Alfred Monnin
Il Santo Curato d‛Ars San Giovanni M. Vianney
a cura del Centro Missionario Francescano laperlapreziosa@libero.it
Introduzione Abbiamo pensato utile, in questo 150° anniversario della morte di San Giovanni Battista Maria Vianney, di ridare alle stampe, in forma sintetica, quella che fu la prima vita ufficiale del Curato d’Ars. Autore di questa biografia, che nel corso degli anni ebbe molte edizioni e straordinario successo, fu il gesuita Alfred Monnin. L’abbé Monnin ebbe la fortuna di conoscere direttamente il santo Curato, di cui fu ospite e amico. Ma non solo: ebbe anche modo di entrare in confidenza con tutti i personaggi a lui vicini. Il libro uscito dalla sua penna, pubblicato appena due anni dopo la morte del Santo, conserva tutta la freschezza di una cosa appena vista e ammirata da vicino. La domanda che potremmo facilmente porci è questa: la vita di questo sacerdote dell’Ottocento francese è ancora significativa per noi? Il Santo Padre Benedetto XVI e tutti i suoi predecessori ci dicono a chiare lettere di sì. L’anno sacerdotale nasce proprio in occasione di questo anniversario, nel ricordo di questa figura umanamente piccola e spiritualmente gigantesca. Un esempio per ogni sacerdote, ma anche per ogni cristiano chiamato a vivere in pienezza il sacerdozio battesimale. Ogni santo è, in fondo, un sacerdozio ben riuscito...
L‛infanzia di Giovanni Maria Vianney
Matteo Vianney e Maria Beluse, padre e madre del nostro Santo, erano persone di sentimenti e di vita profondamente cristiani. Maria, tenera ed affettuosa, aveva soavità di linguaggio e un’amabilità di modi. Il padre era di carattere forte e risoluto, ma profondamente onesto. Avevano ricevuto per la loro fede la benedizione dei patriarchi, e in dieci anni il Cielo aveva loro dato sei figli. Mentre portava in seno il nostro Santo, Maria lo aveva spesso offerto al Signore ed alla santa Vergine. Il fanciullo ricevette al battesimo il giorno stesso della sua nascita, l’8 maggio 1786, i nomi di Giovanni Battista e di Maria. Ricordando l’affetto materno il Santo Curato diceva: «La virtù passa dal cuore delle mamme nel cuore dei figli, i quali fanno volentieri ciò che vedono fare. Per il bene rucevuto un figlio non deve poter guardare sua madre senza intenerirsi». Il primo dono che ricevette fu una statuetta della Vergine, statuetta che più che un gioco, era per lui oggetto di culto e di venerazione: «Quanto amavo
quella statuetta, diceva egli più che sessant’anni dopo; non potevo separarmene nè di giorno, nè di notte, nè avrei dormito tranquillo se non l’avessi avuta accanto a me nel mio letto. Assai piccino ancora, io possedevo un bel rosario; mia sorella se ne invaghì e lo volle. Fu questo uno dei miei primi dispiaceri. Ne parlai con mia madre, che mi consigliò di cederlo per amore di Dio: le obbedii, ma mi costò molte lacrime». All’età di quattro anni, un giorno scomparve, né si poteva sapere cosa fosse avvenuto di lui. La madre, temendo qualche sventura, lo cercò a lungo, con crescente ansietà. Finalmente, lo trovò immobile, inginocchiato in un angolo della stalla in atto di fervorosa preghiera e rimproverandolo gli disse: «Perchè, figlio mio, mi hai dato tanta inquietudine? Quale capriccio fu il tuo di nasconderti lontano da me per dire la tua preghiera?» Confuso per il dolore che aveva potuto causare alla madre, il fanciullo le si gettò fra le braccia, dicendo: «Madre mia, perdonatemi, non lo farò più». E ripeteva queste ultime parole con profonda umiltà. Il bambino partecipava con profondo raccoglimento alla celebrazione eucaristica e alla preghiera del Santo Rosario, destando l’ammirazione di tutti. Ma, purtroppo, stava per giungere il tempo in cui queste le sante gioie della fede dovevano essere turbate. Una domenica la porta della piccola chiesa di Dardilly non si aprì più all’ora dell’ufficio divino, la campana non chiamò più il popolo fedele alla preghiera, e quando il fanciullo domandò alla madre perchè non lo conducesse alla Santa Messa, la povera donna si accon tentò di asciugare una lacrima. La rivoluzione infatti chiudeva le chiese, rovesciava gli altari, scacciava i preti, e vietava, in nome di una libertà di nuova specie, ogni manifestazione del pensiero cristiano. Il nostro caro fanciullo non aveva che otto anni; ma nessuna forza sarebbe più riuscita a sradicare dalla sua anima un sentimento che vi era entrato con la vita.
Matteo Vianney aveva nella sua stalla quattro vacche, un asino e tre pecore; fino ad allora ne aveva avuto cura il fratello maggiore, ora era la volta di Giovanni Maria di condurle al pascolo. Ed era uno spettacolo commovente il vederlo col suo bastone in una mano, mentre con l’altra mano si teneva stretta al petto la sua statuetta della Vergine, che mai abbandonava. I pastorelli suoi compagni, al suo venire, lo salutavano e gli si facevano intorno con simpatia, poichè con la sua bontà e la sua dolcezza aveva conquistato tutti i cuori. Invitava anche i suoi compagni a raccogliersi in preghiera ed era pieno di gioia quando li vedeva inginocchiati con lui intorno all’immagine venerata. E’ certo che fin da quell’età così tenera tutti i suoi pensieri, parevano essersi concentrati nel desiderio di servire Dio e di consacrarsi unicamente a lui. Quelli che egli amava di più dopo Dio, erano i poveri. La casa dei Vianney era un asilo aperto a tutti gli infelici; Vi si davano appuntamento al cader della notte, e non di rado la soffitta ne accoglieva fino a venti alla volta. Nella cattiva stagione, Matteo Vianney ordinava che si accendesse nel mezzo della cucina un fuoco di fascine per riscaldarli; poi si poneva su quel focolare una grande pentola di patate, che i fanciulli mangiavano insieme con i poveri, seduti alla stessa tavola. Terminata la cena si faceva la preghiera in comune, dopo la quale il capo della famiglia andava a sistemare i suoi ospiti, sorvegliando egli stesso che fossero ben riparati dal freddo e che di nessuna cosa mancassero. Fra questi poveri venne un giorno ad assidersi anche il Santo mendicante Benedetto Giuseppe Labre, che lasciò una lettera di ringraziamento, custodita dalla famiglia Vianney come una preziosa reliquia. Giovanni Maria non aveva gioia più grande che di assecondare i suoi parenti nell’esercizio di questa nobile e santa ospitalità. Egli conduceva a casa tutti i mendicanti che incontrava sul suo cammino.
In questi anni le celebrazioni liturgiche non si svolgevano nella Chiesa a causa della persecuzione dei Rivoluzionari. In mancanza di preti, gli anziani più rispettati presiedevano alla recita delle preghiere della Messa, mentre uomini coraggiosi stavano di sentinella ai confini della parrocchia, se mai si avvicinassero dei persecutori. Soltanto pochissimi preti fedeli poterono rimanere in paese, circondati da pericoli, come bestie feroci erranti alla ventura sotto ogni tipo di travestimento, nascondendosi nei granai o nel profondo dei boschi, celebrando talvolta a notte fonda il divino sacrificio, e amministrando i sacramenti con il pericolo della vita. La madre del nostro Santo frequentava tutte queste assemblee segrete, e suo figlio spesso ve l’accompagnava. Un giorno l’abate Groboz, incontratosi col fanciullo e colpito dalla sua modestia, gli si avvicinò per accarezzarlo e gli chiese la sua età: «Undici anni, rispose il piccolo Vianney. - E da quanto tempo non ti sei confessato? - Non mi sono confessato mai. - Mai? - riprese il buon sacerdote»; e volle che quell’atto importante si compiesse nello stesso momento.
Egli trovò il fanciullo ben preparato e degno del dono di Dio, fece però richiesta alla madre che lo lasciasse presso i parenti ad Ecully, affinchè potesse assistere più agevolmente al catechismo preparatorio alla prima Comunione. San Giovanni Maria si accostò per la prima volta alla mensa eucaristica nel 1799, nella casa del conte Pingeon, all’età di 13 anni. Egli raccontava che la porta di una tettoia convertita in cappella, era ostruita da carri di fieno, sistemati espressamente per eludere e prevenire un’invasione di male intenzionati. Testimoni oculari riferiscono che tanto era l’intimo gaudio da cui il fanciullo apparve intene rito, che si fece difficoltà a condurlo fuori dal luogo dove si era celebrata la funzione. Tutti erano presi da profonda commozione, e dicevano fra loro: «Oh! come è pio, un giorno sarà certamente prete o frate!». Egli andava di solito al lavoro dei campi con quelli di casa. Un giorno che egli era stato mandato nella vigna solo con Francesco, aveva dovuto affaticarsi eccessivamente per non far meno del fratello, il quale come maggiore di età, si credeva obbligato a lavorare più di lui. La sera il povero Giovanni Maria si lamentò con la madre che suo fratello si affrettasse troppo nel lavoro, così che egli non poteva tenergli dietro: «Francesco, disse la madre, va’ più adagio. Vedi che egli è più giovane e meno robusto di te: bisogna avere un po’ di compassione. - Ma, aggiunse Francesco, Giovanni Maria non deve faticare come me. Che si direbbe se il maggiore di età non lavorasse più del minore?». «Il giorno dopo - racconta Margherita una religiosa donò a Giovanni Maria una statuetta della Vergine. Questo dono venne a proposito, e mio fratello avvertì di aver trovato nella santa immagine una forza ed un aiuto per stare dietro all’attività di Francesco. La volta successiva, prima di iniziare l’opera, depose ad alcuni passi da sè la piccola statua e progredendo col lavoro verso di essa pregava la Vergine santa che lo aiutasse a raggiungere il fratello
maggiore. Arrivato all’immagine la raccoglieva subito, la collocava di nuovo davanti a sè, riprendeva la vanga, pregava, progrediva e teneva così testa a Francesco, che si sforzava invano di sorpassarlo. Venuta la sera e tornato a casa, Francesco confessò, non senza qualche dispetto, che la santa Vergine aveva aiutato il suo fratellino, il quale aveva fatto tanto lavoro quanto lui». Questi lavori dei campi, per faticosi ed assidui che fossero, non distoglievano mai il ragazzo dalla preghiera. Il ricordo degli anni tranquilli della sua adolescenza, passati fra le dure ed umili opere dei campi, fu sempre caro al Santo Curato d’Ars. Volentieri vi tornava sopra nei momenti di familiare abbandono, che gli erano così naturali. «Nella mia giovinezza ho lavorato la terra, non arrossisco; io non sono che un ignorante coltivatore; nel dare un colpo di zappa, spesso dicevo a me stesso: Tu devi nella stessa maniera coltivare la tua anima; sradicare l’erba malvagia e prepararla a ricevere il buon seme di Dio».
A scuola dall‛Abate Balley
Dopo aver veduto i santuari abbattuti, gli altari profanati, sgozzati i sacerdoti, chi può descrivere quale immensa gioia non provarono essi nel vedere ripristinato il libero esercizio del culto? Era il 18 brumaio 1799; le chiese erano riaperte. Il Comune di Ecully ebbe il privilegio di accogliere come Parroco l’abate Carlo Balley. Egli ravvivò i catechismi; le sue raccomandazioni trasformarono ogni casa in altrettanti santuari, dove i fanciulli ricevevano dalla bocca dei genitori i primi rudimenti della dottrina cristiana. Gesù Sacramentato tornò ad essere adorato nelle celebrazioni eucaristiche. A nessuna di esse Giovanni Maria mancava mai. La distanza non gli era d’ostacolo; una lega? Ne avrebbe corse dieci per ascoltare una Messa... «Permettetemi, diceva egli a suo padre malato, che io vada anche oggi ad Ecully. Dirò tanti Pater ed Ave, che dovranno ben finire i vostri dolori». Non tardò a stabilirsi una dolce relazione fra il nuovo curato e il ragazzo di Dardilly. Lo spettacolo del fervore di quel santo prete all’altare fece una grande im pressione sul giovane Vianney; volle vederlo, parlargli; e primo effetto dei colloqui che ebbe con lui fu lo svegliarsi nel suo cuore di un desiderio che vi dormiva da lungo tempo. Dalla più tenera infanzia il sacerdozio gli si era presentato come il vertice della scala santa, i cui misteriosi gradini egli aveva cominciato ad ascendere nel proprio cuore: sulle prime non era stato che un istinto, ma all’età da lui raggiunta era una vocazione. «Se un giorno fossi prete, diceva egli, vorrei guadagnare molte anime al buon Dio!». L’abate Balley, non appena ebbe fissato su di lui il suo occhio dolce e penetrante, abituato a leggere nel segreto delle coscienze, fu preso da particolare e tenera simpatia per quella semplice e retta natura, per quel candido cuore, per quel l’anima elevata. Incoraggiò il
giovane Vianney a rimanere fermo nel suo proposito, e gli disse: «State tranquillo, amico mio, farò per voi tutti i sacrifi ci che sa ranno in mio potere». Era più che necessario per indurre i genitori del nostro Santo ad accondiscendere al suo desiderio. In pochi giorni tutti i preparativi furono fatti, e il novello allievo prese alloggio presso i parenti di sua madre ad Ecully. Ma subito un grosso ostacolo si frappose ale buone intenzioni: a causa delle difficoltà dei tempi nei quali trascorse la sua giovinezza, giunto all’età nella quale i giovani compiono normalmente gli studi classici, San Giovanni Maria non sapeva quasi nulla. Questa considerazione, che avrebbe fermato tanti altri, non scoraggiò il suo maestro. Lento era nell’allievo il ragionamento, scarsa la memoria, i progressi quasi insensibili. L’eccellente maestro lo aiutava, lo confortava, cercava d’ispirargli un po’ di confidenza in se stesso. Talvolta il povero giovane era allo stremo degli sforzi e del buon volere; l’incertezza e l’avvilimento gli serravano il cuore; chiedeva il permesso di andare a visitare i suoi genitori. L’abate Balley dolcemente glielo negava,
considerando il pericolo che avrebbe corso la sua vocazione se lo avesse lasciato partire sotto il peso di un tale scoraggiamento. «Dove vuoi andare? Gli diceva con tutta bontà. I tuoi genitori, vedendo l’inutilità delle tue fatiche e dei loro sacrifici, non cercheranno nulla di meglio che trattenerti a casa. E allora addio a tutti i nostri progetti, addio al sacerdozio e alla salute delle anime!...». Queste parole richiamavano il ragazzo a se stesso, alle sue risoluzioni, e lo invitavano a raddoppiare l’applicazione e gli sforzi, che Dio non lasciava senza ricompensa. Come riporta nelle sue note Caterina Lassagne, il nostro giovane pensò in questi frangenti di ricorrere all’uso diretto dei mezzi soprannaturali per trionfare degli ostacoli che gli ingombra vano il cammino degli studi. Preso consiglio dal suo direttore, fece voto di andare a piedi, elemosinando, alla tomba di San Francesco Regis, per invocare in suo favore l’Apostolo del Vivarese, ed ottenere la grazia d’imparare il necessario che gli bastasse a divenire un buono e fedele operaio del Si gnore. Partì, ma, come attesta il racconto di Caterina, ebbe a sopportare molti oltraggi lungo la via. Gli accadde più volte di vedersi negato il ricovero che la pietà concede all’ultimo dei mendicanti, perchè non trovando in lui l’aria di un povero, lo prendevano per un ladro o per un vagabondo. Giunto alla Louvesc, fu costretto e far sostituire il suo voto; ed invece di tornare mendicando il pane di porta in porta, lo pagò con il denaro, di cui egli per precau zione si era munito; ma non tralasciò di compiere a piedi quel lungo pellegrinaggio. Tanta generosità doveva pur avere il suo premio: le sue preghiere furono esaudite. San Francesco Regis, al quale per riconoscenza egli fu poi sempre devotissimo, gli ottenne da Dio la grazia desiderata, tanto che si ebbero a meravigliare dei progressi il maestro e tutti coloro che avevano disperato del suo successo.
Soldato in fuga
Quando l’abate Balley vide avvicinarsi per il suo discepolo l’epoca dell’arruolamento, si recò subito a Lione per farlo iscrivere tra gli aspiranti al sacerdozio; questa iscrizione lo esentava dal servizio militare; ma Dio permise che per dimenticanza non fosse annotato nel registro. Il fatto di questa omissione giunse all’orecchio dell’Autorità, che, senza alcuna informazione preliminare, un bel giorno gli spedì il foglio di via per Baiona. Quel foglio di via, come ognuno può pensare, fu un colpo di fulmine per tutta la famiglia. Il Santo ne cadde addirittura ammalato. Dopo due mesi di ospedale fu richiamato presso un corpo di truppe che si stava formando a Roanne, destinato per la Spagna. La mattina del 6 gennaio 1810, giorno fissato per la partenza della colonna, egli era entrato a pregare in una chiesa; immerso nella preghiera, lasciò passare l’ora in cui doveva presentarsi all’intendenza a ricevervi il foglio di via. Quando vi andò, gli negarono il foglio, e accompagnarono il rifiuto con invettive e minacce. Il capitano di leva si adirò fortemente, e minacciò di farlo condurre incatenato di brigata in brigata sino a Baiona. Alcuni ufficiali generosamente s’interposero:
«A che serve, dissero, questo apparato di forze? Il povero giovane non pensa affatto a disertare; ne è prova il fatto che egli è venuto a costituirsi da sè». Il ragionamento parve convincente: gli fu sottoscritto il foglio di via, e partì, non meditando una fuga, ma quasi intuendo che non avrebbe raggiunto il suo corpo. Camminava con l’animo oppresso, rattristato nel volto; sentiva ridestarsi tutte le sue aspirazioni al sacerdozio, tutte le sue ripugnanze ad ogni altra carriera, e in particolar modo a quella delle armi. Per distrarsi da così tetri pensieri, prese il suo rosario e ricorse alla santa Vergine, suo solito rifugio, pregandola di tutto cuore che non l’abbandonasse. L’aiuto invocato non tardò ad arrivare, perché quasi nello stesso momento si imbatté in uno sconosciuto che gli si accostò con aria benevola, domandandogli dove andasse, e perchè fosse così triste. Giovanni Maria gli narrò la sua storia. Il giovane lo invitò a seguirlo, l’assicurò che non aveva niente da temere da lui; nello stesso tempo gli tolse dalle spalle il pesante sacco che il povero convalescente portava a gran fatica; poi lasciata la strada maestra, si misero ad attraversare i campi. Giovanni Maria seguì la sua guida senza farsi pregare, senza chiedere dove volesse condurlo, rassegnato a tutto, salvo che di cader nelle mani dei gendarmi. Camminarono così per un lungo tratto, attraversando boschi e montagne e tenendosi lontani dai luoghi abitati. Finalmente giunsero ad un villaggio chiamato Noés, presso la grande foresta della Maddalena. Il personaggio a cui fu presentato era il sindaco del Comune. Un sindaco incaricato di nascondere un coscritto refrattario! L’eccellente uomo non oppose difficoltà alcuna ad assumere questo ruolo singolare, accolse benissimo il giovane Vianney, gli ripetè che nulla aveva da temere, e che egli avrebbe pensato a trovargli un asilo.
Vi era alle Noés una madre di famiglia, rimasta vedova con quattro figli, amata e rispettata da tutti nel villaggio. «Ho conosciuto molti santi e molte sante, ebbe a dire in seguito il Santo Curato d’Ars, parlando della sua benefattrice; ma l’abate Balley e mamma Fayot sono le due più belle anime che io abbia incontrate». Il sindaco delle Noés pensò che Giovanni Maria in nessun altro luogo sarebbe stato meglio che in quella casa, sotto la custodia di quell’umile e santa madre di famiglia. E, difatti, Claudia Fayot accolse il fuggiasco come un figliuolo che il Cielo le mandava. «State tranquillo, amico mio, disse il sindaco nel partire, noi rispondiamo della vostra sicurezza, le guardie non verranno a cercarvi qui: e se avete paura di loro non avrete che da venire in casa mia; la mia porta sarà sempre aperta». In realtà le guardie esploravano ogni luogo, e visitavano spesso anche quel villaggio, che per la posizione isolata in mezzo ai monti poteva facilmente servire da asilo ai disertori. Per meglio eludere gli agenti della forza pubblica, si pensò di far mutare al fuggitivo il suo vero nome con quello di Girolamo. Non possono raccontarsi le sollecitudini che la sua
nuova madre adottiva ebbe per lui in tutto il tempo che dimorò in quella casa; non lo distinse dai propri figliuoli, colmandolo della sua tenerezza. Il santo giovane da parte sua desiderava ardentemente di rendersi utile e di pagare con lavori d’ogni maniera l’ospitalità di quella buona gente. Gli venne in mente di proporsi al sindaco per aprire una scuola, e l’offerta venne accettata con molto piacere. Per metterlo al sicuro dalle esplorazioni e dai colpi di mano della polizia, ogni volta che se ne temeva una visita, ponevano sulle alture delle vedette, le quali da lontano con segnali convenuti annunciavano la presenza delle guardie. Un giorno che erano venuti a fare una perlustrazione generale, Gio vanni Maria si nascose in un fienile sovrapposto a una scuderia. Egli soffocava in quella atmosfera riscaldata e temette di rimanere asfissiato. Quella violenta situazione durò lungo tempo. Il santo Curato diceva di non aver mai sofferto tanto. In quel momento egli promise a Dio, se l’avesse aiutato ad uscire da quel terribile frangente, di non lamentarsi mai per qualunque cosa fosse gli fosse accaduta. «E presso a poco ho mantenuto la mia parola», proseguiva con ammirabile semplicità. Il santo Curato non temeva di confessare a quanti volevano udirlo, che egli aveva disertato, e narrava con compiacenza tutte le peripezie della sua fuga e del suo rifugiarsi alle Noes. Un giorno che gli parlavano della sua croce d’onore, fatta una smorfia assai significativa, disse: «Non so perchè l’imperatore me l’abbia data, forse sarà perchè sono stato disertore». Se si considera bene questo episodio della vita del nostro Santo esso non lascia più pesare su di lui il minimo sospetto di colpevolezza. E’ cosa evidente che dal principio sino alla fine di questo episodio egli ebbe in tutta la sua condotta un grande complice: La Provvidenza.
Un asino tutto intero Trascorsero alcuni mesi, e giunse la leva del 1810. Con l’arrualamento del fratello Francesco il nostro Santo fu cancellato dai quadri dell’esercito. Quando si seppe alle Noes del cambiamento avvenuto nella posizione di Giovanni Maria, la commozione fu generale; era gioia mista a tristezza. Si fecero collette per sovvenire alle spese del suo ritorno. Si chiamò un sarto da Roanne, per cucirgli una veste talare; si volle vederlo rivestito prima della sua partenza. Esentato ormai dagli obblighi della legge, Giovanni Maria tornò dal suo santo maestro per continuare gli studi di teologia. L’abate Balley comprese di dover semplificare i metodi, sostituendo un insegnamento più semplice a quello del testo comunemente adottato. Era sicuro che lo Spirito Santo avrebbe dato l’ultima mano all’edificio del quale egli preparava le fondamenta. Dopo due anni di assidue cure da parte del maestro, e di sforzi perseveranti da parte del discepolo, il curato d’Ecully, giudicandolo sufficientemente preparato, credette poterlo presentare agli esami del grande seminario di Lione. Davanti al freddo ed imponente aspetto degli esaminatori, il timido teologo si turbò, perdette ogni sicurezza; non seppe che balbettare, arrossendo, incoerenti risposte. Fu rimandato in modo poco incoraggiante. Il curato Balley, su cui ricadeva parte di questo smacco, si presentò subito al superiore del grande seminario, e lo indusse a recarsi il giorno dopo al presbiterio d’Ecully, accompagnato da uno dei grandi vicari, l’abate Bochard. Sperava così di preparare al suo allievo un mezzo di riabilitazione con una nuova prova; e così avvenne. Gli esaminatori si dichiararono soddisfatti e promisero di fare all’arcivescovado una relazione favorevole sulla seduta di quel giorno. Dopo questa, Giovanni Maria fu ammesso al grande
seminario di S. Ireneo per prepararsi all’ordinazione. Qui egli, che aveva vissuto da perfetto seminarista nel mondo, visse come un angelo del cielo. Lo si vide crescere in umiltà, in dolcezza, in pietà. Nè potevano le sue virtù rimanere nascoste agli occhi dei suoi compagni. Si accostava ai primi che gli venivano incontro, senza scelta e senza speciale propensione per qualcuno. Si prestava ad ogni maniera di conversare, a tutte le intelligenze, a tutti i caratteri, senza imbarazzo e senza ostentazione, cercando di passare inosservato agli altri il più che gli fosse possibile. E qui ci sembra obbligo il dire che troppo si è esagerato sulla inferiorità delle doti intellettuali del nostro Santo. Ad avvalorare questa falsa opinione contribuì soprattutto il modo con cui egli era solito in ogni incontro parlare di se stesso. Un giorno che noi volevamo verificare il numero degli anni di studi da lui passati ad Ecully sotto la direzione dell’abate Balley, egli protestò contro la parola studi, da noi adoperata, e disse: «Io non ho fatto studi. L’abate Balley ha tentato per cinque o sei anni d’insegnarmi qualche cosa: vi sciupò il suo latino e non potè mai fissare niente nella mia povera testa». Frattanto il tempo dell’ordinazione era vicino. Prima di fare l’importante chiamata, i direttori del grande seminario di Sant’Ireneo si raccoglievano dinanzi a Dio; esaminavano con la più scrupolosa attenzione, e pesavano il valore dei candidati sui quali stavano per sentenziare. Come si arrivò al nostro Santo, grande fu la perplessità. Quella sua pietà così tenera, quella sua regolarità di condotta così esemplare, quella sua purità di costumi erano titoli assai ragguardevoli; ma egli era così poco istruito! Conveniva attendere altro tempo prima di decidere? Qualcuno racconta che di fronte a questi dubbi il Santo abbia risposto con questa frase piena di sapienza: «Se Sansone con una mascella d’asino è riuscito a battere 3000 filistei, chi sa Dio cosa può fare con un asino tutto intero!..».
In assenza del cardinale arcivescovo stava in quel tempo a capo dell’amministrazione metropolitana un uomo pieno di perspicacia congiunta al buon senso. Questi era l’abate Courbon: egli riflettè un momento; poi, prima di decidere, fece a quelli che erano venuti a consultarlo queste domande: «Il giovane Vianney è ben timorato di Dio? Ha devozione alla santa Vergine? - È un modello di pietà, risposero unanimi i direttori. – Ebbene! riprese il gran vicario, lo accetto; il resto lo farà la grazia di Dio». Dobbiamo dire che l’abate Balley, con l’autorità di cui egli godeva presso l’arcivescovado per la sua esperienza e le sue virtù, aveva perorato la causa del suo prediletto figliuolo, ed era riuscito a dissipare tutte le paure, a vincere tutte i dubbi. Il Santo Curato d’Ars era solito dire a questo proposito: «Vi è una cosa della quale il reverendo Balley farà fatica a giustificarsi davanti a Dio, ed è essere stato garante per me». Giovanni Maria Vianney fu ordinato suddiacono il 2 luglio 1514. Promosso al diaconato l’anno seguente, sei mesi dopo i superiori lo giudicarono maturo per il sacerdozio. La cerimonia si celebrò per lui solo nella cattedrale di Grenoble, il giorno 9 agosto 1815, avendo egli 29 anni di età.
Due santi in canonica
Come il Vianney fu rivestito del carattere sacerdotale, il Curato d’Ecully si recò all’arcivescovado per averlo come vicario. Il suo arrivo fu giorno di festa per il presbiterio e per tutta la parrocchia d’Ecully. Ben presto egli venne a conquistare presso tutte le classi della società stima e considerazione. Alla vigilia delle maggiori festività il nostro Santo passava il giorno e parte della notte nel confessionale, ed appena gli rimaneva il tempo di salire all’altare, di recitare il suo breviario e di prendere in fretta la sua unica e modesta refezione. Ci fu un accordo tra il curato ed il vicario che ogni giorno ad un’ora fissa si sarebbe detto l’ufficio in comune; che ogni mese avrebbero fissato un giorno di raccoglimento; che ogni anno avrebbero fatto insieme gli esercizi spirituali. La santità dell’antico suo maestro erano frequente oggetto di conversazione da parte del Santo Curato d’Ars. Quando egli voleva edificare i presenti, il nome dell’abate Balley gli veniva subito sulle labbra, e nel medesimo tempo gli si riempivano gli occhi di lacrime.
«Avrei finito, diceva egli, col divenire un tantino buono anche io, se avessi avuto la bella sorte di vivere sempre col venerando Balley. Per sentirsi spronati ad amare il buon Dio, bastava udirlo dire: Mio Dio, vi amo con tutto il mio cuore!... - e lo ripeteva ad ogni momento del giorno, e la sera, nella sua camera, non cessava di ridirlo finchè non si fosse addormentato». Il Santo Curato e il suo maestro vivevano di nulla: è inconcepibile una tale sobrietà. Quando avevano iniziato qualcosa, come la carne di bue o le patate, ve n’era sempre per più settimane. Talvolta quella povera carne anneriva a forza di ricomparire sulla tavola. Alla fine la parrocchia si commosse di fronte a tanta austerità, e mandò una deputazione all’arcivescovado, invocando un’ordinanza che ingiungesse al curato e al vicario di trattarsi meglio. Ma già l’abate Balley aveva colma la misura dei meriti e degli anni. Il corpo gli si era logorato prima del tempo per le fatiche, per le macerazioni, per le sofferenze morali che aveva sopportato al tempo del Terrore. Un’ulcera ad una gamba, che lo costrinse a letto dal febbraio al giugno 1817. La piaga s’invelenì, comparvero segni di cancrena. All’annuncio di questo indizio rivelatore di una prossima fine, i sacerdoti del vicinato, che amavano il curato Balley come un padre e lo veneravano come un santo, accorsero presso il letto dei suoi dolori. Volevano imparare a ben morire da colui che aveva loro insegnato a ben vivere. Il malato approfittò della loro presenza per dire al suo vicario che aveva bisogno di essere fortificato dalla grazia degli ultimi Sacramenti. L’abate Vianney ascoltò la confessione del suo vecchio maestro, e gli amministrò il santo Viatico. La scena fu commovente. Tutti i presenti proruppero in lacrime vedendo un giovane santo apprestare al venerabile vegliardo, sua guida spirituale, le supreme consolazioni che la religione riserva ai moribondi. In questo supremo e segreto colloquio il moribondo gli
consegnò i suoi strumenti di penitenza. «Prendete, mio povero Vianney, gli disse, nascondete ogni cosa; se li trovassero dopo la mia morte, si crederebbe che io avessi fatto qualcosa in espiazione dei miei peccati, e mi lascerebbero in purgatorio sino alla fine del mondo». Dopo, benedisse ancora con le due mani tremanti il giovane sacerdote che singhiozzava ai suoi piedi: «Addio, soggiunse, figliolo mio diletto; coraggio! continua ad amare e servire il divino Maestro... Ricordati di me nel sacrificio dell’altare... Addio! ci rivedremo lassù!...». Alcuni momenti dopo gli occhi di lui si chiusero alla luce di questa vita per aprirsi a quella della beatitudine eterna. Profondamente afflitti dalla perdita fatta e dalla difficoltà di trovare un degno successore ad uomo di così gran merito, gli abitanti di Ecully posero unanimemente gli occhi sul vicario che il santo curato aveva formato a sua immagine. Ma nessuna preghiera poté vincerne la modesta resistenza. Egli si credeva inetto a coprire un posto così importante. Due mesi dopo, l’abate Vianney veniva nominato curato d’Ars. Nell’investirlo di quella parrocchia l’abate Courbon gli disse: «Andate, amico mio, non v’è molto amor di Dio in quella parrocchia, ma voi ce ne metterete».
Parroco ad Ars
Ars è un piccolo villaggio dell’antico principato di Dombes. Quando il nostro Santo venne a prendere possesso di quell’umile parrocchia, non esisteva alcuna delle strade che oggi vi s’incrociano e gli danno un po’ di vita. Le case si scorgevano appena in mezzo a folti frutteti. Fu nei primi giorni della quaresima, il 9 febbraio 1818, che San Giovanni Maria Vianney venne a prendere possesso della sua parrocchia. Appena l’ebbero veduto celebrare, fu di tutti una voce sola: «Avete osservato il nostro nuovo curato? Con che fervore egli prega! E’ un santo che ci è stato mandato!».
Appena arrivato, egli scelse la chiesa a sua dimora. Lo si vedeva passare lunghe ore prostrato nel mezzo del santuario nella più completa immobilità. Entrava in chiesa prima dell’aurora, e non ne usciva che dopo l’Angelus della sera. La sistemazione della sua casa, l’addobbo della sua camera, tutto ciò che è necessario ad una onesta e comoda esistenza, tutto era superfluo per lui, nè se ne diede mai pensiero; tanto che il presbiterio d’Ars venne pigliando quel singolare aspetto di cui poi tanti visitatori si stupirono. Si sentiva che qualche vivente v’era là dentro; ma si era tentati di credere che quella fosse la dimora di uno spirito, tanto vi si notava la mancanza di tutte le cose più necessarie alla vita. Ecco le prime impressioni degli abitanti raccolte da Caterina Lassagne: «Come ci piace vedere il santo Curato in chiesa, soprattutto la mattina all’alba, quando egli dice le sue preghiere! Prima di cominciare, e di tanto in tanto mentre recita il santo Ufficio, egli guarda il tabernacolo con un sorriso che fa piacere...
Io stessa l’ho osservato più volte; si direbbe che egli vede il Signore. Quello sguardo scintillante, fisso sulla porta del tabernacolo, con un’espressione di beatitudine, non si può esprimere con le parole». Quell’angolo di terra che il Curato aveva da coltivare era molto piccolo, ma egli lo reputava troppo grande per il suo merito, e quando dalle alture che attorniavano la sua cara parrocchia ne contemplava i tetti ed i campi, il cuore gli si struggeva di tenerezza al pensiero di essere stato giudicato degno di condurre delle anime a Dio; avrebbe voluto radunarle tutte come la chioccia raccoglie sotto le ali i suoi pulcini; e le abbracciava col pensiero, promettendo di amarle, di essere loro fedele, di non cercar nulla al mondo fuori di loro. Ars era ben lontano dall’essere l’esemplare parrocchia che noi abbiamo conosciuta: là, come nelle altre parti della Dombes, molte anime marcivano nell’indifferenza. La virtù poco vi era conosciuta e poco praticata; quasi tutti avevano dimenticata la buona strada, non avevano cura dell’anima e della sua salute. I giovani non pensavano che ai divertimenti e ai piaceri. Ogni domenica si radunavano sulla piazza a pochi passi dalla chiesa, o nelle osterie del villaggio, per darsi alle danze ed a spassi di ogni genere. Chi saprà mai ciò che il cuore del santo prete ebbe a soffrire di un simile stato di cose? Il suo dolore però non arrivò mai allo scoraggiamento. Il Santo Curato, ben riconoscendo le difficoltà dell’impresa, credette tuttavia che ne sarebbe venuto a capo grazie alle sue preghiere dinanzi al Signore. Da quel momento decise di passare i giorni e le notti scongiurando la divina misericordia che operasse ella stessa sullo spirito dei suoi parrocchiani. Alla preghiera egli associò fin da principio col massimo zelo la santa Parola. A questa egli attribuiva una sovrana importanza e consacrava a prepararsi ad essa con ostinato lavoro tutto il tempo che aveva libero dagli esercizi di pietà.
Vi è per il buon prete un altro apostolato oltre quello del pulpito; è l’apostolato della conversazione, quell’apostolato comune che si esercita sulla strada, nei campi, al focolare di famiglia, al capezzale dell’infermo. Chi potrebbe dire il numero delle anime ricondotte a Dio grazie a questa maniera di predicazione, soprattutto quando è ispirata dal cuore? Il nostro Santo aveva compreso che non avrebbe cominciato a fare del bene ai suoi parrocchiani, se non dopo essersi fatto amare. Ora, v’è un segreto per farsi amare, e il nuovo Curato d’Ars lo possedeva: egli amava. Aperto, affabile con tutti, senza cessare un momento d’essere prete, non avrebbe incontrato un fanciullo per via senza fermarsi a salutarlo, a rivolgergli con un sorriso qualche amabile parola. Non si contentava di andare dove lo chiamavano, ma si presentava anche là dove non era chiamato, sempre però con molta discrezione, aspettando o
facendo nascere egli stesso le occasioni favorevoli. La sua conversazione si alimentava di quanto egli aveva tratto dall’assidua lettura delle vite dei Santi. La contessa d’Ars fu la prima di tutti a essere colpita dalla elevata virtù del suo santo Curato, come essa lo chiamava; fu la prima a comprenderlo ed a rallegrarsi dell’inestimabile dono che il Cielo nella sua bontà aveva fatto alla parrocchia d’Ars. Ecco con quali parole ella rendeva conto delle sue impressioni, pochi giorni dopo l’arrivo dell’abate Vianney: «L’abate Courbon ci ha mandato per curato un vicario di Ecully, di nome Vianney. Possiamo veramente dirci i prediletti della Provvidenza. Non ho mai conosciuto un sacerdote così pio come il nostro nuovo curato: egli non abbandona mai la chiesa; all’altare è un serafino; sul pulpito non è oratore come l’abate Berger, ma è tutto pieno dello spirito di Dio... Non mangia quasi nulla. Pregate Dio che lo sostenga, e lungo tempo ce lo conservi; troppo difficile sarebbe trovargli un degno successore».
Io lo guardo ed Egli mi guarda
Il primo impegno del nuovo pastore fu istituire nella sua chiesa l’adorazione perpetua. La contessa d’Ars non era la sola persona che visitasse il Signore nella solitudine del suo tempio. Vi era allora nel villaggio un buon padre di famiglia, un semplice agricoltore, del quale abbiamo udito molte volte il nostro Santo nel suo catechismo ripeterci con le lacrime agli occhi la storia semplice e commovente. Sia che egli andasse ai campi, sia che ne ritornasse, il brav’uomo non passava mai davanti alla chiesa senza entrarvi. Deposti alla porta i suoi strumenti di lavoro, lo si vedeva lunghe ore, seduto o in ginocchio, alla presenza del Dio dell’Eucaristia. Il Curato ne era consolatissimo. Di una cosa però si meravigliava: di non aver mai sorpreso in quell’uomo che pregava il più impercettibile movimento delle labbra. «Buon uomo, pensò un giorno di domandargli, che cosa dite al Signore nelle lunghe visite che gli fate ogni giorno, e più volte al giorno? - Io non gli dico nulla; io lo guardo, ed egli mi guarda...». Bella e sublime risposta! Quel brav’uomo non proferiva parola, non apriva alcun libro, non sapeva leggere, ma egli aveva occhi, gli occhi del corpo e gli occhi dell’anima. Pian piano molte persone del paese si radunavano ogni giorno per adorare il Signore. Come il male, anche il bene ha il suo contagio. Di giorno in giorno il Santo Curato aveva la consolazione di vedere un più grande numero di pecorelle, sino allora fuggitive, ritornare all’ovile. I suoi consigli dal pulpito, le sue esortazioni nel confessionale, contribuirono ad accelerare ed estendere questo movimento. Quante volte esclamò, parlando del grande Sacramento dell’amore: «Fratelli miei, se noi avessimo gli occhi degli angeli, vedremmo Nostro Signore Gesù Cristo che è qui presente, su quest’altare, e ci guarda! Vorremmo non separarcene più, e rimanere sempre ai suoi piedi; sarebbe un anticipo delle gioie del Cielo;
ogni altra cosa ci diverebbe insipida. Ma, vedete, è la fede che ci manca; noi siamo poveri ciechi, ed una densa nebbia ci sta davanti agli occhi. La fede soltanto potrebbe dissiparla... Ora, fratelli miei, quando io solleverò il Signore nelle mie mani, quando il buon Dio vi benedirà, pregatelo che vi apra gli occhi del cuore: ditegli come il cieco di Gerico: - Signore, fate che io veda!». Un altro scopo, al quale il suo pensiero mirava senza posa, era condurre i parrocchiani alla pratica più frequente dei Sacramenti. Ad Ars era costume di compiere le proprie devozioni solo nelle feste solenni. Lo zelante pastore ne soffriva: «Ah! Se potessi vedere il nostro divino Salvatore conosciuto ed amato! Se potessi tutti i giorni distribuire il suo santo corpo ad un gran numero di fedeli, come sarei felice!». Questa consolazione gli fu ben presto concessa. «Andate alla Comunione, fratelli miei, diceva egli, an date a Gesù con amore e fiducia! Andate a vivere di lui, se volete vivere per lui. Nè state a dirmi che avete troppo da fare. Il divino Salvatore non ha detto: Venite
a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi; venite, ed io vi ristorerò? Potreste voi resistere ad un invito così pieno di tenerezza e di amicizia? Non dite di non esserne degni. È vero, non ne siete degni, ma ne avete bisogno. Se il Signore nostro avesse guardato al nostro merito, non avrebbe istituito mai questo suo Sacramento d’amore; poichè nessuno al mondo ne è degno, nè i Santi, nè gli Angeli, nè gli Arcangeli, nè la santa Vergine;... ma egli ha guardato ai nostri bisogni, e chi è che non ha bisogni? Non mi dite che siete peccatori, che avete troppe miserie e che perciò non osate accostarvici. Sarebbe come dirmi che siete troppo ammalati, e che perciò non volete vedere il medico». E diceva ancora: «Fratelli miei, tutti gli esseri creati hanno bisogno di nutrirsi per vivere. Ma l’anima deve anch’essa nutrirsi. E dove è dunque il suo nutrimento? Fratelli miei, nutrimento del l’anima è Dio. L’anima non può nutrirsi che di Dio! Non v’è che Dio che le basti! Non v’è che Dio che possa riempirla!»
Una Parrocchia rinnovata
Il Santo Curato istituì nella sua parrocchia la confraternita del Rosario e quella del SS. Sacramento. Con la prima voleva guadagnare le madri e le figlie; con la seconda sperava di chiamare attorno a sè uomini e giovani, attirarli a frequentare la chiesa, radunarli intorno all’altare, raccoglierli in un gruppo e formarli «Gli uomini, diceva, hanno un’anima da salvare, come l’hanno le donne. Essi sono i primi in ogni cosa; perchè non dovrebbero essere anche i primi a servire Dio ed a rendere omaggio a Gesù Cristo nel grande Sacramento del Suo Amore?». Il suo progetto riùscì e molti giovani abbandonaro il ballo e le feste per stringersi in preghiera accanto al loro parroco. Le osterie furono costrette alla chiusura per mancanza di clienti, e anche la festa del patrono, divenuto motivo di vizio più che di virtù, tornò ad essere occasione di preghiera e di virtù, grazia anche
all’astuzia del Santo. Un giorno infatti gli venne detto che un menestrello era giunto nella sua parrocchia e che si apprestava a far ballare. «Amico mio, gli disse con garbo presentandosi a lui, voi fate un brutto mestiere che non può essere benedetto da Dio. Ma, signor curato, bisogna pur vivere. - Sì, amico mio; ma bisogna anche morire; e temo che non vi troviate poi bene allora, se continuerete a vivere in questa maniera. Suvvia dunque, facciamo fra noi due un contratto. Quanto guadagnate al giorno? - Venti franchi. - Eccovene quaranta, e lasciateci in pace». Nessun punto della legge divina era più spesso dal Santo ricordato sul pulpito quanto questo della santificazione della domenica. «Voi lavorate, voi lavorate, diceva egli; ma quello che voi guadagnate rovina la vostra anima ed il vostro corpo. Se si domandasse a coloro che lavorano la domenica: Che avete fatto? essi potrebbero rispondere: Ho venduta la mia anima al demonio, ho crocifisso nostro Signore, ho
rinunciato al mio battesimo. Quando io vedo qualcuno guidare il suo carro la domenica, penso che egli stia conducendo la sua anima all’inferno. Come s’inganna nei suoi calcoli colui che si affatica la domenica per guadagnare più denaro o fare più lavoro! Forse che due o tre lire potranno essergli compenso al torto che fa a se stesso, violando la legge di Dio? Iddio ha tutto nella sua mano. Non è egli sempre il più forte? Non deve egli rimanere il padrone alla fine? Egli che vi ha comandato il lavoro, vi ha comandato anche il riposo. Vi comanda la preghiera, ma vi proibisce l’eccessiva preoccupazione. - Non vi date affanno, egli dice, nè per la vostra vita, nè del come mangerete, nè del vostro corpo, nè del come lo vestirete. La vita non vale più che il nutrimento, e il corpo non vale più che il vestito? L’uomo non è soltanto un animale da lavoro, ma è anche spirito, creato ad immagine di Dio; non ha soltanto bisogni materiali e grossolani appetiti; ha dei bisogni dell’anima e degli appetiti del cuore; non vive di solo pane, ma di preghiera, di fede, di adorazione e di amore». Ars divenne presto, sotto la sua direzione, e rimase poi sempre la par rocchia modello che tutti poterono ammirare. La domenica non accadeva mai di vedere un lavoratore nei campi, neppure al tempo del raccolto; dappertutto l’onesto e dolce riposo della preghiera. Una domenica di luglio molto grano giaceva sulle aie. All’ora della Messa cantata il vento soffi ava con violenza, e grossi e neri nuvoloni si addensavano così minacciosi da far credere che l’uragano sarebbe scoppiato da un momento all’altro. Il Santo Curato sale sul pulpito, proibisce di toccare il grano, e promette ai suoi parrocchiani molto bel tempo per mettere al coperto il raccolto. E avvenne come egli aveva predetto, e più di quindici giorni trascorsero senza pioggia.
In società con Santa Filomena
Il santo si impegnò anche a restaurare e a ingrandire la sua parrocchia con 5 nuove cappelle per offrire alla sua gente la possibilità di ricordare o un mistero della fede, o la memoria particolarmente venerata di qualche santo. La prima ed essere edificata fu la cappella dedicata a Sa Giovanni Battista. Dopo aver soddisfatto al suo debito verso il suo santo patrono, il Curato si sentì spinto ad erigere un altare ad una giovane santa, il cui culto, recentemente introdotto in Francia, faceva ogni giorno nuovi progressi. Il 25 maggio 1802, gli scavi fatti in Roma nel cimitero di Priscilla, avevano condotto alla scoperta di una tomba preziosa. Vi si riconoscevano i simboli luminosi della verginità e del martirio: un’àncora, tre frecce, una palma ed un giglio, al di sopra la scritta: (PHI) LUMENA. PAX. TECUM. FI(AT.) cioè: Filomena, la pace sia con te. Tolta la pietra che chiudeva l’entrata, le reliquie della Santa apparvero dentro un’urna, che sulle pareti di cristallo mezzo infrante serbava ancora le tracce del sangue versato per Gesù Cristo. La fama della giovane martire crebbe di giorno in giorno anche in Francia, dove nuovi miracoli attestavano come il culto della vergine delle catacombe fosse accetto al suo Sposo celeste. Ma più che ogni altra cosa, a rendere popolare il nome e la memoria di santa Filomena nel paese di Francia con tribuì senza dubbio la devozione che il nostro Santo sentì nascer nel cuore per essa, l’amore ardente e quasi cavalleresco che le consacrò. Può dirsi che quelle due glorie s’in grandirono l’una a fianco dell’altra, o per dire meglio che dietro la gloria di santa Filomena volle il Santo Curato nascondere la propria, e nella fama dei miracoli della giovane martire cercò seppellire e soffocare la fama che già si propa gava della sua propria santità. Alla sua cara piccola santa egli non cessò d’attribuire
tutti i favori e tutti i prodigi che diedero celebrità al pellegrinaggio d’Ars. Fra i tanti episodi ricordiamo questo: nel febbraio 1857 una donna del popolo venne ad Ars portando in braccio un fanciullo di otto anni, che ancora non camminava. Per ventiquattro ore quella donna, con l’insistenza della disperazione, si attaccò a tutti i passi del nostro Santo, facendo sentinella presso il suo confessionale, precipitandoglisi incontro appena compariva, additandogli il figliuolo con un gesto e con uno sguardo così espressivi nella loro supplichevole energia, che n’eravamo commossi nel profondo delle viscere. Il Curato aveva più volte benedetto quel fanciullo, e rivolto alla madre parole di consolazione e di speranza. Come furono rientrati tutte e due nel ricovero che avevano scelto per la notte, il fanciullo disse: “Mamma, mi devi comprare un paio di zoccoli, perchè il Curato mi ha promesso che domani camminerò”. Sia che veramente il Servo di Dio avesse fatta questa promessa al poveretto, sia che egli nella sua ingenua confidenza così avesse capito dalle parole e dalle occhiate di incoraggiamento che aveva ricevuto, gli zoccoli furono comprati per consiglio degli abitanti presso i quali alloggiava quella coppia infelice. L’indomani, con stupore generale, il
fanciullo che tutti avevano veduto così penosamente portato sulle braccia della madre, correva nella chiesa come un lepre, dicendo a tutti: “Sono guarito, sono guarito!”. La povera madre nascondeva all’ombra di una cappella la sua gioia e le sue lacrime. Noi la vedemmo, la interrogammo, volemmo presentarla al Curato che si preparava a dire la Messa. Quella donna aveva bisogno di vederlo, di parlargli, di gettarglisi ai piedi; la riconoscenza la soffocava. Egli accolse la nostra domanda con un silenzio freddo e quasi severo che non ci permise d’insistere. Dopo la Messa ci parve dover fare un nuovo tentativo, e fu più fortunato. “Signor Curato, gli dicemmo, questa donna vi prega di aiutarla a ringraziare santa Filomena”. Egli si volse e benedisse in silenzio la madre e il figlioletto; poi con tono del più sincero malcontento: “Santa Filomena, aggiunse, avrebbe dovuto guarire quel piccino in casa sua”.
L‛istituto della Provvidenza
Circondato da innumerevoli miserie, egli avrebbe voluto soccorrerle tutte, almeno le più urgenti. L’istituzione di un asilo per le orfanelle, fu il proponimento in cui si fermò, come a quello che in una sola volta venisse in aiuto alla triplice debolezza dell’età, del sesso e dell’abbandono. Quest’opera, come tutte le opere di Dio, nacque da un umile principio. Dietro al coro della chiesa, ad oriente delle grande piazza del villaggio, sorgeva una casa di nuova ed abbastanza decente costruzione. «Se quella casa fosse mia, diceva il Santo, ne farei una Provvidenza. Uscendo di chiesa, non avrei che da attraversare la piazza per visitare la mia piccola famiglia, spiegarvi il catechismo e sedermi a mensa. La Provvidenza mi darebbe il mio pane, io le darei la parola di verità, che è il pane delle anime». La casa gli costò ventimila franchi, la somma che all’incirca rappresentava il valore degli stabili da lui
posseduti a Dardilly. Poi trovò due donne, Benedetta Lardet e Caterina Lassagne, che egli giudicò atte ad eseguire il suo piano. Fra tutte si distinguevano per intelligenza, per senso pratico non comune e per provata virtù. Egli le mandò per un anno presso le suore di Fareins a terminarvi la loro educazione: tornate le riprese sotto le sue ali, e senza legarle con voti, si diede a formarle alla povertà, all’ubbidienza, all’umiltà, alla semplicità, al vero abbandono nelle mani della divina Provvidenza. «Il Curato cominciò con l’aprire una scuola gratuita per le fanciullette della parrocchia. Poco dopo ammise alcune ragazzette delle vicine parrocchie, che si mantenevano a proprie spese, benché venissero alloggiate nella casa. Ne accolse non quante se ne presentavano, ma quante ne poteva contenere il locale, allora piccolissimo. Intanto si pensò a fabbricare. Il Curato divenne architetto, muratore e falegname. Preparava egli stesso la calce, tagliava e trasportava le pietre, e non si risparmiava in alcuna cosa. Non sospendeva il suo duro e caro compito che per recarsi al confessionale». In brevissimo tempo, con l’aiuto di persone caritatevoli, con insperati soccorsi, con la benedizione di Dio e con la protezione dei santi, si poterono collocare nel locale ingrandito più di sessanta fanciulle, alloggiate, nutrite e mantenute a spese della Provvidenza, preservate dal vagabondaggio e dalle sue conseguenze, strappate allo scandalo, rimesse sul retto cammino, in un’atmosfera tutta impregnata del profumo di Gesù Cristo. Vi furono però le ore difficili, i momenti di angoscia suprema, nei quali pareva che il celeste Provveditore ritirasse il suo soccorso. Ma proprio quando tutto sembra perduto, tutto stava per essere salvato. La Provvidenza ama queste sorprese: così dimostra insieme e la felice dipendenza in cui viviamo da lei, e la potenza dei suoi mezzi, e la
debolezza dei nostri. Una volta questo intervento di Dio fu così diretto, così immediato ed accompagnato da circostanze così meravigliose ed inspiegabili che è impossibile non ravvisarvi un miracolo. Una volta mancò il pane alle orfanelle d’Ars, e in casa non v’era né grano, nè farina, nè denaro. In quel frangente il Santo Curato si credette abbandonato da Dio a motivo dei suoi peccati. Chiamata la superiora della casa, le disse con il cuore angosciato: «Dobbiamo rimandare a casa queste nostre figliolette che non possiamo più nutrire?» Prima di arrivare a tale estremo rimedio, volle visitare il granaio. Oh Provvidenza! Il granaio era colmo, come se il grano vi fosse stato versato a pieni sacchi... Il Curato in quella prima visita al granaio era accompagnato dalla Chaney. Egli corse dalle orfanelle annunciando questo grande prodigio: «Mie povere fi gliuole, io avevo diffi dato della Provvidenza, e stavo per congedarvi... Dio mi ha punito per bene!». Era que sta la sua riflessione preferita, ogni volta che la divina bontà gli dava qualche segno particolare di protezione, guardandola come amorevole punizione della sua diffidenza. La notizia di questo prodigio varcò ben presto le mura dell’istituto, dov’era stato accolto con lacrime di gioia e con grida di ammirazione. Il mugnaio che fu chiamato, nel riempire i suoi sacchi, dichiarò di non aver mai toccato frumento più bello. Il Santo Curato ricordava spesso questo miracolo, e lo attribui va a San Francesco Regis, da lui costituito amministratore della Provvidenza, le cui reliquie aveva posto in mezzo alla sua provvigione di grano. Con l’Istituto della Provvidenza si collegano quei catechismi che per più di trent’anni furono la delizia del popolo e contribuirono in molta parte alla rinomanza del Santo Curato d’Ars. Fu allora che egli vi pensò, e li istituì per l’istruzione delle sue piccole orfanelle. Egli cominciò a nutrire della sua parola quelle povere fanciulle prima di
nutrirne i pellegrini di tutta l’Europa. Ogni giorno, dopo il pasto della comunità, quando il refettorio era pulito, egli entrava, e messosi a sedere all’estremità di una tavola, col piccolo uditorio raccolto intorno a sè, parlava per circa un’ora. Oggetto principale di questa familiare predicazione, oltre l’insegnamento delle prime verità della fede, era l’ispirare a quelle fanciulle un vivo orrore del male e il timore dei giudizi di Dio. Ogni giorno un numero crescente di estranei veniva ad ingrossare l’uditorio. Tutti ascoltavano quella sua parola singolare con religiosa attenzione, con grande soddisfazione e con sensibile profitto delle anime. Era una maniera di eloquenza tutta sua, che fortemente colpiva gli animi, e dritto s’impadroniva dei cuori. Era il Vangelo con le sue parabole, con i suoi paragoni, con quel suo carattere unico e sorprendente con cui soddisfa le meditazioni delle più alte intelligenze, ed è al tempo stesso accessibile alle anime più semplici. Si usciva da quei discorsi col cuore pieno, con l’anima intenerita, col fedele proposito di tornare l’indomani a gustare nuovamente quel nutrimento celeste.
Un ospite rumoroso
Da sei anni il Santo Curato si trovava ad Ars. Aveva appena aperto alle orfanelle del paese la sua diletta casa del rifugio, che strani rumori cominciarono a turbare il riposo delle sue notti. Ecco come egli stesso soleva narrare l’origine di quelle persecuzioni diaboliche: «La prima volta che il demonio venne a tormentarmi, fu alle nove della sera mentre io mi mettevo a letto. Tre grandi colpi rintronarono alla porta del cortile, come se con una mazza enorme avessero voluto sfondarla: spalancai subito la finestra, ma non vidi nulla. Non avevo ancora ripreso sonno quand’ecco tre colpi più violenti mi fecero trasalire, battuti non più alla porta esterna, ma a quella della scala che introduce alla mia camera. Alzatomi gridai di nuovo: chi è là?... nessuna risposta. Immaginai che fossero ladri che mirassero agli arredi donati dal visconte d’Ars. Mi parve allora necessario di dover prendere qualche precauzione. Pregai due uomini coraggiosi che venissero a dormire in canonica, e mi dessero mano forte in caso di bisogno». Infatti il carrettiere del villaggio, Andrea Verchère, una notte si appostò col suo fucile in una camera del presbiterio. Giunta la mezzanotte, un fracasso terribile si fece sentire accanto a lui nella stanza stessa, e gli sembrava che i mobili volassero a schegge sotto una tempesta di colpi. La povera sentinella gridò al soccorso, il Santo Curato si alzò in piedi. Guardarono, esaminarono, frugarono in ogni parte ma invano. Il Santo, accortosi che quei rumori non provenivano da causa umana, pensò di congedare i suoi custodi, la cui presenza gli era inutile. Ebbe meno paura e finì con l’abituarsi a questo martirio che durò trentacinque anni quasi senza alcuna tregua. Accadeva spesso che lo spirito maligno entrasse nella camera, facendo danzare le sedie e spostando i mobili, chiamando il Curato con voce beffarda: «Vianney, Vianney» ed aggiungeva al nome minacce ed epiteti
ingiuriosi. Altre volte lo chiamava gridando dal cortile, e dopo avere schiamazzato a lungo, imitava una carica di cavalleria, o il rumore di un esercito in marcia. I confratelli del Santo Curato si mostravano in generale poco disposti ad ammettere la realtà di queste manifestazioni diaboliche: «Se il Curato d’Ars prendesse la sua parte di sonno e di vitto, questa effervescenza d’immaginazione svanirebbe». Nell’inverno del 1826 a Saint-Trivier, il Curato predicò una missione insieme ad altri sacerdoti. I suoi confratelli si divertivano con lui e dicevano con aria scherzevole: «Via! caro Curato, nutritevi meglio: è il miglior modo di farla finita con le diavolerie». Egli non rispose a quelle diatribe e si ritirò nella sua camera. Un momento dopo i derisori si davano la buona notte, e se ne andavano ciascuno alla propria camera. Ma ecco che a mezzanotte vengono destati all’improvviso da un orribile fracasso; la casa parrocchiale è sottosopra; le porte battono, i vetri tremano, i muri vacillano, e uno scricchiolare sinistro fa temere che crollino. In un momento tutti sono in piedi e ricordano che il Curato d’Ars aveva detto: «Non stupitevi se per caso udrete del rumore stanotte». Tutti corrono precipitosi nella sua camera... egli riposava tranquillo... Dopo un’ ora, quando tutto fu tornato in silenzio, un lieve tocco di campanello risuona. Il Santo si alza e trova alla porta un uomo che aveva fatto parecchie leghe per venirsi a confessare da lui. Era cosa ordinaria infatti che ogni volta che le vessazioni del demonio raddoppiavano di intensità, la grazia gli inviasse qualche grande peccatore da convertire. Nel 1842 venne ad Ars un militare addetto ad una brigata della gendarmeria del dipartimento. Il brav’uomo si era alzato dal letto a mezzanotte e insieme ad un gruppo di gente aspettava alla porta della chiesa; ma il santo Curato tardava a comparire. Per vincere il sonno, s’era messo a passeggiare intorno alla canonica. Egli era triste a causa di recenti
dispiaceri che gli avevano suscitato nell’animo una profonda tristezza. Ad un tratto uno strano rumore che sembrava venire dalla finestra del presbiterio lo distoglie dai suoi pensieri. Porge l’orecchio... una voce forte, aspra, stridente, ripete più volte queste parole, che gli giungono distintissime all’orecchio: «Vianney, Vianney! Vieni dunque!». Quel grido infernale lo riempie di orrore. S’allontana in preda alla più viva agitazione. In quel momento batte l’una sul grande orologio del campanile. Subito dopo compare il Curato con un lume in mano, trova quell’uomo ancora tutto commosso, lo rassicura, lo conduce in chiesa, e senza interrogarlo, lo vince con queste parole: «Amico mio, voi siete addolorato; avete perduto la vostra donna durante il suo parto. Ma abbiate fiducia; il buon Dio verrà in vostro aiuto... Bisogna prima mettere ordine alla vostra coscienza. - Non tentai di resistere, disse il soldato, caddi in ginocchio come un fanciullo, ed incominciai la mia confessione. Egli penetrò nel profondo della mia anima; mi rivelò cose delle quali egli non poteva avere cognizione alcuna, tanto che ne fui pieno d’inesprimibile stupore. Io non credevo che si potesse leggere così nei cuori».
Molte calunnie e molti onori
Mentre la fama del Curato d’Ars cresceva, portata lontano di bocca in bocca, e ai suoi piedi conduceva una moltitudine di cristiani sempre più numerosa e sempre più meravigliata, i confratelli ne mormoravano. Alcuni con diffidenza si vedevano togliere la direzione delle anime da un prete semplice e dappoco, i cui talenti avevano fino ad allora considerato men che mediocri. Un giorno gli venne recata una lettera, nella quale si leggeva questa frase: «Signor Curato, quando si conosce così poco la teologia come voi, non si dovrebbe mai entrare in un confessionale». Il resto era dello stesso tono. Quell’uomo che non trovò mai tempo di rispondere a nessuna delle lettere che ogni giorno gli pervenivano sempre più in maggior numero da chi ricorreva ai suoi consigli, alla sua esperienza, alla sua santità, credette non poter dispensarsi dall’esprimere la gioia e la gratitudine che sentiva d’essere trattato finalmente secondo i suoi meriti. Prese immediata mente la penna e scrisse: «Quante ragioni ho d’amarvi, carissimo e veneratissimo confratello! (era un confratello difatti, il quale poi riparò il suo sbaglio, venendo qualche tempo dopo ai piedi del Santo). Voi siete il solo che mi abbia conosciuto bene. Poichè siete così buono e caritatevole che vi degnate di interessarvi della mia povera anima, vogliate aiutarmi ad ottenere la grazia che io domando da così gran tempo, affinchè, dispensato da un posto che non sono degno di occupare a motivo della mia ignoranza, io possa ritirarmi in qualche cantuccio a piangere la mia povera vita... Quante penitenze ho da fare! Quante lacrime da spargere!». Molte calunnie giunsero agli orecchi del vescovo di Belley, ma Monsignor Devie era l’uomo meno disposto a lasciarsi sorprendere da false accuse e da iniqui sospetti. Appena vide il Curato d’Ars, lo amò; amò quella sua semplicità, quella sua mortifi cazione, quella sua povertà; amò soprattutto la sua pietà, nè
la giudicò esagerata, e neppure riscontrò ombra di stranezza o di ridicolo. In ogni occasione si dichiarò in suo favore e prese apertamente la sua difesa: «Io vi auguro, Signori, ebbe a dire un giorno in mezzo a una numerosa adunanza di ecclesiastici e in modo da chiudere la bocca agli schernitori, io vi auguro un po’ di quella follia di cui voi ridete; essa non nuocerà affatto alla vostra saggezza». Egli finì con questa sentenza pronunciata con tono quasi severo: «Sì, o Signori, egli è un santo, un santo che noi dobbiamo ammirare e prendere a modello». La Provvidenza volle che per il corso di trent’anni le popolazioni del secolo XIX, così amanti d’ogni tipo di vanità, venissero in folla a rendere omaggio all’umiltà ed alla semplicità. Gli stranieri, che incominciavano ad assediarlo, stimavano compenso sufficiente alle privazioni ed alle lunghe fatiche del viaggio, la soddisfazione di averlo veduto, di aver deposto ai suoi piedi i segreti del cuore, e la pace della coscienza che ne riportavano, rientrati in grazia con Dio. Nè più dimenticavano la sua bontà nel l’accoglierli, la pazienza nell’ascoltarli, la dolcezza nel consolarli. Furono vedute persone di alto lignaggio, abituate alle raffinatezze del lusso nelle splendide loro dimore, accontentarsi per parecchie settimane di quella povera ospitalità del villaggio. In una camera di alcuni metri quadrati, si sistemarono sino a dieci persone in una volta. Un regolare servizio di vetture pubbliche, da Lione ad Ars, fu stabilito nel 1835. D’allora in poi divenne generale e quasi europeo il movimento verso Ars, con più di 80.000 pellegrini all’anno. Da dove venivano queste ondate di forestieri? Da ogni parte: da tutte le provincie della Francia, dal Belgio, dall’Inghilterra, dalla Germania, dall’Italia. Chi li aveva invitati? Nessuno, se non quelli che ne tornavano ed avevano veduto; giacchè i giornali non avevano ancora parlato del Santo Curato.
Povero tra i poveri Dopo i peccatori venivano i poveri. Il caritatevole Curato li amava perchè Nostro Signore li aveva amati, e perchè comprendeva che, non trovando essi quaggiù se non privazioni e patimenti, avevano maggior bisogno d’essere onorati e consolati. Cercava di avvicinarsi, con tutta la delicatezza necessaria, a questi poveri così vergognosi della loro condizione. Per soddisfare al suo bisogno di donare, il nostro Santo subito vendette, uno dopo l’altro, i suoi poveri mobili a compratori che glieli pagavano generosamente. Gli accadeva di vendere ad altissimi prezzi delle vecchie scarpe, delle vecchie sottane, delle vecchie cotte, fino a ridursi a non avere più nulla: «Che importa alla fine, diceva egli, purchè io abbia denaro per i miei poveri!» Certo è che se avesse continuato a provvedere da solo al suo vestiario, la sua carità lo avrebbe ridotto a non avere di che cambiarsi. Un giorno, mentre usciva dalla Provvidenza, gli si fa incontro un povero con i piedi nudi e sanguinanti. Il buon Curato si spoglia delle scarpe e delle calze, le regala al poveretto, e ritorna come meglio può al suo presbiterio, cercando di farsi piccolo per nascondere sotto la sottana strisciante sul terreno i suoi piedi nudi.
Il traguardo del cielo
Da lungo tempo il nostro santo pareva non aver più che un soffio di vita. Il filo di voce che rimaneva era così debole, che ci voleva un orecchio attento per intenderlo. Tutta l’energia della vita e del pensiero s’era concentrata negli occhi che brillavano come due stelle. Era la forza nella debolezza e la vita nella morte. I grandi calori del luglio 1859 avevano messo a dura prova il santo vegliardo, che varie volte era caduto svenuto. Non si poteva entrare in quella chiesa d’Ars, giorno e notte riscaldata da un immenso concorso, senza esserne soffocato. Quelli che aspettavano il loro turno per confessarsi, dovevano uscire ogni tanto a cercare fuori da quella fornace un po’ d’aria respirabile. Egli però non ne usciva mai; non abbandonò un momento quel suo posto di sofferenza e di gloria. Il 29 luglio egli compì ancora il circolo ordinario delle sue fatiche; fece il catechismo, stette sedici
o diciassette ore in confessionale; e chiuse quella laboriosa giornata con la preghiera. Rientrato in casa più stanco e più estenuato del so lito, si lasciò cadere su di una sedia, dicendo: «Non ne posso più». All’una del mattino, quando volle alzarsi per andare in chiesa, sentì un’invincibile debolezza. Egli chiama, si accorre. «Voi siete sfinito, signor Curato! - Sì, credo, che sia la mia povera fine». Il martedì sera egli chiese i Sacramenti. La notte stessa, il giovedì 4 agosto, nella festa del glorioso patriarca S. Domenico, alle due del mattino, senza scossa, senza violenza, Giovanni Battista Maria Vianney s’addormentò nel Signore, mentre il prete che scrive queste righe, incaricato di recitare le preghiere della raccomandazione dell’anima, pronunziava queste parole: «Gli angeli santi di Dio gli muovano incontro, lo conducano alla città vivente, nella celeste Gerusalemme». Il Santo pareva dormire. I suoi tratti serbavano quella sua costante espressione di dolcezza, di calma e di bontà; si sarebbe detto anzi che subissero a poco a poco una luminosa trasformazione. Migliaia di persone accorsero per il suo funerale, per dare l’ultimo saluto a quell’umile prete che da un oscuro confessionale di uno sperduto paesino aveva ridonato la luce alla Francia. Subito molte grazie si verificarono davanti al sepolcro del Santo Curato. Si intrapresero ben presto, e con successo, i passi necessari per l’introduzione della sua Causa di Beatificazione. Papa Pio X ha proclamato beato Giovanni Maria Vianney l’8 gennaio 1905. Pio XI lo ha canonizzato il 31 maggio 1925 , e nel 1929 lo ha anche proclamato patrono dei parroci. Nel centenario della morte, il 1 agosto 1959 papa Giovanni XXIII gli ha dedicato una enciclica (Sacerdotii Nostri Primordia). Benedetto XVI lo dichiarerà patrono di tutti i sacerdoti.
Pensieri Cristo a noi si dona sotto le specie del pane, che è l’alimento più familiare all’uomo, egli lo fa per familiarizzarci col suo corpo risuscitato e glorioso». Verrà il tempo in cui gli uomini saranno così stanchi degli uomini, che non si potrà più parlare loro di Dio senza farli piangere L’uomo fu creato per amore: per questo egli è tanto portato ad amare. D’altronde egli è così grande che nessuna cosa può sulla terra appagarlo. Non è contento, se non quando si volge a Dio... Fate uscire un pesce dall’acqua, e non vivrà. Ebbene, ecco l’uomo senza Dio Un mercante non guarda ai fastidi del suo commercio, bensì al guadagno che ne trae... Vent’anni, trent’anni che cosa sono paragonati con l’eter nità ? .... Che abbiamo in fondo da soffrire? Qualche umiliazione, qualche urto, qualche parola pungente: sono cose che non uccidono Nel mondo ci viene nascosto il cielo e l’ inferno... il cielo, perchè conoscendone la bellezza si vorrebbe andarvi ad ogni costo; e si lascerebbe il mondo ben tranquillo... L’inferno, perchè conoscendo i tormenti che vi si soffrono, si farebbe di tutto per non andarvi Noi non siamo sulla terra, che in deposito e per brevi momenti. Pare che non ci muoviamo, e tut tavia camminiamo a grandi passi verso l’ eternità Se noi comprendessimo bene la nostra felicità, potremmo quasi dire di essere più felici che non i Santi nel cielo. Essi vivono delle loro rendite; non possono più guadagnare; ma noi possiamo in ogni momento accrescere il nostro tesoro». «Le nostre colpe sono un granello di sabbia al para gone della grande montagna della misericordia di Dio».
Il buon Dio avrà perdonato ad un peccatore pentito più presto che non avrà fatto una madre a ritrarre il suo fi glioletto dal fuoco Quando noi ci abbandoniamo alle nostre passioni, in trecciamo spine intorno ai nostri cuori Io credo, diceva, che se avessimo la fede, saremmo padroni della volontà di Dio; la terremmo incatenata, nè cosa alcuna ci sarebbe negata da lui» Noi non ab biamo che una fede centinaia di miglia lontana dal suo oggetto, come se Dio fosse al di là dei mari. Se avessimo una fede viva, penetrante come l’ebbero i Santi, vedremmo No stro Signore come essi lo videro Se sapessimo come Nostro Signore ci ama, ne morremmo di piacere! Io penso tal volta che poche opere buone saranno ricompensate, perchè invece di farle per amore di Dio, le facciamo perabitu dine, per amore di noi stessi... Chi non prega è simile alla gallina, che, se vola, dopo un pò ricade subito, e razzolando nella terra vi si immerge. Al contrario, colui che prega è come un’aquila intrepida che spazia nell’aria, e sembra volersi accostare al sole. L’orgoglio è la catena del rosario di tutti i vizi, l’umiltà è la catena del rosario di tutte le virtù. Il cuore di Maria è così tenero con noi che quelli di tutte le madri riunite non sono che un pezzo di ghiaccio al suo confronto. Le tentazioni non hanno nessuna presa su un cristiano il cui cuore è veramente devoto alla Vergine Maria. Rivolgiamoci alla Madonna con grande fiducia, e siamo certi che, per quanto miserabili possiamo essere, Lei ci otterrà la grazia della conversione.
Bibliografia Questa biografia è una riduzione del volume: Alfred Monnin, San Giovanni Battista Maria Vianney, Il Curato d’Ars, Pesaro 2009 I pensieri sono tratti dal volume: Pensieri del Curato d’Ars, Pesaro 2009 editi dal Centro Missionario Francescano di Pesaro & Casa Editrice Guerrino Leardini tel. 333 4165150 - email: laperlapreziosa@libero.it
Dalla preghiera di Benedetto XVI Signore Gesù, fa che possiamo imparare dal Santo Curato d’Ars il modo di trovare la nostra gioia restando a lungo in adorazione davanti al Santissimo Sacramento; Fa, o Signore Gesù, che i nostri giovani possano apprendere quanto sia necessario, umile e glorioso il ministero sacerdotale che Tu vuoi affidare a quelli che si aprono alla Tua chiamata. Fa che la carità dei nostri Pastori nutra ed infiammi la carità di tutti i fedeli, affinché tutte le vocazioni e tutti i carismi donati dal Tuo Santo Spirito possano essere accolti e valorizzati. Ma soprattutto, o Signore Gesù, concedici l’ardore e la verità del cuore perché noi possiamo rivolgerci al Tuo Padre Celeste, facendo nostre le stesse parole che San Giovanni Maria Vianney utilizzava quando si rivolgeva a Lui:
Vi amo mio Dio, e il mio unico desiderio è di amarvi fino all’ultimo respiro della mia vita. Vi amo, o Dio infinitamente amabile, e desidero ardentemente di morire amandovi, piuttosto che vivere un solo istante senza amarvi. Vi amo Signore, e la sola grazia che vi chiedo è di amarvi in eterno. Mio Dio, se la mia lingua non può ripetere sempre che io vi amo, desidero che il mio cuore lo ripeta ad ogni mio respiro. Vi amo, o mio Divin Salvatore, perché siete stato crocifisso per me; e perché voi mi tenete crocifisso quaggiù per voi. Mio Dio, fatemi la grazia di morire amandovi e sentendo che io vi amo. Amen
Benedizione della Famiglia La grazia e la pace di Dio nostro Padre e del Signore nostro Gesù Cristo sia con tutti voi. E con il tuo spirito.
Preghiamo: O Dio, Trinità d’amore, aiuta ogni famiglia cristiana a riscoprire la bellezza di essere una piccola chiesa domestica, chiamata ad essere santa come lo sei tu. Aiutaci a crescere ogni giorno nella fede, nella speranza e nell’amore. Insegnaci a dividere il pane con chi ha fame, a donare affetto a chi è piccolo, malato e solo. Ti chiediamo ora Signore la grazia di ravvivare, nel segno di quest’acqua benedetta, il ricordo del nostro Battesimo e l’adesione a Cristo Signore, crocifisso e risorto per la nostra salvezza. Amen
Dio vi riempia di ogni gioia e speranza nella fede. La pace di Cristo regni nei vostri cuori. Lo Spirito Santo vi dia l’abbondanza dei suoi doni. E la Benedizione di Dio Onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo, discenda su di voi e con voi rimanga sempre. Amen