Chesterton - Eretici

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To my father


© Centro Missionario Francescano Piazza Gallo, 10 - Osimo (AN) laperlapreziosa@libero.it - tel. 333 4165150 Tipografia Casa Editrice Guerrino Leardini Macerata Feltria (PU) © Su concessione di Edizioni Piemme spa, Milano

A cura di fra Roberto Brunelli (Il Patriota Cosmico) Introduzione: Marco Sermarini (L’Uomo Vivo) Traduzione: Pietro Ferrari Disegno di copertina: G.K. Chesterton Revisione: Patrizia Usai (La Moglie di Gilbert)


Gilbert Keith Chesterton

Eretici

JOHN LANE COMPANY LONDON 1905 Casa Editrice Guerrino Leardini Centro Missionario Francescano SocietĂ Chestertoniana Italiana

MACERATA FELTRIA 2014


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CAPITOLO I

Osservazioni preliminari sull'importanza dell'ortodossia Nulla indica più sorprendentemente un male enorme e silenzioso nella società moderna dell’uso straordinario che si fa oggi della parola «ortodosso». Un tempo, l’eretico era fiero di non essere un eretico. Eretiche erano le sfere del mondo, e della polizia, e dei giudici. Lui era ortodosso, né nutriva alcun orgoglio per essersi ribellato contro di loro: erano loro che si erano ribellate contro di lui. Gli eserciti con la loro crudele sicurezza, i re con le loro gelide facce, i decorosi procedimenti dello Stato, i ragionevoli procedimenti della legge: tutti, come pecorelle, si erano smarriti. Lui era fiero di essere ortodosso, fiero di essere nel giusto. Se mai se ne stava solo in una selvaggia landa ululante, era più di un uomo: era una chiesa. Era il centro dell’universo, e intorno a lui ruotavano le stelle. Tutte le torture strappate da inferni dimenticati non avrebbero potuto indurlo ad ammettere di essere un eretico. Ma alcune frasi moderne l’hanno spinto a gloriarsene. «Immagino di essere parecchio eretico», dice con una timida risata, e si volge intorno in cerca di applausi. La parola «eresia», non solo non significa più essere nel torto, ma significa, in sostanza, essere lucidi e coraggiosi. La parola «ortodossia», non solo non significa più essere nel giusto, ma significa, in sostanza, essere nel torto. Tutto ciò può significare una e una sola cosa. Significa che le persone badano meno alla correttezza della loro filosofia. Poiché, ovviamente, un uomo dovrebbe riconoscersi pazzo, prima di riconoscersi eretico. Il bohémien, con la sua cravatta rossa, dovrebbe farsi un vanto della sua ortodossia. Il dinamitardo, nell’atto di mettere una bomba, dovrebbe sentire che, qua­lunque altra cosa sia, perlomeno è ortodosso. In via generale, è sciocco che un filosofo appicchi il fuoco a un altro filosofo in Smithfield Market1 perché i due sono in disaccordo sulla rispettiva teoria dell’universo. La cosa acca­deva assai di frequente nell’estrema decadenza del Medioevo e fallì per intero nel suo obiettivo. Ma c’è una cosa infinita­mente più assurda e meno pratica che bruciare un uomo per le sue convinzioni filosofiche, 5


ossia, affermare che la sua fi­losofia non ha importanza, come si fa universalmente nel ventesimo secolo, nella decadenza del grande periodo rivolu­zionario. Le teorie generali sono disprezzate ovunque; la dottrina dei diritti dell’uomo è accantonata con la dottrina della caduta dell’uomo. Lo stesso ateismo, oggi, sa troppo di teologia per noi. La stessa Rivoluzione somiglia troppo a un sistema; la libertà stessa è una costrizione eccessiva. Noi non possediamo alcuna teoria generale. Il signor Ber­nard Shaw ha espresso questo punto di vista in un perfetto epigramma: «La regola aurea è che non c’è alcuna regola au­rea». Siamo sempre più inclini a discutere i particolari nell’arte, nella politica e nella letteratura. L’opinione di un uo­mo sui tram ha importanza; la sua opinione su Botticelli ha importanza; la sua opinione su tutte le cose non ha impor­tanza. Egli può rivoltare ed esplorare un milione di oggetti, ma non deve scoprire quello strano oggetto, l’universo; poi­ché se lo farà, avrà una religione, e sarà perduto. Tutto con­ta, salvo che il tutto. E’ quasi inutile portare esempi di questa assoluta leggerez­za in merito alla filosofia cosmica. È quasi inutile portare esempi per dimostrare come, per quanto attribuiamo una qualche influenza sugli affari pratici a qualunque altra cosa, noi non pensiamo che importi se un uomo sia ottimista o pessimista, cartesiano o hegeliano, materialista o spirituali­sta. Permettetemi, tuttavia, di scegliere un esempio a caso. Non è difficile, intorno a un qualunque innocente tavolo da tè, sentire osservare da qualcuno: «La vita non vale la pe­na di essere vissuta». Noi consideriamo quelle parole non di­versamente dall’affermazione che è una bella giornata; nes­suno pensa che possano avere un qualche serio effetto sul­l’uomo o sul mondo. Eppure, se si prestasse veramente fede a quella dichiarazione, il mondo si ritroverebbe capovolto. Gli assassini riceverebbero medaglie per avere salvato degli uomini dalla vita; i vigili del fuoco sarebbero denunciati per avere preservato degli uomini dalla morte; i veleni sareb­bero usati come medicine; i medici verrebbero chiamati quan­do le persone stessero bene; la Royal Humane Society sa­rebbe sradicata come un’orda di assassini. Eppure, non ci domandiamo mai se il pessimista da salotto rafforzerà o di­sorganizzerà la società; poiché siamo convinti che le teorie non abbiano importanza. Di certo, non era questa l’idea di coloro che introdussero la nostra 6


libertà. Quando i vecchi liberali tolsero il bavaglio a tutte le eresie, la loro idea era che così sarebbero divenute possibili nuove acquisizioni religiose e filosofiche. La loro opinione era che la verità cosmica fosse così importante, che ognuno avrebbe dovuto recare una testimonianza indi­pendente. L’idea moderna è che la verità cosmica sia di così scarso peso, che nulla di quanto chiunque dica, può avere alcuna importanza. La prima liberò l’indagine così come gli uomini sciolgono un nobile segugio; la seconda libera l’in­dagine così come gli uomini rilanciano nel mare un pesce non commestibile. Mai c’è stata così poca discussione sulla natura dell’uomo come nella nostra epoca, ora che, per la prima volta, chiunque può discuterne. L’antica restrizione implicava che solo gli ortodossi avessero diritto a discutere della religione. La libertà moderna implica che nessuno ha il diritto di discuterne. Il buon gusto, l’ultima e la più vile tra le superstizioni umane, è riuscito a tacitarci dove tutto il re­sto ha fallito. Sessant’anni fa, era di cattivo gusto essere un ateo professo. Poi vennero i seguaci di Bradlaugh2, gli ultimi uomini religiosi, gli ultimi uomini che si curavano di Dio; ma neppure loro poterono mutare il fatto. Ancora oggi, essere un ateo professo è di cattivo gusto. Ma la loro lotta disperata ha ottenuto solo questo, che oggi è egualmente di cattivo gu­sto essere un cristiano professo. L’emancipazione ha solo se­gregato il santo nella torre del silenzio insieme all’eresiarca. Così, parliamo di Lord Anglesey3 e del tempo, e definiamo questa pratica come la completa libertà di tutte le credenze. Alcune persone, nondimeno, e io fra queste, pensano che il lato più importante e squisitamente pratico di un uomo sia la sua visione dell’universo. Noi pensiamo che, per una pa­drona di casa, sia importante, nella valutazione di un inqui­lino, conoscerne il reddito, ma ancora più importante cono­scerne la filosofia. Pensiamo che, per un generale sul punto di affrontare un nemico, sia importante conoscerne le forze, ma ancora più importante conoscerne la filosofia. Pensiamo che la questione non sia se la teoria del cosmo influenzi le faccende umane, ma se, su un lungo periodo, un qualunque altro elemento eserciti una qualche influenza. Nel quindice­simo secolo, un uomo poteva essere interrogato e torturato perché predicava una qualche concezione immorale; nel di­ciannovesimo secolo, abbiamo festeggiato e adulato Oscar Wilde perché predicava una concezione 7


del genere e poi gli abbiamo spezzato il cuore riducendolo ai lavori forzati perché l’aveva messa in pratica. Può esservi questione su quale dei due metodi fosse il più crudele; non può esservi alcuna questione su quale fosse il più ridicolo. L’epoca del­l’Inquisizione, perlomeno, non ha il disonore di avere pro­dotto una società che ha fatto un idolo di un uomo per aver predicato le idee che, da lui messe in pratica, ne hanno fatto un carcerato. Ora, nel nostro tempo, la filosofia o la religione, la nostra teoria, cioè, sulle cose ultime, è stata cacciata, più o meno si­multaneamente, da due campi che una volta occupava. Le idee generali dominavano la letteratura. Ne sono state cac­ciate dal proclama «l’arte per l’arte». Le idee generali una volta dominavano la politica. Ne sono state cacciate dal pro­clama della «efficienza», che si può tradurre all’incirca come «la politica per la politica». Negli ultimi vent’anni, gli ideali di ordine o libertà si sono costantemente affievoliti nei nostri libri; le aspirazioni all’arguzia e all’eloquenza si sono affievo­ lite nei nostri parlamenti. La letteratura, di proposito, ha at­tenuato i suoi accenti politici; la politica, di proposito, ha at­tenuato i suoi accenti letterari. Così, da entrambe, sono state escluse le teorie generali sulla relazione delle cose; e noi a buon diritto possiamo domandare: «Che cosa abbiamo gua­dagnato o perduto da questa esclusione? Forse che la lette­ratura, o la politica, è migliore, perché ha così messo da can­to il moralista e il filosofo?». Quando tutto, nella sua identità, sta diventando debole e inadeguato, un popolo incomincia a parlare di efficienza. Così, un uomo, quando il suo corpo è un relitto, incomincia per la prima volta a parlare di salute fisica. Gli organismi vi­gorosi non parlano dei loro processi, ma dei loro scopi. Un uomo non può dare prova migliore della sua efficienza fisica, che parlando allegramente di un viaggio in capo al mondo. E una nazione non può dare prova migliore della sua efficienza pratica, che parlando costantemente di un viaggio in capo al mondo, un viaggio fino al Giorno del Giudizio e alla Nuova Gerusalemme. Non può esserci segno più forte di una salute gagliarda, della tendenza a inseguire alti e folli ideali; é nella prima esuberanza infantile, che noi chiediamo la luna. Nessuno degli uomini forti nelle epoche forti avrebbe compreso che cosa intendete adoperandovi per l’efficienza. Ildebran­do4 avrebbe detto 8


che si adoperava, non per l’efficienza, ma per la Chiesa cattolica. Danton5 avrebbe detto che si adoperava, non per l’efficienza, ma per la libertà, l’egua­glianza e la fraternità. Quegli uomini, anche se il loro ideale fosse stato semplicemente di buttare un uomo giù per le sca­le a calci, avrebbero pensato allo scopo come uomini, non al procedimento come paralitici. Non dicevano: «Con un’effi­ciente sollevazione della mia gamba destra, e usando, note­rete, i muscoli della coscia e del polpaccio, che sono in con­dizioni eccellenti, io...». La loro disposizione era del tutto diversa. Così colmi si sentivano per la splendida visione del­l’uomo che giaceva lungo disteso ai piedi delle scale, che il resto, in quell’estasi, seguiva in un lampo. Nella pratica, l’a­bitudine di generalizzare e idealizzare non implicava alcuna debolezza temporale. L’epoca delle grandi teorie era l’epo­ca dei grandi risultati. Nell’epoca dei sentimenti e delle belle parole, alla fine del diciottesimo secolo, gli uomini erano ve­ramente vigorosi e capaci. I sentimentali vinsero Napoleo­ne. I cinici non hanno saputo catturare De Wet6. Cento an­ni fa, i retori conducevano trionfalmente i nostri affari per il meglio o per il peggio. Ora, gli uomini forti e silenziosi li riducono a un guazzabuglio senza speranza. Ed esattamente come ha generato una razza di ometti in politica, così que­sto ripudio delle grandi parole e delle grandi visioni ha ge­nerato una razza di ometti nelle arti. I nostri moderni poli­tici reclamano la colossale licenza di Cesare e del superuomo, dichiarano di essere troppo pratici per essere puri e troppo patrioti per essere morali; ma l’esito di tutto questo è che una mediocrità ricopre la carica di Cancelliere dello Scacchiere. I nostri nuovi filosofi‑artisti invocano la stessa licenza morale, la libertà di abbattere cielo e terra con la lo­ro energia; ma l’esito di tutto questo è che una mediocrità ha il titolo di Poeta Laureato7. Io non dico che non ci siano uomini più vigorosi di questi; ma c’è qualcuno per dire che ci siano uomini più vigorosi di quei predecessori dominati dalla loro filosofia e imbevuti della loro religione? Che l’as­servimento sia meglio della libertà può essere argomento di discussione. Ma difficilmente chiunque potrà negare che il loro asservimento abbia portato a maggiori frutti della no­stra libertà. La teoria dell’amoralità dell’arte si è saldamente affermata negli ambienti più strettamente artistici. I loro membri sono liberi di 9


produrre qualunque opera desiderino. Sono liberi di scrivere un Paradiso perduto in cui Satana vinca Dio. Sono liberi di scrivere una Divina Commedia in cui il cielo si trovi sotto il fondo dell’inferno. E che cosa hanno fatto? Hanno prodotto, nella loro totalità, qualcosa di più grandioso o più bello dei versi espressi dal fiero ghibellino cattolico8, dal rigido professore puritano9? Noi sappiamo che hanno prodotto solo pochi rondelli. Milton non li supera solo per la sua pietà, ma li supera nella loro stessa irriverenza. In tutti i loro libriccini di versi non troverete una più bella sfida a Dio che quella di Satana. Né troverete la grandezza del pa­ganesimo sentita con l’intensità di quel fiero cristiano che descrisse Faranata10 mentre leva la sua testa come a sdegno dell’inferno. E il motivo è quanto mai evidente. L’empietà è un effetto artistico in quanto dipende da una convinzione fi­losofica. L’empietà dipende dalla fede, e sbiadisce di conser­va. Se qualcuno ne dubita, si sieda in tutta serietà a concepi­re pensieri blasfemi su Thor. Credo che i suoi familiari lo troveranno alla fine della giornata in preda a un certo esau­rimento. Né nel mondo della politica, né in quello della letteratura, dunque, il rifiuto delle teorie generali si è rivelato un succes­so. Può darsi che ci siano stati troppi ideali balzani e fuorvian­ti che, di tanto in tanto, hanno sconcertato il genere umano. Ma di sicuro non c’è stato nessun ideale, nella pratica, così balzano e fuorviante come l’ideale della praticità. Nulla ha comportato la perdita di così tante opportunità come l’op­portunismo di Lord Rosebery11. Davvero, egli è un simbolo permanente della nostra epoca, l’uomo che, in teoria, è un uomo pratico e, in pratica, è meno pratico di qualunque teo­rico. Un uomo che riflette di continuo se questa o quella raz­za è forte, se questa o quella causa è promettente, è l’uomo che non crederà mai in questa o quella cosa abbastanza a lun­go da farla accadere. Il politico opportunista è come un uomo che debba abbandonare i biliardi perché è stato sconfitto al biliardo e abbandonare il golf perché è stato sconfitto al golf. Non c’è nulla di così malsicuro ai fini operativi, come questa enorme importanza attribuita alla vittoria immediata. Non c’è nulla che rechi il fallimento come il successo. E avendo scoperto che l’opportunismo fallisce, io sono stato indotto a considerarlo più estesamente e, di conseguen­za, a vedere come debba inevitabilmente fallire. Io mi rendo conto che è assai più 10


pratico cominciare dal principio e di­scutere le teorie. Io vedo che gli uomini che si uccisero per l’ortodossia dell’Omousion12 erano assai più ragionevoli delle persone che stanno litigando per l’Education Act13. Perché i dogmatisti cristiani stavano cercando di fondare un regno di sacralità e di definire, prima di tutto, che cosa fosse veramente sacro. Ma i nostri moderni fautori dell’istru­zione stanno cercando di introdurre una libertà religiosa sen­za preoccuparsi di stabilire che cosa sia la religione o che co­sa sia la libertà. Se gli antichi sacerdoti imponevano un’asser­zione al genere umano, prima si davano qualche pena, per­lomeno, di renderla perspicua. Alle moderne marmaglie di anglicani e nonconformisti14 è stato lasciato di perseguitare in nome di una dottrina senza neppure precisarla. Per questi motivi, e per molti altri, io personalmente sono giunto a credere nella necessità di tornare alle questioni fon­damentali. Questa è l’idea generale del presente libro. Io vo­glio dibattere con i miei più illustri contemporanei, non da un punto di vista personale o meramente letterario, ma in re­lazione al vero corpo della dottrina che insegnano. Io non prendo in considerazione il signor Rudyard Kipling come un vivido artista o una personalità vigorosa; io lo prendo in considerazione come un eretico, vale a dire, come un uo­ mo la cui visione delle cose ha l’audacia di differire dalla mia. Io non prendo in considerazione il signor Bernard Shaw come uno dei più geniali e più onesti uomini viventi; io lo prendo in considerazione come un eretico, vale a dire, come un uomo la cui filosofia è quanto mai solida, quanto mai coe­rente, e quanto mai infondata. Io ritorno ai metodi dottrinali del tredicesimo secolo, ispirato dalla speranza complessiva di giungere a qualcosa. Supponiamo che, nella strada, insorga un vasto tumulto, diciamo, per un lampione a gas che diverse persone influenti desiderano abbattere. Interpellato sull’argomento, un mona­co grigiovestito, che è lo spirito del Medioevo, incomincia a dire, nello stile arido degli scolastici: «Consideriamo, prima, fratelli miei, il valore della Luce. Se la Luce, in sé, sia un be­ne...». A questo punto, non senza qualche giustificazione, lo rovesciano a terra. Tutta la gente si precipita verso il lampio­ne, il lampione, entro dieci minuti, è al suolo, e tutti quanti vanno in giro congratulandosi per la loro praticità anti‑me­dievale. Ma, col prosieguo del tempo, le cose non vanno così lisce. Alcuni 11


hanno abbattuto il lampione perché volevano la luce elettrica; altri perché volevano il ferro di una volta; altri ancora perché volevano il buio, dato che le loro azioni erano malvagie. Alcuni ritenevano che quello non fosse a sufficien­za un lampione; altri ritenevano che lo fosse in misura ecces­siva; alcuni hanno agito perché volevano distruggere gli im­pianti del comune; altri perché volevano distruggere qualco­sa. E, nella notte, sopravviene la guerra, dove nessuno sa chi colpisce. Così, a poco a poco, e inevitabilmente, quel giorno, o all’indomani, o il giorno dopo ancora, ritorna la convinzio­ ne che il monaco, dopo tutto, avesse ragione, e che tutto di­penda da quale sia la filosofia della Luce. Salvo che ciò che avremmo dovuto discutere sotto il lampione a gas, ora dob­biamo discuterlo al buio. 1) Il mercato centrale della carne a Londra. 2) Charles Bradlaugh (1833‑1891) condusse una lunga campagna per il libero pensiero e contro la religione, conquistando il diritto di sedere in Parlamento senza giurare sulla Bibbia. 3) Il primo marchese di Anglesey, morto nel 1854, comandante della cavalleria alleata a Waterloo. 4) San Gregorio VII, uno dei più grandi pontefici medievali, occupò il Soglio di San Pietro dal 1073 al 1085, opponendosi con vigore alle degenerazioni della Chie­sa e difendendo le prerogative papali. 5) George Jacques Danton (1759‑1794), uno degli esponenti di spicco della Rivoluzione Francese, entrò in conflitto con Robespierre e andò alla ghigliottina nel 1794. 6) Christian Rudolph de Wet (1854‑1922), generale boero, ottenne grandi successi nella guerriglia contro gli inglesi, come narrò in The Three Years’ War (1902). 7) Carica onorifica tradizionalmente assegnata dal sovrano inglese. (N.d.T) 8) Nel tardo Medioevo, i guelfi costituirono il partito del papa, i ghibellini, quel­lo dell’imperatore. La definizione di Chesterton sembra paradossale, dato che Dan­te, un guelfo bianco, fu multato e cacciato in esilio da Firenze quando i guelfi neri presero il sopravvento nella città, ma è una buona definizione del poeta nei suoi ultimi anni. 9) Milton non era un professore nel senso comune del termine; fu, bensì, precet­tore dei due figli di sua sorella e, come dimostra il suo trattato Of Education, do­vette essere un insegnante assai esigente. 10) La grafia di Chesterton, ovviamente, è errata. Nel canto X dell’Inferno, Dan­te incontra Farinata degli Uberti, capo dei ghibellini di Firenze e, dopo 12


la condanna all’esilio, vincitore dei guelfi suoi concittadini, sorpresi dal suo esercito in un’imbo­scata nel 1260. 11) Il quinto conte di Rosebery (1847‑1929) successe a Gladstone come primo ministro nel 1894, ma fu costretto a dimettersi nel 1895 da una spaccatura nel suo partito. Come esponente di punta dei liberali imperialisti, Rosebery aveva una posizione diametralmente opposta a quella di Chesterton. Nel 1905, si ritirò dalla politica, quando Sir Henry Campbell‑Bannerman, un altro liberale, fu scelto come primo ministro. 12) Alla lettera, «stessa sostanza»; un termine usato per esprimere il dogma se­condo cui l’essenza o sostanza di Dio è la stessa nel Padre e nel Figlio. L’opportu­nità del termine fu oggetto di feroce contesa nel quarto secolo. 13) Una legge del 1902 che stabiliva un vasto regime di autonomie locali per l’i­struzione elementare e superiore. Il provvedimento ebbe un iter lungo e tempestoso in Parlamento. 14) Sette dissenzienti dalla Chiesa anglicana. (N.d.T.)

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CAPITOLO II

Sullo spirito negativo Molto si è detto, e con ragione, sulla morbosità dei monaci, sull’isterismo che spesso si è accompagnato alle visioni di eremiti e di monache. Ma non dobbiamo mai dimenticare che, in un certo senso, questa religione visionaria è di neces­sità più sana della nostra moderna e ragionevole morale. E’ più sana per questo motivo, che può contemplare l’idea del successo o del trionfo nella lotta senza speranza verso l’i­deale etico, in quella che Stevenson, con la sua consueta, sor­prendente felicità, ha definito «la battaglia perduta della vir­tù»1. Una morale moderna, dal canto suo, può solo indicare con assoluta convinzione gli orrori che seguono alle infrazio­ni alla legge; la sua sola certezza è la certezza del male. Può solo indicare l’imperfezione. Non ha alcuna perfezione da in­dicare. Ma il monaco che medita su Cristo o Buddha, possie­de, nella sua mente, un’immagine di perfetta salute, un’entità di colori chiari e d’aria pura. Egli potrà forse contemplare questa interezza e felicità ideale per più tempo di quanto do­vrebbe; potrà contemplarle fino a trascurare o escludere co­se essenziali; potrà contemplarle fino a divenire un sognatore o un babbeo, ma saranno pur sempre l’interezza e la felicità che si troverà a contemplare. Potrà perfino diventare pazzo; ma lo diventerà per amore della sanità mentale. Il moderno studioso dell’etica, invece, anche se rimane sano, rimane sa­no per un’insana paura dell’insanità. L’anacoreta che si rotola sulle pietre in un parossismo di sottomissione, fondamentalmente è una persona più sana di molti uomini savi con il cilindro, che scendono per Cheapsi­de2. Perché molti fra questi sono buoni solo per una sterile conoscenza del male. A questo punto, non sto attribuendo al devoto nulla più di un basilare vantaggio: ossia che, per quanto possa farsi personalmente debole e misero, fissa lo stesso largamente i suoi pensieri su una gigantesca forza e felicità, su una forza che non ha limiti e una felicità che non ha fine. Indubbiamente, altre obiezioni si potrebbero sollevare plausibilmente contro l’influenza degli dei e delle visioni sulla morale, sia nelle celle, sia per le strade. Ma alla morale del mistico 14


apparterrà sempre questo vantaggio: è più allegra. Un giovanotto può astenersi dal vizio pensando continuamente alla malattia. O potrà anche astenersene pen­sando di continuo alla Vergine Maria. Potrà esservi questio­ne su quale metodo sia il più ragionevole o, anche, il più ef­fi cace. Ma di sicuro non può esservi questione su quale sia il più sano. Io ricordo un saggio di quel valente e convinto laicista, il signor G.W. Foote, in cui compariva una frase che simboleg­giava e divideva nitidamente questi due metodi. Il saggio s’intitolava Beer and Bible, quelle due nobilissime cose, tanto più nobili per un connubio che il signor Foote, nel suo anti­quato e severo atteggiamento puritano, sembrava ritenere sarcastico, ma che io confesso di trovare appropriato e sedu­cente. Non ho quell’opera a portata di mano, ma ricordo che il signor Foote liquidava con grande spregio qualunque ten­tativo di affrontare il problema dell’alcolismo per mezzo di uffici o intercessioni religiose, dicendo che l’immagine del fegato di un bevitore sarebbe stata più efficace, dal punto di vista della temperanza, di qualunque lauda o preghiera. In quella pittoresca proposizione, mi sembra, s’incarna per­fettamente l’incurabile morbosità dell’etica moderna. In quel tempio le luci sono basse, le folle si inginocchiano e si levano gli inni solenni. Ma quella sull’altare davanti a cui tutti gli uomini si inginocchiano, non è più la carne perfetta, il corpo e la sostanza dell’uomo perfetto; è pur sempre carne, ma una carne malata. È il fegato del bevitore del Nuovo Testamento, deteriorato per noi, che noi assumiamo in sua memoria. Ora, è questo grande vuoto nell’etica moderna, l’assenza di vivide immagini di purezza e trionfo spirituale, che sta dietro alla vera obiezione concepita da tanti uomini assennati verso la letteratura realistica del diciannovesimo secolo. Se un qualunque uomo comune avesse detto di essere inorridi­to per gli argomenti trattati nelle opere di lbsen o Maupas­sant, o dal franco linguaggio impiegato, quel tale avrebbe mentito. La conversazione media delle persone medie in tut­ta la civiltà moderna, in ogni classe o professione, è tale che Zola non si sarebbe mai sognato di stamparla. Né l’abitudine di scrivere di queste cose è una novità. Al contrario, sono la pruderie e il silenzio vittoriano, che sono ancora nuovi, benché già stiano sparendo. La tradizione di dire pane al pane inizia 15


assai presto nella nostra letteratura e declina tardi. Ma la verità è che il comune onest’uomo, qualunque vaga spiegazione abbia dato dei suoi sentimenti, non era disgusta­to o neppure infastidito dalla schiettezza dei moderni. Ciò che lo disgustava, e del tutto a ragione, non era la presenza di un chiaro realismo, ma l’assenza di un chiaro idealismo. Il forte e genuino sentimento religioso non ha mai avuto alcuna obiezione al realismo; al contrario, la religione era senza meno realistica e brutale, la prima nel rovesciare insulti. Questa è la grande differenza tra certi recenti sviluppi del noncon­formismo e il grande puritanesimo del diciassettesimo seco­lo. La caratteristica essenziale dei puritani era che non si curavano affatto della decenza. I moderni giornali nonconfor­misti si distinguono sopprimendo proprio quei nomi e agget­tivi per cui i fondatori del nonconformismo si distinguevano, lanciandoli contro re e regine. Ma se uno tra i vanti princi­pali della religione è stato di parlare francamente del male, il suo vanto principale è che parlava francamente del bene. Ciò che suscita indignazione, e a mio parere, una giusta in­dignazione, nella grande letteratura moderna di cui lbsen è un tipico rappresentante, è la circostanza che, mentre l’oc­chio capace di percepire cosa sia sbagliato accresce la sua misteriosa e divorante chiarezza, l’occhio che vede cosa è giusto diventa sempre più nebuloso di momento in momen­to, fino a restare quasi completamente accecato dal dubbio. Se confronteremo, per esempio, la morale della Divina Com­ media con la morale degli Spettri di Ibsen, vedremo tutto ciò che in realtà ha fatto l’etica moderna. Nessuno, immagino, accuserà l’autore dell’Inferno di una precoce verecondia vit­toriana o di un ottimismo podsnapiano3. Ma Dante descrive tre strumenti morali, il paradiso, il purgatorio e l’inferno: la visione della perfezione, del miglioramento e del disastro. Ibsen ne ha solo uno, l’inferno. Spesso si dice, e con assoluta verità, che nessuno potrebbe leggere un dramma come gli Spettri e rimanere indifferente alla necessità di un autocon­trollo etico. Un’affermazione del tutto vera, e lo stesso va detto delle più mostruose e concrete descrizioni del fuoco eterno. È più che certo che realisti come Zola, in un certo senso, favoriscono la morale, ovvero, la favoriscono nel senso in cui la favorisce il boia, nel senso in cui la favorisce il de­monio. Ma essi influenzano solo quella piccola minoranza che accetterà una qualunque virtù solo fino a che 16


noi non le chiederemo la virtù del coraggio. La maggior parte delle persone sane non tiene in conto questi pericoli morali, così come non tiene in conto la concreta eventualità delle bombe o dei batteri. I moderni realisti sono, in effetti, altrettanti Terroristi, al pari dei dinamitardi; e conoscono un eguale fal­limento nel loro sforzo di creare sensazione. Sia i realisti, sia i dinamitardi sono persone ben intenzionate, intese al compi­to, così palesemente e intimamente disperato, di usare la scienza per favorire la morale. Io non voglio che il lettore mi scambi, neppure per un momento, con le persone confuse che vedono in Ibsen quel­lo che chiamano un pessimista. In Ibsen, c’è una quantità di persone sane, una quantità di persone buone, una quantità di persone felici, una quantità di esempi di uomini che agi­scono saggiamente e di vicende che finiscono bene. Non è questo ciò che intendo. Ciò che intendo è che Ibsen, in tutta la sua opera, presenta, e non dissimula, una certa vaghezza e un atteggiamento mutevole, al pari di un atteggiamento du­bitoso verso ciò che è realmente la saggezza e la virtù nella vita ‑ una vaghezza che contrasta nettamente con la decisio­ne mostrata nel balzare su un aspetto che percepisce come una radice del male, una qualche convenzione, un qualche inganno, una qualche dose d’ignoranza. Noi sappiamo che l’eroe degli Spettri è pazzo, e sappiamo perché è pazzo. Sap­piamo anche che il dottor Stockman è sano di mente; ma non sappiamo perché sia sano di mente. Ibsen non dichiara di sapere come si ingenerino la virtù e la felicità, nel senso che dichiara di sapere come si ingenerino le nostre moderne tragedie sessuali. La falsità opera la rovina nei Pilastri della società, ma la verità opera un’eguale rovina nell’Anatra selva­tica. Non ci sono virtù cardinali dell’ibsenismo. Non c’è al­cun uomo ideale in Ibsen. Tutto questo non solo è ricono­sciuto, ma esaltato nel più raro e meditato elogio di Ibsen, la «Quintessenza dell’ibsenismo» del signor Bernard Shaw. Il signor Shaw riassume l’insegnamento di Ibsen nella frase: «La regola aurea è che non c’è alcuna regola aurea». Ai suoi occhi, questa assenza di un ideale durevole e positivo, questa assenza di una chiave permanente alla virtù, è il grande me­rito di Ibsen. Io non intendo discutere ora, più o meno estesamente, se sia o non sia vero. Tutto ciò che mi spingo a ri­levare, con accresciuta fermezza, è che questa omissione, buona o cattiva che sia, ci lascia faccia a 17


faccia con il proble­ma di una coscienza umana colmata di immagini assai preci­se del male e senza alcuna immagine precisa del bene. Per noi, d’ora in avanti, la luce deve essere la cosa oscura, la cosa di cui non possiamo parlare. Per noi, come per i diavoli di Milton a Pandemonium4, è la tenebra che è visibile. Secondo la religione, la razza umana, una volta, cadde, e cadendo, ac­quisì la conoscenza del bene e del male. Ora noi siamo cadu­ti una seconda volta, e ci rimane solo la conoscenza del male. Un grande crollo silenzioso, un’enorme disillusione ine­spressa si sono abbattuti nel nostro tempo sulla nostra civiltà settentrionale. Tutte le età precedenti hanno sudato e sono state messe in croce nel tentativo di capire quale sia vera­mente la vita giusta, quale, veramente, l’uomo buono. Una parte precisa del mondo moderno è giunta fuor di questione a concludere che non c’è alcuna risposta a queste domande, che il massimo che possiamo fare è di apporre qualche car­tello di avvertimento nei posti dove il pericolo è evidente, mettere in guardia gli uomini, per esempio, contro il rischio di bere fino a morire, o d’ignorare la mera esistenza dei loro vicini. lbsen è il primo a tornare dalla vana caccia per recarci la notizia del grande fallimento. Ognuna delle frasi e delle idealità moderne più diffuse è un sotterfugio per schivare il problema di che cosa sia il be­ne. Noi amiamo parlare della «libertà»; questo, quando par­liamo dell’argomento, è un sotterfugio per evitare di discute­re che cosa sia il bene. L’uomo moderno dice: «Lasciamo da parte tutti questi criteri arbitrari e abbracciamo la libertà». Questo, tradotto in termini logici, equivale a: «Non decidia­mo che cosa sia il bene, ma diamo per assodato che sia bene non deciderlo». Egli dice: «Basta con le tue vecchie formule morali; io sono per il progresso». Questo, esposto in termini logici, significa: «Non stabiliamo che cosa sia il bene; ma sta­biliamo se ne stiamo ottenendo una porzione maggiore». Egli dice: «Le speranze delle generazioni future, amico mio, non risiedono né nella religione né nella morale, ma nel­l’istruzione». Questo, espresso chiaramente, significa: «Noi non possiamo decidere che cosa sia il bene, ma diamolo ai nostri figli». Il signor H.G. Wells, uomo di eccezionale perspicacia, ha rilevato, in un’opera recente, come tutto ciò sia avvenuto in correlazione 18


con le questioni economiche. Gli economisti di un tempo, dice, concepivano teorie generali, e queste (a suo modo di vedere) per lo più erano errate. Ma i nuovi econo­misti, dice, sembrano avere perso la capacità di concepire qualunque teoria generale. Ed essi coprono questa incapaci­tà con una pretesa diffusa a venire considerati, in casi speci­fici, come «esperti», una pretesa «abbastanza assennata in un parrucchiere o un medico alla moda, ma indecente in un filosofo o un uomo di scienza». Ma a dispetto della vivi­ficante lucidità con cui ci ha indicato il punto, bisogna anche dire che lo stesso signor Wells è incorso nel medesimo, enor­me errore moderno. Nelle pagine di apertura di quell’eccel­lente libro intitolato La formazione dell’umanità, mette in un canto gli ideali dell’arte, della religione, della morale astratta e così via, e asserisce che considererà gli uomini nella loro funzione precipua, la funzione parentale. Discuterà la vita come un «tessuto di nascite». Non domanderà che cosa produca santi soddisfacenti o soddisfacenti eroi, ma che cosa produrrà padri e madri soddisfacenti. L’insieme è presentato in modo così ragionevole, che ci vuole almeno un po’ di tem­po, prima che il lettore si renda conto che si tratta di un altro esempio di inconsapevole elusione. Quale bene può esservi nel mettere al mondo un uomo, fino a che non abbiamo sta­bilito qual è il bene insito nell’essere uomo? Voi state seplicemente affidando a quell’uomo un problema che non osate risolvere per conto vostro. È come se a una persona domandassero: «A che cosa serve un martello?» e quella rispondesse: «A fare martelli»; e quando le domandassero: «E quei martelli, a che cosa servono?», rispondesse: «A fare altri martelli». Esattamente come quel tale rinvierebbe eter­namente il problema dello scopo ultimo nella falegnameria, così il signor Wells e tutti noi, con queste frasi, stiamo rin­viando con successo il problema del valore ultimo nella vita umana. Davvero, il caso del tanto conclamato «progresso» è un esempio estremo. Come è enunciato oggi, il «progresso» è semplicemente un comparativo di cui non abbiamo stabilito il superlativo. Noi controbattiamo ogni ideale di religione, patriottismo, bellezza o piacere bruto con l’ideale alternativo del progresso, vale a dire, controbattiamo ogni proposta di ottenere qualcosa che conosciamo con una proposta alterna­tiva di ottenere un’assai maggiore quantità 19


di nessuno sa che cosa. Il progresso, correttamente inteso, ha, in realtà, un si­gnificato quanto mai dignitoso e legittimo. Ma usato in con­trasto con precisi ideali etici, è ridicolo. Così possiamo dire che, ben lungi dall’essere vera la giustapposizione fra l’ideale del progresso e la finalità etica o religiosa, è vero, invece, il contrario. Nessuno ha il diritto di usare la parola «progres­so» a meno che abbia un credo definito e un ferreo codice morale. Nessuno può essere progressista senza essere imbe­vuto di dottrina; potrei perfino dire che nessuno può essere progressista senza essere infallibile o, in ogni caso, senza cre­dere in una qualche sorta d’infallibilità. Poiché il progresso, per la sua stessa definizione, indica una direzione; e nel mo­mento in cui nutriamo un minimo dubbio sulla direzione, nutriamo un eguale dubbio sul progresso. Mai, forse, fin dal principio del mondo, c’è stata un’epoca che avesse meno di noi il diritto di usare la parola «progresso». Nel cattolico dodicesimo secolo, nel filosofico diciottesimo secolo, la dire­zione poteva essere giusta o sbagliata, ma tutti erano sostan­zialmente concordi al riguardo e, di conseguenza, avevano la genuina sensazione del progresso. Ma è proprio sulla direzione che noi dissentiamo. Se la futura eccellenza risieda in una normativa più estesa o più ristretta, in una maggiore o minore libertà; se la proprietà debba, alla fine, essere con­centrata o sminuzzata; se la passione sessuale raggiungerà il suo più alto grado di salute in un quasi virgineo intellettua­lismo o in una piena libertà animalesca; se dobbiamo amare tutti con Tolstoj, o scagliarci contro chiunque con Nietzsche: questi sono i punti su cui, in effetti, lottiamo con più accani­mento. Non è soltanto vero che l’epoca che ha meno chiara­mente definito cosa sia il progresso è quest’epoca «progres­sista». È vero, anche, che le persone che hanno meno chia­ramente definito che cosa sia il progresso sono le più «pro­ gressiste» di questo periodo. Noi possiamo, forse, confidare che la massa comune, gli uomini che non si sono mai preoccupa­ti del progresso, progrediscano. Quelle persone che parlano del progresso certamente spiccherebbero balzi fino al cielo nel momento in cui il colpo di pistola desse il via alla gara. Non dico, quindi, che la parola «progresso» non abbia sen­so; dico che non ha senso senza una precedente definizione della dottrina morale, e che può essere riferita solo a gruppi di persone che detengano quella dottrina in 20


comune. Pro­gresso non è una parola illegittima, ma è evidente, a lume di logica, che è illegittima per noi. È una parola sacra, una parola che potrebbe venire usata con diritto solo da inflessibili credenti e nelle epoche abitate dalla fede. 1) «Ancora oscuramente combattendo la battaglia perduta della virtù, ancora ag­grappandosi, nel bordello o sul patibolo, a qualche straccio di onore, il povero gioiello delle loro anime!», Robert Louis Stevenson («Pulvis et Umbra», in Across the Plains [Attraverso le pianure] 1892). 2) Una strada nella City (il quartiere finanziario) di Londra. 3) Il signor Podsnap, nel Nostro comune amico di Dickens, incarna la presunzione e l’autocompiacimento 4) L’«alta capitale di Satana e i suoi pari» nel Paradiso Perduto (I, 756) di Milton. Nell’Inferno, non c’è luce, ma una «tenebra visibile» (I, 63)

Henrik Ibsen 21


CAPITOLO III

Sul signor Rudyard Kipling e la tendenza a rimpicciolire il mondo Non esiste, sulla terra, qualcosa che costituisca un argo­mento poco interessante; l’unica cosa che può esistere è una persona poco interessata. Nulla è più accanitamente ri­chiesto di una difesa dei noiosi. Quando Byron divise l’uma­nità fra i noiosi e gli annoiati, tralasciò di osservare che i trat­ti più nobili sono propri esclusivamente dei noiosi, i meno nobili, degli annoiati, fra cui metteva anche se stesso. Il noio­so, con il suo entusiasmo siderale, la sua solenne felicità, può, in un certo senso, essersi dimostrato poetico. L’annoia­to di sicuro si è dimostrato prosaico. Senza dubbio, noi potremmo trovare una seccatura conta­ re tutti i fili d’erba o tutte le foglie degli alberi; ma la circo­stanza dipenderebbe, non dalla nostra baldanza o gaiezza, ma dalla nostra scarsa baldanza e gaiezza. Il noioso procede­rebbe, baldanzoso e gaio, e troverebbe i fili d’erba splendidi come le spade di un esercito. Il noioso è più forte, è più gioioso di noi; egli è un semidio, anzi, è un dio. Perché sono gli dei che non si stancano dell’iterazione delle cose; per lo­ro, il calar della sera è sempre nuovo, e l’ultima rosa è rossa come la prima. Il senso che tutto sia poetico è qualcosa di concreto e as­soluto; non è solo una questione di fraseologia o di convin­zione. Non solo è vero; è accertabile. Si potrebbe sfidare gli uomini a negarlo; si potrebbe sfidare gli uomini a menzionare una qualunque cosa che non sia materia di poesia. Ricor­do un assennato vicedirettore che, molto tempo fa, mi venne incontro con un libro in mano, intitolato «Il signor Smith» o «La famiglia Smith», o qualcosa del genere. «Be’», mi disse, «da qui non caverà neanche un briciolo del suo dannato mi­sticismo», o una frase consimile. Sono felice di dire che lo disillusi; ma la vittoria fu troppo facile e ovvia. Nella maggior parte dei casi, il nome non è poetico, benché lo sia la realtà sottesa. Nel caso di Smith, il nome è così poetico, che deve essere una faccenda ardua ed eroica, per un uomo, vivere al­la sua altezza. Il 22


nome di Smith è il nome del mestiere che perfino i re rispettavano1; potrebbe, addirittura, pretendere a metà della gloria di quell’arma virumque2 che tutti i com­ponimenti epici hanno cantato. Lo spirito della fucina è così vicino allo spirito del canto, che si è fuso in un milione di poesie, e ogni fabbro è un fabbro armonioso. Perfino i bambini di paese sentono che, in qualche oscuro modo, il fabbro è poetico ‑ come non lo sono il droghiere e il calzolaio ‑ quando si beano delle scintille danzanti e dei colpi fragorosi nella caverna di quella violenza creativa. La bruta armonia della Natura, l’appassionata sagacia dell’uo­mo, il più forte dei metalli terrestri, il più magico degli ele­menti terrestri, l’invincibile ferro sottomesso dal suo solo vincitore, la ruota e il vomere, la spada e il maglio a vapore, il dispiegamento degli eserciti e l’intera leggenda delle armi, tutte queste cose sono scritte, molto succintamente, ma in tutte lettere, sul biglietto da visita del signor Smith. Eppure, i nostri romanzieri chiamano il loro eroe «Aylmer Valence», un nome che non significa nulla, o «Vernon Raymonds», un nome che non significa nulla, quando hanno il potere di dar­gli il sacro nome di Smith, questo nome composto di ferro e di fuoco. Sarebbe quanto mai naturale se una certa alterigia, un certo portamento della testa, un certo arricciarsi del lab­bro distinguessero tutti quelli che si chiamano Smith. Forse è vero; io confido che sia così. Chiunque altro sia un parvenu, gli Smith non lo sono. Dal più buio albeggiare della storia, questo clan è sceso in battaglia; i suoi trofei sono in ogni ma­no; il suo nome è ovunque; è più antico delle nazioni, e la sua insegna è il Martello di Thor. Ma, come ho egualmente osservato, non è questo il caso usuale. È abbastanza comune che le cose comuni siano poe­tiche, ma non è così comune che i nomi comuni siano poe­tici. Nella maggior parte dei casi, è il nome a costituire l’o­stacolo. Molte persone parlano come se questa nostra asser­zione, che tutte le cose sono poetiche, fosse una mera argu­zia letteraria, un gioco di parole. E’ vero esattamente il con­trario. È l’idea che alcune cose non siano poetiche, che è let­ teraria, che è un mero prodotto delle parole. Le parole «ca­bina dei segnali» sono prive di poesia. Ma la cabina dei se­gnali, in sé, è poetica; è un luogo dove gli uomini, in una tor­mentosa vigilanza, accendono fuochi rosso sangue e verde mare per preservare altri 23


uomini dalla morte. Questa è la piana, genuina descrizione di ciò che è; la prosa sopravviene solo in ciò che la nomina. La parola «cassetta postale»3 è pri­va di poesia. Ma la cassetta postale, in sé, è poetica; è il luogo a cui amici e amanti affidano i loro messaggi, sicuri che, quando così abbiano fatto, quelli siano sacri e intangibili, non solo per gli altri, ma anche (tocco religioso!) per loro stessi. Quella torretta rossa è uno degli ultimi templi. Impo­stare una lettera e sposarsi sono fra i pochi atti a noi rimasti che siano compiutamente romantici; perché, per essere com­piutamente romantico, un atto deve essere irrevocabile. Rite­niamo una cassetta postale priva di poesia, perché non l’ab­biamo mai vista in una poesia. Ma il nudo fatto è interamen­te a carico della poesia. Una cassetta postale si chiama cassetta postale; ma è una casa della vita e della morte. Una casset­ta postale si chiama cassetta postale; ma è un santuario delle parole umane. Se voi ritenete prosaico il cognome «Smith», non dipende dal fatto che siate pratici e assennati; dipende dal fatto che siete troppo influenzati dalle sottigliezze lette­rarie. Quel nome vi grida in faccia la sua poesia. Se pensate altrimenti, dipende dal fatto che siete imbevuti e saturi di re­miniscenze verbali, dal fatto che ricordate tutto sul signor Smith ubriaco o sul signor Smith bistrattato dalla moglie in Punch e Comic Cuts4. Tutte queste cose vi sono state date piene di poesia. È solo con un lungo e complesso procedi­mento di elaborazione letteraria, che le avete rese prosaiche. Ora, la prima e la più corretta osservazione da fare su Ru­dyard Kipling, è che egli ha svolto un brillante ruolo in que­sto recupero delle province perdute della poesia. Non si è lasciato intimorire dalla brutale apparenza materialistica che aderisce solo alle parole; egli ha perforato la materia ro­mantica, immaginosa delle cose in sé. Ha percepito il signi­ficato e la portata filosofica del vapore e del gergo. Il vapore può essere, se volete, un lurido sottoprodotto della scienza. Il gergo può essere, se volete, un lurido sottoprodotto del linguaggio. Ma perlomeno Rudyard Kipling è stato tra i po­chi che hanno visto la divina parentela di queste cose, e sa­peva che, dove c’è il fumo, c’è il fuoco5, vale a dire, che dove c’è la più sudicia fra le cose, c’è anche la più pura. Soprattut­to, ha avuto qualcosa da dire, una visione precisa delle cose da esprimere, e questo significa sempre che un uomo è senza paura e affronta qualunque ostacolo. 24


Perché, nel momento in cui abbiamo una visione dell’universo, noi lo possediamo. Ora, il messaggio di Rudyard Kipling, quello su cui si è veramente concentrato, è la sola cosa di cui valga la pena di preoccuparsi riguardo a lui o qualunque altro uomo. Spesso, ha scritto cattiva poesia, come Wordsworth. Spesso ha detto sciocchezze, come Platone. Spesso ha dato fiato a un semplice isterismo politico, come Gladstone. Ma nessuno può ragionevolmente dubitare che egli intendesse costante­mente e sinceramente dire qualcosa, e la sola seria domanda è: cosa ha cercato di dirci? Forse il modo migliore di stabi­lirlo correttamente sarà di cominciare dall’elemento su cui egli stesso e i suoi oppositori hanno maggiormente insistito, voglio dire, il suo interesse per il militarismo. Ma quando cerchiamo i meriti reali di un uomo, è poco saggio andare dai suoi nemici, e anche più sciocco andare da lui. Ora, il signor Kipling di sicuro sbaglia nella sua adorazio­ne del militarismo, ma i suoi oppositori, in generale, sbaglia­no quanto lui. Il male del militarismo non sta nel mostrare come certi uomini siano fieri e sprezzanti e troppo bellicosi. Il male del militarismo sta nel mostrare come gli uomini, per la maggior parte, siano sottomessi e paurosi e troppo amanti della pace. Il soldato di professione acquista sempre più po­tere a mano a mano che il coraggio di una comunità in ge­nerale declina. Così, la guardia pretoriana6 divenne sempre più importante a Roma, a mano a mano che Roma diventava più lussuriosa e debole. Il militare acquisisce il potere civile a mano a mano che il civile perde le virtù militari. E come av­venne nell’antica Roma, così avviene nell’Inghilterra contem­poranea. Mai ci fu un’epoca in cui le nazioni furono più guerriere. Mai ci fu un’epoca in cui gli uomini furono meno coraggiosi. Tutte le età e tutti i componimenti epici hanno cantato le armi e l’uomo; ma noi abbiamo sortito simultanea­mente il deterioramento dell’uomo e la fantastica perfezione delle armi. Il militarismo ha dimostrato la decadenza di Ro­ma e dimostra la decadenza della Prussia. E, inconsapevolmente, il signor Kipling ha dimostrato tut­to ciò, e in modo ammirevole. Perché, se intendiamo correttamente la sua opera, la professione militare non emerge af­fatto come la più importante o attraente. Il signor Kipling non ha scritto così bene 25


dei soldati come dei ferrovieri, o dei costruttori di ponti, o perfino dei giornalisti. Il fatto è che ciò che attrae il signor Kipling verso il militarismo, non è l’idea del coraggio, bensì l’idea della disciplina. C’era molto più coraggio per ogni miglio quadrato nel Medioevo, quando nessun re aveva un esercito permanente, ma ogni uomo aveva un arco e una spada. Ma la fascinazione dell’e­sercito permanente per il signor Kipling non deriva dal co­raggio, che lo interessa in scarsa misura, ma dalla disciplina, che, alla fin fine, costituisce il suo tema primario. L’esercito moderno non è un miracolo di coraggio; non ha abbastanza opportunità, data la codardia di tutti gli altri. Ma è veramen­te un miracolo di organizzazione e questo è il vero ideale ki­plinghiano. Argomento del signor Kipling, non è il valore ti­pico della guerra, ma l’autonomia e l’efficienza che appar­tengono egualmente a ingegneri, o marinai, o muli o inge­gneri ferroviari. E così succede che, quando scrive di inge­gneri, o marinai, o muli, o motori a vapore, Rudyard Kipling scrive al suo meglio. La vera poesia, il «vero romanzo» che il signor Kipling ci ha dato, è il romanzo della divisione del la­voro e della disciplina di tutte le attività. Egli canta le arti della pace con assai maggiore accuratezza che le arti della guerra. E il suo assunto primario è prezioso e vitale. Tutto ha un carattere militare, nel senso che tutto dipende dall’ob­bedienza. Non c’è nessun angolo di perfetto epicureismo; non c’è nessun luogo di perfetta irresponsabilità. Ovunque gli uomini ci hanno aperto la strada con il sudore e la sotto­missione. Noi possiamo gettarci su un’amaca in un accesso di divina indolenza. Ma siamo felici che l’artigiano non abbia intrecciato l’amaca in un accesso di divina indolenza. Noi possiamo saltare per gioco sul cavallino a dondolo di un bimbo. Ma siamo felici che il falegname non ne abbia, per gioco, lasciate le zampe senza colla. Così, ben lontano dall’a­vere semplicemente predicato che bisogna adorare un soldato che pulisce la sua arma perché è un militare, Kipling, nella sua vena migliore e più limpida, ha predicato che il presti­naio che cuoce le forme di pane e il sarto che taglia le giac­che hanno la qualità di militari al pari di chiunque altro. Essendo devoto alla sua molteplice visione del dovere, il si­gnor Kipling è naturalmente un cosmopolita. Si dà il caso che trovi i suoi esempi nell’impero britannico, ma quasi qualunque altro impero 26


andrebbe altrettanto bene o, in effetti, qualunque altro paese altamente civilizzato. Ciò che egli ammira nell’eser­cito britannico, lo troverebbe, anche in maggiore evidenza, nel­l’esercito tedesco; ciò che egli desidera nella polizia britannica, lo troverebbe, in pieno rigoglio, nella polizia francese. L’ideale della disciplina non abbraccia la totalità della vita, ma è diffuso in tutto il mondo. E la sua adorazione tende a confermare nel signor Kipling una certa nota di mondana saggezza, di espe­rienza acquisita in vagabondaggi, la stessa che costituisce una delle genuine seduzioni delle sue opere migliori. La grande carenza nella sua anima è quella che potrebbe definirsi come la mancanza di patriottismo, nel senso che gli manca totalmente la capacità di attaccarsi a una qualunque causa o comunità definitivamente e tragicamente; perché qua­lunque sentimento definitivo deve essere per forza tragico. Egli ammira l’Inghilterra, ma non la ama; poiché noi ammi­riamo con un motivo, ma amiamo senza motivo. Egli ammira l’Inghilterra perché è forte, non perché è inglese. Non c’è al­cuna rampogna nelle mie parole perché, per rendergli giusti­zia, egli stesso lo dichiara con il suo consueto, pittoresco can­dore. In una poesia quanto mai interessante, dice: «If England was what England seems»7; ‑ ovvero, debole e inefficiente; se l’Inghilterra non fosse quello che (come egli crede) è, ovvero, potente e pratica ‑ «How quick we’d chuck’er! But she ain’t»8. Egli ammette, in sostanza, che la sua devozione è il risul­tato di un ragionamento critico, e questo equivale più o me­no a metterla in tutt’altra categoria rispetto al patriottismo dei boeri che lui stesso ha braccato in Sud Africa. Quando parla delle persone veramente patriottiche, come gli irlande­si, il signor Kipling ha qualche difficoltà a bandire dal suo linguaggio un’acuta irritazione. La disposizione mentale che descrive con vera bellezza e nobiltà è la disposizione mentale del cosmopolita che ha visto uomini e città. «For to admire and for to see, 27


For to be’old tbis world so wide.»9 Rudyard Kipling è un compiuto maestro in quella lieve malinconia con cui un uomo guarda ai suoi trascorsi di cit­tadino di molte comunità, di quella lieve malinconia con cui un uomo guarda ai suoi trascorsi di amante di molte don­ne. Egli è il corteggiatore delle nazioni. Ma un uomo può avere imparato molto sulle donne dalle sue avventure, e ignorare tuttavia il primo amore; un uomo può avere cono­sciuto molte terre come Ulisse, e ignorare tuttavia il patriot­tismo. In un celebrato epigramma, Rudyard Kipling ha chiesto cosa possano conoscere dell’Inghilterra coloro che conosco­no solo l’Inghilterra. E molto più profondo e acuto doman­darsi: «Che cosa possono conoscere dell’Inghilterra, coloro che conoscono solo il mondo?», poiché il mondo non com­prende l’Inghilterra più di quanto comprenda la Chiesa. Nel momento in cui ci importa profondamente di qualco­sa, il mondo, vale a dire, l’insieme di tutti gli altri interessi eterogenei, diventa nostro nemico. I cristiani ne davano pro­va quando parlavano di mantenersi «intatti dal mondo»; ma gli amanti ne parlano allo stesso modo quando parlano del «mondo felicemente perduto». Da un punto di vista astronomico, io so che l’Inghilterra è situata nel mondo; ugual­mente, suppongo che la Chiesa sia una parte del mondo e che perfino gli amanti abitino quell’orbe. Ma tutti hanno in­tuito una certa verità, la verità per cui, nel momento in cui amate qualcosa, il mondo diventa il vostro nemico. Così, il signor Kipling conosce certamente il mondo; egli è un citta­dino del mondo, con tutti i limiti propri di quanti sono im­prigionati in quel pianeta. Egli conosce l’Inghilterra come un gentiluomo inglese dotato d’intelligenza conosce Venezia. Egli è stato in Inghilterra molte volte; vi si è trattenuto per lunghe visite. Ma non appartiene a essa, come a qualunque altro luogo; e la prova è che pensa all’Inghilterra come a un luogo. Nel momento in cui noi siamo radicati in un luo­go, quel luogo svanisce. Noi viviamo come un albero con l’intera forza dell’universo. Il giramondo vive in un mondo più piccolo del contadino. Egli è sempre intento a respirare l’atmosfera di una località. Londra è un 28


luogo da confrontare con Chicago; Chicago è un luogo da confrontare con Timbuctù. Ma Timbuctù non è un luogo, dato che laggiù, perlomeno, vivono uomini che la considerano come l’universo e respirano, non l’atmo­sfera di una località, ma i venti del mondo. Il passeggero del piroscafo di lusso ha visto tutte le razze di uomini e pensa agli aspetti che li distinguono, l’alimentazione, il vestiario, il senso del decoro, gli anelli nel naso come in Africa, o nelle orecchie come in Europa, la tintura azzurra tra gli antichi britanni, o la tintura rossa tra quelli d’oggigiorno. L’uomo nel campo di cavoli non ha visto assolutamente nulla; ma pensa agli aspetti che uniscono gli uomini, la fame e i bam­bini, e la bellezza delle donne, e la promessa o la minaccia del cielo. Il signor Kipling, con tutti i suoi meriti, è il gira­mondo; non ha la pazienza di diventare parte di alcunché. Un uomo così grande e autentico non può essere accusato di semplice cinismo cosmopolita; ugualmente, il cosmopoli­tismo è la sua debolezza. Quella debolezza è espressa splen­didamente in una delle sue più belle poesie, The Sestina of the Tramp Royal10, dove un uomo dichiara di poter soppor­tare qualunque cosa in ordine alla fame o all’orrore, ma non la presenza permanente in un luogo. Qui c’è di sicuro un pe­ricolo. Quanto più morta e secca e polverosa è una cosa tan­to più viaggia; così è la polvere, e la lanugine del cardo, e l’Alto Commissario per il Sud Africa. Le cose fertili sono un po’ più pesanti, come i pesanti alberi da frutto sul limo fecondo del Nilo. Nell’ardente pigrizia della giovinezza era­vamo tutti piuttosto inclini a contestare le implicazioni di quel proverbio secondo cui una pietra che rotola non racco­glie muschio. Eravamo inclini a domandare: «Chi vuole rac­cogliere muschio, se non le sciocche, vecchie signore?». Ma, ciononostante, cominciamo a capire che il proverbio ha ra­gione. La pietra rotolante rotola echeggiando di roccia in roccia; ma la pietra rotolante è morta. Il muschio è silenzioso perché il muschio è vivo. La verità è che le esplorazioni e l’espansione rendono il mondo più piccolo. Il telegrafo e la nave a vapore rendono il mondo più piccolo. ll telescopio rende il mondo più pic­colo; è solo il microscopio che lo rende più grande. Tra non molto, il mondo sarà spaccato in una guerra tra i tele­scopisti e i microscopisti. I primi studiano le cose grandi e vivono in un mondo piccolo; i secondi studiano le 29


cose pic­cole e vivono in un mondo grande. Senza dubbio è fonte d’i­spirazione filare su un’automobile intorno alla terra, percepi­ re l’Arabia come un turbine di sabbia o la Cina come uno sprazzo di campi di riso. Ma l’Arabia non è un turbine di sabbia e la Cina non è uno sprazzo di campi di riso. Sono antiche civiltà con strane virtù sepolte come tesori. Se desi­deriamo capirle, non dovrà essere da turisti o da esploratori, ma con la lealtà dei bambini e la grande pazienza dei poeti. Conquistare questi luoghi significa perderli. L’uomo che se ne sta nel suo orto, con la terra delle fate appena oltre il cancello, è l’uomo con grandi idee. La sua mente crea la lonta­ nanza; l’automobile, stupidamente, la distrugge. I moderni pensano alla terra come a un globo, come a qualcosa che si può facilmente girare da un capo all’altro, secondo lo spi­rito di una professoressa. Lo strano errore eternamente ripe­tuto a proposito di Cecil Rhodes dimostra bene il punto. I suoi nemici dicono che avrà forse avuto grandi idee, ma che era un uomo malvagio. I suoi amici dicono che forse sarà stato un uomo malvagio, ma che di sicuro aveva grandi idee. La verità è che non fu un uomo essenzialmente malvagio, bensì un uomo di grande cordialità e con molte buone inten­zioni, ma con vedute singolarmente ristrette. Non c’è nulla di grande nel dipingere la carta di rosso11; è un gioco inno­cente da bambini. Pensare in termini di continenti è altret­tanto facile che pensare in termini di ciottoli. La difficoltà sopravviene quando cerchiamo di conoscere la sostanza de­gli uni e degli altri. Le profezie di Rhodes sulla resistenza dei boeri12 costituiscono un ammirevole commento sul modo in cui le «grandi idee» prosperano quando non si tratta di pen­sare in termini di continenti, ma di comprendere pochi uo­mini bipedi. E sotto questa vasta illusione del pianeta co­smopolita, con i suoi imperi e la sua agenzia Reuter, la vera vita dell’uomo continua concentrata su questo albero o quel tempio, questo raccolto o quella canzone conviviale, total­mente incompresa, compiutamente intatta. E, dal suo splen­dido isolamento provinciale, osserva, forse con un sorriso di­vertito, la civiltà automobilistica mentre va per il suo cammi­no trionfale, supera in corsa il tempo, consuma lo spazio, ve­ de tutto e non vede nulla, e infine si avventa ruggendo alla conquista del sistema solare, solo per scoprire che il sole è cockney13 e le stelle sono appendici suburbane. 30


1) Smith, in inglese, significa «fabbro». 2) «Le armi e l’eroe io canto», il verso d’apertura dell’Eneide, il poema epico di Virgilio. 3) Il termine nell’originale, pillar box, si riferisce alla cassetta postale inglese stan­dard, conformata come un pilastro e dipinta di rosso. 4) Riviste umoristiche. (N.d.T.) 5) Noi diremmo: «non c’è arrosto senza fumo». (N.d.T.) 6) La guardia del corpo degli imperatori rornani, disciolta nel 312 d.C., quando la sua influenza era diventata così forte, da permetterle di nominare e destituire i sovrani dello Stato. 7) «Se fosse l’Inghilterra quale sembra». (N.d.T.) 8) «Su due piedi la pianteremmo! Ma così non è!» . (N.d.T.) 9) «Per ammirare e per vedere, / per contemplare questo mondo così vasto». (N.d.T.) 10) «Sestina del re dei vagabondi». (N.d.T.) 11) Il colore dei territori inglesi negli atlanti geografici. (N.d.T.) 12) Rhodes definì le forze militari dei boeri come «la più grande bolla di sapone inesplosa che esista». 13) Della Londra popolare. (N.d.T.)

Joseph Rudyard Kipling 31


CAPITOLO IV

Il signor Bernard Shaw Nei bei tempi andati, prima dell’affermarsi della morbosi­tà moderna, quando il gioviale, vecchio Ibsen riempiva il mondo di una gioia salutare e le gentili favole del dimentica­to Emile Zola mantenevano allegro e puro l’angolo del foco­lare nelle nostre case, in generale era considerato uno svan­taggio essere incompresi. L’uomo che è incompreso ha sem­pre il vantaggio che i suoi nemici non conoscono il suo pun­to debole o il piano della sua campagna. Essi vanno contro un uccello con le reti e contro un pesce con le frecce. Molti sono i moderni esempi di una simile situazione. Il signor Chamberlain1, fra i tanti, si presta ottimamente al caso. Egli elude o sconfigge costantemente i suoi oppositori perché le sue vere doti e manchevolezze sono del tutto diverse da quelle che gli vengono attribuite, sia dagli amici, sia dai ne­mici. I suoi amici lo dipingono come uno strenuo uomo d’a­zione; i suoi oppositori lo dipingono come un rozzo uomo d’affari; quando, in realtà, egli non è né l’uno né l’altro, ma un ammirevole oratore e attore romantico. Il signor Chamberlain ha una dote che è l’anima del melodramma, la dote di fingere, anche quando è sostenuto da un’immensa maggioranza, di trovarsi con le spalle al muro. Poiché tutte le folle sono così perdutamente cavalleresche, che i loro eroi devono fare mostra di qualche sfortuna: questa sorta di ipo­crisia è l’omaggio che la forza presta alla debolezza. Egli par­la scioccamente ma assai bene della sua città che non l’ha mai abbandonato. Egli porta all’occhiello un fiore fantastico e fiammeggiante, come un poeta minore decadente. Quanto alla sua scabra franchezza e ai suoi appelli al buon senso, tut­to questo, naturalmente, non è che il primo trucco della ret­ torica. Egli fronteggia i suoi pubblici con la venerabile affet­tazione di Marco Antonio: «I am no orator, as Brutus is, But as you know me all, a plain blunt man»2. Qui sta tutta la differenza tra lo scopo dell’oratore e lo sco­po di 32


qualunque altro artista, come il poeta o lo scultore. Sco­po dello scultore è di convincerci che egli è uno scultore; sco­po di un oratore è di convincerci che non è un oratore: Per­mettete anche per una volta che il signor Chamberlain sia scambiato per un uomo pratico, e la sua partita è vinta. Egli deve solo comporre un tema sull’impero, e la gente dirà che questi uomini semplici dicono grandi cose nelle grandi occa­sioni. Deve solo scivolare nelle vaste e vaghe nozioni comuni a tutti gli artisti di second’ordine, e la gente dirà che gli uo­mini di affari, dopo tutto, hanno i più grandi ideali. Tutti i suoi progetti sono finiti in fumo; non c’è cosa che abbia toc­cato, senza portarvi confusione. C’è, nella sua figura, un pa­thos celtico; come i gaelici nella citazione di Matthew Ar­nold3: «egli andò in battaglia, ma sempre cadde». È una montagna di propositi, una montagna di fallimenti; ma pur tuttavia una montagna. E una montagna è sempre romantica. C’è un altro uomo nel mondo moderno che si potrebbe definire come l’antitesi in tutto e per tutto del signor Cham­berlain, e che si leva egualmente come un durevole monu­mento del vantaggio di essere incompresi. Il signor Bernard Shaw è sempre presentato da quanti dissentono da lui e, te­mo, anche (se mai esistono) da quanti concordano con lui, come un capriolante umorista, un acrobata da capogiro, un artista del trasformismo. Si dice che non si può prenderlo sul serio, che difenderà o attaccherà qualunque cosa, che fa­rà qualunque cosa per sorprendere e divertire. Tutto ciò, non solo è falso, ma è, vistosamente, il contrario della verità; è un’affermazione cervellotica, così come dire che Dickens non aveva la prepotente mascolinità di Jane Austen. L’intera forza e il compiuto trionfo del signor Bernard Shaw risiedo­no nel fatto che è un uomo di totale coerenza. Ben lungi dal consistere nei salti attraverso il cerchio o in esercizi di equi­librio sulla testa, la sua possanza consiste nel presidio diutur­no della sua fortezza. Egli applica rapidamente e rigorosa­mente l’esperimento Shaw a qualunque cosa succeda in cielo o in terra. Il suo criterio non varia mai. La caratteristica che i rivoluzionari ottusi e gli ottusi conservatori realmente odiano (e temono) in lui, è esattamente questa, il fatto che tiene in equilibrio i piatti della sua bilancia, così come sono, e che applica giustamente la sua legge, così come è. Potrete attac­care i suoi principi, come faccio 33


io; ma non conosco alcun esempio in cui possiate attaccare la loro applicazione. Se di­sapprova l’anarchia, il signor Shaw disapprova l’anarchia dei socialisti quanto quella degli individualisti. Se disapprova la febbre del patriottismo, la disapprova nei boeri e negli irlan­desi come negli inglesi. Se disapprova i voti e i legami del matrimonio, ancor più disapprova i lacci più feroci e i voti più dissennati dell’amore senza legge. Se ride dell’autorità dei sacerdoti, ride più forte della pomposità negli uomini di scienza. Se condanna l’irresponsabilità della fede, condan­na con una giudiziosa coerenza l’eguale irresponsabilità dell’arte. Il signor Shaw ha procurato soddisfazione a tutti i bohémiens dicendo che le donne sono eguali agli uomini; ma ha suscitato la loro furia dicendo che gli uomini sono eguali alle donne. Egli ha una giustizia quasi meccanica; ha qualco­sa della terribile qualità di una macchina. L’uomo realmente balzano e sfarfallante, l’uomo realmente fantastico e impre­ vedibile, non è il signor Shaw, ma il normale ministro di go­verno. È Sir Michael Hicks‑Beach4, che salta attraverso i cer­chi. Il solido e rispettabile uomo politico di quel tipo salta veramente da una posizione all’altra; veramente è pronto a difendere tutto o nulla; veramente non è da prendere sul se­rio. Io so perfettamente che cosa il signor Bernard Shaw dirà di qui a trent’anni; dirà ciò che ha sempre detto. Se di qui a trent’anni incontrerò il signor Shaw, un vegliardo rispettoso con una barba argentea che spazza il terreno, e gli dirò: «Na­turalmente, è inconcepibile portare un attacco verbale a una signora», il patriarca leverà la sua mano annosa e mi stenderà al suolo. Noi sappiamo, intendo, ciò che il signor Shaw dirà di qui a trent’anni. Ma c’è qualcuno così tenebrosamente versato negli oroscopi e negli oracoli che osi predire che cosa il signor Asquith5 dirà di qui a trent’anni? La verità è che è un grave errore supporre che l’assenza di convinzioni precise conferisca alla mente libertà e agilità. Un uomo che crede in qualcosa è pronto e arguto, perché ha tutte le sue armi. Può applicare il suo esperimento all’istante. L’uomo impegnato in un conflitto con una persona come il signor Bernard Shaw può immaginare che egli abbia dieci facce; non diversamente, un uomo impegnato contro un bril­lante schermidore può immaginare che la spada del suo ne­mico si sia mutata in dieci spade nella sua mano. 34


Ma l’impressione non dipende realmente dalla circostanza che quello contenda con dieci spade, ma bensì dal fatto che mira dritto al bersaglio con una sola. Un uomo con una convinzione pre­cisa, inoltre, appare sempre bizzarro, perché non muta col mondo; egli si è issato fino a una stella fissa, e la terra rotea sotto di lui come uno zootropo6. Milioni di miti uomini in giacchetta nera si dichiarano sani di mente e ragionevoli solo perché afferrano al volo la fola del momento, perché vengono sospinti da una pazzia all’altra dal maelstrom del mondo. Le persone accusano il signor Shaw e molti altri assai più sciocchi di «dimostrare che il bianco è nero». Ma non si do­mandano mai se il comune linguaggio coloristico sia sempre corretto. L’ordinaria fraseologia assennata a volte chiama nero il bianco, di sicuro chiama bianco il giallo e bianco il verde e bianco il bruno‑rossiccio. Noi chiamiamo «vino bianco» un vino che è giallo come le gambe di un ragazzo in giubba blu7. Noi chiamiamo «uva bianca» un’uva che è palesemente verdolina. Noi diamo all’europeo, la cui pelle è di un grigiastro rosato, l’orribile appellativo di «uomo bian­co», un’immagine che raggela il sangue più di qualunque spettro di Poe. Ora, è indubbiamente vero che, se qualcuno chiedesse a un cameriere in un ristorante una bottiglia di vino giallo e qualche grappolo di uva giallo‑verdolina, il cameriere lo prenderebbe per pazzo. È indubbiamente vero che un fun­zionario del governo, se dicesse, riferendo sugli europei in Birmania: «Qui ci sono solo duemila rosei», sarebbe accusa­to di fare dello spirito e cacciato dal suo posto. Ma è egual­mente ovvio che entrambi gli uomini si sarebbero procurati un guaio dicendo la stretta verità. Quell’uomo troppo veritiero al ristorante; quell’uomo troppo veritiero a proposito della Birmania, è il signor Bernard Shaw. Egli appare eccen­trico e grottesco perché non accetterà la convinzione genera­ le che il bianco sia giallo. Egli ha basato tutta la sua vena brillante e la sua solidità sul fatto, ormai banale, eppure di­menticato, che la verità è più strana della finzione. La verità, naturalmente, deve per forza essere più strana della finzione, poiché noi abbiamo creato la finzione per fare come più ci piace. Una ragionevole valutazione, dunque, troverà tutto que­sto, nel signor Shaw, corroborante ed eccellente. Egli dichia­ra di vedere le 35


cose quali sono; e alcune cose, a ogni buon conto, egli le vede quali sono, come l’intera nostra civiltà non le vede affatto. Ma nel suo realismo c’è qualcosa che manca, e questa è una manchevolezza grave. La vecchia e riconosciuta filosofia del signor Shaw era quella vigorosamente presentata nella «Quintessenza dell’ib­senismo». In breve, si riassumeva nella convinzione che gli ideali conservatori fossero sbagliati, non perché conservato­ri, ma perché erano ideali. Qualunque ideale, a suo dire, im­pediva agli uomini di giudicare correttamente il caso partico­lare; qualunque generalizzazione morale opprimeva l’indivi­duo; la regola aurea era che non c’era alcuna regola aurea. E l’obiezione a una simile idea è semplicemente che pretende di liberare gli uomini, ma in realtà impedisce loro di fare l’u­nica cosa che vogliono fare. Che bene può esservi nel dire a una comunità che ha tutte le libertà, salvo la libertà di fare leggi? La libertà di fare leggi è ciò che costituisce un popolo libero. E che bene può esservi nel dire a un uomo (o a un filosofo) che ha tutte le libertà, salvo la libertà di concepire teorie generali. La concezione di teorie generali è ciò che fa di lui un uomo. In breve, quando il signor Shaw proibisce agli uomini di avere rigorosi ideali etici, agisce come uno che proibisse loro di avere figli. All’asserzione: «la regola au­rea è che non c’è alcuna regola aurea», si può, in realtà, ri­ spondere semplicemente rovesciandola. La circostanza che non vi sia alcuna regola aurea, costituisce di per sé una re­gola aurea, anzi, assai peggio che una regola aurea. È una regola di ferro, un ceppo apposto al primo movimento di un uomo. Ma lo scalpore legato al signor Shaw negli ultimi anni è derivato dal suo improvviso sviluppo della religione del Su­peruomo. Lui, che si era fatto beffe, secondo tutte le appa­renze, delle fedi di un passato dimenticato, scopriva un nuo­vo dio in un futuro inimmaginabile. Lui che aveva addossato tutto il biasimo agli ideali, fissava il più impossibile fra tutti gli ideali, l’ideale di una nuova creatura. Ma la verità, nondi­meno, è che chiunque conosca a sufficienza l’intelligenza del signor Shaw, e l’ammiri appropriatamente, deve avere indo­vinato tutto questo da gran tempo. Perché la verità è che il signor Shaw non ha mai visto le cose quali realmente sono. Se l’avesse fatto, vi sarebbe cadu­to davanti in 36


ginocchio. Il signor Shaw ha sempre avuto un ideale segreto che ha avvizzito tutte le cose del mondo. Da sempre, egli ha silenziosamente confrontato l’umanità con qualcosa che non è umano, con un mostro proveniente da Marte, con il saggio degli stoici, con l’uomo economico dei fabiani8, con Giulio Cesare, con Sigfrido, con il Superuomo. Ora, avere questo impietoso criterio interiore può essere un gran bene, o un gran male, può essere un’evenienza eccellen­te o disgraziata, ma non significa vedere le cose quali sono. Non significa vedere le cose quali sono, pensare prima a un Briareo con cento mani e poi definire menomato ogni uomo perché ne ha solo due. Non significa vedere le cose quali so­no, partire da una visione di Argo dai cento occhi, e poi schernire ogni uomo con due occhi come se ne avesse solo uno. E non significa vedere le cose quali sono immaginare un semidio di infinita lucidità mentale, che potrà o meno apparire negli ultimi giorni della terra, e poi vedere tutti gli uo­mini come idioti. Quando vediamo gli uomini quali vera­mente sono, noi non critichiamo, ma adoriamo; e del tutto a ragione. Perché un mostro con occhi misteriosi e pollici miracolosi, con strani sogni nel suo cranio, e una bizzarra te­nerezza per questo posto o quel bambino, è davvero un’en­tità meravigliosa che incute spavento. È solo l’abitudine quanto mai arbitraria e professorale di stabilire un paragone con qualcos’altro, che ci permette di sentirci a nostro agio davanti a lui. Un senso di superiorità ci mantiene freddi e pratici; i meri fatti farebbero cozzare le nostre ginocchia sot­to di noi per un religioso timore. È il fatto che ogni istante della vita cosciente è un prodigio inimmaginabile. E il fatto che ogni faccia nella strada ha l’incredibile imprevedibilità di una fiaba. Ciò che impedisce all’uomo di rendersene conto, non è alcuna forma di lucidità o di esperienza, ma semplice­mente un’abitudine a paragoni pedanti ed esigenti fra l’una e l’altra cosa. Il signor Shaw, da un lato pratico forse il più umano fra gli uomini viventi, in questo senso è inumano. In qualche misura, è stato infettato dalla più profonda debo­lezza intellettuale del suo nuovo maestro, Nietzsche, dalla strana idea secondo cui un uomo, quanto più sia grande e forte, tanto più disprezzerà le altre creature. Un uomo quan­to più sia grande e forte, tanto più sarà incline a prostrarsi davanti a una pervinca. Che il signor Shaw tenga la testa alta e un’espressione sdegnosa davanti al colossale panorama degli 37


imperi e delle civiltà, non basta a convincere che veda le cose quali sono. Io ne sarei più efficacemente convinto, se lo sco­prissi a fissare con religioso stupore i suoi stessi piedi. «Che cosa sono quei due esseri belli e industriosi», immagino di sentirlo mormorare tra sé, «che vedo ovunque, e mi servono senza che io ne sappia il motivo? Quale fata madrina ha co­mandato loro di trottarsene fuori dalla terra degli elfi quando sono nato? Quale dio della terra di confine, quale barbarico dio delle gambe, devo propiziarmi con fuoco e vino, perché quei due esseri non fuggano senza di me?» La verità è che ogni giudizio genuino poggia su un certo mistero composto di umiltà e quasi di oscurità. L’uomo che disse: «Benedetto sia colui che non si aspetta nulla, per­ché non sarà deluso», compose la lode in modo del tutto ina­deguato e, perfino, falso. La verità è: «Benedetto sia colui che non si aspetta nulla, perché sarà splendidamente sorpre­so». L’uomo che non si aspetta nulla, vede le rose più rosse di quanto le possano vedere gli uomini comuni, e l’erba più verde, e un sole ancora più stupefacente. Benedetto sia colui che non si aspetta nulla, perché egli possiederà le città e i monumenti; benedetti siano i mansueti, perché essi eredite­ranno la terra. Fino a che non ci rendiamo conto che le cose potrebbero anche non essere, non possiamo renderci conto che le cose sono. Fino a che non vediamo lo sfondo di tene­bra, non possiamo ammirare la luce anche di una sola cosa creata. Non appena vediamo quella tenebra, tutta la luce è fulminea, improvvisa, accecante e divina. Fino a che non ci dipingiamo l’assenza, noi svalutiamo la vittoria di Dio e non possiamo apprezzare nessuno dei trionfi della Sua antica guerra. È uno dei milioni di folli scherzi giocati dalla verità, il fatto che noi non conosciamo nulla, fino a che non conoscia­mo nulla. Ora, io dico in tutta coscienza, questo è il solo difetto nel­la grandezza del signor Shaw, la sola risposta alla sua pretesa di essere un grand’uomo: il fatto che non sia facilmente ac­contentabile. Egli è una quasi solitaria eccezione alla genera­le e fondamentale massima secondo cui le piccole cose gra­tificano le grandi menti. E da tale mancanza della dote cla­morosa fra tutte, l’umiltà, deriva, per inciso, la peculiare in­sistenza sul Superuomo. Dopo avere tormentato un gran nu­mero di persone per un gran numero di anni perché erano scarsamente progressiste, il signor Shaw ha scoperto, con ca­ 38


ratteristico buon senso, che è molto dubbio se un qualunque essere umano con due gambe possa essere in qualche misura progressista. Essendo facilmente accontentabili, quasi tutte le persone, giunte a dubitare che l’umanità possa combinarsi con il progresso, avrebbero scelto di abbandonare il progres­so e restare con l’umanità. Il signor Shaw, dato che non si accontenta facilmente, decide di gettare via l’umanità con tutte le sue limitazioni e inseguire il progresso per sé solo. Se l’uomo, come noi lo conosciamo, è impari alla filosofia del progresso, il signor Shaw richiede, non un nuovo genere di filosofia, ma un nuovo tipo di uomo. È come se una bam­binaia avesse provato per anni un cibo piuttosto amaro con un bambino, e scoprendo che non era adatto, non gettasse via quel cibo, chiedendone uno nuovo, ma gettasse il bambi­no dalla finestra, chiedendone uno nuovo. Il signor Shaw non riesce a capire che ciò che è prezioso e degno d’amore ai nostri occhi è l’uomo, il vecchio bevitore di birra, creatore di fedi, combattivo, fallace, sensuale e rispettabile. E le cose fondate su questa creatura restano in perpetuo; le cose fon­date sulla fantasia del Superuomo sono morte con le civiltà morenti che sole le hanno partorite. Quando, in un momen­to simbolico, stava ponendo le basi della Sua grande società, Cristo non scelse come pietra angolare il geniale Paolo o il mistico Giovanni, ma un imbroglione, uno snob, un codar­do: in una parola, un uomo. E su quella pietra Egli ha edi­ ficato la Sua Chiesa, e le porte dell’Inferno non hanno pre­valso su di essa. Tutti gli imperi e tutti i regni sono crollati, per questa intrinseca e costante debolezza, che furono fon­dati da uomini forti su uomini forti. Ma quest’unica cosa, la storica Chiesa cristiana, fu fondata su un uomo debole, e per questo motivo è indistruttibile. Poiché nessuna catena è più forte del suo anello più debole. 1) Josepb Chemberlain (1836‑1914), uomo politico inglese, segretario di Stato per le colonie dal 1895 al 1903. Ardente sostenitore della federazione imperiale, fu accusato a torto di avere precipitato la guerra boera, ma sopportò il biasimo sen­za battere ciglio. 2 )«Io non sono certo oratore come Bruto; / ma, quale voi tutti mi conoscete, uomo semplice e schietto». (N.d.T.) 3) Matthew Arnold (1822‑1888), poeta e saggista, autore di tre raccolte poetiche e di diversi studi critici, tra cui The Study of Celtic Literature, 39


pubblicato nel 1867. (N.d.T.) 4) Michael Hicks‑Beach, leader del partito liberale (1830‑1911), assunse una po­sizione critica verso la politica inglese in Sud‑Africa, ma definì la guerra boera «giu­sta e inevitabile». 5) Herbert Herny Asquith (1852‑1928) ricoprì la carica di ministro degli interni in due governi liberali negli anni ‘90 del secolo scorso. Poiché approvava la guerra boera, ma non il modo in cui era condotta, forse l’osservazione di Chesterton non è infondata. 6) Apparecchio creato nel 1833 per consentire la visione di immagini in movimento. (N.d.T.) 7) Le gambe, cioè, di uno studente del Christ’s Hospital, la famosa scuola per studenti bisognosi che ebbe come allievi Coleridge e Lamb. La scuola si trasferì a Horsham, nel Sussex, nel 1902. 8) Aderenti alla Società Fabiana, fondata da socialisti nel 1884 con lo scopo di mutare per gradi la società secondo la tattica temporeggiatrice del console romano Quinto Fabio Massimo. Di qui il nome. (N.d.T.)

Bernard Shaw

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