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Numero 22- Marzo/Aprile 2015

Ridere la verità di Andrea Muni

Che cos’è una parodia? Come si fa? Perché abbiamo voglia di farne? Iniziamo dalla fine. Si può fare una parodia per invidia, per troppo amore, per autolesionismo, si può fare una parodia per ridere insieme o per ghignare tetramente davanti allo specchio, si può farla per combattere o si può farla per arrendersi, per sfogare la propria frustrazione o per cercare, nell’impotenza dell’autoironia, una nuova complicità. La realtà politica e sociale del nostro paese e del nostro continente è completamente e notoriamente una fiction mediatica studiata a tavolino. Il mercato mondiale è trattato come la personificazione di una divinità che scinde il bene dal male (“ce lo chiede il mercato”), mentre la nostra politica “estera”, complice di tre quarti delle guerre che stanno destabilizzano un intero continente, ci viene raccontata come “sforzo di mediazione” o come “aiuto alla democratizzazione” di paesi che non hanno nemmeno mai udito questa parola. I muri che sostenevano le “realtà” di cui ci siamo nutriti ci stanno crollando in testa. Dalle pareti si sgretolano immagini, suoni, figure: Colin Powell che agita una boccetta contente il suo sputo, spacciandola per antrace, per giustificare l’intervento americano in Iraq; i bollettini dell’Ocse, rilanciati dai quotidiani di tutti i colori, che da sette anni assicurano che non quest’anno, ma sicuramente il prossimo, la crisi finirà. Chi ci comanda sa, da molto prima di noi, che la realtà è una questione teatrale, un rassicurante programma televisivo che calma l’ansia notturna, la testa di un serpente nero che non

si stacca dai tuoi polmoni; il sospetto che sia tutto uno scherzo; il sospetto, subito scacciato, che sia tutto da ridere. La vertigine e la paura di accorgersi che la realtà non è altro che la parodia maggiormente accettata, socializzata e condivisa. Allora, per non fare gli ingenui, vi sveliamo da subito che, alla parodia dell’attuale realtà politico-sociale noi cercheremo di opporre, e offrirvi, una serie di piccole contro-parodie; altri tipi di finzioni, mezze-verità di cui, per lo meno, siamo pronti a ridere insieme a voi, nella speranza di riuscire presto a scacciare insieme, con una risata, la nera testa di serpente, travestita da favola della buona notte, che ci abita. “Vidi un giovane pastore che si contorceva soffocato, convulso, il volto contratto; e un grosso serpente nero gli pendeva dalla bocca. Forse si era

addormentato, e il serpente gli si era cacciato in gola – attaccandovisi coi denti. La mia mano si mise allora a tirare il serpente; – ma invano! Essa non riusciva a strappar dalla gola il serpente. Allora si sprigionò da me un grido: «Mordi! Mordi! Stacca la testa! Mordi!» così era il mio grido; il mio spavento, la collera, l’odio, il disgusto, la pietà, tutto il mio bene e tutto il mio male s’unirono in me in unico grido. […]Il pastore morse, come l’aveva consigliato il mio grido; egli morse con ottimo morso! Sputò lungi da sé la testa del serpente: e sorse in piedi. Non più un pastore, non più un uomo – ma un rinnovato, un illuminato che rideva. Mai ancora sulla terra un uomo rise al pari di lui! O miei fratelli, udii un riso che non fu riso umano, – ed ora mi consuma una sete, un desiderio che mai si appaga. Il desiderio di quel riso mi divora” (Così parlò Zarathustra, F. Nietzsche).


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Parodie

Parodie della storia: la tragedia e la farsa

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ell’ultimo romanzo dei Wu Ming, L’Armata dei Sonnambuli, scopriamo tra le pieghe della Grande Storia una costante allusione al teatro, ai suoi giochi di rappresentazione e significazione, come se un evento – in questo caso la Rivoluzione Francese – non potesse mai presentarsi se non nella forma di una messa in scena. Non siamo qui nell’ovvia – anche se problematica – affermazione di un limite nella rappresentazione di un fenomeno storico, di cui non possiamo che ripetere il contenuto a più livelli – letterario, macrostorico, microstorico, ecc. – per approssimarci alla sua realtà. Nella narrazione wuminghiana, in un confronto serratissimo con la “madre delle rivoluzioni”, c’è un riconoscimento ulteriore: che l’evento della storia si compie per colpi di teatro, letteralmente, attraverso una continua messa in scena delle azioni stesse dei personaggi. Avviene nella culla parlamentare, dove i deputati sono prima di tutto attori e così si concepiscono; avviene in un manicomio, dove i matti parodiano i politici di Parigi; avviene nelle incursioni rivoluzionarie di un giovane attore finito per strada, che capisce che il palcoscenico è divenuto ormai l’intera città di Parigi. La rivoluzione si compie in un grande teatro a cielo aperto, dove lo scontro è sempre rappresentato, ma non per questo meno reale e drammatico, e la maschera diviene soggetto. Non è, però, un teatro statico, perché non è possibile circoscriverlo, tracciando un sipario. È teatro d’avanguardia, che rompe il confine della rappresentazione in parodie che sembrano abissali. Sarebbe ingiusto, però, leggerci solo una cifra stilistica degli autori. Si muove qui tutto un magma di riferimenti, citazioni, narrazioni. Nel Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte (titolo sorprendente: Luigi Bonaparte è Napoleone III, il piccolo secondo la definizione di Victor Hugo, e il Diciotto Brumaio nel calendario rivoluzionario è il giorno del Coupe d’État – o del Coupe de Tête – di Napoleone) Marx scrive: “Hegel nota […] che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia

universale si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”. La storia è teatrale, si presenta come tragedia o come farsa, è tutto un rimando di “nomi, parole d’ordine, costumi, per rappresentare sotto un nuovo e venerabile travestimento e con queste prese a prestito la nuova scena della storia” (corsivo mio). Il campo di battaglia, dove si decidono porzioni di storia, è in fondo ripetizione del vecchio: Lutero che si traveste da apostolo Paolo, il periodo 1789-1914 che indossa i panni della repubblica romana e poi dell’impero, il 1848 che parodia il 1789. Alla fine, di nuovo, è un Napoleone a spuntarla. Scrive Marx: “io mostro come in Francia la lotta di classe creò le circostanze che resero possibile a un personaggio mediocre e grottesco di far la parte dell’eroe”. Un teatro di marionette, verrebbe da dire, o di magnetismo seguendo le vicende del romanzo dei Wu Ming. Il burattinaio, o lo sceneggiatore, che dovrebbe tirare i fili è però pienamente coinvolto nella trama, ne è parte integrante. Nel 18 Brumaio fa la sua comparsa un “revenant di servizio” (Derrida), che – come uno stregone che “i suoi avversari stessi riconoscono essere tutt’altro che un mago” – fa sparire la rivoluzione con un colpo di mano. Una narrazione sorprendente, che troviamo nello stesso testo marxiano. Una logica doppia e fantasmagorica probabilmente irriducibile alla lotta di classe che doveva spiegarla. Il secondo tempo della storia è questa farsa, una parodia oscena – cioè fuori scena rispetto al suo contenuto – e distorta. “La resurrezione dei morti servì dunque in quelle rivoluzioni [del diciottesimo secolo] a magnificare le nuove lotte, non a parodiare le antiche”, commenta Marx. Da una parte la tragedia, i suoi compiti urgenti sbrigati nelle fattezze di un passato glorioso; dall’altra la farsa, la sua parodia fine a se stessa. Una sottile differenza, quasi assente: difficile, se non impossibile, distinguere la funzione delle due maschere, quella tragica e quella farsesca. “Non c’è che una differenza di un tem-

di Davide Pittioni po tra due maschere”, annota Derrida. È un problema che rimane aperto in tutta l’analisi di Marx: in entrambe si compie un rito di riappropriazione del passato, ma gli effetti sembrano divergere. Nella tragedia la narrazione teatrale si dipana a colpi di scena, ma è proprio questa scena a cambiare, ricostruendosi e aprendosi al nuovo. Nella farsa, invece, la scena sembra chiudersi, “tutto è svanito come una fantasmagoria”, la parodia diviene pura meccanica. La storia, allora, sembra arretrare: “senza avvenimenti, è la ripetizione costante degli stessi momenti di tensione e distensione”. Il calendario prende il sopravvento sul tempo, la parodia è ormai pura e vuota ripetizione. Ma la parodia, in realtà, è presente da una parte e dall’altra. Il conflitto si risolve comunque in un gioco di teatro: sono le maschere a scontrarsi sulla scena come rappresentanti d’altro o solo di se stesse. È attraverso di esse – per continue traslazioni di significato – che si consumano le vicende della storia. Ma lì non si esauriscono. La recita rallenta, prende la strada dell’oblio, ma continua la sua vita dietro le quinte, prima di riapparire sotto le spoglie tragiche o farsesche dei suoi tempi. “Frattanto – nota ancora Marx – il tempo non è passato invano”.


Parodie

Dante n’est pas Charlie di Lorenzo Natural

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ualche settimana or sono, in piena bagarre mediatica post-attentato di Parigi, internet offriva ai suoi lettori svariati parallelismi tra le caricature satiriche della rivista francese Charlie Hebdo e la descrizione del profeta Maometto disegnata da Dante: “Charlie Hebdo? Erede di Dante”. “Anche Dante era Charlie”. “Dante era Charlie Hebdo”. Dante come Charlie Hebdo, Charlie Hebdo come Dante. Già qualche tempo fa l’autore del massimo capolavoro della letteratura italiana venne accusato di essere razzista, islamofobo e volgare. Al di là delle facilonerie che spesso intaccano la lettura del Sommo Poeta, sarebbe opportuno analizzare in breve il canto “incriminato” per osservare come tra Dante e Charlie Hebdo ci sia uno iato di sensibilità, profondità d’analisi, pathos e stile nella vis polemica pari a quello riscontrabile tra un sonetto di Gioacchino Belli e un’invettiva di Sabina Guzzanti. Partiamo innanzitutto dal contesto storico. Siamo nel 1300, nel pieno della lotta contro le eresie e al principio della fine delle guerre sante (Crociate e Reconquista su tutte) contro l’Islam. Dante, come ben si sa, è intriso di cristianesimo: tutta la Commedia risente del suo fervore cristiano, cosa che però non lo esime dal criticare aspramente le storture e bruttezze del mondo ecclesiastico a lui coevo (uno su tutti il “pastor di Cosenza” del canto III

del Purgatorio): da qui la posizione dei “seminatori di discordie” nella nona bolgia dell’ottavo cerchio. Anna Maria Chiavacci Leonardi nel commento al canto XXVIII (pubblicato nell’edizione Mondadori della Commedia) così spiega l’humus storico-sociale in cui si muove Dante: «qui sono puniti i provocatori di discordie, coloro che divisero le comunità umane, religiose o civili o familiari. Questo peccato, tipicamente pubblico, è di quelli le cui tragiche conseguenze erano tra le ferite più brucianti dell’Italia di allora, e tali furono anche per l’animo e la vita stessa di Dante. […] In questo canto Dante crea un’ampia prospettiva storica, nella quale le fazioni comunali del suo tempo sono situate sul più vasto sfondo delle contese e lacerazioni che percorrono tutta la vicenda dell’umanità». Tutti coloro che hanno contribuito allo sfaldamento, alla divisione interne, di città e di Chiesa, vengono accusati da Dante, esule per contingenza e non per scelta, e gettati negli abissi delle malebolge. Va da sé che Dante, considerando Maometto uno scismatico, fa sua una concezione ancora pienamente medievale e, in questo caso, ampiamente sorpassata. Particolare che dev’essere sfuggito ai fini commentatori che hanno avvicinato le parodie vignettistiche di Charlie Hebdo alla configurazione dell’oltretomba dantesco. Leggiamo ora il passo in cui appare la figura di Maometto: Già veggia, per muzzul perdere o lulla, / com’io vedi un, così non si pertugia/ rotto dal mento infin dove si trulla. / Tra le gambe pendevan le minugia; / la corata pareva e’ l tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia. La descrizione del Profeta non lascia spazio a interpretazioni: Maometto è ritratto storpiato, col corpo spaccato in due (secondo la legge del contrappasso, chi ha

diviso in vita si ritrova diviso nell’aldilà), con le budella e gli organi vitali (la corata) pendenti dal tristo sacco, lo stomaco. Il linguaggio descrittivo è basso, violento, volutamente rozzo: l’immagine di Maometto è raccapricciante e risponde alla scelta di utilizzare il registro più basso possibile per colorare di nero le colpe più spregevoli. Ma da qui a creare un parallelismo con le vignette di Charlie Hebdo ce ne passa. Per svariati motivi. Dante non punta il dito contro l’islam in sé e per sé, ma alla sua carica eretica e distruttrice dell’armonia dell’humana civilitas, che tanta sofferenza ha portato al mondo e a Dante stesso. Mantenere un filtro critico sul contesto storico basterebbe quindi a distanziare i due modelli. Così come Maometto, inoltre, anche gli altri seminatori di discordia subiscono il brutale contrappasso inflitto al Profeta: E tutti li altri che tu vedi qui / seminator di scandalo e di scisma / fuor vivi, e però son fessi così. Dante offre quindi una prospettiva più ampia dei rozzi e banalmente triviali attacchi della rivista francese un giorno al cristianesimo, l’altro all’islam, il terzo all’ebraismo. La carica invettiva di Dante ridicolizza e desacralizza in parte certo la figura di Maometto, ma lo fa rispondendo a una misura che inserisce il canto in un ordine di cose molto più ampio: il contesto storico in cui si muove Dante, in primis, e la visione aristotelico-cristiana di cui è fortemente permeato. Cercare parallelismi di sorta tra le due visioni non solo è un’operazione capziosa volta a legittimare la bassa volgarità priva di alcun motivo se non la dissacrazione del sacro fine a se stessa delle vignette di Charlie Hebdo, ma pure storicamente inaccettabile. Considerare satira e parodia un’opera che se pungolata non sa far altro che offrire epigrammi invettivi con un decimo della forza morale, linguistica e stilistica di un Dante (basti pensare all’ultima risposta piccata alla critica mossa dal regista giapponese Miyazaki) lascia davvero il tempo che trova. D’altronde l’aurea di intoccabilità che la rivista si è ritrovata addosso è indice della pochezza di spirito e di stile

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Parodie

Parodia del vero: dimenticarsi l’ombrello

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o dimenticato il mio ombrello”. Una frase come tante, a meno che – ad annotarla – non sia stato un uomo di nome Friedrich Nietzsche. E a meno che, a notarla, non sia stato un tale di nome Jacques Derrida, che la prese e ci ricamò sopra un testo, letto nel 1972 durante un convegno dedicato al filosofo dello Zarathustra. “Non saremo mai certi di sapere che cosa Nietzsche abbia voluto fare o dire annotando queste parole”, osservava Derrida. La frase, tra virgolette, esprimerebbe – a sua volta – una citazione trascritta dal filosofo tedesco? Un’osservazione da sviluppare in un secondo momento? Un motto di spirito? O, ancora, un codice noto a lui solamente? Inizia così la lotta per la padronanza ermeneutica della frase: da un lato la psicoanalisi, “che se ne intende quanto a oblio e a simboli fallici”; dall’altro gli Heidegger di turno, impegnati a rintracciare l’essenza dell’essente, risalendo la storia della metafisica a ritroso fino a scontrarsi con una qualche origine (quale? ovviamente la più anteriore di tutte, prima che la grande corruzione ebbe inizio). Entrambi i fronti ad affermare con sussiego: la frase deve significare qualcosa, al significante deve corrispondere il suo significato, e qui pronta ho la chiave interpretativa per scoprire la verità che si cela sotto parole tanto oscure. E se, invece, non ci fosse verità da disvelare? E quello di Nietzsche fosse quindi, ‘semplicemente’, un nonsense? O ancora: se fosse stato finto, parodicamente, un senso che in realtà manca? E se non sussistesse, in ultimo, proprio quella realtà cui si vorrebbe collegare quel senso che si ritiene proprio di ogni frase e che ne certificherebbe la ‘validità’? Quel senso reale che, nel dirsi ‘vero’, non riesce più a ridere di sé, dissimulando ogni incomprensione tramite un’ermeneutica che la converta in una comprensione fittizia, di comodo, utile a chiarirsi il

di Stefano Tieri dilemma (i punti interrogativi lasciati in sospeso, c’è poco da fare, piacciono sempre meno). Le maglie delle parole si allargano, allentano i nodi dei proprî stretti reticoli, finalmente libere dai vincoli del significato. Derrida parodizza i discorsi veritieri che potrebbero intervenire in un ipotetico dibattito (oltremodo accademico) sull’interpretazione della frase nietzscheana “ho dimenticato il mio ombrello”. E lo fa, come scrive lui stesso, con certe “pesantezze retoriche, pedagogiche, persuasive” (le stesse prese a prestito in questo roboante – quanto inutile – articolo). Afferma una verità e al tempo stesso smaschera la mancanza del vero dei discorsi veritativi. Lo fa ridendo, dei discorsi ‘veri’ e infine di sé: ecco la parodia, il contro-canto. Io parlo in modo incomprensibile, sono – come Nietzsche – qualcosa di incomprensibile (wir Unverständlich, “noi incomprensibili”, è il titolo di un frammento della Gaia Scienza). Però parlo: perché voglio farmi comprendere – sennò mi accontenterei del silenzio. Parlo e mi burlo della parola, di chi sta lì ad ascoltarmi (o leggermi) credendo di trovare in ciò che dico una qualche ‘verità’, quando invece sto semplicemente giocando. È semplice giocare? e giocare con le parole? Nella casa di cura di Jena, il filosofo-folle Nietzsche “si perde in giochi di parole” (così la cartella clinica redatta dai medici). La parola dimentica il suo significato, il discorso diviene parodia di discorso: la follia si concretizza in un gioco con le parole – almeno agli occhi di quel Logos che è al tempo stesso ragione e linguaggio, in modo bi-univoco: ragione in quanto linguaggio, linguaggio in quanto ragione. Ma finché ne parliamo solamente, forse, non se ne esce. Se un giorno dipingessi un quadro, probabilmente lo intitolerei “Le vacanze di Hegel” (o, meglio, “Les vacances de Hegel”). Ne riproduco di seguito uno schizzo mentale, non escludendo che un simile dipinto sia stato già compiuto, magari da Magritte.

Siamo dinanzi, nuovamente, ad un ombrello dimenticato: Hegel non vi si ripara sotto né lo regge in mano. Un ritratto mancato, dipinto in assenza del soggetto: immaginatevi il Filosofo che nel frattempo se ne sta in vacanza in qualche amena località balneare e viene improvvisamente colto di sorpresa dal temporale. In quel preciso momento si rende conto di aver dimenticato l’ombrello a casa: e a cosa può pensare, imprecazioni a parte? La dialettica (ovvero la legge della realtà e della razionalità – “ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale”) va in crisi. Come può infatti sussistere l’idea di spiaggia insieme all’idea di pioggia, per quanto grande sia l’assonanza fra le due parole? È così che crolla un sistema filosofico, le cui fondamenta non saranno mai sufficientemente solide. Intanto la parola (l’immagine) torna al quadro che, guardandosi meglio, chiarisce: ogni sintesi è impossibile fra l’oggetto che pretende di raccogliere l’acqua (il bicchiere) e quello che, invece, l’acqua vuole allontanarla (l’ombrello). Ribaltando quest’ultimo a testa in giù cambierebbe poco: l’ombrello si trasformerebbe sì in un grande contenitore d’acqua, ma il bicchiere che prima era sulla sommità finirebbe irrimediabilmente per frantumarsi a terra, in decine di schegge di vetro che renderebbero difficile ogni movimento. Io rappresento la parodia della dialettica: una sintesi parodica, l’unica possibile in un mondo continuamente in contraddizione con se stesso.


Parodie

Una parodia fin troppo seria. Il Contesto di Leonardo Sciascia di raccontare tutto a un amico scrittore e al segretario del partito di opposizione, ma i corpi di quest’ultimo e del poliziotto vengono trovati in un museo. La versione ufficiale è che li abbia uccisi un terrorista, ma per il lettore la verità rimane ambigua.

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na parodia è il sottotitolo che Leonardo Sciascia scelse per il suo libro pubblicato nel 1971, Il contesto. “Parodia” in quanto, precisa lo scrittore siciliano nella Nota finale del volume, “travestimento comico di un’opera seria […], utilizzazione paradossale di una tecnica e di determinati clichés”, ovvero quelli del romanzo poliziesco. Nel Contesto l’autore di Racalmuto si serve del metodo della parodia non solo per de-costruire il “giallo”, ma per esporre una riflessione abbagliante sulla giustizia, la verità e il potere. Il volume racconta la storia dell’ispettore Rogas, che deve indagare sugli omicidi di alcuni magistrati. Egli si convince che dietro gli assassinii ci sia Cres, condannato ingiustamente per il tentato omicidio della moglie. I superiori, tuttavia, lo inducono a spostare l’inchiesta verso gli ambienti della sinistra extraparlamentare, per alimentare una sorta di “strategia della tensione” che possa giustificare il tentativo di colpo di stato ordito dalle alte gerarchie dello Stato. Il tessitore del piano è il Presidente della Corte suprema, Riches, e il colloquio tra questi e l’ispettore costituisce il cuore del romanzo. Uscito dal suo studio, Rogas s’imbatte in Cres che sta andando a uccidere il magistrato, ma sceglie di non fermarlo. Il poliziotto dunque si identifica nell’assassino, che per lui ha assunto ormai il ruolo della vittima di uno Stato criminale. Rogas allora decide

La conclusione, che lascia chi legge in sospeso, è parte integrante della destrutturazione del poliziesco praticata da Sciascia. Per comprenderla meglio è utile un passaggio del saggio dedicato dallo scrittore, qualche anno dopo, a una Breve storia del romanzo poliziesco: “nella sua forma più originale – dice l’autore – il romanzo poliziesco presuppone una metafisica: l’esistenza di un mondo ‘al di là del fisico’, di Dio, della Grazia – e di quella Grazia che i teologi chiamano illuminante. […] L’investigatore […] rappresenta […] la legge in assoluto, la sua capacità di leggere il delitto nel cuore umano oltre che nelle cose, e di presentirlo”. Il protagonista di questi romanzi, quindi, procede a una rigorosa analisi dei fatti e degli indizi, fino a trovare la verità e ri-stabilire l’ordine della società. Proprio in questo punto, nei “gialli” di Sciascia, interviene una dissonanza. Il protagonista infatti non riesce ad arrivare alla fine della storia e a rivelare al lettore il colpevole (o i colpevoli): in questo caso, la morte di Rogas e del segretario – e quindi l’intera vicenda – è interpretabile in modi molto diversi. Un altro elemento di parodia interno al genere poliziesco, oltre all’identificazione del poliziotto con l’assassino, consiste nel fatto che seppure l’investigatore intuisca la verità, egli non riesce a ristabilire l’ordine nella società. Al contrario, viene schiacciato lui stesso da quello che si può definire un altro ordine delle cose, che agisce secondo meccanismi opposti a quelli della razionalità investigativa – e sociale – cosiddetta “normale”: ordine che si rispecchia nell’idea di giustizia esposta dal Presidente Riches. Un sistema nel quale, come ha sintetizzato Massimo Onofri, “ogni crimine, qualsiasi esso sia, deve essere interpretabile come un delitto di lesa maestà, in riparazione del quale il Potere può manifestarsi come forza spietatamente e puramente coercitiva, con ciò stesso legittimandosi” e dove

di Daniele Lettig “la colpevolezza […] è una dimensione a priori […] e prescinde dalle responsabilità effettive degli imputati”. In questo quadro non esiste l’errore giudiziario – né l’errore tout court: “il sacerdote – scrive Sciascia – può anche essere indegno, nella sua vita, nei suoi pensieri: ma il fatto che è stato investito dell’ordine, fa sì che ad ogni celebrazione il mistero si compia. […] E così è un giudice quando celebra la legge: la giustizia non può […] non compiersi. Prima, il giudice può arrovellarsi, macerarsi, dire a se stesso: non sei degno, sei […] soggetto a ogni debolezza e ogni errore; ma nel momento in cui celebra, non più. E tanto meno dopo”. La giustizia è intesa quindi, nelle parole del Presidente Riches, come un rito religioso, che si invera ogni volta e a cui non è concesso dubitare di sé. Essa si fonda su “un perenne stato di pericolo”, e legittima un diritto non basato su alcun principio umanistico o contrattualistico, quanto invece sulla forza e sullo stato di guerra – seguendo le idee espresse da Carl Schmitt nelle Categorie del politico. La decostruzione parodica del racconto poliziesco, nel Contesto, è funzionale perciò a delineare una precisa “metafisica del Potere” e dei suoi aspetti osceni. Sciascia però compie un passo ulteriore, facendo una parodia anche della realtà sociale da cui trae ispirazione. Come ha messo in luce il critico Giuliano Gramigna, Il Contesto ha la forma della parodia poiché essa è una “degradazione dei generi letterari, come il mondo che [la narrazione] raffigura è degradazione del mondo come dovrebbe essere”. La fondatezza di questa intuizione è confermata sempre nella nota finale del libro: durante la stesura, dice Sciascia, “ad un certo punto la storia cominciò a muoversi in un paese del tutto immaginario; un paese dove non avevano più corso le idee, dove i princìpi – ancora proclamati e conclamati – venivano quotidianamente irrisi, dove le ideologie si riducevano in politica a pure denominazioni nel giuoco delle parti che il potere si assegnava, dove solo il potere per il potere contava. E si può anche pensare all’Italia, si può anche pensare alla Sicilia; ma nel senso del mio amico Guttuso quando dice: ‘anche se dipingo una mela, c’è la Sicilia’”.

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scorrere di sguardi come luci che accompagnano nel semplice entusiasmo della quiete

Luna Mignani


Terza Pagina

inserto letterario

a L.

Flânerie Ogni tanto, tutto preso da quella giusta flânerie vago di tra la gente, vagheggiando chissacchè. La città quasi si sfa (che beltà) alla luce sfavillante del sole. Quasi che un senso pare fuoriuscire dalle mura lucenti che stagliano con le loro forme nette e sicure. Ci dicono del tempo che passa e non si ferma che ci divora la carcassa nell’eterna corsa al nulla. E qui fuori la gente pulsa e scalpita, (tutti quanti insieme nella trappola) e come se non bastasse l’organetto di strada al crepuscolo (infinitamente triste) mi ricorda che sì, alla fine sì, siamo tutti qui. Maledetti incastrati qui.

Matteo Mascarin

Sfuggivano fievoli i nostri baci dalla finestra semichiusa, i nostri corpi inseguivano inesorabili linee più labili di cerchi su un frangente d’acqua, la notte ci sospingeva dalle rive del Sonno in un dolce naufragio, un milione di stelle ammiccava al nostro buio di esuli. E la luna era una comare piena di pudore che non si perdeva nemmeno il più audace sussurro della nostra diceria di amanti. I vestiti, le lenzuola si assottigliavano come dune di sabbia che facilmente scivolano in una sponda di mare. Forse, un odore un gemito un tremore può darsi tenessero nella loro imminente concretezza i fili i giri, i viluppi e groppi del Destino ma noi leggevamo senza sospetto e senza spartito il ritmo danzante nelle ombre. Incuranti tentavamo di racchiuderlo nel sortilegio delle nostre dita o di nasconderlo, all’ultimo, in un angolo di letto, o magari lasciarlo languire al lembo di una sottoveste sparita per terra perché trovasse scampo dalla venuta definitiva del Mattino dallo sguardo di guardiano che quasi aveva chiuso un occhio e dimenticato il suo mestiere. 30 gennaio 2015

A. Da Baciocchi


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ualche limpido raggio di luna filtrava tra le chiome delle querce disegnando piccole chiazze di luce sui tronchi e sul muschio. Uno di essi cadeva anche sul calcio del moschetto abbandonato su un masso. «Xe ‘na sera sai bela, no? - sussurrò Dragan - Xe una sera de farghe la corte a una mula sta qua... miga a sti gnocchi de merda» «Soltanto gaverla la mula...» «Perché, ti no te la ga?» «Gavevo. Adesso chi sa dove che la xe andada a finir...» «Questo disevo. Me ricordo che andavo de sera per sconto a trovarla. Stavimo a Albona, e Albona de note sa esser sai bela» «Come tute le robe» «Sì, come tute le robe. Ma a sera la ussiva de casa a far un do ciacole co’ le altre mule, e tuti noi a corerghe drio, vardarghe el di dietro, e po’ superarla. Allora ghe davo un’ociada de sbriss e la me rispondeva co’ un soriso... un soriso te digo che me se verzi ancora el cuor a pensarlo...» «Bon che te me ga dito, cussì stasera me meto a dormir lontan de ti» «Mona!» «Mona e vergine, e me va ben restar tuti e do» «Tasi che ne ga za inculà tuti con sta cazzo de guera» Tacquero entrambi. Ogni volta che quella parola usciva di bocca a qualcuno durante un discorso ciascuno si richiudeva nei propri pensieri. Guerra. Sapeva di sporco quella parola. Uno sporco che avevano anche altre parole; “terra”, ad esempio. Ma “terra” aveva uno sporco che sapeva di buono, sapeva di mano impiastricciata di nero, di umidità. Era assieme sporco che nutre, che contribuisce a dare la vita. “Guerra” invece era sporco bastardo, freddo, sapeva di morte, di acciaio, di sangue, di merda... «Coss’ te disi, ‘ndemo ‘vanti?» «Sempre ‘vanti, mai indrio» «Co’ te disi ste robe te sa de fasista, ma el concetto xe quel» Guido riprese in mano il moschetto. Gli piaceva quel fucile: vecchio, col manico in legno. Sapeva di caldo, in qualche modo. Tutte le altre armi che aveva visto erano in ferro, prive di identità, prive di scrupoli. Una pallottola è la morte più orribile al mondo, pensava. Soprattutto se ti prende alla sprovvista. Anonima, fredda, spietata. Pensava l’avrebbe accettata, in qualche maniera, soltanto se fosse partita da un’arma come quella. Ma in fondo, mentre che la pallottola ti entra nel cranio o si fa strada tra le costole, ti metti a pensare ammesso che pensi a qualcosa - da dove proviene? E che importa l’arma se è quello che spara a essere freddo e glaciale? L’arma può avere o non avere simpatia, ma chi ci sta dietro? L’unica cosa era essere sempre pronti, aspettarsi costantemente quel colpo... senza aspettarlo, mantenendosi lucidi e calmi. «A cossa te pensi?» «Monade»

«Alora va ben, no voio che te se meti a pensar robe serie in missiòn, che po’ tuto diventa serio e va mal» «Perché, ti a cossa te pensi?» «A le cotole de quela mula, oviamente» Continuarono a farsi strada nel bosco. Dragan leggeva la pista fra gli alberi in una maniera che Guido non aveva ancora imparato. A un tratto si fermò. «Gnente de far, vien nebia. Tornemo al campo» “Vien nebia”. Eppure la notte era pura, cristallina, il cielo ancora limpido, la luna bianca. Guido si chiedeva da cosa il commissario avesse tratto quell’informazione. Dal vento? Dall’umidità? Dalla terra? Girarono sui tacchi e presero a ripercorrere la strada per il campo. Dopo una decina di minuti, in lunghe propaggini sottili, la nebbia prese ad avvolgerli. «Stroligo» disse Guido. Dragan scoppiò a ridere. «Commissario, ritentemo sta note?» «Me spiasi, Guido, sto giro vien Ivan con mi. Ti te pensi ‘sai serio» e gli fece l’occhiolino. Guido si sedette su un sasso e prese a raschiare le tasche in cerca di tabacco. Trovatone abbastanza, lo girò in uno strappo di giornale e si mise a fumare. Il tempo passava. “Ecco, ‘desso i sarà rivai al punto de sosta, i starà preparandose a ‘ndar avanti con più cautela anca lori, come noi ieri... ancora un po’ e i riverà in vista del castelletto, i prenderà vision de cossa far per l’attacco... i tornerà e doman, dopodoman forsi, sarà la volta de le palottole, e ‘vanti cussì...” Si addormentò con questi pensieri. Lo svegliò la concitazione dei compagni, tutti attorno a due partigiani che non aveva mai visto. «Cossa xe successo?» chiese. «Xe morti!» «Chi xe morto?» «Dragan e Ivan! Vizin al castel! I xe montai su una mina!» La notizia colpì Guido in pieno petto. Morti. Saltati in aria. Si sedette per terra. Niente pallottole, solo carne a brandelli, schegge impazzite e fumo... e lui, lui che si era salvato, lui che il giorno prima con Dragan erano tornati indietro per tempo, che si erano salvati. «Chi pensa de poder tornar indrio a Albona, un giorno? Chi ghe lo dirà a sua morosa? Se no se fa ‘vanti nissun, farò mi!» disse Guido. «Che morosa?» «La mula de Dragan, quela de Albona!» «Guido... quela mula no esisti... no più. La ga tirada soto de un camion i tedeschi, co’ i xe rivai in paese... xe per quel che Dragan xe entrà partigiano...» «Perché, ti a cossa te pensi?» «A le cotole de quela mula, oviamente».

Ettore Spada


Il finestrino rigato

E

ra di Marzo, un giovedì se non sbaglio. Fuori faceva freddo ed io stavo rannicchiato nel mio letto, immaginando di rimanervi all’infinito. Utopia. Erano le 5 del mattino e ancora la sveglia non aveva suonato. Quella sentenza aspettavo, quel suono che mi avrebbe allontanato per l’intera giornata da quella sottospecie di luogo ove ritrovare se stessi e un proprio equilibrio. Del quale a dir la verità necessitavo, poiché avevo a che fare con gente che dire che fossero strazianti è poco. Molto poco. Scesi le scale e ogni gradino sembrava cominciasse ad assumere uno strato scivoloso, di ghiaccio, che accelerava il mio passo e restringeva l’intercorrere di tempo che mi divideva dalla situazione straziante che ero destinato a sopportare, ad affrontare. Ma ero pronto. Prontissimo. Arrivato in stazione controllai nella borsa che ci fosse tutto: libro, occhiali, quaderno per gli appunti, penna. Salii sul treno come chi è destinato a prendere una scelta malvolentieri, ma l’unica percorribile. Mi aggirai in quel corridoio stretto. Passo dopo passo sembrava sempre più stretto, girando il capo la gente mi guardava come a dire: “Cosa guardi?! Siediti e fatti i cavoli tuoi”. E così feci. Seduto e non potendo scrivere dato che il treno traballava troppo, voltai il capo definitivamente per tutta la durata del viaggio verso il finestrino che era rigato, abbastanza appannato, ma comunque si riusciva a scorgere il paesaggio. Paesaggio tipico della montagna calabrese, aspra e cruda, riflesso della mia vita: aspra e cruda come non mai. Senza affetti, senza beni, senza nulla. Privata di tutto. Questo paesaggio mi accorsi subito che non aiutava molto a distogliermi dalla realtà e così diressi il mio sguardo verso una signora sulla sessantina, bella, in carne ed egocentrica, si guardava allo specchio a ritmo di battito di ciglio. Dopo averla spiata per una ventina di minuti mi accorsi che aveva un tic. Tendeva a chiudere un occhio leggermente prima dell’altro, ma solo se la si osservava attentamente si notava. Dopo un po’ mi chiesi se ne valesse la pena di osservare il tic di una vecchia bacucca. Però diciamo che altro di più interessante non c’era. Ad una delle innumerevoli fermate salii un signorotto più o meno alto 1 metro e una noce con fare allegro e scherzoso, fin troppo. Si sedette e ogni tanto apriva lo sportello della cabina di guida e si

faceva delle grasse risate con i responsabili al treno. Dopo averlo osservato per mezz’ora non riuscii a capire perché se la scialava in quel modo. Aveva con sé una busta nella quale teneva due asciugamani e un bagnoschiuma, i quali diceva di averli comprati al ribasso avendo così risparmiato del danaro. E lo ripeteva a oltranza come a vantarsi di essere uno che di acquisti se ne intendeva. Tale cantilena non andava giù molto a tutti quegli operai come me che, invece di stendersi e rilassarsi per un attimo prima del lavoro, erano costretti a sentire quello zoticone che parlava. Ogni tanto prendeva con fare soddisfatto il bottiglione di bagno schiuma, svitava il tappo e ne apprezzava la fragranza come a dire “oh come sono intelligente”. Mi stava scassando. Glielo stavo per dire ma solo un santo mi trattenne le parole sulla punta della mia biforcuta, rassegnata, lingua. Finalmente ero arrivato a destinazione. Il lavoro m’aspettava e la mia faccia s’ingialliva come un formaggio da settimane scaduto. Lavorai per 7 ore di fila, non ce la facevo più e l’ambiente stanco, sudaticcio e affranto di certo non faceva altro che peggiorare la situazione. Uscii dalla fabbrica e guardando il cielo mi resi conto che il sole mi stava salutando per lasciare posto alla luna che mi avrebbe fatto compagnia durante tutto il viaggio fino a casa. Cominciava ad imbrunire, già le prime luci erano accese, mi dovevo affrettare perché rischiavo di perdere il treno che mi avrebbe riportato a casa. La mia casa così accogliente, così calda. Bellissimo. Mancava poco al passare del vecchio treno zeppo di persone che forse, anzi di certo stanche, distrutte, non vedevano l’ora di arrivare a casa magari trovando i figli che li avrebbero riempiti di dolci baci e coccole e oltre a loro la loro moglie che nel modo più semplice del mondo come solo una persona amata sa fare li avrebbe tirati su di morale. Io invece solo come un cane, in balia della solitudine, mi avviavo a salire sul treno sapendo che arrivato a casa sarei rimasto preda di quest’ultima. Arrivato aprii il portone della palazzina e iniziai a salire le scale che gradino dopo gradino assomigliavano ad una montagna sempre più ripida da scalare e arrivato alla porta di legno pregiato come se dovesse racchiudere qualcosa di prezioso che doveva essere mantenuto per bene, aprii quella porta, entrai, invano guardai in cucina e in seguito, affranto, mi afflosciai sul divano... il mio caldo e adorato divano. Avrei voluto soffocare lì tutto il mio malcontento, sperando vanamente di riuscir a scrollarmelo di dosso.

Emanuele Cristelli


A... Lei Stropiccia i cent’occhi la notte forse già spenti da qualche millennio, sbadiglia all’idea di vegliare al banale noioso rituale del vil mio coevo, soldato di cocci di bronzo che biascica a stento che nulla conosce che emana a cristalli stoltezza, mentre eietta fiotti meschini sul ventre d’una poco di lui meno scimmia, rapace farfalla biscia spaurita crucciata ala di nibbio che ignora lontano il nido di lanugine e salvia, testarda seguace di audacia ghigno pendente. Anche tu, mio candido chicco di riso diafano volo di ibis verdeazzurro biondo raggio di Titano, io so, ti presti con altro al rituale arcano, accogli con sguardo di cerva la sua stirpe a metà; Forse ardiresti di amarlo quel tale, che già vedo posare sul talamo - magari sotto il cuscino sinistro un fazzoletto di fragola intatto per bene piegato che s’affretta a colmare di liquide scuse a cose finite. Mi manchi, tu, sinuosa ballerina di foglie argentate, raggio impazzito della mia ruota limbica, brano di tegola trafitta dai pianti d’Oriente!

Mi manca di te quel sospiro coccinella spezzata, i tuoi occhi calura di smeraldo incendiato, il tuo riso la voce perdute corde di cetra micenea; Mi manca di te quel crine spighe di Samotracia schiera di mirmidoni dorati, la tua bocca antro di Eco assopita scrigno di porpora e comete, le tue mani le dita candele di alabastro trecce di Dafne raggiunta; Mi manca di te quello scrittoio di noce striato che a stento ci resse quando a brama cedettero i tomi, il tuo peplo notturno di seta cimelio di Aracne al retrogusto di lillà, il tuo fremito le titubanze quando ti spingevi nelle vie più nascoste per donarmi un illecito segretissimo bacio: Ma non le tue lacrime i singhiozzi rune proibite di Scozia abisso di anfore etrusche, quand’io infissi con scalpello sumero il mio cuore d’argilla, e in cunei vi scrissi: non amo più.

Taldesardus Gales


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Dialogo tra Carl Weyprecht e James Morgan McGill, l’avvocato difensore degli hooligan

UEFA Europa League. 19 febbraio 2015, ore 19. Stadio Olimpico, Roma. Qui e in questa data ha avuto luogo la partita fra la Roma e il Feyenoord. Partita che resterà nella memoria di molti, partita che verrà discussa in tanti quotidiani, partita che rimarrà nei cuori e nelle menti sia degli amanti del calcio che degli amanti dell’arte. Sicuramente sapete già di cosa si sta parlando. Al ventiduesimo minuto Gervinho fa portare a casa ai Giallorossi il primo gol. Sembrano vincere. Ma al cinquantaquattresimo minuto Kazim Richards firma quello che sarà un pareggio, 1-1. 9 tiri totali per la Roma, 6 per il Feyenoord. Falli commessi: 8-20. Cartellini gialli: 3-3. Risultato 1-1. Ma questi alla fine sono solo numeri… i fatti sono altri.

Carl Weyprecht – E che me ne frega del calcio. Io ho ben altri interessi, io che mi sono arruolato a soli 18 anni nella Marina Militare austro-ungarica. Amo la scienza, amo la cultura, amo l’arte. Tutta la mia rabbia ora si rivolge verso il pensiero di quelle 110 scalfiture “con lode” che i vandali tifosi ultrà del Feyenoord Rotterdam hanno procurato alla Barcaccia del Bernini… loro hanno messo a ferro e fuoco la capitale italiana, danneggiandola irrimediabilmente. E il suo cliente è il peggiore di tutti, è colui che mostrava il medio alle telecamere di sorveglianza! James Morgan McGill – Sono indignato da questi soliti luoghi comuni. Il mio

cliente non ha commesso nulla di tutto ciò per cui viene accusato. Weyprecht – Lui e gli altri tifosi del Feyenoord hanno distrutto la città. Sono solo degli infimi tifosi ultrà, o hooligans, o come si vuole definirli. Ma come si può?!? Non riesco neanche a dirlo: hanno rovinato la Barcaccia del Bernini. Non so se lo sa, ma fu papa Urbano VIII che nel 1627 incaricò il Berni-

ni di realizzare quella fontana nella piazza sottostante la chiesa della Trinità dei Monti, l’attuale Piazza di Spagna. Che affronto alla cultura è questo! È un affronto allo sviluppo e alla storia dell’umanità… posso quasi quasi paragonarlo all’orripilante gesto che miliziani dell’Isis hanno commesso devastando il museo di Mosul in Iraq. Altro che “Una notte al museo”… per questo museo è stato il tramonto. “Stupro” l’uno, “atti barbarici” l’altro, così sono stati definiti… ma siamo lì. Siamo estremamente vicini alla morte della cultura, vicini alla morte del nostro passato. La sensibilità pubblica dov’è? C’è, ma mi sembra così pallida… McGill – Ma chi sei tu per dirle tutto queste idiozie? Weyprecht – Il mio nome è Carl Weyprecht. Sono nato l’8 settembre del 1838 a Darmstadt. Sono sempre stato un amante della letteratura, soprattutto delle letture avventurose… Jules Verne era la mia ossessione. In sostanza sono un esploratore austriaco, celebri sono le mie esplorazioni polari. Ma Lei si chiederà, come molti, perché io mi impegni tanto a rappresentare Roma e la sua arte in questa causa. Perché non un archeologo, un esperto d’arte, uno “Sgarbi” qualunque? Ebbene lo faccio perché voglio rappresentare la passione e perché in parte mi sento italiano… triestino. Quindi la questione mi sta molto a cuore. Amo il Bel Paese! È stato un attacco alla cultura… ad una barca per la precisione, e la cosa mi tocca ancora di più, dato che sono stato un marinaio. Ricordo come se fosse ieri quel gennaio del 1871, quando ebbi l’occasione di partecipare alla mia prima spedizione

di Solivagus Rima

srsolivagus@gmail.com

polare. Ricordo il mio viaggio sulla baleniera Isbjörn… ma non divaghiamo! Mc Gill – Io sono Saul Goodman, sono stato il legale di Walter White, tutti sanno chi è! Sono conosciuto come l’avvocato dei disonesti, dei malfattori, di chi sa di aver torto… tuttavia non è questo il caso. Dai! Va tutto bene, amico! Va tutto bene! Non penso sia il caso di trattare il mio uomo come se fosse un qualsiasi “Nerone” che ha dato fuoco a Roma. Mi sembra che stiamo un po’ esagerando. Poi, sa com’è, anche se il mio cliente avesse alzato un po’ il gomito e avesse accidentalmente colpito qualche palazzo qua e là, non sarebbe poi così grave… e poi voglio dire, le autorità italiane, le forze armate, la polizia non avrebbero dovuto impedirlo? Certo, negli Stati Uniti ci sono certi idioti che ad ogni buona occasione tirano fuori il taser e non vogliamo certo che in Italia ci sia una situazione del genere. Ma qui passiamo da un estremo all’altro… in Italia i poliziotti hanno il manganello di gommapiuma, ahah. Ma ora basta parlare di queste cose... non vorrei mai che qualcuno poi mi spedisse a fare un viaggio in Belize… ci siamo capiti? Dormo tranquillo nel mio letto e il giorno dopo non mi sveglio più… oppure mi incendiano la Cadillac. Ora basta! Per concludere, sai che il 15 maggio del 2007 quattro extracomunitari ubriachi danneggiarono la fontana della Barcaccia con un cacciavite? Questo è un vero atto vandalico e non quello che ha commesso il mio cliente, forse con qualche bottiglia di birra! Weyprecht – Senta, dico solo che è stato trovato un frammento di travertino di 10 centimetri appartenente all’orlo del candelabro centrale della vasca. Non mi faccia andare avanti che mi sale la bile! Il popolo saprà dare ragione a chi ha ragione e torto a chi ha torto. Spero davvero che non ricapitino più cose del genere, non potrei sopportarlo!

Mc Gill – “Non hai fatto piani per questa evenienza? Persino la Nave Spaziale Enterprise aveva un bottone per l’autodistruzione. Dico per dire”.

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Teatro

Il teatro della solitudine

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ggetti spettrali riempiono la scena. Al centro un grande specchio riflette l’immagine turbata dell’attore friulano Giuseppe Battiston, che in un lungo monologo racconta l’esperienza biografica dello scrittore americano Paul Auster. La testimonianza, racchiusa ne “L’invenzione della solitudine” e trasportata sulla scena teatrale sotto la regia di Giorgio Gallione (mantenendo il medesimo titolo), mette a nudo il rapporto travagliato dell’autore con il padre appena defunto. Paul Auster si trova nella casa paterna, dove ogni oggetto al tempo stesso suggerisce e cela la presenza del padre. Le cravatte, le scarpe, i soprabiti, ricordano singole esperienze (infelici, per lo più); eppure urlano anche un’assenza ingombrante (“mi sono impadronito delle sue cose, ma mio padre è già fuggito da loro, invisibile”), che si riflette nel presente del protagonista, alle prese con una situazione complessa e che per molti versi si rispecchia in quella paterna: divorziato e padre a sua volta, è stato separato dal figlio a causa della rottura della coppia, smarrendolo esattamente come lui si era sentito smarrito e abbandonato, quand’era bambino, dal padre, unicamente interessato al proprio lavoro e alle possibilità di guadagno (“se vedi il mondo solo in termini di soldi, allora non lo vedi affatto”, commenta sconsolato Paul Auster). Un uomo che ha sempre vissuto, perciò, in un “altrove” inaccessibile agli altri – persino al figlio, che tramite

la lettura e la rievocazione degli oggetti trovati nella casa cerca di creare un’intimità, mai avuta prima, col genitore assente. Che cos’è la solitudine? È possibile entrare in quella altrui, scalfirla, per poterla poi raccontare, mettere in scena? Si esce dal teatro senza averlo capito fino in fondo: più che di una solitudine, qui è di molte solitudini che si parla – quasi fosse uno stato contagioso, che si riflette e diffonde ereditariamente: è quella del padre morto (di cui a un certo punto viene riportata la massima emblematica: “tutte le infelicità degli uomini derivano da una cosa: il non sapersene stare tranquilli in una stanza”), ma è anche quella del protagonista, divorziato e allontanato da suo figlio, che si aggira nella casa vuota alla ricerca di brandelli di ricordi, solo con se stesso e smarrito in cupi pensieri. “È stato, non sarà mai più, ma tu ricorda”, scrive il protagonista al figlio addormentato, che un lontano domani leggerà, forse, le sue parole. Quasi una supplica affinché qualcosa resti, pur nella distanza, nell’assenza, nelle difficoltà ineludibili dei rapporti umani: tale è la paura per la propria morte, scatenata da quella (improvvisa e inaspettata) del padre. Di generazione in generazione gli errori mutano ma si ripetono, gli spettri assillano e si fanno presenze-assenze, negando ogni pace, lasciando presagire un futuro di cui si vorrebbe evitare la ripetizione e che pure sembra procedere al di là delle proprie intenzioni, contro ogni sforzo.

di Selene Basileys Sulla scena Giuseppe Battiston interpreta con cura la sfaccettata psicologia del protagonista, per mezzo di un copione che pure vira con (troppa) facilità verso il patetico, in un lamento continuo che – se pur giustificato dalle vicende narrate – forse si dimostra poco congeniale alle dinamiche teatrali e al loro ritmo. L’accompagnamento musicale, minimalista, è firmato dal pianista jazz Stefano Bollani: un arrangiamento in grado di sottolineare i passaggi cruciali della narrazione, marcandone le parole e al tempo stesso i silenzi che le separano. Il pubblico di Trieste, che ha potuto assistere allo spettacolo al Politeama Rossetti lo scorso 28 febbraio, ha dimostrato di amare l’interpretazione del primo attore, osannato e acclamato a più riprese. Giuseppe Battiston non è certo una figura nuova per il teatro Rossetti, il cui pubblico ha potuto apprezzarne, recentemente, le interpretazioni in Macbeth e in Orson Welles Roast. E alla fine dello spettacolo, l’impressione è che gli applausi siano stati tutti per lui, più che per il testo di Auster o la riduzione scenica della regia.


Storia

La promessa di chi non ha a chi non merita

Il 2 novembre del 1917 veniva firmata la nota Dichiarazione Balfour, che avrebbe aperto la strada all’immigrazione ebraica in Palestina. Questa dichiarazione era nata sotto forma di lettera privata fra l’allora Ministro degli Esteri britannico Lord Balfour e Lord Rotschild, referente del movimento sionista, con la quale il governo britannico affermava di guardare con favore alla creazione di un focolare ebraico in Palestina in merito alla divisione dell’impero ottomano alla fine della Grande Guerra. La Dichiarazione Balfour fu inserita successivamente all’interno del Trattato di pace di Sèvres, firmato tra le potenze alleate della prima guerra mondiale e l’impero ottomano, il 10 agosto 1920, che stabiliva la fine delle ostilità con la Turchia e assegnava la Palestina al Regno Unito. L’11 Dicembre 1917 Sir Allenby, comandante della cavalleria inglese, entrò a Gerusalemme a piedi e marciò nel centro storico, offrendo l’immagine di un pellegrino più che di un invasore. Fu il primo cristiano a conquistare Gerusalemme dopo la prima crociata (1096-1099). Questo simbolismo non sfuggì ad Allenby né al capo del governo Lloyd George, che descrisse la presa di Gerusalemme come “un regalo di Natale per il popolo britannico”, mentre Allenby fu ancora più esplicito: “Le guerre dei crociati sono ora complete”, considerando l’evento stesso “l’ultima crociata”. I britannici furono accorti nel presentare

agli occhi dei palestinesi il Lord suggerendo la paretimologia del nome “Allenby” con il termine arabo “alnabi” (il profeta). Gerusalemme ormai era nelle mani dei britannici, ed è da questo momento che essi vengono accusati di tradimento nei confronti della causa araba, perché agli arabi fu promesso tramite l’agente segreto T.E. Lawrence (più noto come “Lawrence d’Arabia”), che fu mandato dal governo britannico nel 1916 in aiuto degli arabi contro la Germania e, dall’altra parte, gli arabi cercavano l’indipendenza dal dominio turco. Anche l’alto diplomatico britannico H. McMahon ebbe una corrispondenza con Hussein Ibn Ali, sceriffo de La Mecca nel 1915, in cui si prometteva il controllo arabo dei territori storici arabi. Queste decisioni, prese dai governanti britannici in Palestina circa 90 anni fa, hanno alimentato e aumentato il conflitto tra l’occidente e l’Islam ancora vivo oggi. Lord Allenby dispose che la Dichiarazione non fosse resa pubblica in Palestina dove le sue forze erano ancora a sud della linea Gaza-Beersheb (per questo si dovrà attendere la creazione dell’Amministrazione Civile nel 1920). Perché allora la Dichiarazione fu firmata un anno prima della fine del primo conflitto mondiale? Sembra che i britannici sentissero un debito di gratitudine nei confronti del leader Sionista (e primo Presidente d’Israele), Chaim Weizman, del quale si diceva che avesse inventato un processo di fermentazione di castagne da trasformare in acetone, difficile da reperire, destinato alla produzione di esplosivi per il Ministero degli Armamenti e rigirato in forma di propaganda all’opinione pubblica. Inoltre tra il 1914 e il 1948 il potere coloniale britannico permise al movimento sionista di far trasferire centinaia di migliaia di coloni ebrei dall’Europa in Palestina, nonché costruire centinaia di insediamenti tra cui diverse città e di gettare le basi politiche, militari, economiche, industriali, demografiche e culturali dello Stato di Israele. Le comunità ebraiche appena inse-

di Khoder Faraj

diate mostrarono un atteggiamento di superiorità coloniale nei confronti della popolazione indigena. A partire dal mandato britannico sulla Palestina il processo di colonizzazione accelerò rapidamente favorito dai britannici. Durante questo periodo i sionisti insistettero che la Palestina fosse denominata ufficialmente come la “terra biblica di Israele”. Le autorità britanniche concessero l’uso dell’acronimo ebraico di “Eretz Israel” (“Terra di Israele”) sotto il nome della Palestina su tutti i documenti ufficiali, sulle valute, sui francobolli. La colonizzazione della Palestina culminò nella creazione dello Stato di Israele nel 1948 e nella Nakba Palestinese, ossia il dramma della pulizia etnica e la distruzione di gran parte della Palestina storica. Dal territorio occupato dagli israeliani nel 1948, circa il 90% dei palestinesi furono cacciati dai sionisti con la guerra psicologica e soprattutto con la forza militare. La guerra fornì le condizioni necessarie per la creazione di uno stato ebraico in gran parte privo di arabi. Oggi circa due terzi dei palestinesi sono profughi, milioni vivono in squallidi campi in Medio Oriente e spesso senza il diritto di un’occupazione, e molti altri sono sparsi in tutto il mondo, mentre quei palestinesi che combattono per loro patria muoiono ogni giorno con le decine di bambini e anziani sotto la mietitrice dei bombardamenti. La Bibbia è stata sfruttata abilmente dal sionismo militarista di Israele non solo per la pulizia etnica della Palestina e l’esilio di milioni di palestinesi dalla loro patria, ma anche per cancellare la storia e la memoria palestinese. Oggi la Nakba Palestinese è quasi assente dalla memoria britannica e occidentale. In tutto questo né i Crociati né la Gran Bretagna avevano diritti sulla Palestina. Soprattutto la Gran Bretagna che non aveva alcuna autorità legale o morale di disporre a favore di terzi e di persone che non risiedevano nel paese di una terra che non le apparteneva. Ed è questa la ragione del titolo che è stato scelto per l’articolo: la promessa di chi non ha a chi non merita.

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Scontro tra penne

Felici, consumatori e sfruttati Ruben Salerno VS Davide Pittioni Ruben Salerno: L’altra sera alla “Gabbia” discutevano

di Jobs Act e, come spesso accade, si è finito per parlare di sfruttatori e sfruttati. Colma d’ottimismo la Vicepresidente della regione Emilia-Romagna (rossa, in teoria) ha sostenuto le Start-up come ricetta alla crisi. Evviva l’uomo-impresa! Il giovane che si inventa padrone di se stesso e si fa azienda. Grazie a una “vision”, crea una “mission” e piazza il suo “product” nel “place” giusto facendo lievitare il “price”. Proprio in virtù di questa nuova forma di capitalismo ho deciso di sfidarti, mio caro Davide. Questo mutante che da qualche anno scorazza per il mondo, sfruttando la velocità e i mezzi di internet, ha dato un colpo di spugna all’annoso dualismo padrone-lavoratore. Non c’è sfruttato se homo artifex suae quisque fortunae, con buona pace dei sindacati e di coloro che tutt’ora levano gli scudi in nome del salario, del tempo libero e contro lo sfruttamento del povero lavoratore indifeso. La legge universale di tutti i mercati si basa sul dualismo domanda-offerta e nasce da un’interpretazione darwiniana del commercio: sopravvive il più adatto, ovvero chi riesce a produrre prima, meglio e al minor costo “il bene necessario”, rivendendolo a un prezzo maggiore e guadagnando dalla differenza tra il primo e il secondo passaggio. Su questa base hanno campato ciabattini, bottegai e artigiani di ogni epoca. Nessuno si considerava una start-up ma il concetto era lo stesso: il lavoro non era che la vita stessa ed era l’unica via per garantire un pasto caldo al giorno per sé o per la famiglia (a sua volta impiegata nell’attività propria o di altri). Mercato locale, produzione per lo più di beni di sussistenza o arte. Questa legge però si è complicata quando il bene necessario è mutato in “bene di consumo” ed il tempo del lavoro è stato diviso da quello libero, dedicato per l’appunto all’acquisto e al consumo dei beni prodotti. Anche su questo fondamentale imbroglio si sono basati gli ultimi due secoli di sfruttamenti, lotte sociali, conquiste e guerre, scioperi e assemblee. Ma adesso? Non ci sarebbe operaio né catena di montaggio se non ci fosse la necessità di produrre su scala industriale. L’in-

dividuo non si aliena più attraverso il lavoro ma con tutto quello che spende per avere più visualizzazioni e informazioni condivise. Così fa straordinarî se è dipendente, non si ferma se è imprenditore e brucia e produce a ciclo continuo, finché la distinzione si annulla. Il mercato, pur cambiando, sta ritornando alle origini ed ha riportato il tempo del lavoro alla sua dimensione primitiva, totalizzante e globale. Si tratta di capire se la difesa dell’essere umano voglia trovare in questa realtà rinnovata diversi codici espressivi o se, insistendo nell’attaccare il cattivo padrone che opprime il debole operaio, sarà spazzata via.

Davide Pittioni: Non mi sembra corretto parlare

di imbroglio. È del tutto naturale che una società si evolva e trasformi i suoi paradigmi produttivi. Non lo fa certo in maniera indolore: ci sono stati e ci sono ancora (anche se lo si nega in nome di una presunta pacificazione) conflitti, lotte, insubordinazioni. Cosa c’è di strano nell’ammettere che le lotte operaie hanno portato, tra le tante cose, a ridurre il tempo di lavoro in favore del tempo libero? Non c’è nessuna menzogna, ma la semplice riappropriazione di tempo, la conquista di uno spazio su cui oggi sempre più prepotentemente si esercita una pressione per ri-sottometterlo alla valorizzazione capitalistica. Ma non si tratta di una parentesi della storia, che poi ripiegandosi su se stessa ha ritrovato la sua “dimensione originaria”. Forse in questo caso è più utile mostrare le differenze, gli scarti che si sono prodotti. Non possiamo, per esempio, assumere “ciabattini, bottegai e artigiani di ogni epoca” come il centro produttivo, o riproduttivo dell’epoca feudale (forse nel tardo medioevo, in alcuni comuni, ma quante differenze, sotto quale molteplicità...). Vien difficile credere che quella che a prima vista sembra un’affermazione preliminare e non problematica – “la legge universale di tutti i mercati si basa sul dualismo domanda-offerta” – sia valida e estendibile ad ogni latitudine, geografica e temporale (Marx notò come la scienza economica – che defini-


Scontro tra penne va borghese – operasse attraverso la naturalizzazione delle sua categorie, cancellando la loro storicità...). Ci vuole un mercato – efficientissimo, sia mai – e ho seri dubbi che quello che oggi potremmo intendere per mercato sia esistito in altre epoche (e non si vada a cercare nel codice di Ammurabi il termine mercato, è traduzione, e i significati cambiano, hanno storia, come le società). Come conciliare allora mercato ed economia di sussistenza? O la schiavitù? Dov’è la domanda, dove l’offerta? L’altro giorno in televisione, in tutt’altro contesto, Salvini proclamava: “se c’era la schiavitù è perché c’erano gli schiavi”. Parallelamente, sembra che se c’è sfruttamento è perché c’è lo sfruttato. Lì, da sempre, che non aspetta altro che essere, appunto, sfruttato. “Son qui per questo!”, sembra abbia detto prima di firmare il contratto. Eccolo il contratto, questa terra di nessuno dove soggetti astratti di pari poteri si scambiano prestazioni lavorative contro salario. Questo è l’inghippo, la robinsonata, come la chiama Marx. Perché non si può astrarre dai rapporti di potere, o banalmente dalle asimmetrie: ancora Marx distingue tra i possessori della sola forza lavoro, in posizione subalterna, e i possessori dei mezzi di produzione. C’è lotta, conflitto tra gli interessi, gerarchia, e quindi faglie e increspature nel campo sociale, non certo uno spazio liscio dove si incontrano domanda e offerta. È vero che si tratta di confrontarsi con figure nuove del lavoro che superano la differenza “classica” tra padrone e lavoratore: il fatto è che queste – anziché eliminarle – rimodulano nuove forme dello sfruttamento, del comando, dell’assoggettamento. Da qui forse potremmo ripartire per cogliere quei mutamenti che indubbiamente hanno travolto le nostra società.

Ruben: Non servirà risalire ad Hammurabi per dare

una definizione di mercato, in particolare se pensiamo a ciò che può significare oggi. Hai presente quelle moltitudini di persone che ogni sabato pomeriggio invadono centri commerciali e fiere? Vagano in mezzo alle stesse vetrine e bancarelle da anni, indecisi sul come spendere i quattro soldi che hanno in tasca, gonfiandosi di gioia quando c’è la notte bianca, ovvero i negozi (sempre quelli) aperti qualche ora in più. Che dire dell’happy hour o dei regali di Natale? Quelle persone non sono crudeli banchieri o meschini industriali ma perlopiù operai, impiegati, stagisti, giovani squattrinati, le cosiddette vittime della crisi. Attori incoscienti di un sistema che si basa sulla soddisfazione dei loro bisogni, dalla produzione, allo stoccaggio, al trasporto e alla vendita. Altro che formichine dedite al sostentamento proprio e della famiglia! Ormai siamo di fronte a masse di cicale o, peggio, locuste insaziabili. Non ci sarebbero miniere di silicio in Liberia se gli Apple store non avessero code oceaniche ad ogni

uscita di nuovi smartphone, tablet e via dicendo. Chi decide che il caffè in Italia costa solo 1€? Migliaia di braccianti nei campi e altrettanti operai che, nelle fabbriche, polverizzano i chicchi e li inscatolano, centinaia di trasportatori che portano oltremare i conteiner su navi e camion, passati per porti dove decine di impiegati gestiscono i traffici. Per non parlare dei grossisti, della vendita e del barista che ti riempie la tazzina. Il tutto per uno striminzito euro, il tutto perché io, te e tutti loro, reputiamo sia il prezzo giusto. Poco importa se da questo dipende il loro salario, la qualità dei macchinari che adoperano e dell’aria che respiriamo. Ecco il mercato, ecco l’ambita democrazia! Ecco la dittatura dei molti sui pochi. Il consumatore determina le scelte del capitalista, non viceversa, ovvero il servo comanda al padrone. Ora ti chiedo: dove sono le vittime e quali i carnefici?

Davide: Serve citare i soliti dati sulla distribuzione

delle ricchezze? Come spiega Thomas Piketty nel suo ultimo libro, c’è una tendenza in atto che in quanto a numeri e statistiche ci sta riportando al capitalismo ottocentesco: aumento del rapporto tra capitale e reddito, incremento della rendita da capitale in misura superiore alla crescita economica, concentrazione dei patrimoni, peso sempre maggiore dell’eredità. Allora da che parte mettiamo le vittime, da quale i carnefici? Tratteggi un quadro da carnevale dei consumi, che è vero, ma confonde notevolmente l’insieme. Perché arrivare a dire che è il servo a comandare il padrone significa mettere il mondo con le gambe all’aria. Certo, la produzione si adatta ai mercati, diventa sempre più flessibile, elastica, per aderire alle più piccole oscillazioni della domanda: non è però una tenera concessione, ma un raffinamento delle tecniche produttive (cos’è la precarietà del lavoro se non un’esigenza di utilizzazione just in time della forza lavoro? Libertà? Per chi? Chi ne dispone veramente?). Parliamo allora dello Smartphone. Questa merce-feticcio che dalle vetrine dei negozi oscura ciò che gli sta alle spalle: la sua storia produttiva, i rapporti di produzione che la creano in una piramide di sfruttamento. Il punto non è l’oggetto (io uno smartphone lo possiedo), ma la relazione di quell’oggetto, e cioè alla fine la distribuzione interna della ricchezza che produce, lo sfruttamento dei minatori della Liberia, degli operai della Foxconn (in condizioni fordiste, se non schiaviste, tra l’altro; qualche anno fa ci fu un’ondata di suicidi nelle fabbriche della Foxconn: l’azienda rispose montando delle reti...). E girando per quei centri commerciali, su questo concordo, finiremo per sbattere contro degli schermi, rappresentazioni di mondi sottosopra.

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Musica

SOLO RUMORE di Francesco Baldo La musica è sempre stata un vorticoso e imprevedibile insieme di correnti che nascono e muoiono, di rami freschi e di arbusti da potare, di incessanti novità concettuali e tecnologiche. Sapersi reinventare, evolvere, plasmare è fondamentale per garantirsi un minimo di longevità artistica, qualche disco in più e una modesta ma glitterata vecchiaia in California. Sono pochi però coloro che hanno il talento e l’astuzia per cogliere e cavalcare i cambiamenti, mentre molti di più sono gli stolti che si perdono in quel grigiore apatico che è la mediocrità artistica. E allora, per ogni profeta di qualche nuovo movimento, ci sono almeno cento personaggi che cercano di reinventarsi una carriera con risultati disastrosi, ed altrettanti che non riescono ad uscire dal seminato e si fossilizzano nelle proprie origini. Ecco un piccolo breviario di individui con un glorioso passato che nel tempo sono diventati la parodia di loro stessi.

bino viziato, scarsissimo e svogliato ma con il nome giusto. Se il sopore fosse un LP sarebbe l’ultimo ‘Songs of Innocence’ della band irlandese: più efficace delle benzodiazepine per silenziare qualsiasi afflato di vita.

50 Cent

Figlioccio di Eminem e Dr. Dre (pedigree che avrebbe fatto rappare anche Lino Banfi), Curtis Jackson alias 50 Cent sbarca sulle radio italiane nei primi 2000. Un mix letale di definizione muscolare michelangiolesca, laringite cronica e promiscuità sessuale, condito da un’attitudine sinistra ad addobbarsi con catenacci da far invidia alla cantieristica navale più estrema. Meritata street attitude da uomo di ghetto (nove pallottole in corpo, una fonderia in pratica) come nel miglior stereotipo gangta e un flow rivedibile portano il nostro cinquantino alle somme vette del mercato discografico. Sono passati dieci anni ormai e di questo horror vacui di mondanità non è rimasto nulla. I dischi venduti non sono più milioni ma migliaia, e dei vecchi fan non è rimasto neanche lo zoccolo duro, al massimo un callo al tallone. Ci piace ricordarlo così, pioniere e vetta del culturismo musicale, colonna portante del concetto di ‘modello da non seguire’. Ormai ‘In Da Club’ non ci va nemmeno lui.

Marylin Manson

Il tempo sa essere crudele, può toglierti tutto, anche una costola per aiutarti a praticare dell’auto fellatio (leggenda vuole). Un giorno sei l’idolo dei ragazzetti satanisti di tutto il mondo e sei sposato con Dita Von Teese, quello dopo ti accorgi che non ti è rimasto niente più delle lenti a contatto colorate. Il reverendo saluta voce, dignità e carisma con un ultimo insipido e strascicatissimo lavoro.

Jovanotti

Aspettate, ma c’è mai stato un apice? Il Jova ha formulato la giusta equazione per piacere agli italiani: vestito alla cazzo ma alla moda, rime ma poche e stupide, intellettuale ma operaio dentro, drogato ma solo le leggere, spirituale ma mai profondo, elettronico ma senza esagerare. E po-

U2

Mentre Bono assume sempre più le sembianze di un santone pacifista contro i poteri forti del mondo, la sua musica somiglia di più ai piagnistei di un ricco bamNUMERO VI

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Gli arretrati, insieme ad altri contenuti esclusivi, sono consultabili online all’indirizzo www.chartasporca.it

trei continuare a elencare la macedonia di cazzate che riempie i suoi dischi: Manu Chao, le frasi buttate là senza nessun senso, i bonghetti, l’uso sconsiderato e feticista di lingue straniere, roba rubata a caso qua e là da chiunque. Il crimine non paga ma vende album. Ma a noi piace, piace fare aqua gym con lui che canta. Ci piace così tanto che alle sue gesta si ispireranno negli anni decine di futili personaggi, da Fazio a Volo a Renzi, tutti accomunati dall’assenza di qualunque contenuto ideologico dignitoso e dalla capacità compensatoria di intortarti con un buonismo così zuccherino che puzza di diabete.

Tupac Shakur

Lui, poveraccio, non ha nessuna colpa. Ci ha lasciati nel ’96 (o sarà ancora vivo? complotti a go-go) e lo ha fatto da romanziere e profeta della comunità nera americana. Il suo ricordo non è si mai sbiadito, e nemmeno la sua musica, col fatto che sono usciti più dischi postumi che in vita. Come? Sì, tutto materiale riciclato, un pallido ricordo del fenomeno che era. Cosa non si fa per qualche diritto sulle copie fisiche, eh famiglia? Parenti serpenti, ma anche sanguisughe.

Periodico registrato presso il tribunale di Trieste (autorizzazione n° 1266 del 27/8/2013). Direttore responsabile: Stefano Tieri Grafica: Alberto Zanardo Terza Pagina: Giovanni Benedetti Editore: Associazione culturale “Charta Sporca” Presidente: Lorenzo Natural Vice-presidente: Davide Pittioni Segretario: Stefano Tieri Tesoriere: Ruben Salerno Stampa: tipografia “Centro Stampa”, Via Romana 46, Monfalcone (GO) Per contattarci:

redazione@chartasporca.it Web:

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