantico, ma esistono decine di altri sentieri spirituali che attraversano il continente. Il servizio di accoglienza, la possibilità di usufruire di trasporti, di servizi ad hoc, di poter svolgere il percorso in bicicletta, addirittura di aderire a una settimana all-inclusive preconfezionata, sanciscono l’intromissione del mercato anche in questa realtà. Tuttavia, chi si appresta a intraprendere con cuore puro i chilometri che separano il viandante dalla città santa – da qualunque luogo egli parta e qualunque sia la sua meta – vivrà forse una delle esperienze più ricche e profonde che gli siano mai accadute.

In primo luogo perché alzarsi e mettersi in cammino significa soprattutto fare i conti con se stessi: con le proprie paure, i propri desideri, il proprio corpo, i propri limiti, la propria profondità. Scollinare un’altura, attraversare una periferia degradata, guadare un torrente in piena, ogni giorno, per chilometri e chilometri, significa tornare all’origine dell’esistenza umana. Significa riappropriarsi innanzitutto del proprio tempo, al di là di ogni logica che non sia quella del proprio corpo. È un viaggio che nella dinamica spaziale si estende in orizzontale, assecondando la curiosità del conoscere, dell’esplorare, del condividere e del sapere secondo un ritmo di vita umano che non asseconda più la serialità della macchina quotidiana, ma la ciclicità delle giornate e delle stagioni. Allo stesso tempo, si compirà, in verticale, l’unico viaggio che conta, quello all’interno di se stesso, all’origine della propria essenza. Si obietterà che non è necessario immettersi su un cammino religioso o spirituale per poter riassaporare l’antico piacere del viaggio, del cammino, del raggiungimento della meta, dell’incontro profondo con la propria anima e il proprio spirito: verissimo. Ciò che contraddistingue il pellegrinaggio è la storia di chi quel percorso, in un tempo remoto o prossimo, l’ha già compiuto. Il pellegrino rinnova una tradizione che affonda le radici nella notte dei tempi, a volte persino prima di Cristo: è la fiumana dell’umanità che ha solcato quella via e che, di volta in volta, la riafferma ogni qual volta un altro pellegrino compia su di essa un nuovo passo. È un incontro tra il movimento orizzontale e quello verticale che si ricongiungono al centro del cuore di ognuno, ma che esige la volontà di liberarsi dal peso del proprio Io. “Perché ti stupisci, se i lunghi viaggi non ti servono, dal momento che porti in giro te stesso?”, affermava Seneca. All’arrivo, è uso per il pellegrino bruciare i propri abiti, simbolo di un rinnovamento interiore ed esteriore. Già nel XIII secolo i mercanti genovesi giungevano al termine dei cammini per vendere i propri abiti. Ma il pellegrino è finalmente libero dal giogo materiale: lo possiede, non lo subisce. Perché ha scoperto che il tempio è sì fuori, ma anche dentro di sé. In orizzontale e in verticale. Come in alto, così in basso. E non è in vendita.

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Scenari di Viaggio

La macchina dell’eterno presente

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a prima volta che avevo sentito nominare l’acido lisergico ero adolescente e la mia fonte erano state le poesie di Allen Ginsberg. Sarebbe però dovuto passare ancora un po’ di tempo prima che decidessi di sperimentare su me stesso la sostanza sintetizzata nel 1938 dal professor Albert Hofmann mentre, nel suo laboratorio a Basilea, era alla ricerca di qualcosa per combattere i sintomi dell’influenza. Mi documentai e lessi molto sull’argomento. Confortato dalle testimonianze di prestigiosi scienziati e letterati - tra i quali Aldous Huxley e il premio Nobel per la chimica Kary Mullis, oltre che lo stesso Albert Hofmann, che usò l’LSD frequentemente per tutto il resto della sua vita senza che questo gli impedisse di raggiungere in buona salute i 102 anni di età -, mi convinsi che qualche gita in quelle lande proibite si poteva fare. L’occasione si presentò durante una pigra estate in cui si era sparsa la voce che in città stava arrivando una partita di LSD affidabile e di qualità superiore. Produzione tedesca, probabilmente, visto che li chiamavano “acidi berlinesi”. Mi aggregai a un gruppo di persone che avevano deciso di trascorrere una notte sulla spiaggia. Scoprii che solo pochi di noi avrebbero preso l’acido e immaginai che si trattasse di un accorgimento di buon senso: forse, per evitare che qualcuno si facesse male, era stato predisposto una specie di informale servizio di sorveglianza in modo che quelli che si astenevano

di Livio Cerneca avrebbero potuto tenere d’occhio i viaggiatori. La mia ottimistica supposizione iniziò a vacillare quando vidi che gli angeli custodi si stavano dedicando con abnegazione al confezionamento e alla degustazione di enormi cannoni di hashish. Più avanti avrei capito che anche tipi coriacei e abituati a ogni genere di stravizi preferivano tenersi alla larga dall’acido. Chi si diverte a prendere droghe non necessariamente è interessato all’LSD perché l’LSD, benché sia classificato come sostanza stupefacente, lo è quanto possono esserlo la meditazione, la psicanalisi o il sogno. Il cielo era nuvoloso, si intravedeva all’orizzonte il bagliore arancio di un tramonto opaco. Qualcuno stava mettendo le birre in fresco nell’acqua bassa di una pozza rocciosa del bagnasciuga. Delle ragazze chiacchieravano e ridevano sedute vicino al fuoco che era appena stato acceso. Gli uccelli cantavano nella boscaglia che ricopriva il dirupo a ridosso della spiaggia.

Con involontaria solennità, un giovanotto dai capelli lisci e le guance cave distribuì ai pochi volontari l’eucaristia acida. L’emaciato sacerdote mi porse il dito indice: sul polpastrello era posata una briciola grigiastra, un frammento a malapena visibile. Com’era possibile che in quel granello microscopico fossero racchiuse tutte le meraviglie di cui avevo letto le descrizioni? Misi sotto la lingua la particola e me ne dimenticai. Stava facendo buio e cominciavamo ad avere fame. Saltarono fuori dei würstel ma nessuno aveva pensato di portare una graticola. Per fortuna tutti avevamo letto Topolino e ricordavamo ancora bene come Qui, Quo e Qua arrostissero le salsicce quando erano in campeggio con le Giovani Marmotte. Bastava infilare la salsiccia cruda in un rametto e tenerla sospesa sopra il fuoco. I disegnatori non si erano mai soffermati però sul fatto che il rametto, essendo di legno, aveva la tendenza a incendiarsi. Facendo attenzione e ricalibrando continuamente la distanza dalla fiamma, la cottura proseguì in ogni caso con un discreto successo.

L’LSD, benché sia classificato come sostanza stupefacente, lo è quanto possono esserlo la meditazione, la psicanalisi o il sogno


Scenari di Viaggio stoici, ripreso da Nietzsche, e poi postulato persino in una controversa e azzardata teoria di fisica quantistica - ma in seguito trovai impressionanti analogie tra quelle concezioni filosofiche e l’avventura psichica che stavo vivendo. Non solo l’LSD poteva spalancare l’accesso all’inconscio individuale, ma anche a quello collettivo, agli archetipi più remoti comuni a tutta l’umanità.

Ero tutto concentrato per cercare di non bruciarla, quando mi accorsi che la salsiccia si stava divincolando sullo stecco. Si torceva, flettendosi alle estremità, come se volesse liberarsi da quella scomoda posizione. Incredulo, strizzai gli occhi per guardare meglio. Mentre tentavo di seguire gli spasmi del würstel, percepii un chiarore in alto. Sollevai la testa. Le fiamme proiettavano bagliori sulla vegetazione, animandole di lampi e intermittenze incandescenti dalle quali aveva preso forma qualcosa di enorme. Imponente, maestoso, alto una decina di metri, un Buddha scolpito nella chioma di foglie dorate di un albero splendeva sorridente, osservandomi con benevolenza. La visione era talmente vivida, reale, nitida, che non mi passò minimamente per la testa di metterla in relazione con l’acido. Lo sgomento fu causato più dalla sorpresa che altro: non sentivo alcun disagio fisico, stavo benone, ma tutto quello che avevo letto non era riuscito neanche lontanamente a prepararmi a ciò che stavo vivendo. Del resto, anche se ci preparassimo studiando i resoconti degli astronauti, non proveremmo meno emozione e stupore se di colpo ci trovassimo sulla Luna. Solo che qui non si trattava di raggiungere la Luna, ma di essere parte dell’Universo stesso. Ero dentro di me come mai mi era successo prima e allo stesso tempo connesso con tutto ciò che mi circondava. L’impatto con questa consapevolezza scosse le fondamenta dell’Io come un terremoto fa tremare l’abitazione che fino a un momento prima sembrava il posto più sicuro del mondo. Scesi agli Inferi. Gridavo, annaspavo, mi aggrappavo a quelli che mi

stavano intorno. Qualcuno sembrava spaventato dalla mia reazione, altri si spanciavano dalle risate. Non avevo più nessun controllo, ero trascinato dalla corrente verticale dell’abisso, avevo paura. Tuttavia, a un certo punto risalii in superficie e vi trovai una calma celestiale.

In un primo momento avevo creduto di essere diventato invisibile, ma poi mi ero serenamente rassegnato all’idea di essere morto, trascinato nel corso dell’Eternità Era notte fonda, né stelle né luna, il fuoco ormai spento, eppure c’era ancora luce, un crepuscolo azzurrino e uniforme che si stendeva fino all’orizzonte, nettamente tracciato alla fine della placida distesa di mare. La verità era che là fuori era buio pesto, ma le mie pupille erano talmente dilatate che, come il diaframma aperto di una macchina fotografica, riuscivano a catturare ogni fotone disponibile e mi consentivano una vista felina. Seduto accanto ad un amico, anche lui nel bel mezzo del trip, osservavo il mondo dall’alto mentre il tempo scorreva in flussi circolari sempre più ampi. Non avevo ancora mai sentito parlare dell’eterno ritorno - caro agli

In un primo momento avevo creduto di essere diventato invisibile, ma poi mi ero serenamente rassegnato all’idea di essere morto, trascinato nel corso dell’Eternità. Ciò che effettivamente muore durante un viaggio acido è l’Ego. Io non avevo mai raggiunto prima un tale stato di sospensione profonda, e così la spiegazione più sensata in quel momento mi sembrava quella di un inopinato trapasso. Eppure, benché defunto, vivevo e rivivevo intere esistenze in volute a spirale la cui espansione progressiva avveniva ogni volta che ricadevo in quelli che mi apparivano come errori: man mano che i cerchi si allargavano mi sbarazzavo di convinzioni, preconcetti, pregiudizi e idee radicate. Visitai atolli verde smeraldo, strade di periferia e giardini sterminati, mi addentrai nel bosco dove prima era apparso Buddha, raggiunsi la fine dell’orizzonte, dove scorsi in lontananza una città di cupole e minareti sui quali lampeggiavano neon rossi. Infine tornai sulla spiaggia, solo per scoprire che in realtà non mi ero mai mosso dallo scoglio dove ero seduto insieme al mio amico. Gli effetti a poco a poco si attenuarono e alcune gocce di pioggia annunciarono l’arrivo del mattino. Negli anni successivi intrapresi altre escursioni non guidate oltre le frontiere della coscienza. In qualche caso tenni dei diari di bordo e acquisii maggiore pratica nel pilotaggio di quella singolare macchina del tempo. L’LSD non è infatti adatto a viaggiare nel passato o nel futuro ma permette di scendere profondamente nel presente, una delle dimensioni ancora più misteriose e inesplorate.

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La mia Bosnia

Lilli Goriup


Terza Pagina Persa a ansimare per il tempo che resta il mutismo sul retro dei tuoi sguardi me lo appunto al petto quando ormai l’atto si è concluso ed è stata la fatica a farci annerire o più semplicemente ci rendiamo stanchi sordi automi quali siamo marci di cavi e relitti che non si confessano all’evidenza delle maree ma bruciano nella notte sepolti in questo paio d’anime che si distendono discarica tra il ricordo e l’impazienza mi coniugo nel volere come un silenzio tra i suoi mai

inserto letterario

Scritto con l’unghia sul muro senza versi senza sapersi ti fisso così intenta a smacchiarmi dalle mani l’inchiostro, così incauta e dimentica dei futuri possibili, figlia di una stropicciata giovinezza come tante, tutta animata di tremori e argento vivo, a spargere sale sulle ferite, col ferro rovente distendere i nervi, così piegata come la carta ti fisso sul fondo delle parole, le sole che so – ma quante sono poi abbastanza Bianca e ammonacata ancora saprò fiocchettare ogni cosa: rimare al gelo una stanza.

Carolina Rossi


Gabriele Stera – da Lampare (inedito) Senza Titolo (Nella tenda rossa - Le Cluzeau) Oggi quasi unicamente i macchinari a corrente alternata i motori a valvola doppia ed alcune piante carnivore rare domani andremo a pescare le alme, colmare le file d’ami alla cornea come un atollo vacante guadare le pire di rame saranno giornate di piena e fino al diluvio andremo costanti arando la costa molle le mani in mano e senza cognome cos’è che non va nelle cariche d’alba sparate a salve in cielo? è fuoco segnaletico che sbraita che si è perso nella nebbia (o cosa?)

Lampare (Attraverso Oaxaca, Mexico luglio 2016) Non s’accorsero i nauti che navigare certo si poteva pure fare ma ci voleva mare, vento e assi di legno, una riva da lasciare, a fondere la notte, ci voleva un paese reale, un approdo lontano, più o meno che tenga l’odore di casa, di chi si confonde la notte tornandosi addosso col peso che sembra le reti che sembra la vita di uno che va per il mare, che sembra la vita di un altro di cui questa luce di faro e la nebbia si prendono gioco in un cono di buio sbiadito che fugge lo sguardo e vaga andando di ronda sui bordi alla linea di fuga e fende i flutti e le onde dicevi veniva da sé, veniva d’istinto la voglia d’aversi perduti e vinti al primo fondale ma vedi s’insiste la vena e non pulsa di certo per noia, piuttosto per urti costanti risacca di prima del tempo, contro le sponde, contro le falde amare i solidi pieni e vuoti che si colmano lenti, così come si fa con l’aria, in un / respiro che ti manca.


Il picnic Quattro paia di passi ritmati e gioiosi spacciano l’asfalto cretto di un marciapiedi di periferia. Due teste bionde di donna si indorano al sole mattutino, circondata l’una di una cappa grigia e lanuta, l’altra da un foulard azzurro. Io e il mio amico abbiamo le stesse scarpe gialle, i baffi, due giacche uguali, una cravatta verde e l’altra lillà. Tintinnano assieme ai passi, nei panieri foderati a quadri, quattro bottiglie di vino rosso dolce e vi dormono al buio due pani bianchi e tre formaggi francesi. Stiamo attraversando una cintura cittadina squadrata con crudele regolarità da file di casermoni, passaggi sopraelevati, lunghe balconate interne e giardini di ghiaia. Il cielo limpidissimo e freddo si lascia incorniciare a momenti da un’inaspettata geometria di condominii ed improvvisa ci sorprende la nostra immagine, riflessa sulla vetrina sporca di un negozio come in una foto ricordo. Veniamo spiati in continuazione: da dietro le tende anziane fumatrici in pelliccia seguono ogni nostro movimento con l’ausilio di piccoli binocoli da operetta e ci saluta grave e festante il latrare singhiozzato dei molossi. Il salto di un muretto apre la via ad una boscaglia chiara e maldestra, inframezzata dai cavalcavia di un tortuoso raccordo autostradale. I nostri passi affondano su un sentierino unto e nero, che si alza e abbassa, gira a destra e a sinistra senza sorprese e ci sporca le calze e i calzini. Ad un bivio troviamo ad attenderci un materasso sfondato, la cenere di qualche rogo d’immondizia incolla l’erba e gli arbusti, nelle pozze piene di foglie e accendini pollano piano le larve di zanzara. Conosco bene questi luoghi, ci finisco sempre - inseguito - nei sogni in cui di solito muoio una morte violenta. E allora cominciano ad apparirmi sul terreno freddo tra il fogliame tanti corpi addormentati, gonfi e bluastri. A ben vedere, il sentiero che camminiamo è cosparso di tante siringhe fini, da eroinomane: gli aghi scoperti, le guarnizioni rosse, verdi, gialle, blu e viola. Si rompono sotto i piedi e sono sicuro che in più di un’occasione buchino le suole sottili delle mie scarpe ben fatte. Rallento, mi fermo, tento di tornare indietro ma constato tristemente che i miei compagni non paiono curarsene, accennano anzi un saltello di danza e intonano dei Lied che parlano di birra e giovinezza. Il mio amico scorre un braccio attorno alle spalle femminili coperte dalla cappa di lana e sposta con le dita l’orlo del caschetto biondo, per fare il solletico al collo. La donna con il foulard si gira e mi sorride, i suoi denti affollati e meravigliosamente grandi sembrano confetti nella bocca dipinta, mi prende per la manica e appoggia la fronte sulla mia guancia. Ne posso sentire l’odore, che è quello del latte speziato, del pane ai fichi, del marzapane fresco.

Ed ecco che come per magia ci si apre davanti il lago, piccolo e scuro, increspato dalle brezze sul pelo dell’acqua; emergono a ritmo gli svassi, si tuffa variopinto e inclemente il martin pescatore. Ci sono più pesci in questo lago che stelle nel cielo, mi dice la donna che mi tiene il braccio. Gli abeti fremono di gioia e la tovaglia che stendiamo sul prato porta ricamati tanti piccoli cervi saltellanti. Alle nostre risate si unisce poi accecante il riflesso di luce che proviene dai palloni areostatici di una vicina centrale metereologica. Esultiamo alla visita di un simpatico cane barbone che ci scuote addosso l’acqua del lago, rovista nei panieri e sotto le gonne, meritandosi per l’impertinenza qualche carezza e due lauti bocconi di pane. La conversazione si fissa su un caso particolare occorso in facoltà: il professor Meyer si è tagliato i capelli ed è scappato in Svizzera con la sua assistente. Proprio come il cane barbone, il pomeriggio si accoccola lieto ai nostri piedi e dai diaframmi si leva, al tempo placido del respiro, una felicità nervosa e senza misura, che elettrizza le pupille e ci fa prendere la scossa se ci sfioriamo. La tersa serenità del quadro si incrina momentaneamente soltanto per uno scoppio di sangue dal naso delle due donne, subito tamponato a gara dai fazzoletti damascati miei e del mio amico. L’epistassi! Un ennesimo segnale di gioia, è primavera: ridono i campi, rilucono i denti, si scorollano i fiori, brillano i bicchieri ed esplodono i capillari. Guardando il cielo finalmente comprendo perché il mio amico mi abbia svegliato con così tanta insistenza, questa mattina, vincendo galante le opposizioni della mia affittacamere e sedendosi sul letto con una sigaretta fra le labbra. La luna infatti sta crescendo di minuto in minuto in statura a prendersi tutto lo spazio visibile, fino a poggiare sulla superficie del lago. Si contano i crateri, i corridoi e le creste, possiamo vedere il vento che alza turbini di polvere bianca oltre le scogliere, riconosciamo i tracciati di un autoveicolo e immobile una piccola bandierina sovietica. Un gigantismo come questo - certo frutto di una bizzarra illusione ottica - si manifesta soltanto una volta ogni millennio. Ora che ci penso, mi pare di ricordare lo descriva anche un qualche poeta minore latino. E capisco perché tra le quattro bottiglie di vino rosso, i due sfilatini e le forme di formaggio abbiano trovato posto anche quattro paia di occhiali da saldatore e un cestino di frutti di bosco. Dopo aver preso possesso delle nostre attrezzature ci alziamo tutti in piedi e cerchiamo di vedere se con un po’ di volontà e carisma riusciremo a piantare a forza di braccia fragole, lamponi e mirtilli sulla faccia della luna.

Nicola Pacor


A. D. Baciocchi

Dark Souls. A Poem. Silence soothes some wandering warrior out there under a shield of glittering clouds in search of something that cannot be found for here there is no deal in setting free a princess or in slaying a drake towering above a town of madness. No one will accordingly hail you as a hero neither you’ll be crowned the new king. Instead you will be addressed by a shameful knight throwing desperate words about your doom. No poet will sing aloud your great deeds and if you should stumble by a wicked jester he would not be willing to shake your hand that kills a weeping demon and kindles a bonfire almost withered by ages. Oh wanderer walking lonely in your perilous journey, you do not know that flame gives shape to shadows and darkness stirs in the dephts of your heart striving for a toss of fame. Of course you will make a name of yourself. Doors that have been locked for centuries now open up when you come shining like a sea where once mighty cities dive in for your luck is strong and your time endless. However you will always be a stranger to this land where things do not happen because of you but despite your moves. And the betrayal is conceived in the dark the thiefes are burning the houses built in harmony and all the dogs gather barking from the outskirts of a deserted country. Indeed what happens in the Undead Burg down Blight Town and across Oacile Woods far from the eye of Anor Londo where gods lived and left inside the highest walls a lie or by the burning streams of sacred IzalÏth is beyond your strenght and measure. Only the silent landscape where crossroads meet like rivers and cliffs meditate upon the abyss while the stairs of men lie in an unfathomable ruin is making out the odds and ends of this story like the hammering of a smith without rest and sleep. Say that in the very end you own your fate and grasp at the image of victory and success: still your memory shall fade away behind the slope that you met at the beginning of your quest confused among the things that are blotted out in this well designed world like a tree and a pit a bridge and a grave and once again the flame shall gently tell another wanderer following your trail the number of your everlasting deaths. Trieste, 21. X. 2016


Scenari di Viaggio

Non solo ferie di Ruben Salerno

Sì, viaggiare! cantava Battisti, interpretando quel senso di libertà e spensieratezza che riempie l’anima di coloro che si apprestano ad affrontare un percorso, anche breve, per svago o vacanza. Un modo diverso di viaggiare, che poco ha a che fare con la necessità di spostarsi. Il viaggio ha sempre fatto parte dell’essere umano. Un tempo si viaggiava su e giù per il globo per necessità: alla ricerca di cibo, di terre da conquistare, ricchezze da scoprire, oggi per riunioni aziendali, conferenze e quant’altro ma, ad eccetto di pochissimi fortunati, mai per svago o per andare in ferie. Questa tipologia di viaggio, ora numericamente quasi al pari dei viaggi di lavoro, si è sviluppata in modo esponenziale dal Secondo dopoguerra in poi, tanto da divenire un bisogno di massa, un diritto a cui è difficile rinunciare. Le agenzie turistiche e i tour-operators investono centinaia di milioni di dollari in studi di mercato e sociologici, allo scopo di individuare ogni sorta di vacanza possibile da poter inserire nelle proprie offerte e soddisfare le richieste della clientela. Le stesse apparenti ricerche libere su internet di chi vuole “fare da sé” sono in verità veicolate oppure orientate agli stessi obbiettivi. Perché mai l’uomo comune dovrebbe svenarsi nell’animo e nel portafoglio per qualche giorno fuori porta?

per amore, chi rinuncia temporaneamente al libero arbitrio affidandosi in toto a un viaggio organizzato. Tanti aspetti, che riflettono forse un unico, malcelato bisogno: la fuga. L’essere umano ricerca nella vacanza un’astrazione temporanea, via di casa, fuori dal contesto quotidiano, qualunque esso sia. Reinterpretando un noto proverbio, l’erba del lontano è sempre più verde. Si è quindi disposti a sostenere notevoli sacrifici pur di ottenerne almeno un breve assaggio, sia la meta una città d’arte, una spiaggia affollata o la cima di un monte. Me lo sono chiesto spesso, cosa spingesse i miei clienti-allievi, fossero essi impiegati romagnoli o super-manager londinesi di finanziarie internazionali, ad affrontare centinaia (se non migliaia) di chilometri per farsi insegnare i rudimenti dello sci, nella speranza di provare un giorno l’ebbrezza di guardare il mondo dall’alto e scendere lungo i pendii innevati. Ne vale davvero la pena? mi chiedevo. Poi un pomeriggio, in cima a una seggiovia, mentre pensavo a me stesso pensante, guardando il tramonto riflettersi sulla neve lungo i versanti alpini, mi è tornato alla mente un brano che avevo studiato quasi a memoria per un’interrogazione in terza superiore, ovvero l’Ascesa al monte Ventoso di Petrarca, in cui il poeta cita a sua volta un passaggio delle Confessioni di S. Agostino:

Le ragioni sono molteplici e sfaccettate: c’è chi invoca l’agognato relax, chi si lancia all’avventura con gli sport estremi, chi lo fa per potersi vantare, una volta tornato, con selfie scattati in luoghi ameni e meravigliosi, chi viaggia per sesso e chi

E vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e dimenticano se stessi.

Il momento di estasi, presunto o provato, basta a motivare le fatiche impiegate per raggiungerlo, perché proietta l’individuo fuori da sé, dal torpore della quotidianità, ma non basta risolvere il nodo esistenziale di chi lo ricerca. Prova ne sia che, una volta ritornato alla quotidianità, affiorano la nostalgia per il viaggio terminato e il tedio per la vita reale. Riparte così il progetto dei viaggi futuri, il fantasticare che riaccende il lume della speranza. La vacanza si carica di significato perché è la promessa di una meta felice, poco importa se quasi sempre non rispetti le aspettative, tramutandosi in un leopardiano sabato del villaggio. In fondo lo stesso termine “vacanza” deriva da vacuum, ovvero “vuoto”. In assenza di un contenuto profondo si origina così l’assioma per cui “il viaggio è bello poiché è viaggio”, indipendentemente dal fatto che includa valigie pesanti, attese in aeroporto, difficoltà di organizzazione, litigi, macchine sovraccariche, file in autostrada. Perché quindi sacrificarsi in nome di un cambiamento che, per mezzo del viaggio, apparentemente non ha luogo? La risposta ci viene data da una delle più basilari leggi della fisica, ovvero che il moto dipende dal sistema di riferimento. Un individuo può viaggiare fino in capo al mondo e rimanere al tempo stesso fermo se osservato da un altro punto di vista, ugualmente proiettarsi oltre i confini dello spazio senza muovere un passo. Può avvenire così che una settimana di campeggio in laguna, assediati dalle zanzare tigre, possa ridare linfa a una famiglia in difficoltà, che un business-man carrierista e senza scrupoli si interroghi sull’esistenza osservando un crepaccio in alta quota, ma anche che un artista mediocre non impari niente o migliori in alcun modo la sua opera, pur avendo viaggiato a piedi da Sidney a Santiago. Per dirla con Montaigne: A chi mi domanda ragione dei miei viaggi, solitamente rispondo che so bene quel che fuggo, ma non quello

che cerco.

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Scenari di Viaggio

Più moderno di ogni Occidente. Fosco Maraini in movimento

di Piero Rosso con il moderno, il lavoro, la natura, il sacro: tutto contribuisce a dipingere l’inafferrabile Oriente. È qui che l’osservatore europeo si può rendere conto della differenza tra modernizzazione e occidentalizzazione, processi a volte simili ma non sovrapponibili:

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iventato uno dei nessi delle relazioni tra Giappone e Italia, Fosco Maraini ci ha lasciato un’eredità letteraria che non si limita al libro di viaggio: è stato scrittore, poeta, fotografo, etnologo ed esploratore. Conosce il Tibet nelle spedizioni di Giuseppe Tucci (1937 e 1948) e lo rielabora in Segreto Tibet, in cui dimostra, tra le altre cose, una spiccato interesse per le immagini. Nell’archivio dei materiali che ha affidato al Gabinetto Vieusseux di Firenze figurano più di centomila fotografie; molte di esse riguardano il Giappone. È proprio in questo paese che, dopo l’esperienza con Tucci, Maraini decide di trasferirsi con la famiglia. Vi rimane dal 1938 al 1946, attraversando la guerra mondiale e un lungo periodo di internamento come dissidente, colpevole di non aver riconosciuto la Repubblica di Salò. Il regime di prigionia è così duro da spingere Maraini ad amputarsi una falange della mano: un gesto tradizionale che induce i carcerieri a fornirgli i mezzi di sostentamento necessari. Dopo la liberazione si reca in Sicilia, la terra della moglie, a Porticello – a proposito di questo soggiorno, parlerà Dacia Maraini, in Bagheria del 1993. Con la Panaria Film e la collaborazione di Pietro Moncada, Quinto di Napoli, Renzo Avanzo e Francesco Alliata lavora a progetti cinematografici. Tra le altre cose, collabora alla realizzazione di Vulcano, film del 1950 con Anna Magnani, rivale di Stromboli terra di Dio di Rossellini. In quegli anni, l’editore De Donato – voce di una classe intellettuale in bilico tra il conservatorismo della sinistra storica e l’irruenza teorica della “nuova sinistra” – propone a Maraini di raccontare la Sicilia con un album fotografico intitolato “Nostro

Sud”, rimasto incompiuto. In vista del progetto, Maraini realizza migliaia di scatti influenzati, con tutta probabilità, dalla teoria cinematografica di Zavattini e il suo “pedinamento del reale”. In effetti, in Maraini ritroviamo l’incontro tra etnografia e cinema che ha caratterizzato la storia del documentarismo. Come ricorda Salvatore Falzone in Maraini, un antropologo in Sicilia (articolo su “Repubblica” del 4 ottobre 2011): Maraini scattò più di duemila foto con una vecchia Rolleicord 6x6. Intraprendente e disinvolto, conquistava i soggetti da fotografare, entrava nelle loro case, catturava le immagini cercando di evitare le pose, perché gli interessava cogliere la naturalezza delle persone e perché una fotografia etnografica, secondo lui, doveva essere spontanea, autentica.

Queste esperienze si ritrovano, ancora, ai tempi del suo ritorno in Giappone. Agli anni ‘60 risale la visita alle isole Hèkura e Mikurìa per studiare le Ama, donne del mare, pescatrici in apnea che si immergono per cercare perle e frutti di mare: donne dal corpo muscoloso, seno al vento e pugnale di legno legato al costume come strumento di pesca. Immagini che sono state spesso considerate un’icona della ricerca di Maraini ad est. Ore giapponesi, del 1957, è il precursore illustre di questo lavoro. Si tratta di un reportage narrativo trasversale, un trattato di etnologia di un accademico con lo zaino in spalla. Soprattutto, racconta dell’estasi di un viaggio in macchina, l’eccitazione per le piccole cose: “in Giappone [...] la bellezza è iniziatica, la si merita, è il premio d’una lunga e talvolta penosa ricerca, è finale intuizione, possesso geloso”. La ricerca del bello, dunque, il rapporto

Il fatto è che il colonnato interno e segreto che sostiene ogni civiltà, ogni importante cultura, ha una resilienza prodigiosa contro qualsiasi sorta d’aggressione esterna [...] venendo adesso al Giappone, potremo affermare ch’esso è altamente, splendidamente modernizzato, assai più modernizzato di noi per molti aspetti, ma poco, pochissimo occidentalizzato.

A riprova di ciò, Maraini ritraccia la ricezione culturale di due teorie fondamentali dell’Occidente. La teoria copernicana, nota in Giappone per mezzo dei traffici con gli olandesi, incontrò poca resistenza e venne presto assimilata da una cultura che di per sé rifiutava i modelli antropocentrici; in secondo luogo, la teoria dell’evoluzione, importata negli ambienti accademici di Tokyo dallo zoologo e antropologo Edward Morse a Tokyo, oggetto di un’altra facile acquisizione: Per un popolo nel cui sostrato culturale dominava l’idea d’una possibile migrazione psichica di vita in vita, di specie in specie, la trasposizione d’un trasformismo millenario dai germi psichici alle morfologie anatomiche, parve non solo accettabile, ma naturalissima. La vera eresia sarebbe stata piuttosto insistere sulla fissità della specie.

Teorie che in passato furono alla base dell’idea stessa di Occidente furono accettate con più naturalezza in Giappone, come un “breve e trionfale innesto”. Se il mondo di Maraini è cambiato, se le Ama delle isole hanno abbandonato da tempo i pugnali di legno e hanno indossato la fibra della muta da sommozzatore, il compito dello scrittore non cambia: lasciare a chi guarda la sensazione di aver trovato un altro passaggio segreto tra mondi apparentemente inconciliabili.


Arte

Giorgio Morandi e Tacita Dean. “Semplice come tutta la mia vita”

di Luna Mignani

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o spettatore che si reca al giorno d’oggi ad una mostra di pittura, si troverebbe molto probabilmente in enorme difficoltà nel dover rimanere fermo davanti ad un’opera di Giorgio Morandi per più di qualche secondo. Se tale fenomeno riguarda in generale la fruizione delle opere d’arte in un mondo dell’immagine sempre più iperproduttivo e fugace, esso sicuramente aumenta nel caso di una successione di opere di piccolo formato, nelle quali il soggetto tende a ripetersi con minime varianti compositive, tonali e luministiche. Oggigiorno l’osservatore tende a scorrere rapidamente le immagini, quasi fossero le sequenze di un video o le schermate di uno smartphone. La realtà accelerata in cui viviamo sembra produrre costantemente una quantità infinita di dati visivi e questi si impegnano a colpire, come un rumore continuo, la nostra vista e la nostra capacità di vedere. Siamo circondati in ogni direzione da una saturazione di artifici osservabili – inquinamento del visivo – che incrociano le traiettorie dei nostri occhi. L’immagine deve, allora, trovare altre strade per affermare il proprio valore, negando se stessa o riscoprendosi nella sequenzialità-velocità del mezzo video (che potrebbe anche rappresentare una ricerca nell’eccesso). La mostra Giorgio Morandi e Tacita Dean. “Semplice come tutta la mia vita” inaugurata il 12 marzo a Palazzo Te a Mantova, dove rimarrà aperta fino al 4 giugno, sembra però parlarci di una visibilità possibile. Si tratta di un’aggiunta breve, ma che si dilata verso altri tipi di spazio, svia ma trattiene, permettendo di pulire parte della nebbia superflua che partecipa all’incapacità di fermarsi o di cambiare tempo. Cinquanta opere di uno dei maestri che ha rappresentato una via fondamentale della pittura europea del Novecento (quadri che esprimono le sue ricerche sulla natura morta nel periodo che va dal 1915 al 1963) vengono messe in relazione con una rappresentante della realtà artistica contemporanea internazionale: un dialogo sussurrato nel silenzio. L’esposizione offre la possibilità di risco-

prire il passato di Morandi attraverso due opere del 2009 di Tacita Dean: Day for Night e Still Life. Ad essere riprese sono le tracce lasciate su un piano dalle cose scelte e contemplate dal pittore, e gli oggetti stessi. Inizialmente i video, girati nello studio bolognese, nella cella, di quello che Roberto Longhi chiamava il “monaco” Morandi, sembrerebbero proiettare solo una singola immagine. Ma se il visitatore ha la pazienza di osservare per un tempo più prolungato i filmati, si renderà conto che contengono una sequenza di inquadrature, ognuna delle quali non svanisce secondo i ritmi cui siamo abituati solitamente. Ogni segmento scelto non vive quindi solo del rapporto effimero con ciò che lo precede e con ciò che lo segue. Tacita Dean decide di non seguire il fluire canonico consentito dalla cinepresa ma, al contrario, attraverso di essi ci ferma. Entrambi gli autori, allora, sembrano parlarci in modi diversi della meditazione sugli oggetti da cui scaturisce la creazione artistica e della visione, invitando il visitatore a cambiare sguardo per cogliere una dimensione in cui l’oggetto d’analisi sia la sostanza. La mostra non si struttura sul protagonista in modo da antologizzarlo, ma riflette una prospettiva del presente. Si tenta di esprimere l’attualità di Morandi e di mostrare alcuni esempi attraverso i quali reinterpretare una classicità che oggi sembra sciogliersi in un mare che rischiamo di non capire più. Ma si coglie la volontà di mostrare una rilettura che volga senza agitazione su una produzione. Allo stesso momento, possiamo notare in che modo il ruolo del curatore, attraverso le proprie scelte, contribuisca all’evoluzione di un linguaggio. Il percorso espositivo si incrocia, nella sua creazione, al lavoro espressivo dell’artista, attingendo alle ricerche costruttive del passato o da quel raro presente che non tende all’eliminazione. Sembra apparire un’azione in cui la metamorfosi della materia non termina nella sua distruzione o nella ricerca di un eccesso. Il vuoto non cancella la materia, costituisce anch’esso un “pieno”, ne è complementare, contribuisce a definirla. A tale clima pacato appaiono del tutto opposte le metamorfosi rappresentate negli

affreschi maestosi a Palazzo Te, le cui sale vengono attraversate dai visitatori prima di giungere agli spazi dell’esposizione temporanea. Qui si rincorrono episodi delle “Metamorfosi” di Apuleio ed Ovidio, in cui Giulio Romano sperimenta in crescendo sul dinamismo e sulla forza delle figure. Il pittore, attivo nella prima metà del Cinquecento, traduce perfettamente lo spirito manierista dell’epoca, che metteva alla prova – tendendo verso l’abbondanza - le possibilità raggiunte dalle ultime eccellenze del Rinascimento italiano come Michelangelo. Ma il ciclo pittorico mantovano culmina nella caduta, nel crollo. Nella Camera dei Giganti la grandezza diviene enormità, lo spazio si dilata oltre la materia ma, per superarla e ricrearla, i giganti subiscono la vendetta del divino che hanno osato sfidare. Tutto è potenza espressiva e violenza. Sembra che l’arte senta di essere destinata ad annientarsi nella sua possibile magnificenza. Tutto crolla sull’osservatore. Analogamente la stessa materia del palazzo, plasmata dal medesimo artista e apparentemente così solida nei suoi elementi classicheggianti, si rivela essere unicamente un gioco bizzarro contenuto in una struttura dal disegno instabile: anche qui l’illusione è quella del crollo. La materia di Giulio Romano si muove instancabilmente in una sua continua creazione e disgregazione, mettendo in mostra la forza che rappresenta il motore. L’effetto che si ottiene dopo aver percorso l’intero palazzo e raggiungendo la mostra su Morandi e Dean è del tutto inaspettato. Dal tumulto dei giganti si passa ad uno spazio di silenzio. I nostri occhi si muovono e sembrano rinascere nel mutare della materia che capovolge l’esperienza precedente. È evidente che la direzione presa non raggiungerà la grandezza ma il dettaglio, non ci si muove per aggiunta ma per scoperte minute (come il suono di un respiro), non si cercherà trionfo ma equilibrio, non prevarrà la moltitudine che sovrappone all’esasperazione la saturazione ed il dissolvimento, ma l’elementare e il concettuale che muove in un tempo cancellato per determinare un inizio di vita, un sentimento.

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Libri

Dilettante della vita

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e vie dei libri sono infinite. Passano di mano in mano, sopravvivendo ai cataloghi che li vorrebbero fuori produzione e arrivano fino a noi, avvolti in qualche vecchia edizione dalla copertina leggermente sbiadita. Si ripongono su qualche scaffale e, quando si riprendono in mano, si illuminano di un senso rinnovato. Non smettono di far parlare di sé. È il caso de Il giornalista riluttante di Sergio Maldini, edito da il Mulino nel 1968. La copia in mio possesso reca sul retro la scritta “lire 4000”. Faceva parte del lascito che un professore aveva donato alla mia Università, più di tre anni fa: gli studenti potevano attingere alla biblioteca privata del generoso docente, attraverso una scatola con scritto “libri in omaggio” posta all’ingresso della biblioteca della facoltà di Lettere e Filosofia. Mi colpì la vividezza con cui Maldini tratteggiava posti a me noti per vicinanza geografica. Realizzai in seguito, quell’abilità di cogliere di volta in volta il genius loci derivava da un afflato universale, testimoniato da quasi 600 pagine di cronache senza tempo, cittadine, letterarie e di viaggio, fittizie nel senso in cui il format giornalistico si fa in realtà occasione letteraria. Un esempio di come riuscisse a inchiodare un luogo al proprio spirito con quattro colpi di penna è fornito dalla descrizione del suo Friuli perduto: “Le rogge, gli alberi, i solidi palazzi nobiliari, le chiese, le osterie rivelavano un’unica matrice culturale: la venezianità veniva come inasprita da una durezza di stampo agricolo e montanaro”. Già all’epoca – l’articolo è del 1965 – vi intercettava tuttavia una decadenza: Oggi non riconosco la Udine di allora: le rogge sono coperte dall’asfalto, le osterie antiche, con le sedie di legno, i prosciutti pendenti dal soffitto, l’odore del tokay sparso come un incenso, vengono sostituite da banconi moderni, su cui troneggiano colombe pasquali fabbricate a Milano. C’è Trieste, dove nel 1957 intervistò Livia Veneziani. Incontrò la vedova di Italo Sve-

di Lilli Goriup

vo nella sua “bella casa di via Monfort, dove nei giorni estivi doveva giungere l’odore del mare”, e questa gli raccontò di come James Joyce sbagliò fermata del treno, nel suo primo viaggio a Trieste, scendendo a Lubiana. Ci sono la Carnia, Bologna, Roma, Palermo, l’Unione Sovietica, la Jugoslavia, e così via. Maldini, nato a Firenze nel 1923 da padre romagnolo e madre dalmata, visse a lungo in Friuli Venezia Giulia e qui, dalle pagine del Messaggero veneto, iniziò a muovere i primi passi in una professione – quella di scrittore – che gli valse un premio Hemingway e un premio Campiello. Visse in seguito a Bologna e a Roma, lavorando come giornalista per Il Resto del Carlino, collaborando anche con Il Mondo e La Nazione. Fece ritorno a Nord-Est dopo la pensione e vi rimase fino alla morte, nel 1998. Il titolo del libro Il giornalista riluttante rivela l’idea di giornalismo di Maldini, esemplificata da una sua citazione riportata dal Messaggero Veneto: Io sono un giornalista riluttante. Per esempio non capisco i cosiddetti intervistatori di vedove. Quelli che si precipitano dopo una disgrazia e fanno la solita domanda: signora, cosa ha provato? Giuro: se trovassi Hitler vivo nel mio giardino non lo riterrei uno scoop, ma una seccatura. Non concepisco il giornalismo come urlo, come clamore a tutti i costi, come pettegolezzo. Piuttosto lo vedo come aspirazione alla conoscenza, per descrivere un mondo ed entrare in armonia e in contatto con la sua cultura. Alla smania per la notizia sensazionalistica Maldini, che non a caso fu amico di Pier Paolo Pasolini, contrapponeva un giornalismo spurio, letterario, capace di ritmo e di ripresa di fiato. Nell’Italia del dopoguerra questa commistione tra i generi era possibile, come egli stesso ha raccontato alla Rai nel 1993. L’ampiezza dello sguardo di Maldini è testimoniata dal fatto che aveva colto con largo anticipo il germe di molti dei mali dell’informazione ai tempi di internet – in primis, la rinuncia alla qualità in favore della quantità. Maldini sapeva non prendersi troppo sul serio, qualità che spesso scarseggia tra

chi mastica il mestiere della scrittura, pure quando si tratta di penne meno fortunate della sua. Nel Prologo a Il giornalista riluttante, dal titolo Diario del figlio, Maldini usa un artificio letterario per descrivere un padre che altri non è che se stesso: Mio padre faceva il giornalista, era tutt’altro che ricco, la sua vita però non mancava di evasioni. Dubito che fosse geniale (già allora si avevano i primi sintomi della decadenza di quella parola) ma possedeva un certo talento. Il giornalismo si adattava bene alla sua personalità di dilettante della vita. Devo dire tuttavia che non era di quei giornalisti che si vedevano al cinematografo: la visiera sulla fronte, una mano possessiva sul telefono, disgusto-amore per la situazione, affabili con i commissari di polizia. La tensione donchisciottesca che anima la sua visione del mondo, spesso contornata da un velo di nostalgia (“La metafisica è morta, diceva mio padre, oggi soltanto qualche operaio di provincia è capace di vero amore e crede in un destino storico dell’umanità”), stride con la descrizione autoironica della sua quotidianità, fatta spesso di gesti anonimi e non immune da una certa inettitudine alla vita: Con grave disappunto mio padre si accorgeva che, mentre avrebbe voluto assomigliare a Thomas Mann, andava fatalmente somigliando a un certo Gasparoni, scrittore, pare, abbastanza famoso per le descrizioni che egli faceva di donne lunatiche, camere mobiliate, gasisti incompresi, individui anonimi straordinariamente perplessi davanti ai semafori. Il giornalista riluttante dallo scaffale ha finito per stazionare stabilmente sul mio comodino. Uno di quei testi che si prestano e si consigliano, si leggono e rileggono di tanto in tanto, quando si vuole godere dei piaceri di una limpida scrittura e di un acuto esempio di giornalismo.


Teatro

Un Orlando Jazz di Selene Basileus zo, che con un arrangiamento jazz (non a caso un genere musicale dei più versatili) hanno accompagnato l’intera rappresentazione, adattandosi con maestria alle diverse e lontanissime situazioni. A coronare il quadro, le immagini di Ugo Pierri che raccontano le peregrinazioni di Astolfo sulla luna: la vicenda, una delle più note dell’opera di Ariosto, è quella in cui l’amico di Orlando si reca sul satellite terrestre per recuperare il senno dell’eroe impazzito. Tramite la matita dell’artista triestino siamo magicamente trasportati, grazie anche all’accompagnamento musicale, nella dimensione del fantastico, dove la parola lascia il passo a disegni e note.

U

n classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”. È probabile che Italo Calvino, nel giungere al sesto punto del suo celebre articolo “Perché leggere i classici”, avesse in mente il capolavoro dell’Ariosto, l’Orlando furioso: “poema che si rifiuta di cominciare, e si rifiuta di finire”. Ariosto, nel concepire l’opera, si rifaceva infatti alle riletture fatte da trovatori e giullari, che a loro volta mutarono la Storia in leggenda (in questo caso si tratta della battaglia di Roncisvalle tra le truppe di Carlomagno e quelle saracene). Quale modo migliore, allora, per avvicinarsi alle avventure di Orlando, se non attraverso la scena teatrale e con la giusta dose di ironia? È stato questo l’intento di Pupkin Kabarett e Maramogi in Orlando furioso in jazz, andato in scena lo scorso aprile al teatro Rossetti di Trieste. Per questo motivo, gli autori si sono affidati alla guida di Italo Calvino e alla trasmissione radiofonica (poi divenuta libro) che egli dedicò al testo dell’Ariosto: “la sua eccezionale versione del poema intervalla parti di commento e narrazione in prosa ai versi del testo originale del Furioso, senza rispettare la divisione in canti ma seguen-

done piuttosto lo zigzag narrativo”, è scritto nelle note di regia. La sfida, infatti, non era affatto facile: dar conto, in soli 90 minuti, della complessità narrativa dell’opera senza perderne in comprensione, ed è proprio l’alternanza tra prosa e versi a favorirlo. Tramite Calvino si giunge infatti a un perfetto bilanciamento tra l’altezza della poesia (memorabile la lettura del passo sull’amore tra Isabella e Zerbino) e la leggerezza della prosa; tra la serietà dei grandi temi sollevati – Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto – e lo scherzo che vuole un Orlando impazzito in cura dallo psichiatra, o ancora l’intera vicenda trasformata in una soap opera, le cui love stories appassionano due arzille vecchiette che, in dialetto triestino, le se conta le vicende de quela babaza de Angelica. Attraverso questa strada si giunge a una trasposizione che ben si adatta al teatro contemporaneo: la pluralità di linguaggi, che vanno dall’italiano cinquecentesco al dialetto locale; il caos dei personaggi (tra interni ed esterni all’Orlando furioso), l’alternanza di scene sempre diverse, in un dedalo di voci che rendono in maniera impeccabile l’intricata narrazione ariostesca. Il tutto contornato dalla musica dal vivo di Riccardo Morpurgo e Flavio Davan-

Il risultato è uno spettacolo fresco, vivace, per niente ingessato, in grado di appassionare grandi e piccini mostrando le sfumature “pop” di un capolavoro della letteratura italiana – senza per questo volgarizzarlo eccessivamente. È doveroso menzionare gli attori, applauditissimi per una performance che ha registrato spesso il tutto esaurito: Laura Bussani, Stefano Dongetti, Adriano Giraldi, Alessandro Mizzi, Maria Grazia Plos e Ivan Zerbinati. Non più, Signor, non più di questo canto; ch’io son già rauco, e vo’ posarmi alquanto.

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Letteraria 2017

LETTERARIA 2017 Il cantiere “Letteraria” è partito: per chi si fosse perso il numero precedente, ci riferiamo al festival di letteratura giovanile che Charta Sporca organizzerà in collaborazione con Territori delle Idee, T con Zero e Lega Italiana Poetry Slam. Si terrà in autunno, ma il lavoro da fare è molto: contattare gli editori, ordinare i libri selezionati, leggerli e “giudicarli” con sguardo attento, consapevoli dei nostri stessi limiti (in fondo ci reputiamo più semplici lettori che critici letterari). Per cercare di rendere la selezione il più accurata possibile, ogni titolo viene letto (e brevemente recensito) da almeno due redattori della rivista. Abbiamo pensato di pubblicare il frutto di queste letture, sia per rendervi maggiormente partecipi del nostro lavoro, sia per invogliarvi a prendere parte attiva alla selezione. Dal 9 giugno, infatti, saremo ospiti del Polo di Aggregazione Giovanile Toti di Trieste: chiunque fosse interessato a partecipare (sia per collaborare alla rivista che per la selezione dei titoli in vista del festival), è il benvenuto. Trovate l’indirizzo email a cui scriverci nel colophon.

Luca Bernardi, Medusa (Tunuè, 2016) Stefano Tieri: la cosa che più colpisce è il linguaggio sperimentale adottato, sia per l’uso di un personalissimo gergo (che strizza l’occhio a quello generazionale) che per la sintassi molto frammentata. La vicenda viene raccontata attraverso l’alternanza di due voci: quella del protagonista, un nostro coetaneo con qualche

problema psichico (al punto che l’intero romanzo può essere inteso come il disfacimento della psiche del protagonista, in seguito alla presa di coscienza di una drammatica vicenda) e quella che personalmente ho inteso essere una voce dentro la sua testa, segnata in corsivo all’interno del testo. L’inizio a mio avviso è un po’ dispersivo ed estraniante (non escludo che l’intento fosse voluto) mentre sul finire il libro assume un ritmo che ti tiene incollato alle pagine, se non altro per la curiosità di sapere dove sta andando questa “folle” narrazione. Non siamo davanti a un capolavoro, ma il libro alla fin fine funziona, complice anche la sua brevità. Voto: 7 Giuseppe Nava: condivido in linea di massima il giudizio di Stefano, anche se invertito (ho preferito l’inizio alla fine!). Il punto di forza è di sicuro lo stile, anche se a volte (spesso) il gergo sa troppo di giovanile-già-sentito; ho trovato interessanti e suggestive, invece, certe deliranti riflessioni sul linguaggio che il narratore fa nel suo resoconto degli eventi, mescolando linguaggio tecnico e allucinazione. A dispetto di questa scrittura esuberante, la lettura è agevole e la narrazione mantiene un grado crescente di tensione che spinge ad andare avanti. Però alla fine la “soluzione” è piuttosto telefonata e nel complesso la trama in sé non è niente di eccezionale – anzi, un poco banale, a dirla tutta (pure nella sua drammaticità). D’altro canto una trama complessa probabilmente non avrebbe giovato, con una scrittura così, ma mi ha lasciato comunque una sensazione di irrisolto. Voto: 6 e ½

Periodico registrato presso il tribunale di Trieste (autorizzazione n° 1266 del 27/8/2013). Direttore responsabile: Stefano Tieri Grafica: Alberto Zanardo Editing: Piero Rosso Terza Pagina: Giuseppe Nava Editore: Associazione culturale “Charta Sporca” Presidente: Giuseppe Nava Vice-presidente: Davide Pittioni Segretario: Piero Rosso Tesoriere: Ruben Salerno Stampa: tipografia “Centro Stampa”, Via Romana 46, Monfalcone (GO) Per contattarci:

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/Aprile 2015

Numero 22- Marzo

Ridere la verità

di Andrea Muni

Trent’anni dopo

di Stefano Tieri “Il pensiero non esisterà più, almeno non come lo intendiamo ora. Ortodossia vuol dire non pensare, bisogno di pensare. Ortodos non aver consapevolezza sia sono la stessa e inministero della cosa”. Il con la V maiuscoVerità (rigorosamente la) penserà anche te cosa è vero per e cosa rai più fare alcuna non lo è: non dovtiene che l’Eurasia fatica. Il Partito sosnon è mai stata guerra con in l’Oceania? Tu, caro Smith, puoi anche ricordare il passato diversamente, ma ciò tanza: “se tutti non ha alcuna impori documenti raccontano la stessa favola, ecco che la diventa un menzogna fatto storico, quindi vera”. E poi, mio caro Smith, chi mai credi di essere tu? “Tu sei fuori dalla storia, tu non esisti”.

Numero 19 -

Settembre/Ot

tobre 2014

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si fa? parodia? Come Che cos’è una o voglia di farne? fare una Perché abbiam fine. Si può troppo Iniziamo dalla invidia, per , si può parodia per autolesionismo insieme amore, per per ridere fare una parodia tetramente davanti e o per ghignar può farla per comsi o, allo specchi arrendersi, può farla per ione o battere o si la propria frustrazdell’auper sfogare nell’imp otenza ità. La per cercare, nuova complic nostro toironia, una e sociale del comrealtà politica continente è una ficpaese e del nostro e notoriamente La guerra viene pletamente a tavolino. ca studiata nanti delle tre utilizzata dai govermediati tion superpotenze è trattato (Eurasia, Oceania mondiale mondiali una Il mercato , Estasia) come ficazione di mento per struindebolire e dal come la personi distrarre proprie popolazi scinde il bene ”), oni: “è un modo le divinità che mandare in chiede il mercato , frantumi, scaraven per “estera” male (“ce lo nell’atmosfera, affrondare negli tare ritrovi in testa: nostra politica guerre In questo numer era marini, material la psicopol mentre la abissi anche e gliiziasiconosce tre quarti delle inteo il serpent trebbero essere i che altrimenti po- entato, ie tuoi pensieri più coi un complice di addorm Caro Smith,– perché reconditi. attaccandovisi per orendere destabilizzano sospett masse troppo i; ilusati agola in tanta tiallora tirale con guardia attorno che stanno polmonagiate e, a lungo cacciato Sorveglianza ci viene raccont dai tuoi apprensi si mise troppo intelligen; il sospetandare, Lasoltanto one? Tuttonon rimia mano ro continente, di mediazione” o si stacca scherzo ti”. Essa questo uno denti. un romanzo da invano! sia tutto , tu sei solo un e.è di massa e; – ma sonaggio che sia tutto ta come “sforzo democratizzazi- che serpent perscaccia Al fineto, gola il serpent ti dicevo alla di ac- re il a strappa(come di eesercitar r dalla nem- to, subito essario la paura “non e il controllo usciva esisti”), grido: come “aiuto pura finzione:me prima: da noi un La vertigina eevitare ogni che nec- in guerra che non hanno non siamo» non è altro parola. ridere. si sprigionò forma di rivolta one” di paesi Mordi! semmai, sociale, la realtà la testa! è stato sufficien a, Allorapace”; noi ma,Stacca in “mission udito questa accettat corgersi che eo,dila te avvalersi «Mordi ! Mordi!non vogliamo meno mai rmente telescher spavent dei maggio pag. 2 mi che mio e il della pensino per i cittadini parodiaai primi, congrido; Allora,izia. Quanto era il mio la testa di qualcun sa. psicopol tutto le “realtà” la è bastato e condivi o, la pietà, altro ma, metterne o da così appena possibile sostene vano socializzata casa e lasciarlo , tagliamo su s’unirovi sveliamuno in ogni l’odio, il disgust I muri che George Orwe istruzion collera, cultura e nutriti ci stanno gli ingenui, perennem il mio male e;e noi fareper enteale le telecame tutto ll dell’attu coglierne acceso mio pareti si non di cui ci siamo pastore parodia gli effetti benefici. ele mettiail mo bene ovunque ma grido. re […]Il testa. Dalle biamoalla subito che, unico– ricordalo – iato installato anche noi cercher Ci ab-no per il mio La lingua e il poter crollando in soltanto in me la tuainsicurezza una serie ini, suoni, figure: all’intern-sociale politico e ; e seconsigl l’aveva ra no dopo o, einoffrirvi , unatelecame ripetiamo giormodo tale come sgretolano immag agita una boccet- realtà il giorno la Verità , da tipi ottimo morso! catturare di morse, più piccolo che di opporre morse conche costruiam ; altri con eglifatica, e: spostam Colin Powell spaccian- mo camere parodie o ento (le telegrido;tanta del serpent è perchè controlo testa suo sputo, ti la il accompa per il e piccole sé e conoscer di condivid cui, da , care pag. 3 di anche la lungi ta content erla è per tutti più un pastore veritàgnano lei,strade lungo Sputò , per giustifi mezzedella Non il Bene più to, auspicab in piedi. città, come insieme Perché noi ti a ridere dola per antrace e poter, infine, sai bene) e sorse ile. in Iraq; i finzion un rinnova conoscia Smith, sappiamo siamo pronti prevederriuscire – ma americano mo,ancora e ogni tuapresti dai meno,sa. E non l’intervento tutto di te. Mai più un uomo mos- non crederea di se, rilancia Le informaz rideva.Ricordi? dicon essere voi, nella speranz ioni unaal risata, atoceche sicuro con le hai date tual pari di lui! bollettini dell’Oc in insieme illumin colori, che a quando, re silenzio, ,provi rise stesso, ta da un il tuo consenso di tutti i scaccia a far funzi. quel serpente, travesti non che non to a onare quotidi ani terra un uomo A cosa serve arruggin un riso che assicurano testa dirottame la psicopol abita. sulla udii izia ai tempi consum a fratelli, da sette anni sicuramente il pros- la nera notte, cheitociche ti social network? O miei della buona ma – ed ora midei appaquest’anno, ci coman- favola riso umano, io che mai si finirà. Chi si con- fu che simo, la crisi pastore che sete, un desider mi divora” pagg. 14 - 15 prima di noi, un giovane volto una io di quel riso he). da sa, da molto questione teatrale, “Vidi soffocato, convuls o, il desider Il ga. stra, F. 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