San Damiano de Veuster L’eroe di Molokai
a cura del Centro Missionario Francescano delle Marche laperlapreziosa@libero.it
Introduzione A volte ci sono atti di così incredibile eroismo che riescono a scuotere con il loro coraggio il torpore e la superficialità del mondo intero. Quando il 10 maggio 1873 il missionario belga Damiano de Veuster partì volontariamente per andare a rinchiudersi nell’isola-ghetto dei lebbrosi di Molokai, la carta stampata di mezzo globo diede risalto all’audacia di questo sacerdote che aveva osato varcare le porte dell’inferno sulla terra. Poiché quell’isola era veramente una Geenna. «Nessuna legge, nessun Dio, nessun padrone». Solo l’incubo nauseabondo di corpi sfigurati dalla lebbra e selvagge lotte tra miserabili per ottenere un pasto o una bottiglia. Padre Damiano giunse in questa cloaca del mondo seguendo la sua vocazione, come un folle di Dio che «sceglie di chiudere con le proprie mani le porte del suo sepolcro». Poteva essere unicamente il gesto di un pazzo o quello di un santo, ma solo i santi sanno trasformare l’inferno in paradiso e questo fu quello che accadde. Come un martire della carità visse per sedici lunghi anni nel putrido lebbrosario, impregnando un simile ambiente con la sua carità al punto tale che un lebbroso giungerà a dire che non avrebbe voluto guarire, se questo avesse significato doversi allontanare da Padre Damiano. Sono dichiarazioni di riconoscenza sconfinata, che solo un uomo dal cuore immenso può ricevere. Immenso come l’oceano che lo circondava...
Un ragazzino spericolato Francesco De Veuster e Anna Caterina Wauters andarono a vivere insieme, dopo aver ottenuto la benedizione di Dio e delle loro famiglie, in un piccolo casolare di Tremelo, vicino Lovanio. Da questa coppia molto unita nell’amore vennero al mondo otto figli, il settimo dei quali, prima di diventare famoso nel mondo con il nome di Damiano, fu battezzato con quello di Giuseppe lo stesso giorno della nascita: il 3 gennaio 1840. Tra i pochi libri presenti nella casa, il più letto, e anche il più unto, era quello che narrava la vita eroica dei santi. Spinta da questi esempi la primogenita Eugenia entrò presto in convento e altrettanto presto da lì salì al Cielo. Questa rapida partenza lasciò addolorato il piccolo Giuseppe, che vedeva la sorella maggiore come una seconda mamma. Dietro il suo esempio fioriranno in famiglia altre vocazioni religiose. 2
Il piccolo Giuseppe era molto vivace: amava saltare al volo sui carri che passavano per le vie del paese; allo stesso modo scendeva, gettandosi sull’erba, non senza prendersi qualche dolorosa testata. Le attività temerarie, come pattinare sulle acque ghiacciate del fiume Laak, erano la sua passione. Quando però un giorno il ghiaccio si aprì sotto i suoi piedi e si salvò per un pelo dalla fredda morte, ringraziò in ginocchio sulla riva il suo angelo custode, che con le penne delle sue ali aveva afferrato le sue. In casa il ragazzino si dava da fare, pulendo la stalla, vegliando con il padre in attesa della nascita di un vitellino, lavorando nei campi di patate. Nel frattempo si preparava a ricevere la Prima Comunione: incontrò il Signore nel Pane del Cielo la Domenica delle Palme del 1850. Con i poveri era così generoso che anche gli altri fratelli ne facevano le spese: quando una volta un mendicante si avvicinò a chiedere qualcosa, egli che teneva in braccio la merenda di tutti, la donò senza pensarci su. Lasciò presto la scuola, preferendo aiutare la famiglia sollevando sacchi pesanti anche 100 chili. Si dava da fare anche come aiutante nelle stalle vicine e una volta salvò una mucca data per spacciata dal veterinario: «Giuseppe venne a casa mia. Si sistemò quasi vicino all’animale. Lo curò amorosamente. Passò alcune notti in bianco. E il lunedì mattina, la vacca era fuori pericolo. Giuseppe ce l’aveva salvata. Aveva salvato una parte importante dei nostri modesti averi». Più tardi la sorella Paolina entrò tra le Orsoline di Uden e il fratello Augusto nella Congregazione dei Sacri Cuori. Giuseppe intanto fu mandato a imparare il francese ad Anversa per poter vendere 3
meglio al mercato i prodotti dell’azienda. Scriveva a casa: «Il mio lavoro e i miei studi e l’amicizia coi compagni vanno bene. L’alloggio è buono. È comodo. Si mangia bene. La birra è ottima. E quando vado a passeggio chiedo a tutti il nome delle cose». Giuseppe cominciò a tenere un piccolo diario. Annotava le idee ascoltate in classe o le riflessioni fatte nei momenti di solitudine: «La scienza cristiana è l’amore col quale misuriamo la grandezza del Creatore e della nostra modestia. Ogni giorno bisogna avvicinarsi al cuore di Dio. Non importano gli esercizi di pietà, bensì la perfezione con la quale li facciamo. Il frutto dello Spirito Santo è la carità. Bisogna essere gentili. Bisogna essere utili e disponibili verso tutti». Giuseppe aveva preso parte alla missione popolare predicata dai Redentoristi. Ascoltando la narrazione del vangelo nella quale Cristo propone al giovane ricco di vendere i suoi beni e di seguirlo, si sentì toccato da quelle parole. Scrisse ai suoi genitori: «Spero che qualche giorno arriverà il mio turno. Io pure devo scegliere la mia strada. È poi così impossibile che io segua un giorno le orme di mio fratello?». Intanto erano molte le ore che Giuseppe passava in chiesa, a volte anche di notte, a guardare e a lasciarsi guardare dal Signore. Amava il silenzio e pensava che forse Dio lo voleva come contemplativo tra i monaci della Trappa, ma altre circostanze lo spinsero verso il seminario dove già si trovava il fratello Augusto. In una lettera, prima di intraprendere la nuova “strada”, chiese al padre la sua benedizione: «Vi chiedo di accettare questa decisione e di dare il vostro consenso. Senza la vostra volontà, non 4
oserei intraprendere una simile impresa. Dio mi chiama ed io devo obbedire. Sarebbe terribile se voi vi opponeste. Sarebbe terribile se la mia vocazione andasse sprecata: questo destino al quale Dio mi chiama fin dall’infanzia. Sapete che è la migliore sicurezza di felicità, qui e dopo questa vita, scegliere una vita alla quale Dio ci chiama. Così la mia vocazione non deve rattristarvi. Augusto mi scrive che potrò essere ricevuto nel suo convento, per poter iniziare quanto prima il mio noviziato». Anche se Francesco De Veuster aveva sempre pensato che Giuseppe fosse il figlio più adatto per prendere in mano le redini della fattoria, da saggio cristiano si inchinò di fronte alla volontà del Padre dei Cieli. Accompagnò il figlio a Lovanio fino alla porta del convento per godersi, col pianto nel cuore, il momento dell’addio. Padre Wenceslao Vincke lo stava aspettando. 5
Religioso dei Sacri Cuori Giuseppe si sentiva chiamato al sacerdozio, ma non sapeva niente di latino, lingua allora imprescindibile per gli studi teologici, e non sapeva molto nemmeno di francese. Sembrava destinato a dover rimanere in convento come religioso laico, impegnato soprattutto nella cura della chiesa e in altri lavori pratici. Ma Giuseppe chiese al fratello Augusto di fargli da professore e di insegnargli i rudimenti della lingua di Cicerone. I progressi furono rapidi, apparvero le prime versioni senza troppi errori e il rettore del seminario P. Vincke si accorse che anche Giuseppe aveva le capacità per studiare teologia ed accedere al sacerdozio. Nel frattempo però Giuseppe era diventato con la prima professione dei voti religiosi “fra Damiano”. Egli viveva con serenità la vita del Seminario, apprezzando tutto di essa: l’orazione, il silenzio, il lavoro, la scuola, lo studio. Gli scappava l’allegria dagli occhi e rideva di gusto con i compagni. L’anima gli ballava dentro e si sentiva profondamente felice, forte nel suo corpo e nella fede. Di corporatura era un tipo tarchiato e non troppo alto. Aveva ampie spalle ed un viso attraente per il suo sguardo intenso. A volte doveva frenarsi perché la sua spontaneità senza etichette non superasse troppo le buone maniere che gli venivano insegnate in convento. Tutti si rendevano conto che Damiano era uno di quegli uomini che andavano direttamente al cuore delle cose, senza complicazioni nel suo modo d’essere. Cristallino al punto che gli si vedeva l’anima negli occhi. Molto sincero con gli altri, ma anche con se stesso. A volte troppo ostinato, ma leale con la verità, fino a dare la pelle per essa. Damiano era un uomo venuto dalla campagna e non cercava di 6
dissimulare più di tanto queste origini. Nemmeno rinunciò a dormire molte volte per terra, sul pavimento, avvolto in una coperta: un po’ per penitenza, un po’ per non dimenticare che non era entrato in convento per fare il signore. Il giorno 7 ottobre 1860, nella Casa Madre di via Picpus a Parigi, Damiano De Veuster pronunciava i voti della sua professione, promettendo di essere come Gesù, obbediente povero e casto fino alla morte. Si gettò per terra dopo aver pronunciato i voti per invocare l’aiuto dei santi, prima di iniziare lo stretto cammino della vita consacrata. Qualcuno lo coprì con un drappo funerario secondo il costume dell’epoca. Il simbolo fu completato dalla realtà: proprio in quei giorni morì un confratello e seppe della scomparsa della nonna al paese. Damiano ricevette la notizia mentre era seduto a tavola. Le sue reazioni furono viscerali: «I miei nervi tremarono ed impallidii. Dovevo dominarmi ma era impossibile. Mi aggrappai al pensiero che qualsiasi cosa Dio faccia è bene». Scrisse ai suoi genitori: «Bisogna prepararsi fin da ora ed una buona morte». Aveva già compreso che l’affare della salvezza, è «l’unico veramente essenziale». E aveva solo vent’anni. Nella nuova destinazione, il seminario di Parigi, il giovane contadino di Tremelo non si lasciò intontire dai lustrini della città. Era poco attratto dai negozi alla moda e gli interessavano poco anche i giornali. Sapeva che portano solo notizie di gente potente e delle nazioni che dominano i popoli. Diceva: «Preferisco che mi parlino della gente semplice». Lui stesso cercava di conservarsi semplice, sanamente umile. Per questo i superiori e gli altri giovani lo amavano. 7
Terminati gli studi tornò a Lovanio nel bel mezzo di una epidemia di tifo. In quei giorni si stavano preparando a partire per la missione delle Hawaii dieci suore e sei religiosi, tra i quali il fratello Augusto, chiamati a dar man forte a Monsignor Maigret, vescovo di Arathia. Damiano guardò il fratello con santa invidia, l’unica consentita anche ai cristiani. Già da molto tempo rivolgeva a San Francesco Saverio una preghiera segreta: «Che io sia missionario». Ma capiva che era ancora acerbo a che aveva bisogno di molti altri giorni di studio e di preghiera. La febbre del tifo colpì anche Augusto e lo costrinse a letto. Damiano pensò che forse il Signore gli chiedeva di occupare il posto lasciato vuoto dal fratello. Scrisse al Padre Generale dicendogli che egli era disposto a sostituirlo. Al superiore di Lovanio parve che si fosse passato sopra alla sua autorità. Cosiccé, quando il superiore di Lovanio ricevette dal Generale il mandato affinchè Damiano si unisse alla piccola pattuglia di missionari, si arrabbiò molto. Si recò nel refettorio alla tavola di Damiano, gli gettò nervosamente la lettera del Padre Generale e gli disse che era molto giovane, che era immaturo e che non avrebbe dovuto andarsene prima di ricevere il sacerdozio. Damiano lo guardò arrossendo. Ma nel cuore era felice di andare «fino agli estremi confini della terra» per annunciare il Vangelo. Tornò qualche giorno a Tremelo e prese congedo da Nostra Signora di Montaigu e dalla sua famiglia. Si fece fotografare con la tonaca nuova e la sua sfolgorante gioventù: la foto sarebbe servita ai parenti perché lo accompagnassero anche loro con la preghiera nella difficile missione. 8
In viaggio verso le Hawaii Si imbarcarono a Brema. Centoquarantotto giorni di navigazione senza scalo. Il viaggio non era senza pericoli: l’oceano anni prima aveva ingoiato due dozzine di missionari dei Sacri Cuori. Quella traversata fu «come un purgatorio». Nel lungo viaggio, oltre a pregare e a studiare, si divertiva a dare una mano ai marinai, arrampicandosi con agilità sbalorditiva sugli alberi che reggevano le vele. Gli battè forte il cuore quando si avvistarono da lontano le ombre intense delle coste delle Hawaii. C’era una piccola isola lì. Si chiamava Molokai. Gli occhi di Damiano la guardarono misteriosamente. Non seppe mai bene il perché. Sbarcò il 19 marzo del 1864, festa di san Giuseppe. Il porto brulicava di gente e i missionari furono accolti da canti di festa. Scrive: «Lo sbarco di tanti missionari cattolici e specialmente di dieci suore vestite di bianco, produsse una singolare impressione sul popolo accorso da tutte le parti. Fummo 9
accompagnati in Cattedrale che immediatamente si riempì di popolo. Grande fu la mia meraviglia nel trovare alle Hawai una chiesa così bella. Per tutto il giorno non facemmo altro che dare strette di mano. Io credo di averne dato più di mille... È il principale segno di saluto nel paese, sia per le donne e i bambini come per gli uomini. Alle tre Messe, la Cattedrale è piena di fedeli. I Canachi cantano alla perfezione. Io non ho sentito nulla di più bello in Belgio». Monsignor Maigret lo inviò subito a completare gli studi di teologia ed il 21 maggio 1864 fu ordinato sacerdote. Damiano scrisse ai suoi genitori raccontando loro che stava dando per la prima volta la comunione a cristiani ferventi che solo da poco avevano cessato di gettarsi per terra davanti agli idoli. La loro religiosità era ancora confusa ed era necessaria molta catechisi per aiutare quegli indigeni a spezzare antiche e asfissianti catene. Fu preso da molta paura: gli sembrava impossibile poter essere all’altezza della tremenda missione che gli era stata affidata. Chiedeva preghiere a tutti: «Se il buon Dio mi ritira un istante la sua grazia, cadrei in un istante nel medesimo fango del vizio da cui io voglio liberare gli altri. Chiedete dunque nelle vostre preghiere la grazia della perseveranza per me che sono circondato da tanti pericoli». Fu colpito dall’affascinante paesaggio di quelle isole: il paradiso di Hawaii, la bellezza di Puna, il terrore del vulcano Kilauea. Padre Damiano comprese che la cosa più importante era imparare la lingua del popolo perché non c’era altro mezzo per comunicare con le persone che gli si avvicinavano. 10
Se i Superiori dicevano di pazientare, la sua natura possente avrebbe voluto mangiarsi il mondo, inghiottirselo in Cristo. Non gli pesavano i chilometri da percorrere. La sella del cavallo divenne la sua casa. In groppa al suo cavallino recitava lunghi rosari e cantava. Dove non poteva arrampicarsi il mulo ci pensava lui stesso a salire e se c’erano fiumi profondi da attraversare scavava un tronco d’albero e lo trasformava in una canoa. Dovunque arrivava le porte delle povere abitazioni degli hawaiani erano aperte. Offrivano con amore al missionario tutto quello che possedevano: un pesce, un bicchiere di acqua fresca, dei frutti appena colti. Per dormire bastava un angolo dove stendere il sacco a pelo che portava quasi sempre sulle spalle, insieme ad un piccolo altare portatile. Aveva imparato a soffiare in una conchiglia per convocare alla Santa Messa i suoi cristiani. Via lettera si divertiva a prendere in giro il fratello: «Le mani con le quali cucino non sono sempre pulite. Le tue sì che lo saranno: le usi solo per sfogliare le pagine dei libri! Neppure i piatti a volte sono puliti, il fatto è che non ho tempo per tutto. Mangiamo ed è tutto. Ciò che importa per mangiare è aver fame, e c’è. Poi, sai, una pipa come dessert. Il tabacco è buono. E la fretta è molta. Spesso monto a cavallo con la pipa in bocca». Era stato preso inoltre dalla febbre della costruzione, in legno o in mattoni. Gli indigeni gli davano una mano, felici di innalzare chiese, case, piccole abitazioni. Racconta Mons. Maigret: «Gli isolani sono continuamente stupiti e gridano al miracolo quando vedono padre Damiano trasportare da una montagna fino a casa una trave che tre o quattro di essi a mala pena potrebbero 11
sollevare. Eppure i kanaki sono uomini robusti». Quando una chiesa veniva inaugurata seguiva una festa che diveniva occasione di evangelizzazione: «Dopo una breve preghiera io faccio una istruzione adatta alla circostanza. Mi congratulo con loro per il coraggio che hanno dimostrato nell’innalzare una bella chiesa al buon Gesù. Prego ciascuno dei presenti ad innalzarne un’altra nel proprio cuore. Poi li esorto alla carità fraterna verso i cristiani venuti di lontano. Rivolgo infine una esortazione a coloro che non sono ancora cattolici. Dopo il discorso e le preghiere, ciascuno si reca in buon ordine al luogo preparato per il pranzo, tutto intorno alla chiesa, sull’erba. Siccome i nostri Kanaki, anche i più civilizzati, mangiano sempre con le dita, nessun imbarazzo per procurare le forchette e i cucchiai e gli altri servizi da tavola. Ci si stende per terra, come gli antichi Romani, e con le gambe incrociate: modo estremamente economico. Inutili le tavole, le sedie, i banchi. Passai la maggior parte del pomeriggio in confessionale: la conversione sincera di qualche peccatore famoso mi causò profonda gioia. È così che il missionario, in mezzo alle sue privazioni, prova qualche volta soddisfazioni tali da non poter immaginare». In quegli anni battezzerà centinaia di bambini e di adulti convertiti dal paganesimo. Finirono per chiamarlo “il gran battezzatore”. I superiori, visto il suo prodigarsi senza requie, gli suggerivano di stare calmo, di non essere così precipitoso nelle sue imprese. Damiano prometteva che si sarebbe un po’ frenato, ma il suo temperamento era più forte dei consigli alla prudenza: è difficile mettere le briglie a un uragano... 12
Ben presto Padre Damiano scoprirà che i Kanaki non erano proprio pieni di virtù. Sono una razza bella e forte, dagli occhi brillanti e teneri e la pelle dolcemente abbronzata. Ma sono indolenti, con il culto dell’ozio, avendo la fortuna di avere a portata di mano tutto quanto gli occorre perché la loro terra è ricca e prodiga di frutti. La condotta sessuale di quel popolo non seguiva norme morali. I genitori non avevano alcun pudore e i bambini imparavano tutto. Si sposavano senza alcuna responsabilità e si separavano alla prima difficoltà. Anche per questo motivo le malattie sessuali stavano decimando gli indigeni: nel 1850 c’erano nelle Hawaii circa quattrocentodiecimila abitanti, un secolo dopo non ce n’erano più di diecimila. Per questo il missionario si angustiava: «Oh, se il mio Dio mi desse lo zelo ardente di San Francesco d’Assisi o del curato d’Ars: battezzerei il mondo, istruirei gli ignoranti, strapperei al fango del vizio tutti i peccatori... Spero che Dio converta i loro cuori. Ma da parte mia farò tutto quello che le mie povere forze mi permetteranno di fare». Scrisse alla Regina per avere in dono la terra per costruire una chiesa con a fianco la scuola e incalzò la superiora delle suore perché gli mandasse delle maestre: bisognava educare i bambini prima che diventassero corrotti. Sognava l’arrivo del fratello: «In due potremmo sollevare il mondo. Qui c’è troppo da fare per un prete solo». Nelle sue lunghe lettere lo punzecchiava: «Non desideri fare il missionario fra questa povera gente selvaggia. Ti stai gonfiando come un pallone. Stai avendo onori e dignità. Ma non ho invidia». Invece del fratello nel 1869 arrivò P. Gulstan Ropert, un tipo interessante: imparò presto il Kanako, si fece amare dagli indigeni e 13
riuscì ad ammorbidire un po’ il temperamento del compagno. Intanto, per non farsi mancare alcuna esperienza di questa terra, Padre Damiano ebbe la cattiva sorte di beccarsi delle strane febbri. Cominciò a dimagrire a vista d’occhio. Ma un missionario non ha tempo neanche per morire e presto il dovere di evangelizzare lo rimise in salute: «Sono nervoso, passo da un’inquietudine all’altra. Penso che solo in Signore possa far sì che il mio cielo in terra sia un cielo luminoso. Perché, fra tutte queste difficoltà, mi trovo bene. Sono comunque felice». Il terribile morbo di Hansen In quegli anni ancora non si aveva una conoscenza accurata, dal punto di vista medico, di cosa fosse la lebbra. Hansen ne identificò il bacillo nel 1873, ma non riuscendo ad isolarlo, non se ne poteva ricavare un vaccino. La lebbra restava così un male incurabile, di cui non si conoscevano le vie di trasmissione. Era malattia rara nei paesi occidentali, ma ecco che, dal 1850, essa cominciò a diffondersi in maniera rapida e terrificante proprio in quella terra che sembrava un paradiso terrestre: l’arcipelago delle Hawaii, luogo di eterna primavera e di mari incredibilmente azzurri. Gli indigeni consideravano tutte quelle sventure come una maledizione portata dagli stranieri che avevano invaso le isole con i loro commerci. Gli stranieri invece incolpavano di tutto i nativi, noti per una ostentata promiscuità sessuale. A conferma di ciò, un medico diffondeva in quegli anni la tesi che la lebbra fosse il quarto stadio della sifilide. E il conflitto esplodeva ancor più quando si trattava di decidere come arginare la epidemia. 14
I collaboratori occidentali della casa regnante premevano per una assoluta e rigida segregazione di tutti i malati e dei casi sospetti. Gli insegnamenti dell’Antico Testamento, al riguardo, venivano ripresi alla lettera da alcune chiese evangeliche: la lebbra era una maledizione divina e come tale andava trattata. I nativi invece consideravano i legami familiari e di sangue più importanti della stessa malattia. In base a tali persuasioni era stato dunque realizzato l’insediamento di Kalawao, nell’isola di Molokai: un promontorio basso, roccioso e spoglio, tra la scogliera e il mare. Era stato scelto proprio per la sua inaccessibilità che lo rendeva una prigione naturale.
15
A partire dal 1866, ogni mese, da Honolulu, la capitale, partiva una nave carica di lebbrosi requisiti a forza. Ecco il racconto di un testimone: «Che spettacolo! I parenti e gli amici degli infelici lebbrosi non potevano separarsi dagli amati partenti. Senza il minimo timore di contrarre la lebbra, essi se li tenevano fortemente stretti tra le braccia e li ricoprivano di interminabili baci. E ogni volta che uno degli esiliati si allontanava dalla folla per andare a prendere posto nell’ imbarcazione... era una improvvisa esplosione di grida di disperazione, di forti lamenti, di gemiti tali che solo i disperati possono lanciare verso il cielo; era come il pianto lugubre dell’agonia che esplodeva e moriva in un ultimo grido d’angoscia...». In ogni distretto la polizia prelevava a forza uomini e donne sospetti di lebbra e li inviava al centro di raccolta nella capitale dove un medico decideva della loro sorte. Se la diagnosi era “lebbra”, si aprivano irrimediabilmente le porte di quello che veniva chiamato “l’inferno dei vivi” o “il cimitero dei viventi”. Non era infrequente il caso di amici e parenti che si fingevano malati per accompagnare i loro cari: si giunse a permettere a qualche congiunto che lo volesse, anche se sano, di partire coi malati. E molti lo facevano, anche se sapevano che era per sempre. I bianchi non riuscivano a capire atteggiamenti del genere: per loro il problema lebbra voleva dire “assenza di ogni contatto”, anche se si trattava dei propri congiunti; per gli hawaiani il contatto umano e fisico restava un valore irrinunciabile, più importante di ogni pericolo. Ma tra i lebbrosi stessi l’interesse e la solidarietà erano ferocemente limitati ai propri congiunti: tutto il resto era nemico. 16
Una proposta mortale Nel maggio del 1873 mons. Maigret fa conoscere ad alcuni dei suoi sacerdoti la preoccupazione che gli causa lo stato di abbandono dei lebbrosi di Molokai. «Questa è una situazione che mi preoccupa molto. Penso in particolare a quei poveri lebbrosi, di cui tanti muoiono ogni anno senza poter purificare la loro anima prima di comparire davanti a Dio, e che non hanno, nel corso della loro vita, nessun sollievo morale alle loro prove». - «Monsignore, non avete che da designare uno di noi per diventare loro pastore, sarete subito obbedito!», rispose prontamente padre Aubert. I sacerdoti sono unanimi; tutti sono disposti a partire. Padre Damiano dice con voce ferma: «Eccellenza, ricordandomi di essere stato messo sotto il drappo mortuario il giorno della mia professione religiosa per apprendere che la morte volontaria è il principio di una vita nuova, eccomi pronto a seppellirmi vivo con questi sventurati, 17
molti dei quali conosco personalmente». – «Quanti anni avete?» chiede mons. Maigret. – «Trentatré anni». – «L’età che aveva il Signore al momento della croce», riprende il vescovo. Sarà lo stesso Prelato ad accompagnarlo nell’isola: «Finora, figli miei - dice loro mons. Maigret - eravate soli e abbandonati; non lo sarete più. Ecco qualcuno che sarà un padre per voi. Egli vi ama così ardentemente che, per la vostra felicità e per la salvezza delle vostre anime immortali, non esita a diventare uno dei vostri e chiede di vivere e morire con voi». I lebbrosi non possono nascondere la loro emozione. Il vescovo benedice Padre Damiano e lo lascia al suo compito sovrumano. Primi giorni all’inferno Fino ad allora nessun bianco aveva mai soggiornato in quel luogo. Era passato in fretta qualche medico, che visitava i malati sollevando le vesti con la punta del suo bastone, e qualche pastore protestante che predicava loro da lontano. Gli hawaiani non si curavano di loro ed erano giunti a sospettare che ai bianchi interessasse piuttosto il loro sterminio e che le loro cure e le loro medicine fossero un inganno: non potevano essere veramente interessati a loro quei bianchi che fuggivano via pieni di orrore al solo vederli! Padre Damiano portò con sé solo un breviario e un piccolo crocifisso. Le prime settimane visse all’aperto, dormendo sotto un albero e mangiando su una roccia piatta. Pochi giorni dopo scriverà al fratello: «Carissimo, è il piccolo Joseph che scrive al fratello grande. Ecco che è passata esattamente una settimana da quando 18
ho messo piede a Molokai, anzi, più precisamente a Kalawao, e già mi sento preso dallo sconforto. Se non ti ho scritto prima è perché mi vergognavo di me stesso, della mia paura e soprattutto del fatto di non essere all’altezza della missione che monsignor Maigret mi ha affidato inviandomi in questo cimitero vivente, questo “marciume di Kalawao”, come dicono qui, questa riserva dove sono stati riuniti tutti i lebbrosi dell’arcipelago. È probabilmente per orgoglio, per una specie di sfida presuntuosa che ho accettato di aiutarli, ma non ne sono capace, la mia fede non è abbastanza forte. A te posso confessarlo: stamattina ho avuto la tentazione di annullare la Messa, talmente l’odore era insopportabile. Lungi da me l’idea di cercare delle scuse, ma lascia che ti descriva la mia discesa all’inferno, forse condividerla con te allevierà il peso del fardello che porto. Quando sono venuto qui per la prima volta, dieci anni fa, monsignor Maigret mi aveva affidato il distretto missionario di Puna e devo ammettere di non aver mai rimpianto, allora, di aver lasciato le nostre Fiandre natie né i nostri padri dei Sacri Cuori e neppure le nostre due sorelle: ero stato mandato in paradiso! Solo duemila abitanti da evangelizzare in una zona, sì vulcanica e montagnosa, ma da dove era facile fuggire per andare a divertirsi qualche ora con le onde gigantesche cercando di stare in equilibrio su un tronco d’albero! E c’era la gioia di costruire una cappella insieme ai kanachi: com’era semplice condurli a Dio con un amore reciproco; loro amavano il sacerdote e ancor più facilmente ne amavano il Cristo Nostro Signore. A Molokai la vita è tutt’altra cosa, mi è molto difficile amare, persino sopportare, i più poveri e i più derelitti, i lebbrosi. Sono carne 19
purulenta, volti tumefatti, e quel che è peggio hanno un odore pestilenziale, ripugnante. La polizia li ha portati qui come fossero dei criminali. Aspettano solo la morte, abbandonati da tutti. La mia unica attività si limita a pulire le piaghe, applicare le pomate, mettere le fasciature. Mi sento impotente e so che stando vicino a loro sarò contagiato anch’io. Ho paura. La mia sola speranza risiede in Baptiste, un bianco che è stato contagiato quand’era infermiere. Poco fa, dopo la messa, abbiamo pensato a due piccoli espedienti che voglio comunicarti e che, anche se sembrano poco cattolici, ci permetteranno di rendere la vita più sopportabile e di ridare un po’ di dignità ai malati. Primo, comincerò a fumare: è l’unico modo di avvicinare i lebbrosi nonostante l’odore disgustoso. Secondo, non parleremo più di fasciature ma di “sandwich”. Sai che Lord John Montagu, conte di Sandwich, si faceva servire al tavolo da gioco due fette di pane con in mezzo una fetta di carne? Ebbene, anche noi avvolgiamo i polpacci e le braccia dei lebbrosi tra due foglie o tra due bende, quando il governo ce le fornisce. Così faremo anche noi dei sandwich, dal nome di queste isole, e credo che riderne insieme renderà il contatto più facile. La mia speranza più cara sarebbe quella di far sì che non subiscano più la malattia passivamente, aspettando la morte, ma che riescano in qualche modo a coltivare un pezzo di terra e a tenere qualche animale. Naturalmente tutto ciò sarà possibile se non mi lascio scoraggiare. Bisogna che continui a pregare e a perseverare. Di’ a monsignor Maigret che, nonostante la difficoltà della mia missione, lo ringrazio perché ho la sensazione di essere nel mio posto. Nel mio posto». 20
La corrosione dei corpi e delle anime La colonia dei lebbrosi era un inferno, non solo per quello che accadeva ai corpi, soggetti a un orribile disfacimento fisico, ma ancor più per quello che accadeva alle loro anime e alla loro tragica società. La corruzione dei corpi era già orribile a vedersi. Così la descrive una rivista medica: «L’aspetto del malato diventa spaventoso; le dita si distruggono e si accartocciano diventando simili ad artigli; le ferite marce e fetide diventano sede di migliaia di parassiti. Il corpo che cade a brandelli, come un vestito roso dai vermi e la faccia che si sprofonda verso l’interno». In pratica il malato era costretto ad assistere da vivo alla propria corruzione. Perfino l’aria diventava irrespirabile attorno a lui, ma egli se la trascinava addosso. Si diceva allora che ogni lebbroso custodisse con cura soprattutto due oggetti: uno specchio in cui spiare, giorno per giorno “con ossessionante ostinazione” i progressi del male sul proprio viso, e un coltello di legno per pareggiare le punta delle dita, man mano che diventavano insensibili. Se questa era la rovina fisica, quella psicologica e quella morale si accompagnavano ad essa con un crescendo spaventoso: un’incredibile sporcizia, una violenza pronta ad esplodere ad ogni provocazione, l’esasperazione degli istinti più bassi, l’abolizione di ogni limite sessuale, la schiavizzazione dei bambini e delle donne, alcolismo e droghe, il latrocinio generalizzato, il risorgere di pratiche idolatriche e superstiziose. Il tutto peggiorato dal disinteresse per ogni sorta d’impegno. Il governo aveva previsto che la colonia diventasse autosufficiente, col lavoro della terra e la pastorizia, ma i lebbrosi non se ne curavano affatto. D’altra parte nulla era stato 21
predisposto per loro: né abitazioni, né ospedali, né dispensari, né uffici amministrativi, né chiese, né cimiteri. All’arrivo dei nuovi lebbrosi, gli anziani si affrettavano a inculcare loro la massima suprema su cui la colonia si reggeva: «Qui non c’è nessuna legge». Tale dottrina, continuamente proclamata, aveva distrutto ogni senso di dignità. Abusi abominevoli erano passati in costume. Scrive Padre Damiano in una relazione: «In conseguenza di questa teoria atea, la maggior parte dei celibi o degli sposati, separati dalla consorte a causa della lebbra, vivevano alla rinfusa senza distinzione di sesso. Le donne erano costrette a perdersi per avere amici che dessero loro soccorsi nella loro malattia. I fanciulli, appena la cosa era possibile, erano impiegati come servi. E quando la lebbra aveva troppo spinto la sua opera di distruzione, queste donne e questi bambini erano scacciati dalla casa e costretti a cercare altrove un rifugio. Non era cosa rara trovarli dietro un muro, aspettando che la morte venisse a porre termine alle loro sofferenze. L’amore (aloha) così vantato dai nostri indigeni, faceva completamente difetto in queste circostanze. La danza era organizzata alla moda dei pagani sotto gli auspici della vecchia dea Laka alla quale si offrivano numerosi sacrifici; e confesso sinceramente che non era piccola fatica quella di distruggere queste superstizioni pagane e di mettere termine alle danze frenetiche e alle loro abominevoli conseguenze». Anche per questo a Molokai era stato affibbiato il nome di “inferno”. Quando Padre Damiano vi giunse nel 1873 vi erano già stati portati a forza 797 lebbrosi, dei quali più di trecento erano deceduti. Ma in quel solo anno ne saranno trasferiti sull’isola altri 400. 22
Noi lebbrosi Padre Damiano scelse subito di immergersi volontariamente in quel mondo in putrefazione. Comprese, quasi per istinto di carità, che i malati non lo avrebbero mai accettato se egli avesse cominciato a preservarsi, a usare precauzioni, a evitare i contatti, a mostrare ripugnanza. Fin dalla prima predica, scelse di non rivolgersi loro col tradizionale «fratelli miei». Disse semplicemente: «noi lebbrosi». Di poter essere contagiato non si preoccupò. Diceva «d’aver affidato la questione a Nostro Signore, alla Vergine Santa e a San Giuseppe». I superiori gli scrivevano sempre di badare al contagio, ma egli sapeva che era assolutamente inutile essere andato a Molokai se restava “un bianco”, uno di quelli che rifiutavano di toccare. Era difficile poi per un prete “rifiutarsi di toccare”, quando bisognava deporre l’ostia consacrata su lingue rose dal male, o ungere con l’olio santo mani 23
e piedi cancrenosi, o bendare con tenerezza quelle orribili piaghe; o anche solo prendere in mano la corda della campana su cui s’erano arrampicati per gioco i bambini! Scriveva: «Amo molto questi poveri indigeni per la loro semplicità e faccio per loro tutto ciò che posso. Essi mi amano come fanno i bambini con i propri genitori, e attraverso questo reciproco affetto spero di poterli condurre a Dio. Se amano il prete, infatti, ameranno più facilmente Cristo nostro Signore». Raccontano che un giorno mentre egli fasciava una piaga particolarmente brutta a vedersi, fu lo stesso lebbroso a dirgli preoccupato: «State attento, Padre, potreste prendervi il mio male!». «Figlio mio - gli rispose - se la malattia mi porta via il corpo, Dio me ne darà un altro!». Oltre che andare incontro alla sensibilità degli hawaiani egli facendo questo voleva rispettare “la sensibilità della Chiesa”: essa è per definizione “corpo di Cristo”; tutti i suoi sacramenti e le sue opere sono segni di un “contatto fisico”, salvifico, tra l’Umanità di Cristo e la nostra sofferente umanità. Perciò mangiava con loro alla stessa tavola, passava la sua pipa se gliela chiedevano, giocava coi bambini che si gettavano a grappoli addosso a quel gigante buono. Scriveva alla fine del suo secondo anno di permanenza: «Con le lacrime agli occhi semino la Buona Novella tra i miei poveri lebbrosi, e dalla mattina alla sera sono immerso in una miseria fisica e morale che spezza il cuore, ma cerco di sembrare sempre allegro, per stimolare il coraggio nei miei pazienti; presento loro la morte come la fine dei loro mali, se si convertono sinceramente. Molti vedono arrivare la loro ultima ora con rassegnazione, altri con gioia 24
e, durante quest’anno, ne ho visti un centinaio morire nelle migliori disposizioni di cuore». Più di una volta, a Molokai, nell’ospedale, qualcuno dei lebbrosi morenti, da lui amorosamente assistito, rizzandosi sul giaciglio gli mormorava: «Padre Damiano, tu sei un santo!». Il missionario sorridendo rispondeva: «Se per abbellire il suo Paradiso il buon Dio non ha che dei santi come me, deve essercene una folla lassù!» La riconquista della dignità Se normalmente la vita cristiana è un insegnare a bene vivere per insegnare a ben morire, a Molokai bisognava capovolgere l’itinerario: insegnare a morire bene, perché potessero acquistare senso e dignità (e perfino “gioia”) quella parvenza di vita che ancora restava. Cominciò dunque a “celebrare la morte”, nel senso di darle dignità umana. Se si pensa che, fino al suo arrivo, i cadaveri venivano abbandonati all’aperto, e finivano in pasto agli animali, si può comprendere l’importanza simbolica di costruire un degno cimitero: «Uno steccato bianco, una grande croce, terra consacrata...»: sembra perfino incredibile, ma qualcuno lo attaccò anche per questo. «Il predicatore papista - si legge in un giornale protestante - ha notato che i cadaveri sono un problema per la gente, essendo abbandonati all’aperto per essere mangiati dai maiali. Visto che pensa solo a convertire la gente alla sua religione, ha ordinato del legname ad Honolulu per uno steccato; il materiale è arrivato e il recinto è stato costruito... è una trappola per catturare la selvaggina che sbaglia strada: ecco cos’è quel cimitero!». In realtà non era “un cimitero per soli cattolici”, ma per tutti. Ma era chiaro che tutti finivano per affidare anche 25
l’anima a colui che con tanta tenerezza si curava dei loro corpi. I protestanti si curavano molto dei malati, raccogliendo e amministrando elemosine, chiedendo interventi legislativi e culturali, e altro ancora: ma nessuno di loro aveva mai avuto il coraggio di andare a vivere tra i lebbrosi, e mai lo ebbero fino a quando P. Damiano fu in vita. I loro Pastori dicevano di non poter vivere tra i lebbrosi, perché avevano moglie e figli, ma tale ammissione finiva per sottolineare il senso e il valore del celibato dei preti cattolici: ed era ancor peggio. Oltre a costruire il cimitero, P. Damiano fondò la “Confraternita dei funerali”: si dedicava a confezionare le bare di legno, e ad accompagnare, pregando, il defunto al cimitero, al suono della musica e al ritmo dei tamburi. Era una cerimonia che si ripeteva almeno tre volte la settimana e che aveva sostituito l’oscenità di gruppi di becchini più volgari dei monatti manzoniani. 26
L’Eucarestia, forza per resistere Dopo la liturgia della morte, veniva quella dei Sacramenti che ancoravano alla vita. La festa più grande nell’isola era quella del Corpus Domini: la processione solenne attraversava tutte le vie del lebbrosario, ed era così imponente che si commuovevano perfino i protestanti (allora abituati dovunque a osteggiarla e disprezzarla come idolatria). A Molokai anch’essi si scoprivano il capo, e nel 1874 - dopo una processione - una ventina di essi chiesero il battesimo. L’Eucarestia era per Padre Damiano l’unica energia che lo spingeva a continuare la sua missione: «Trovo la forza nel Sacramento ogni mattina. Lì capisco che devo rinunciare ad ogni ambizione umana. E’ il pane quotidiano per un prete come me. La Comunione è il pane del sacerdote. Me ne cibo e mi sento felice, contento, dolcemente rassegnato a questa situazione un po’ eccezionale nella quale la Provvidenza di Dio ha pensato bene di collocarmi. L’Eucarestia è per me – e per tutti noi – lo stimolo vivo che mi porta a rinunciare ad ogni ambizione terrena o che il mondo può darmi. Mi sembra che senza la presenza continua del nostro Maestro nella mia povera cappella, io non avrei mai accettato di legare la sorte della mia vita alla sorte dei lebbrosi di Molokai... Avendo Nostro Signore al mio fianco, continuo ad essere sempre allegro e contento, e lavoro con zelo al bene dei poveri sventurati». P. Damiano aveva perfino introdotto la pratica dell’Adorazione perpetua: i turni e gli orari, di giorno e di notte, non era facile osservarli; ma quando un “adoratore” non poteva occupare il suo posto in chiesa, si inginocchiava a pregare sul suo giaciglio. Riferisce un testimone: «Tutti i giorni 27
i buoni cristiani vanno a cercare sollievo alle loro pene presso il divino Consolatore di coloro che soffrono. Fanno ancora di più, in quanto si offrono come vittime per riparare gli oltraggi che ricevono i divini Cuori da parte di figli ingrati». Ciò che massimamente commuoveva, durante le cerimonie sacre, era il coro. Gli hawaiani hanno una spiccata sensibilità per la musica; ma era cosa unica al mondo vedere eseguire alla perfezione a Molokai una Messa di Mozart, anche se il pianista doveva suonare con un pezzo di legno attaccato alla mano, e anche se il coro doveva spesso cambiare i cantori quando la malattia arrivava alla gola. Quando la principessa reggente Liliuokalani giunse in visita a Molokai, pianse all’udire la dolcezza e la bellezza di quei canti, eseguiti da un coro di infelici. Ed essi si interruppero addolorati, perché credettero che piangesse di orrore. Un occasionale visitatore disse che quel canto gli ricordava quello degli ebrei piangenti a Babilonia, al ricordo di Gerusalemme lontana. Il vescovo si recò a celebrare la Cresima e scriverà: «Non dimenticherò mai la processione di duecento lebbrosi che ci accompagnarono per oltre un miglio al suono di tamburi e di strumenti». Il missionario fondò anche la “Confraternita della S. Infanzia” per i bambini abbandonati; quella “di S. Giuseppe” per le visite dei malati, a domicilio; quella “della Santa Vergine” per l’educazione delle ragazze. Le varie “confraternite” furono anche delle strutture di convivenza civile e di assistenza sociale che nessun altro aveva saputo neanche immaginare. 28
Architetto e muratore Le cure amorose del missionario verso i suoi lebbrosi non potevano certo fermarsi al loro vitto e alle loro vesti. Uno spettacolo desolante si era presentato al suo sguardo, appena arrivato nell’isola: i lebbrosi abitavano in capanne basse, umide, malsane. Non era possibile permettere che esseri umani potessero continuare ad abitare in un modo così indecoroso. Padre Damiano si diede da fare enormemente anche per venire incontro alle più elementari necessità logistiche del villaggio, facendosi progettista, architetto, sterratore, muratore, carpentiere e quant’altro necessitava. «Ho visto Padre Damiano - racconta Giacomo Sinnet - sotto un sole tropicale, coperto di polvere e di sudore, quando si dedicava al lavoro manuale in mezzo ai suoi lebbrosi». Il missionario pensò di farsi aiutare, in questa grandiosa impresa di costruzione, da una squadra 29
di operai lebbrosi. Egli comprese che il lavoro non solo avrebbe giovato alla salute dei malati, ma avrebbe dato loro una sana distrazione nell’angoscia della loro triste sorte. Al mattino, dopo la celebrazione della Messa, Padre Damiano correva ai suoi cantieri. Animava, incoraggiava gli operai, dava ordini precisi; lavorava egli stesso con loro servendosi del prestigio della sua eccezionale forza fisica che incantava i kanaki. Molte golette arrivarono a Molokai cariche di prezioso materiale, adatto per la costruzione delle nuove case in legno. Questo materiale era subito sapientemente utilizzato e le abitazioni decorose per i lebbrosi si moltiplicavano. L’aspetto di Molokai si trasformò rapidamente. Gli indigeni inizarono ad amare il lavoro, con grande beneficio per la loro salute e con grande giovamento per il loro spirito. Molti vizi infatti scomparvero appena i lebbrosi poterono dedicarsi ad attività costruttive. Insieme a loro Padre Damiano edificò una grande chiesa, un porticciolo per facilitare l’approdo delle navi, realizzò la strada di collegamento tra il porto e il villaggio, due acquedotti e i relativi serbatoi d’acqua, una serie di magazzini, uno spaccio, un edificio di raccolta per i nuovi arrivati, due dispensari, due orfanotrofi, un centro di formazione per ragazze; e giunse a iniziare la costruzione di un ospedale, dove pensava di esperimentare le nuove cure che in quegli anni venivano proposte dal Giappone e dal Madagascar. Queste erano le sue occupazioni nel tempo libero, quello che gli restava dopo la visita ai malati e la continua cura spirituale, che quasi non gli lasciava riposo. 30
Fasciare ferite e cuori Padre Damiano ripeteva parafrasando San Paolo: «Mi sono fatto lebbroso tra i lebbrosi per conquistarli tutti a Cristo». Quantunque l’aspetto di Molokai andasse gradatamente trasformandosi in meglio, pure il nemico più terribile, la lebbra, era invincibile e continuava a tormentare le sue infelici vittime. Egli, fedelmente e scrupolosamente, visitava ogni settimana tutti i lebbrosi dell’isola del dolore. La presenza di Padre Damiano era un vero balsamo per i lebbrosi. Usciva dalla sua residenza provvisto di quanto poteva essere gradito ai malati: rimedi, calmanti, unguenti, bende, dolci. Soprattutto però era sempre ben provvisto di carità, di sorrisi, di parole buone, di pazienza. Nelle capanne dei lebbrosi sedeva per terra, con loro e come loro. Si interessava di tutto. Spesso le abitazioni erano in completo disordine, e allora il Padre spazzava, puliva, ordinava. Rendeva a tutti mille servizi, umile e sorridente come se quanto faceva fosse semplicemente il suo dovere. All’ora del pranzo, i lebbrosi lo invitavano a mangiare con essi. Per far loro piacere egli gustava il loro cibo. Era una carità sovrumana che dava al nostro missionario la possibilità di vincere la sua ripugnanza. Scrive: «Ho avuto occasione di osservare da vicino, come se le toccassi con la mia mano, le miserie umane sotto il loro più terribile aspetto. La metà dei malati rassomigliano a cadaveri viventi che i vermi hanno già cominciato a rodere, prima interiormente, poi esteriormente: fino al punto di procurare orribili piaghe da cui rarissimamente si guarisce. Per farvi una idea dell’esalazione, immaginate il cattivo odore che doveva uscire dalla tomba di Lazzaro». 31
Per non ferirli, si sforzava di vincere la naturale ripugnanza. Ci fu chi disse che Padre Damiano curava le piaghe dei lebbrosi «come se maneggiasse dei fiori». Il paragone è semplicemente meraviglioso! Spesso l’avventura si mescolava alla disavventura, e viceversa: «Questa sera alle otto, sono stato chiamato presso una donna morente. La notte essendo molto oscura, la via fangosa, la pioggia fittissima, sono stato costretto a prendere il mio cavallo. All’arrivo ho avuto cura di legarlo prima di entrare nella casa. Un buon numero di donne cattoliche, tutte lebbrose, si trovavano riunite. La morente, che aveva avuto la debolezza di apostatare, ha fatto una buona confessione e ha ricevuto l’Estrema Unzione, mentre le sue compagne pregavano ad alta voce e con fervore. All’uscita dalla casa, non ho trovato più il mio cavallo. Egli aveva spezzato la sua correggia ed era fuggito, portando via il bel mantello che avevo legato sulla sella e che mi avrebbe protetto dalla pioggia. Era inutile andare alla ricerca del cavallo. Non vedevo nulla a due passi di distanza. Fui costretto a ritornare a casa a piedi, camminando fra le pietre, nel fango e sempre sotto la pioggia. Finalmente sono arrivato senza altri incidenti. Pure rimpiangendo la perdita probabile del mio mantello, mi sono consolato pensando di aver contribuito alla salvezza di un’anima».
32
Con l’aiuto della preghiera Uomo di fede e di speranza, non poteva non essere un uomo di preghiera. Egli iniziava la sua giornata in preghiera, in ginocchio davanti al Crocifisso; e la terminava ancora rivolgendosi a Dio. Il 31 gennaio 1880 scriveva: « Siccome il cimitero, la chiesa e il presbiterio, non formano che un solo parco, io sono durante la notte il solo guardiano di questo bel giardino dei morti, ove riposano i miei figli spirituali. Mi è caro andarvi per recitare la mia corona e per meditare sulla felicità eterna che molti di essi già godono... Vi confesso che il cimitero e la capanna dei miei moribondi sono i miei più bei libri di meditazione». Solo un vero incendio di amore soprannaturale poteva sostenerlo nei suoi incredibili sforzi: «La considerazione di quello che le anime sono costate a Gesù Cristo, come il ricordo di ciò che gli è costata la nostra anima, ci deve ispirare il più grande zelo per la salvezza di tutto il mondo. Noi dobbiamo consacrarci a tutto ciò che può contribuire alla salvezza delle anime. Dobbiamo darci a tutti senza eccezione. Dobbiamo sacrificarci senza riserva. La misura del nostro zelo deve essere quella di Gesù Cristo». A due aspiranti missionari, scrive: «Dio sia lodato per lo zelo e per lo spirito di sacrificio che ha deposto nel vostro cuore. Cercate di custodire gelosamente questi sentimenti di amore per l’umanità sofferente. Mettete da parte ogni preoccupazione e gettatevi con confidenza infantile nelle braccia di Gesù e di Maria. Il demonio solleverà le onde anche più alte di quelle che io ho visto al Capo Horn, per farvi perdere la vocazione. Prima di tutto durante la tempesta, il cuore deve restare in pace; la pace del cuore è il dono di Dio per chi 33
si consacra al suo servizio. Meditiamo spesso ciò che il Signore ha fatto per la salvezza di una sola anima, e allora sapremo che cosa noi dobbiamo fare per allontanarne centinaia dalla via del vizio e della perdizione. Meditiamo come Gesù Cristo, il Divino Missionario, ha fatto precedere le sue predicazioni dalla penitenza e dall’orazione. Così, miei cari amici, iniziate il vostro apostolato per morire a voi stessi». Tra onori e calunnie Intanto il suo eroismo aveva provocato un vero e proprio contagio di generosità. I protestanti stessi rivaleggiavano con i cattolici: doni considerevoli affluiscono a Molokai. I giornali celebrano all’unanimità il sacerdote belga e un giornalista protestante tedesco scrive: «Non c’è che un prete cattolico che sia penetrato in questo inferno dei lebbrosi. È rimasto in mezzo a questi moribondi, a questi disperati, per portare loro le consolazioni della vita eterna». Questa fama internazionale lo aiutò moltissimo: mezzi e materiali gli giungevano con abbondanza. La Commissione Ministeriale di Igiene dapprima lo avversò, ma finì poi per offrirgli la carica di “Sovrintendente di Molokai”, con una paga annua di diecimila dollari. Rispose che lì non ci sarebbe stato cinque minuti, neanche per una paga di centomila dollari, ma ci stava per amor di Dio: «Se accettassi una paga per il mio lavoro - scrisse - mia madre non mi riconoscerebbe più per suo figlio». La principessa reggente Liliuokalani gli fece invece assegnare la decorazione di “Commendatore dell’Ordine reale”. La accettò perché i principi regnanti erano tra i suoi più grandi benefattori, ma non la portò mai. Diceva che non si adattava al suo abito sdrucito. 34
Ciò che più lo faceva soffrire era la sua solitudine di prete: fin dagli inizi aveva domandato ai superiori di inviargli un confratello che vivesse con lui: ne aveva bisogno, soprattutto per confessarsi, oltre che per avere un aiuto in quelle grandi necessità in cui si trovava immerso. Ma le leggi, per contenere la diffusione del contagio si erano fatte severissime: chi entrava nell’isola vi entrava per sempre e non poteva più uscirne. Una volta impedirono di sbarcare a un suo confratello che si era recato a fargli visita, e Padre Damiano - giunto vicino alla nave con una barchetta - si confessò gridandogli i peccati da lontano, in francese. Un aiuto gli venne mandato nel 1881, dopo otto anni, ma fu una croce in più: era un confratello pieno di sospetti e di problemi che gli rese la vita ancora più amara. Alcuni superiori non stimavano P. Damiano e non erano contenti di lui. S’erano già infastiditi all’inizio per il troppo clamore suscitato attorno alla sua impresa. Avevano continuato a vederla male: si diceva che gli passasse per le mani un fiume di denaro, che fosse troppo indipendente nelle sue decisioni. Il Provinciale fece pressione sul Vescovo, e questi scrisse a Padre Damiano di smetterla di «fare tanta poesia sui lebbrosi... il mondo ha l’impressione che voi siate alla testa dei vostri lebbrosi e fungiate da procuratore di beni, medico, infermiere, becchino e così via, come se il Governo non esistesse...». Il santo gli rispose: «Dagli stranieri oro e incenso, dai superiori la mirra». Il Provinciale soffiava sul fuoco e scriveva a Roma che Padre Damiano s’era montato la testa, si era “intossicato di lodi”, e stava diventando “pericoloso”. Lui invece, da qualche anno, era diventato soltanto “lebbroso”. 35
Decorato dalla lebbra Se ne era accorto per caso una sera che, tornando dal suo solito giro apostolico, soprappensiero, aveva immerso i piedi in una bacinella d’acqua calda. Aveva visto immediatamente arrossarsi la pelle e formarsi delle vesciche. Stupito aveva toccato l’acqua con mano: era bollente, e non se n’era accorto! Aveva perso la sensibilità agli arti inferiori, e seppe così inequivocabilmente d’aver contratto la lebbra. Nell’omelia della domenica seguente, così si rivolse ai fedeli per dar loro la notizia: «La nostra vera patria è il Cielo, dove noi, lebbrosi, siamo certi di andare molto presto [...]. Là non ci sarà più né lebbra né bruttezza, e saremo trasfigurati». Scrisse al Superiore generale: «Non sorprendetevi troppo se dopo essere stato decorato con la croce dell’ordine reale, lo sono stato anche con quella più pesante e meno onorevole della lebbra». Il Dottor Arning lo visitò e confermò la diagnosi. Ed egli scrisse umilmente ai confratelli: «...Sono diventato lebbroso. Penso che non tarderò ad essere sfigurato. Non avendo alcun dubbio sul vero carattere della mia malattia, io resto calmo, rassegnato e felicissimo in mezzo al mio popolo. Il Buon Dio sa bene ciò che vi è di meglio per la mia santificazione, e ogni volta ripeto con tutto il cuore: Sia fatta la tua volontà!». Al suo vescovo, scrive: «Ho sfidato il pericolo di contrarre questa terribile malattia facendo il mio dovere qui e cercando di morire sempre di più a me stesso. A mano a mano che la malattia progredisce, mi trovo contento e felice». I rapporti con i superiori non migliorarono per questo: la notizia che l’eroe di Molokai era divenuto lebbroso fece il giro del mondo e suscitò una nuova 36
ondata di solidarietà: lodi e offerte come non mai, e i problemi di sempre si acutizzarono. In più il Provinciale era preoccupato delle conseguenze che quella malattia poteva avere per la missione, e gli consigliò di non metter più piede fuori dall’isola. Gli scrisse, non senza crudeltà: «E’ mio dovere, carissimo Padre, farvi conoscere le decisioni prese dal Consiglio Provinciale, e non da me. Abbiate pazienza. Nel caso che voi non vogliate tener conto di queste decisioni, vi sono due luoghi dove potete andare: alla Missione o all’ospedale di Kakaako. Alla missione voi sarete rinchiuso in una camera che non potrete abbandonare fino alla vostra partenza: altrimenti voi rischiereste di mettere la missione in quarantena, perché i bianchi, sapendo che ospitiamo un lebbroso, avrebbero paura anche di noi che non siamo lebbrosi. Se 37
invece volete andare a Kakaako (nei sobborghi di Honolulu), voi andrete nella cappella dei lebbrosi senza potervi celebrare la Messa, perché né Padre Clemente né io consentiremo di celebrare la Messa con lo stesso calice e con gli stessi paramenti usati da voi, e le stesse Suore rifiuterebbero di ricevere la Comunione dalla vostra mano». C’erano dei motivi per queste disposizioni, ma il tono era disumano. Damiano ricorse al vescovo: «Il rifiuto imperioso che sembra espresso più dalla voce di un agente di polizia che da quella di un superiore religioso - come se la Missione dovesse esser messa in quarantena solo che io mi fossi mostrato a Honolulu - mi ha fatto tanta pena, lo confesso sinceramente, che non ne ho sofferto mai tanta fin dalla mia infanzia». Si recò comunque all’ospedale di Honolulu, per confessarsi col Vescovo - persuaso di averne il diritto, perché aveva bisogno del Sacramento - e, dopo averlo ascoltato, il Vescovo - contagio o non contagio - l’abbracciò piangendo, convinto d’aver ascoltato un santo: impetuoso e irruente, ma un santo. Si fermò qualche giorno all’Ospedale di Kakaako, e il Re delle Hawaii venne personalmente a ringraziarlo di tutto quello che egli faceva per i suoi sudditi lebbrosi. P. Damiano ne approfittò per chiedergli la costruzione di un nuovo acquedotto. Ma gli restava in cuore la pena profonda di quelle incomprensioni. In un quaderno personale che egli aveva preso a scrivere in quel tempo, si leggono questi consigli che egli dava a sé stesso: «Prega per ottenere lo spirito di umiltà, in modo da desiderare il disprezzo. Se vieni schernito, devi gioirne. Non lasciamoci incantare dalle lodi degli uomini, non siamo soddisfatti di noi stessi, siamo grati a chi ci causa dolore o ci tratta con disprezzo e preghiamo 38
Dio per loro. Per fare questo c’è bisogno, oltre che della grazia, di una grande abnegazione e di una costante mortificazione, grazie alla quale veniamo trasformati in Cristo Crocifisso. San Giovanni della Croce pregava sempre così: “O Signore, possa io essere disprezzato, perché ti amo!”. Meditiamo frequentemente sullo scherno che Cristo dovette sopportare di fronte a Pilato, il viso coperto di sputi, la corona di spine, il bastone, il mantello scarlatto, Barabba preferito a lui...». Nel Natale del 1887 si recò a visitarlo Edward Clifford, un noto pittore e scrittore che veniva per conoscerlo e per fargli il ritratto: lo dipinse lebbroso, con le mani e il viso solcati da foruncoli, la fronte gonfia e rugosa, il naso schiacciato, senza più sopraccigli, e le orecchie molto ingrossate. E tuttavia, anche così il ritratto lascia trasparire forza e fascino. «Non sapevo che la malattia
39
avesse fatto tali progressi» - disse Padre Damiano guardandosi. Tuttavia, già sfigurato dalla lebbra, non è abbattuto, ma come racconta un testimone, «sempre vivace e sorridente. È allegro, nonostante tutto, e si è allegri attorno a lui». Scrive nel 1887 al suo fratello religioso: «La gioia e la contentezza del cuore che i Sacri Cuori mi prodigano fanno sì che io mi senta il missionario più felice del mondo». Nel 1888, padre Damiano ha la gioia di essere sostenuto da un missionario vallone, padre Conrardy. Quello stesso anno, tre suore del Terz’ordine francescano di Syracuse (tra le quali santa Marianna Cope), vengono ad installarsi nel lebbrosario. È il punto di arrivo di quindici anni di sforzi. Dio concede al Padre, al crepuscolo della sua vita, la consolazione di vedere che altri proseguiranno il compito da lui intrapreso.
40
La Pasqua in Cielo e la gloria in terra Quando, al termine della Quaresima del 1889, Padre Damiano s’accorse che le piaghe si chiudevano e la crosta si anneriva, capì che stava per morire: ne aveva assistiti tanti che aveva imparato a riconoscere bene quei segni infallibili di una fine ormai prossima. Il 9 marzo 1889, sale all’altare per l’ultima volta. Alla fine di marzo, non lascia più la sua camera e dichiara: «È la fine, il Signore mi chiama a celebrare la Pasqua con Lui». Il Lunedi Santo, 15 aprile 1889, all’età di 49 anni, di cui sedici passati al servizio dei lebbrosi, si spegne con il sorriso, munito dei sacramenti della Chiesa, come un bambino si addormenta tra le braccia di sua Madre. Il Times scrisse: «Questo prete cattolico è divenuto per tutta l’umanità un amico». L’eco di quella morte fu tale che le fotografie scattategli sul letto di morte furono diffuse in tutto il mondo a migliaia di copie. A Londra, quando le esposero in una vetrina di Birmingham, la folla fu tanta che dovette intervenire la polizia a disperderla. Era diventato “il lebbroso di tutto il mondo”. Una sua statua finì nel Campidoglio, a Washington, scelta per rappresentare il nuovo stato delle Hawaii insieme al re Kamehameha, l’eroe nazionale che aveva unificato le Isole dell’Arcipelago alla fine del sec. XVIII. L’artista cui venne affidata l’opera lo scolpì provocatoriamente coi tratti del volto deformati, ma ancora in atteggiamento di aggirarsi, con bastone e mantello, in visita ai suoi fratelli malati. Così, con Padre Damiano de Veuster, - povero “lebbroso del mondo” - la provocazione di Dio aveva raggiunto e toccato perfino uno dei più celebri altari elevati alle glorie umane. 41
Ha scritto P. Sicari: «La Provvidenza di Dio aveva tracciava insieme a Padre Damiano uno strano destino: costretto a finire spessissimo sulle pagine dei giornali e perfino in mano ad artisti, letterati, pittori e fotografi; proprio lui che viveva nel luogo più sperduto dell’universo. E stranamente si trovava a dover restare sempre sulla pubblica scena, ciò che costringeva gli spettatori a schierarsi! Così padre Damiano ricevette - quasi in parti uguali - fama e disprezzo, stima e rifiuto, venerazione e sospetto, amore e rancore, per tutti gli anni di quella sua straordinaria avventura. Il tutto si rischiara e diventa comprensibile solo se intravediamo il disegno segreto del Padre celeste che aveva scelto quel suo figlio generoso e impetuoso perché diventasse un segno di contraddizione». Raoul Follereau si adoperò moltissimo per favorire il processo di beatificazione di padre Damiano. Il 7 luglio 1977, Paolo VI promulga il decreto che riconosce le sue virtù eroiche. Sarà beatificato a Bruxelles da Giovanni Paolo II il 3 giugno 1995 e canonizzato da Papa Benedetto XVI l’11 ottobre 2009. Le sue spoglie riposano a Lovanio.
42
L’attacco di Hyde, la difesa di Stevenson Sulla stampa internazionale, qualche mese prima della morte del missionario, finì una lettera del Pastore protestante americano Charles Hyde - una autorità alle Hawaii - il quale definiva P. Damiano: «Uomo rozzo, sporco, testardo e intollerante... Non era irreprensibile nei rapporti con l’altro sesso, ed infatti la lebbra di cui morì deve essere attribuita ai suoi vizi e alla sua negligenza». La persuasione era fondata sul presupposto pseudo scientifico che la collegava la lebbra alla sifilide. Ma la Provvidenza chiamò a difendere P. Damiano dalle accuse infamanti un altro protestante, il famoso scrittore Robert Louis Stevenson, divenuto celebre qualche anno prima con il racconto “Il Dottor Jekill e Mister Hyde”: storia di un uomo buono che a tratti si trasforma in un essere orribile e vizioso. Quando Stevenson lesse quell’articolo in cui un Hyde in carne e ossa pretendeva tramutare in mostro l’eroico e santo P. Damiano, gli sembrò di trovarsi davanti ai suoi personaggi divenuti reali. E pubblicò una appassionata “lettera aperta” in difesa del missionario cattolico, aggredendo con pari violenza il ministro protestante: «Voi non avete mai visitato il luogo in cui Damiano visse e morì. Se così fosse stato, e se ve ne foste ricordato, guardando alle vostre sfarzose stanze la vostra penna si sarebbe fermata... Dove noi abbiamo fallito qualcun altro è riuscito; quando noi abbiamo esitato, un altro ha agito; quando siamo rimasti seduti nell’ozio delle nostre ricche stanze, un uomo rude ha intrapreso la sua lotta, sotto lo sguardo di Dio, e ha soccorso gli afflitti, consolato i morenti, afflitto egli stesso, per poi morire sul campo con onore. Quando due gentiluomini competono per ottenere il favore di una signora 43
e uno ha successo mentre l’altro viene rifiutato, e (come a volte succede) all’orecchio del perdente giungono voci che screditano colui che è uscito vincitore, è buona regola in suddette circostanze che egli taccia. La vostra Chiesa e quella di Damiano alle Hawaii erano rivali nell’operare il bene, nella missione di edificare e dare esempi divini. Voi avete clamorosamente fallito mentre Damiano ha avuto successo e mi meraviglio che non abbiate pensato fosse meglio chiudervi nel silenzio; e che una volta persa la battaglia, seduto ingloriosamente tra i vostri agi, nella vostra comoda dimora (mentre Damiano, incoronato di glorie e orrori, arrancava e marciva in quel porcile sotto gli scogli di Kalawao) - voi, l’eletto che non avrebbe voluto, non abbiate pensato che eravate l’ultimo uomo della terra ad avere il diritto di raccogliere e far circolare pettegolezzi sul volontario che volle e fece. Se vi foste trovato là, avreste trovato che un viso su quattro era una macchia confusa nel paesaggio; se aveste visitato l’ospedale e visto tronchi di esseri umani giacere là quasi irriconoscibili, ma ancora con il respiro, con il pensiero e la memoria; avreste allora compreso che la vita nel lazzaretto mette a dura prova i nervi di un uomo, come quando l’occhio umano rifugge i raggi splendenti del sole; avreste capito che, ancora oggi, quello è un luogo che suscita commozione nel visitatore ma è un inferno per colui che ci vive. Voi dite che Padre Damiano era volgare. Probabile, ma abbiamo dei dubbi sul fatto che Giovanni Battista fosse un signore; Pietro forse non era un gentiluomo, ma anche nelle Bibbie protestanti viene chiamato santo. Voi dite che era un bigotto. Ma che cosa 44
significa essere bigotti e perché dovrebbe essere un difetto per un prete? Damiano credeva nella sua religione con la semplicità di un contadino o di un bambino. La cosa interessante di Damiano è che la sua fede rigorosa e profonda, furono una potenza al servizio del bene, tale da rafforzarlo e farlo diventare uno degli eroi e degli esempi di questo mondo. Se invece questo mondo vi ricorderà, il giorno in cui Damiano di Molokai verrà proclamato santo, sarà in virtù di una sola opera: la vostra lettera diffamatoria al reverendo H.B. Gage. L’uomo che cercò di fare ciò che fece Damiano – conclude Stevenson – è mio padre, è il padre di tutti coloro che amano il bene; ed è stato anche vostro padre, se Dio vi avesse fatto la grazia di capirlo». Un attacco tanto diretto al reverendo Hyde poteva causare seri problemi legali a Stevenson, ma egli, per amore della Verità, decise di rischiare, stampando a sue spese il singolare libretto pieno di ammirazione per quel coraggioso missionario cattolico. 45
La stima di Gandhi e Jagadisan Anche il Mahatma Gandhi fu folgorato dall’esempio di padre Damiano. Lo citò come fonte d’ispirazione per le sue campagne sociali in India che condussero alla libertà della sua gente. «La politica e il mondo del giornalismo - scrisse - possono vantare eroi, ma pochi possono essere paragonati a padre Damiano di Molokai». Il prof. Jagadisan, docente di letteratura inglese all’università di Annamalai, affermò: «È stato solo dopo la morte di Damiano che il mondo si è veramente risvegliato alle necessità degli ammalati di lebbra in tutto il mondo. Attraverso il suo lavoro, la bellezza è cresciuta dove c’era squallore, la speranza dove c’era disperazione, la vita al posto della morte... Nella lunga storia della lebbra, e forse dell’umanità stessa, non c’è niente di più commovente, di più eroico, e allo stesso tempo di più semplice della storia di padre Damiano. La sua vita è un lungo miracolo e il suo lavoro un unico esempio della santificazione dello sforzo umano». 46
Bibliografia Jan De Volder, San Damiano di Molokai, San Paolo Salvatore Cossu, Padre Damiano, Paoline Antonio Sicari, Il quarto libro dei ritratti di santi, Jaca B. Steven Debroey, Noi lebbrosi, Ancora Robert Stevenson, In difesa di Padre Damiano, Medusa Preghiera Signore insegnaci a non amare noi stessi, a non amare soltanto i nostri, a non amare soltanto quelli che amiamo. Insegnaci a pensare agli altri, ad amare quelli che nessuno ama. Signore, facci soffrire della sofferenza altrui. Facci la grazia di capire che ad ogni istante, mentre noi viviamo una vita troppo felice, protetta da Te, ci sono milioni di esseri umani, che sono pure tuoi figli e nostri fratelli, che soffrono senza averlo meritato. Abbi pietà dei lebbrosi, ai quali Tu così spesso hai sorriso quand’eri su questa terra; pietà dei milioni di lebbrosi, che tendono verso la tua misericordia le mani senza dita, le braccia senza mani... E perdona a noi di averli, per una irragionevole paura, abbandonati. E non permettere più, Signore, che noi viviamo felici da soli. Facci sentire l’angoscia della miseria universale, e liberaci da noi stessi. Così sia! (Raoul Follereau)
47
BENEDIZIONE DELLA FAMIGLIA Pace a questa casa e ai suoi abitanti. R. Ora e sempre. Amen. Gesù disse a Zaccheo: «Scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». In fretta scese e lo accolse pieno di gioia. Preghiamo insieme Dio nostro Padre, perché ravvivi in questa famiglia la grazia della vocazione cristiana. R. Resta con noi, Signore. - Raccogli la nostra famiglia nel vincolo del tuo amore - Suscita in noi un amore forte e personale per Cristo - Donaci fame e sete della tua parola - Custodisci nei giovani il dono della fede Ora preghiamo come il Signore Gesù ci ha insegnato: Padre nostro... Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, manda dal cielo il tuo angelo che visiti, conforti, difenda, illumini e protegga questa casa e i suoi abitanti; da’ salute, pace, prosperità e custodisci tutti nel tuo amore. A te onore e gloria nei secoli. Per Cristo nostro Signore. R. Amen. Ravviva in noi, Signore, nel segno di quest’acqua benedetta, il ricordo del Battesimo e l’adesione a Cristo Signore, crocifisso e risorto per la nostra salvezza. R. Amen. Dio vi riempia di ogni gioia e speranza nella fede. La pace di Cristo regni nei vostri cuori. Lo Spirito Santo vi dia l’abbondanza dei suoi doni. R. Amen.