Musica in Santa Cristina, Carisbo

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Ottobre 2009

Parrocchia di S.Giuliano e Chiesa di S.Cristina

Chiesa di Santa Cristina della Fondazza Piazzetta Morandi - Bologna Per informazioni: 051 275 41 27 e-mail: info@fondazionecarisbo.it

Marzo 2010

in

Musica

Santa Cristina


Musica

in

Santa Cristina

B ach S uite La

voix humaine



Un

centro d’eccellenza per la musica

P

er il terzo anno consecutivo la Chiesa di Santa Cristina apre le sue porte ai Bolognesi, offrendo un programma musicale di qualità, sia artistica che interpretativa. È per noi motivo di soddisfazione riscontrare il forte e manifesto apprezzamento della città per il nostro progetto in Santa Cristina. Siamo lieti e sorpresi del risultato, ma ben consapevoli della bontà delle nostre intuizioni e strategie. Quando la Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, ormai nel 2006, decise di stringere un’intesa per la valorizzazione della struttura con la Parrocchia di San Giuliano e con l’Arcidiocesi di Bologna, aveva già chiari gli obiettivi di fondo. Rilanciare Santa Cristina significava innanzi tutto conoscere le sue origini e, partendo da queste, trovare ispirazione e orientamento per le prospettive future, che andavano interpretate e sviluppate senza snaturare in alcun modo il carattere sacro del luogo – che è e resta di culto – ma inserendole in un contesto temporale del tutto differente sia dal punto di vista sociale che culturale. Santa Cristina doveva diventare un centro d’eccellenza per l’ascolto della musica. Bologna è una città singolare: ha avuto un passato dalle forti virtù civiche, capace di valorizzare il dibattito più acerrimo pur di conseguire obiettivi di interesse generale; è stata per secoli uno dei centri più fertili e vivaci dal punto di vista culturale, non solo perché sede della più antica università del mondo, ma anche per alcune eccellenze del suo sistema formativo, per la propensione dei Bolognesi nel settore della ricerca e dell’innovazione, per le potenzialità di una città divenuta meta privilegiata di interessi economici e, pertanto, di scambi sociali e culturali. Negli ultimi anni tuttavia, in molte occasioni, è apparsa più debole e sofferente, mostrando la tendenza a rinchiudersi in se stessa piuttosto che incentivare le sue notevoli risorse umane, creative, civili e professionali; culturalmente è sembrata ripiegata su se stessa, incapace di crescere e migliorarsi, di essere all’altezza della sua storia. Attraverso il recupero delle radici e del passato di Santa Cristina, la Fondazione Carisbo ha realizzato un’operazione che stuzzica l’orgoglio della bolognesità: ha dato l’avvio ad un progetto culturale di alto livello per il quale è stato indispensabile il coinvolgimento di tutte le forze interessate, delle istituzioni, dei musicisti, degli artisti di fama internazionale e dei collaboratori. Tutti hanno ben compreso che la Fondazione Carisbo non opera soltanto per onorare una convenzione, ma soprattutto e prima di tutto per realizzare un progetto duraturo e d’eccellenza. Fabio Roversi-Monaco Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna

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Terapia

dello spirito

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ei miei ormai remoti verdi anni, un saggio “maestro” di nazionalità francese confinato per ragioni belliche al ginnasio di Romagna che frequentavo, visibilmente sofferente per l’estorta libertà, decantava l’efficacia terapeutica, non solo spirituale, della musica di cui era competente devoto e appassionato cultore. Il suo volto di confinato, abitualmente teso e corrucciato, si distendeva sereno e sorridente al solo riferimento alla musica: “unico antidoto” diceva “alle nostre sofferenze e alle stupidità correnti”. Oggi è convincimento pressoché universale, avallato sembra anche dalla scienza, che l’immersione nell’ascolto di un brano musicale è benefica e salutare. Non solo per l’anima. C’è chi dice: non solo per l’uomo. Se non vero, è indubbiamente verosimile. So per certo che quando all’ascolto, come avviene in Santa Cristina, si associa la visione di artisti come quelli che ci offre il programma qui annunciato: la tensione del loro volto, l’agilità delle dita che si destreggiano su un modesto legno e poche corde o su un arnese metallico, le armonie divine che ne estraggono catalizzano, incantano, commuovono. Magnetismo ben noto ai frequentatori di Santa Cristina sempre in perfetta simbiosi con gli artisti che hanno di fronte: pare trattengano il respiro per non interferire nelle suggestive coinvolgenti armonie che scaturiscono prodigiose da quegli strumenti al tocco di quelle dita. Il contenitore: la grazia architettonica lineare composta accogliente di quest’unica navata dall’acustica eccezionale. Quando all’imbrunire ti accingi a varcare la cancellata che ti accoglie a braccia spalancate, fissa in avanti lo sguardo. Ti aggredirà il Carracci con la sua Ascensione sovrastante l’altare. I discepoli che contemplano Gesù ascendente al cielo, ti parrà siano a un passo da te. E tu con loro: illusione ottica suggestiva. Quando entrato percepirai la sacralità del luogo sacro (era ed è chiesa) e potrai stupire ammirare e studiare le opere d’arte di questo museo: e poi metterti in devoto ascolto. Mi piace condividere la presentazione di questo nuovo programma annuale; piacere per l’annuncio ma ancor più per la perfetta sintonia di vedute condivise in questo triennio da Parrocchia e Fondazione, da Presidente e Parroco.


Non è poco, in questa era in cui all’indomani di qualsiasi accordo insorgono fra le parti discrepanze di vedute, quando non conflitti atroci. Concordanza che ha dato corpo all’intento codificato nell’intesa Fondazione-Parrocchia sancita nel 2006: “… dare avvio a politiche culturali di altissimo livello…”, in antitesi alla pseudocultura imperante. Se anche la tua sfera interiore ha sete di afflato culturale, di distensione, di silenziatori TV e vuole riflettere e meditare, dà ascolto al maestro: accosta le labbra riarse alla vera musica, “unico antidoto alle nostre sofferenze e alle stupidità correnti ”. Ne avrai ristoro. Monsignor Niso Albertazzi Abate parroco di San Giuliano 5

Ascensione (1597, particolare) Ludovico Carracci


La Chiesa

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di

Santa Cristina

della

Fondazza

el 1247 le monache camaldolesi si insediarono entro le mura di Bologna fondando il Convento di Santa Cristina “della Fondazza”. Il vano chiesastico, ad un’unica navata e con quattro cappelle per lato, risale ai lavori di edificazione del 1602 realizzati da Giulio della Torre, architetto della cerchia di Domenico Tibaldi. Tra una cappella e l’altra vi sono delle nicchie che ospitano le statue di Santi opere di Giuseppe Mazza (Bologna, 1653-1741), di Giovanni Tedeschi (Bologna, 1595-1645) e di Guido Reni (Bologna, 1576-1642); queste ultime sono di notevole importanza in quanto unica testimonianza dell’attività scultorea del Reni. All’altezza del presbiterio un’insolita strozzatura dona un assetto originale all’altare maggiore, trasformando l’intera architettura in uno strumento musicale. Ai lati dell’altare, infatti, si trovano due porte sormontate da finestre che aprono sul coro, una stanza retrostante l’area absidale dalla quale il canto delle monache si propagava con stupefacente nitidezza acustica dall’altare fino all’ingresso. Il campanile barocco risale al 1692. Originariamente sulla cima del campanile si stagliava una statua di Santa Cristina in rame dorato e di grandi dimensioni, che girava con il mutare dei venti. Nel 1745, dopo i danni causati da un fulmine, l’architetto Carlo Francesco Dotti sostituì la statua con una palla e una croce, ricostruendo parte del coperto. Nelle cappelle, i dipinti, posti all’interno delle splendide ancone lignee opera di Domenico Maria Mirandola (prima metà XVII sec.), mantengono la loro collocazione originaria, fornendo uno splendido compendio della pittura bolognese dagli inizi del Cinquecento sino alla fine del Seicento. All’interno spicca per particolare pregio L’Ascensione (1597) di Ludovico Carracci (Bologna, 1555-1619). Collocata sull’altare maggiore, doveva in origine essere posta in una cappella laterale in posizione molto alta, da qui il motivo del gigantismo delle figure degli Apostoli, di Maria e della Maddalena raffigurate in primo piano. I colori molto forti e “terreni” sono in contrapposizione alle tonalità della parte superiore del dipinto dove è raffigurato il Cristo mentre sale in Cielo.


Tra gli altri capolavori conservati sono da ricordare negli altari di destra: L’adorazione dei pastori di Giacomo Raibolini, La visitazione di Lucio Massari, L’annunciazione del Passarotti e S. Cristina aggredita dal padre di Domenico Maria Canuti, mentre nella parte di sinistra meritano di essere citati La salita al calvario, sempre del Passarotti e, soprattutto, La sacra Conversazione di Francesco de’ Rossi detto Salviati (Firenze, 1509 – Roma, 1563), quest’ultima degna di nota, in quanto, realizzata durante il suo periodo veneziano (1539-1541), influenzò molto, con il suo tonalismo, la cerchia artistica bolognese, in particolare i Carracci. Al centro si possono vedere la Madonna col Bambino in cattedra, e intorno i Santi Cristina, Giovanni Battista, Filippo, Nicola.

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Santa Cristina: terracotta di Anonimo plasticatore emiliano (inizio XVI sec.)


calendario Bach Suite

Integrale delle Suites per violoncello solo di Johann Sebastian Bach eseguite e raccontate da Mario Brunello lunedì 26 ottobre 2009 Suite n. 1 in sol maggiore BWV 1007 Il mistero del manoscritto

lunedì 30 novembre 2009 Suite n. 2 in re minore BWV 1008 Geologia della suite strumentale

lunedì 11 gennaio 2010 Suite n. 3 in do maggiore BWV 1009 Il violoncello di Bach

lunedì 1 febbraio 2010 Suite n. 4 in mi bemolle maggiore BWV 1010 Per una storia dell’interpretazione

lunedì 1 marzo 2010 Suite n. 5 in do minore BWV 1011 Bach nella lettura di Brunello

martedì 23 marzo 2010 Suite n. 6 in re maggiore BWV 1012 Verso un’interpretazione condivisa

Chiesa

di

Santa Cristina della Fondazza Piazzetta Morandi


ottobre 2009

La

voix humaine Il mondo cantato dai poeti mercoledì 25 novembre 2009 Alda Caiello Gabriele Pieranunzi Gabriele Geminiani Laura De Fusco

soprano violino violoncello pianoforte

mercoledì 20 gennaio 2010 Ethan Herschenfeld Simone Soldati

baritono pianoforte

mercoledì 10 febbraio 2010 Trio Hager Chiara Muti

voce recitante

mercoledì 17 febbraio 2010 Cristina Zavalloni mezzosoprano Andrea Rebaudengo pianoforte

mercoledì 10 marzo 2010 Giuseppina Bridelli mezzosoprano Salvatore Percacciolo pianoforte Giacomo Sagripanti pianoforte

mercoledì 17 marzo 2010 Sonia Bergamasco Emanuele Arciuli

voce recitante pianoforte

Ingresso libero Tutti i concerti avranno inizio alle ore 20.30 non è consentito l’ingresso a concerto iniziato

marzo 2010



Musica

in

Santa Cristina

Bach Suite Integrale delle Suites per violoncello solo di Johann Sebastian Bach


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Il Preludio della prima Suite per violoncello di Johann Sebastian Bach nel manoscritto di Anna Magdalena Bach


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el “capannòn Antiruggine”, luogo che useremo per dar vita ai pensieri e alle idee, una volta si lavorava il ferro. Lavoro duro, materia di fuoco e terra, che la tenacia, la passione, l’intelligenza arriva a piegare per darle forma. Non lasciamo la nostra mente alla ruggine». Sono parole di Mario Brunello, cui il ruolo del fabbro armonioso di suoni calza oggi alla perfezione; almeno quanto si addiceva, tre secoli fa, all’“artigiano” Johann Sebastian Bach. Mario Brunello non è noto soltanto come il primo italiano ad aver trionfato, nel 1986, al Concorso “Čajkovskij” di Mosca, calcando da allora le scene di tutto il mondo come solista al fianco di Gergiev, Mehta, Muti, Abbado, o come camerista coi colleghi Pollini, Kremer, Bashmet. Né lo fermano i confini della classica, che varca da anni per sperimentare progetti nuovi con le voci di Marco Paolini, Moni Ovadia, Vinicio Capossela. A Brunello piacciono le sfide, la fatica del lavoro duro, delle esplorazioni e delle conquiste: il capannone Antiruggine è luogo di sperimentazione e di dialoghi musicali che Brunello ha creato in una ex officina della sua alacre terra veneta. Da anni poi è un habitué dei concerti in cima alle Dolomiti, ma suona anche fra le dune del deserto; e, prima di suonare, la vetta va raggiunta, il deserto attraversato... E un massiccio di musica, inafferrabili suoni, sono per Brunello quelli delle sei Suites bachiane per violoncello solo: «sei vette della musica del passato che costituiscono una vera e propria genesi, una storia solitaria raccontata da un unico strumento». Sfida raccolta, dunque, nella nuova incisione per Egea che uscirà proprio questo autunno, quasi a corredo della rassegna che Brunello offrirà in Santa Cristina: in sei appuntamenti, una Suite per ogni serata, Brunello accompagnerà il pubblico alla scoperta, alla vista, all’ascolto di questa musica, di cime che sembrano rimanere sempre inviolate. Ogni Suite verrà eseguita due volte, all’inizio ed in finale di serata: il secondo ascolto risulterà così arricchito da un approfondimento ed una riflessione dello stesso Brunello, che condividerà con il pubblico le emozioni vissute quando, a tu per tu con testi e partiture, costruisce una forma e dà significato alla propria interpretazione. Concerto dopo concerto, con l’ausilio di documenti sonori e suggestioni visive, scopriremo così il “giallo” dell’assenza, o sparizione, del manoscritto autografo di Bach, come pure la provenienza della forma suite, l’origine delle danze che la compongono e l’assoluta novità con la quale Bach se ne appropria. Brunello s’interrogherà poi sul suono del violoncello all’epoca di Bach, e sulla storia dell’interpretazione delle Suites, fin dalla loro prima registrazione integrale, effettuata nel 1937 da Pablo Casals, per proporre nell’ultimo incontro una possibile “interpretazione condivisa”, accogliendo i suggerimenti – e le provocazioni – del pubblico.

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B ach S uite lunedì

26 ottobre 2009

MARIO BRUNELLO Johann Sebastian Bach (1685-1750) Suite n. 1 in sol maggiore BWV 1007 I. Prélude II. Allemande III. Courante IV. Sarabande V. Menuet I/II VI. Gigue

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Il mistero del manoscritto “Leggerezza”. Questo l’affetto che un fervente esegeta bachiano come Mstislav Rostropovič riconobbe alla prima Suite. Celeberrimo è il Prélude, che fa il paio con l’Allemande nell’andamento rapsodico-improvvisativo: l’uno tutto arpeggi e con strette affinità armoniche col primo Preludio dal Clavicembalo ben temperato, l’altra si muove invece per scalette e note congiunte. Più giocosa, come da manuale, è la successiva Courante in tempo ternario, e maestosamente accordale la Sarabanda. La struttura canonica, inalterata per tutte le sei Suites, prevede a questo punto una galanterie, o danza di corte a scelta fra minuetto, gavotta, bourrée. Per la prima Suite Bach sceglie un Menuet (in due parti più l’a capo), ed è una fisiologica presa di fiato prima della vivacissima Gigue finale. Come avviene nella preparazione di ogni avventura alla scoperta di mondi e luoghi sconosciuti, il primo passo è procurarsi le mappe, le carte. Ma il manoscritto originale delle Suites non ci è pervenuto: ne possediamo soltanto alcune copie settecentesche. Quella di Anna Magdalena Bach è la preferita di interpreti e studiosi, tanto da aver ispirato nel 2006 un’ipotesi che gettò nello scompiglio i “bachiani”: secondo il professor Jarvis dell’Università di Darwin, le Suites non sarebbero state scritte da Johann Sebastian, ma appunto dall’operosa seconda moglie, al pari del primo Preludio del Clavicembalo ben temperato e dell’Aria delle Variazioni Goldberg. Un’ipotesi oggi perlopiù accantonata (senza nulla togliere ai meriti di Anna Magdalena nella revisione di molte partiture del marito), ma che aggiunge ulteriore fascino al “giallo” dell’assenza – o forse della sparizione? – del manoscritto autografo.


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30 novembre 2009

MARIO BRUNELLO Johann Sebastian Bach (1685-1750) Suite n. 2 in re minore BWV 1008 I. Prélude II. Allemande III. Courante IV. Sarabande V. Menuet I/II VI. Gigue

Geologia della suite strumentale Quante note si possono togliere a una musica – si chiede Anner Bylsma, altro illustre interprete bachiano – lasciando ugualmente all’ascoltatore la sensazione dell’armonia e del contrappunto? È un processo di distillazione, quello che Bach opera nelle Suites, arrivando per sottrazione all’essenziale: non serve una nota in più – e se ne accorgerà Schumann, che pure comporrà accompagnamenti pianistici alle Suites bachiane – ed anche una semplice linea di basso (in partitura compaiono al massimo bicordi o arpeggi di tre suoni) riesce a produrre la pienezza di un intero ambito tonale, o l’illusione di due voci che si intreccino in un dialogo. Più che mai nella seconda Suite il dolente accordo di re minore e le sue modulazioni sembrano vibrare, latenti, per tutta la durata del Prélude e dell’Allemande, mentre dopo una veloce Courante di agilità la Sarabande pare quasi un’invenzione a due voci; e non sono da meno i successivi Menuets e la Gigue, dove si distinguono nettamente un basso e una melodia sovrastante, che nella giga assume a tratti la corposità di un bordone. Il “seguito” di movimenti che etimologicamente contraddistingue la suite trova in Bach il coronamento di una lunga evoluzione: l’indagine “geologica” di Brunello ce ne svela le originali funzioni di accompagnamento alla danza nelle prime raccolte inglesi del Due e Trecento; quindi la sua progressiva stilizzazione, da Frescobaldi a Couperin e oltre, in cui la destinazione coreutica diviene via via soltanto una traccia, quasi un rilievo fossile sul quale s’innesta la creatività, ormai del tutto strumentale, dei compositori.

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11 gennaio 2010

MARIO BRUNELLO Johann Sebastian Bach (1685-1750) Suite n. 3 in do maggiore BWV 1009 I. Prélude II. Allemande III. Courante IV. Sarabande V. Bourrée I/II VI. Gigue

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Il violoncello di Bach Brillante e virtuostistica, la terza Suite sembra togliere qualche chilogrammo all’imponenza del violoncello – mentre costa qualche stilla di sudore in più all’interprete. Il Prélude si apre col passo leggero delle scalette che vorticano intorno al tono fondamentale, per assumere via via corpo in arpeggi e progressioni, sino all’epilogo che incide con pieni accordi e doppio trillo finale una cadenza degna dei più roboanti preludi per organo. Lo strumento torna a farsi etereo nell’eleganza tutta gruppetti e colpi d’arco dell’Allemande, poi nella Courante, i cui continui salti fra grave e acuto danno letteralmente l’illusione di due voci che si rincorrano. Dopo la Sarabanda (forse la meno drammatica dell’intero ciclo), la spinta propulsiva della Bourrée (antica danza francese) sfocia nell’esplosione creativa e atletica della Gigue, con il tocco ‘esotico’ di un pedale da cornamusa scozzese, ed un’invenzione così sfrenata da terminare oltre la fine del foglio – almeno nel manoscritto di Anna Magdalena, che si disegna un pentagramma extra per l’accordo finale... Qual era lo strumento per il quale Bach scriveva, e quale il suo timbro, la sonorità e la tecnica esecutiva? Strutturalmente non molto diverso da quello moderno – tant’è che oggi esistono e si suonano ancora esemplari sei e settecenteschi – il violoncello barocco presenta tuttavia una diversa curvatura dell’archetto e del manico, le corde sono in budello anziché in metallo, e lo strumento si sostiene fra le gambe, anziché appoggiarlo al puntale. Alla diversa liuteria si associavano dunque una sonorità ed una tecnica che Brunello rievocherà, indagando sulle soluzioni che l’interprete settecentesco poteva trovare alle sfide lanciate dalle Suites.


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1 febbraio 2010

MARIO BRUNELLO Johann Sebastian Bach (1685-1750) Suite n. 4 in mi bemolle maggiore BWV 1010 I. Prélude II. Allemande III. Courante IV. Sarabande V. Bourrée I/II VI. Gigue

Per una storia dell’interpretazione “Magico” è secondo Piero Buscaroli il Preludio della quarta Suite, dove “un semplice mi bemolle, ripresentato nel basso con la regolarità di una goccia d’acqua al principio di ogni frase di otto note, crea l’illusione di un pedale d’organo su cui lentamente scivolino soavi progressioni discendenti”. E prosegue la magia nell’Allemande dal vagare inquieto, mai pago sino all’ultima nota; poi nella Courante dove compaiono – per la prima volta nel ciclo – ritmi di terzine, che insieme a veloci colpi d’arco ne increspano l’andatura, mentre nella Sarabande il violoncello condensa su di sé le due voci di un canto languido e un basso d’accompagnamento. Alla beffarda Bourrée segue una Gigue dallo sviluppo assai esteso, il cui funambolismo è dissimulato da un miracoloso senso di leggerezza. Infatti, continua Buscaroli, se nelle Sonate e Partite per violino solo – scritte pressoché in contemporanea alle Suites intorno al 1720 – Bach fu “audace”, nelle Suites fu addirittura “temerario”. Ardue sfide tecniche, e insieme capolavori di illusionismo armonico e contrappuntistico, uno schema ordinato e regolare che dà luogo ad invenzioni musicali illimitate. Forse troppo per gli interpreti che le ereditarono, e le condannarono ad un oblio giunto quasi fino a noi – del resto l’opera di Bach tutta non godette di grande notorietà fino ai primi revival mendelssohniani. Liquidate – con la coscienza sporca, sospetteremmo oggi – come opere squisitamente didattiche, le Suites si presero la rivincita grazie a Pablo Casals, che le scoprì tredicenne e non se ne liberò più, incidendole per primo in versione integrale fra il 1936 e il ’39, e tenendo così a battesimo la loro rinascita.

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B ach S uite lunedì

1 marzo 2010

MARIO BRUNELLO Johann Sebastian Bach (1685-1750) Suite n. 5 in do minore BWV 1011 I. Prélude II. Allemande III. Courante IV. Sarabande V. Gavotte I/II VI. Gigue

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Bach nella lettura di Brunello Alchimista di linguaggi e stili, collaudatore esperto – chiamato a certificare la qualità di molti nuovi organi, “conosceva alla perfezione le possibilità di tutti gli strumenti ad arco”, come ricordava il figlio Carl Philipp Emanuel – Bach propone in ciascuna Suite un elemento che ne turba dall’interno l’equilibrio generale. Nella struttura pressoché invariabile della sequenza di danze, nella sovrana simmetria e proporzione, c’è però sempre qualcosa di nuovo e unico: l’invenzione musicale (magia dell’armonia e del contrappunto che divengono udibili pur senza essere “suonati”), la tecnica o l’accordatura stessa dello strumento. Nella quinta Suite il violoncello è infatti “scordato”, ossia la sua quarta corda (la più acuta) suona un tono sotto la normale accordatura (un sol anziché un la), con ovvie ripercussioni sulla posizione delle note, ma anche sul timbro dello strumento. A dominare è lo stile “alla francese”, il cui tipico ritmo puntato percorre quasi tutti i movimenti: dal Prélude, suddiviso in maestosa ouverture e fuga, all’Allemande impervia di accordi che ne sospendono ostinatamente lo scorrere, alla Courante, anch’essa tutta esitazioni e bicordi. La Sarabande è un caso a sé: soltanto venti battute, lento scandire di note scolpite che danno ancora una volta l’illusione dell’armonia. Puntata e saltellante è poi la Gigue finale, e francesissima è la Gavotte, danza assai in voga alla corte di Re Sole; ma nella parte centrale un tremolo di terzine increspa il suo aureo equilibrio. E proprio a “scovare” quegli elementi fondamentali fra le note, quelle voci nascoste che ne costituiscono il mistero, mira la lettura bachiana di Brunello.


B ach S uite martedì

23 marzo 2010

MARIO BRUNELLO Johann Sebastian Bach (1685-1750) Suite n. 6 in re maggiore BWV 1012 I. Prélude II. Allemande III. Courante IV. Sarabande V. Gavotte I/II VI. Gigue

Verso un’interpretazione condivisa L’opera per violoncello più visionaria del Settecento, è secondo Mario Brunello – e certo non solo per lui – la sesta Suite. Un’opera che trascendeva anche le possibilità tecniche degli interpreti coevi, se Bach la pensò per un violoncello “à cinq acordes”, aggiungendo quindi una corda “di soccorso” per facilitarne l’esecuzione, a quanto indica il manoscritto di Anna Magdalena. Un’indicazione che scatenò la fantasia degli studiosi, i quali arrivarono ad ipotizzare una leggendaria “viola pomposa” d’invenzione bachiana; ipotesi non priva di attrattive, ma poi confutata (nel 1940) da Curt Sachs. La tecnica esecutiva moderna consente la realizzazione della Suite su un violoncello “normale”, ma richiede senza dubbio una superiore maestria nell’escogitare soluzioni pratiche alle sue impervie sfide. Su più di tre ottave d’estensione, la Suite si apre con un ampio Prélude di mirabolante virtuosismo; il vagare, mai pago, della successiva Allemande riempie di sé lo spazio sonoro (e quello visivo del manoscritto), mentre il tono giocoso della Courante dissimula la notevole fatica dell’interprete. Ad una Sarabande che ha la pienezza di un corale si allineano poi Gavotte e Gigue, anch’esse meno leggere del solito per la presenza di bicordi e solidi bassi d’accompagnamento. Un simile rovello tecnico ha ispirato a Brunello un esperimento: dopo la prima esecuzione della Suite, raccoglierà i suggerimenti e le osservazioni del pubblico per costruire insieme un’interpretazione che sarà il risultato, unico e irripetibile, di una condivisione e della complicità fra esecutore e ascoltatori.

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Musica

in

Santa Cristina

La voix humaine Il mondo cantato dai poeti


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Walt Whitman


«N

ulla al mondo è necessario più della musica». La perentoria professione di fede di Aleksandr Blok fa eco a secoli di poetiche dichiarazioni d’amore alla musica, ed innumeri sono i musicisti che vi rispondono, esaltando le corrispondenze fra le due arti: “Se la poesia è l’armonia delle parole, la musica è l’armonia delle note; e come la poesia è un elevarsi al di sopra di prosa e retorica, così la musica è l’esaltazione della poesia”. Parola di Henry Purcell; ma infinite sono le citazioni, poiché dal “recitar cantando” del primo Seicento al “canto parlato” di Schönberg – ma si potrebbe risalire a ritroso fino all’antico teatro greco, per poi perdersi nella notte delle origini stesse del linguaggio – sempre compositori e poeti si sono cercati, e spesso trovati, scambiandosi energie e suoni nella ricerca di una fusione fra due arti così diverse eppure così vicine, indipendenti eppure sorelle nel condividere parametri fondamentali come intensità, timbro, altezza, ritmo… D’altronde il termine stesso di “musica”, con i suoi equivalenti in quasi tutte le lingue indoeuropee, ci riporta all’insieme delle Muse della mitologia antica, indicando in origine proprio la totalità delle arti poetiche e rappresentative poste sotto la loro egida. Parole e musica s’incontrano dunque nei secoli e nel mondo, e La voix humaine vuol essere un’antologia di questi incontri, dove la voce ci conduce da un estremo all’altro del continente europeo, e poi in America, restituendo i versi che i musicisti hanno raccolto dai poeti dal Settecento a oggi. L’incontro può avvenire sotto molte forme: quella della canzone – o chanson, o Lied o song – è forse la sua definizione più ampia e certo la più libera. La ritroviamo nella poesia simbolista di Blok, fattasi musica nelle mani di Šostakovič, come nei Lieder scandinavi che Sibelius crea, non senza attingere al canto popolare, sui versi di Runeberg, l’esecuzione affidata ad un quartetto di valenti solisti capeggiati dal soprano Alda Caiello e dal violino di Gabriele Pieranunzi. Si fanno poi canzone le strofe di Emily Dickinson e Walt Whitman – non a caso i due poeti americani più “musicati” al mondo – nelle partiture di Copland e di Weill; e nell’interpretazione di Ethan Herschenfeld, baritono applaudito al Carnegie Hall come al Concertgebouw, il canto assume tutte le sfaccettature del musical e del jazz, fino ad arrivare al cantautorato di Leonard Cohen. E ancora: la voce può cantare, come nelle “opere da camera” su testi di Cocteau e musiche di Poulenc e Tutino, qui letteralmente imperniate intorno a Cristina Zavalloni e Giuseppina Bridelli: due cantanti il cui studio del gesto e della parola scenica ne fa validissime attrici; ma può anche parlare con la musica, intrecciarsi alle note, riceverne sostegno oppure resistenza: è il caso del melologo, qui rappresentato dal celebre prototipo settecentesco della Medea di Benda e dalla sua propaggine moderna, Enoch Arden di Richard Strauss, affidati viceversa a due attrici, Chiara Muti e Sonia Bergamasco, il cui studio della vocalità le rende anche interpreti “musicali”.

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La

voix humaine

mercoledì

25 novembre 2009

Alda Caiello Gabriele Pieranunzi Gabriele Geminiani Laura De Fusco

soprano violino violoncello pianoforte

Dmitrij Šostakovič (1906-1975) Sette romanze op. 127 Suite vocale-strumentale su poesie di Aleksandr Blok per soprano, violino, violoncello e pianoforte

Jan Sibelius (1865-1957) Selezione di Lieder dall’op. 13, 17, 36, 50 e 37 24

su poesie di J.L. Runeberg, A.V. Forsman, I. Calamnius, E. Josephson, G. Fröding, M. Susman, R.F.L. Dehmel, J.J. Wecksell

Nel 1967, per le sue Romanze op. 127 Dmitrij Šostakovič poteva contare su un quartetto di titani: al soprano Galina Višnevskaja ed al suo celebre marito Mstislav Rostropovič, i quali avevano richiesto all’amico di comporre “qualcosa da eseguire insieme”, Šostakovič aggiunge due parti extra per violino e pianoforte, letteralmente cucite addosso ad un altro paio di amici, David Oistrach e Svjatoslav Richter. Oggi manca senza dubbio la prospettiva storica per un tributo, ma il quartetto d’interpreti che raccoglie l’eredità di simili predecessori merita un riconoscimento che l’Italia odierna è sicuramente meno pronta ad assegnare dell’allora Unione Sovietica. C’è la grande scuola, quella di Vincenzo Vitale come di Rudolf Serkin per Laura De Fusco, quella violinistica di Accardo e Gulli per Gabriele Pieranunzi, e il perfezionamento con Meneses e Maisky per Gabriele Geminiani; ci sono la stima e le dediche di autori come Berio, Nono, Guarnieri nel caso della soprano Alda Caiello, ma non solo nel suo. E poi la collaborazione, per tutti loro, coi grandi direttori del nostro tempo, da Muti a Maazel, da Mehta a Chung. E soprattutto c’è la passione e il desiderio di fare musica insieme, sempre alla ricerca di programmi e organici meno esplorati: col risultato di riscoprire il delicato colore scandinavo dei Lieder di Sibelius, fra memorie schubertiane e inquietudini tardoromantiche, o la “maliosa corrente di suoni” (Ripellino) che Šostakovič associa al simbolismo di Blok.


La mercoledì

Ethan Herschenfeld Simone Soldati

voix humaine

20 gennaio 2010

baritono pianoforte

Aaron Copland (1900-1990) 12 Poems by Emily Dickinson George Gershwin (1898-1937) Tre Preludi per pianoforte Stephen Foster (1826-1864) My Old Kentucky Home – Swanee River Duke Ellington (1899-1974) Mood Indigo – Solitude Kurt Weill (1900-1950) 4 Walt Whitman Songs Leonard Cohen (1934) Suzanne – Bird on a Wire I’m Your Man – Everybody Knows L’America si racconta con la voce dei suoi poeti più celebri e celebrati, ma anche dei suoi compositori, jazzisti e cantautori. Fra autentiche rarità per il pubblico italiano, come i Songs di Copland e Weill, e pietre miliari del jazz e del musical, lo spirito americano si snoda dall’Ottocento di Stephen Foster, padre putativo del folk americano e autore della celeberrima Oh! Susanna, all’oggi del canadese Leonard Cohen, fecondo songwriter e “padre” di un’altrettanto celebre Suzanne. E si snoda anche dall’intimità della stanza dove Emily Dickinson preferì trascorrere tutta la vita (rilegando con ago e filo i foglietti dove trascriveva le sue quasi duemila poesie) alle strade ed ai campi di battaglia di Walt Whitman e delle sue Foglie d’erba. Un baritono americano ed un pianista italiano se ne fanno ambasciatori con ammirevole versatilità: Ethan Herschenfeld ha iniziato col grande Franco Corelli, e ad oggi allinea oltre 40 ruoli fra Stati Uniti, Europa e Asia, passando con disinvoltura dal Flauto magico a Sweeney Todd. Da parte sua, Simone Soldati ha fatto tesoro degli insegnamenti di Dario De Rosa del leggendario Trio di Trieste, e oggi è solista assai apprezzato da Riccardo Muti, membro dell’Ensemble Nuovo Contrappunto e partner richiesto da musicisti e attori come Alain Meunier e Ugo Pagliai.

25


La

voix humaine

mercoledì

10 febbraio 2010

TRIO HAGER

Inge Hager violino Elke Hager violoncello Enrico Pompili pianoforte Chiara Muti

voce recitante

Franz Schubert (1797-1828) Notturno per trio con pianoforte

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Georg Benda (1722-1795) Medea – Melologo su testo di Friedrich Wilhelm Gotter Trascrizione per trio di Johannes Kropfitsch Versione italiana di Giuseppe di Leva Fiorito nel secondo Settecento e ripreso sporadicamente fino al Novecento, il melologo – evocante sin dal nome la magia di un’alchemica fusione di melodia e parola – è ibridazione affascinante ma dal catalogo piuttosto scarno: nella storia della musica, il melologo per antonomasia è Medea, presentato nel 1775 insieme alla sua omologa Ariadne auf Naxos dal boemo Georg Benda, ed il cui ascolto tanto incantò Mozart da ispirargli un’entusiastica recensione: «Questi due drammi sono davvero eccellenti: non sono cantati ma declamati e la musica è quasi un recitativo obbligato; talvolta si recita su uno sfondo musicale, il che fa uno splendido effetto». Rara è oggi l’esecuzione dell’opera, qui proposta in trascrizione per trio e nella versione italiana di un drammaturgo esperto come Giuseppe di Leva. La tragedia di Medea, lacerata dal dolore e dal desiderio di vendetta, si articola in un unico monologo affidato all’intensità di una delle più affascinanti attrici italiane, Chiara Muti, formatasi al Piccolo di Giorgio Strehler ed insignita, per le sue interpretazioni teatrali e cinematografiche, dei premi “Anna Magnani”, “Eleonora Duse” e “Grolla d’oro”. Sostegno, commento e contrappunto alla parola, la musica spetta invece al Trio Hager, che riunisce le due sorelle Hager (prime parti dell’Orchestra Haydn di Bolzano e protagoniste di concerti coi Wiener Symphoniker, ospiti del Festival di Salisburgo e di Lucerna) e il pianista Enrico Pompili, vincitore assoluto del Concorso internazionale di Santander ed autore di incisioni per Philips e Stradivarius.


La mercoledì

Cristina Zavalloni Andrea Rebaudengo

voix humaine

17 febbraio 2010

voce pianoforte

Francis Poulenc (1899-1963) Cinque Notturni per pianoforte La voix humaine – Tragedia lirica in un atto Testo di Jean Cocteau 27

L’universalità dell’opera di Cocteau è l’universalità del dolore, quello che da sempre ci fa amare, piangere, soffrire sino a tentare di farla finita. Dal mito alla cronaca, amore e morte si legano indissolubilmente; “il dolore è dappertutto”, diceva Denise Duval, prima interprete nel 1959 della Voix humaine musicata da Poulenc, ed è proprio questo che dà all’opera una “forma di eternità”. E la rende anche un’ardua prova interpretativa, oltreché vocale. Al monodramma di Cocteau – amore che finisce in una telefonata, al di qua del capo una donna disperata, che parla di sonniferi e forse ha appena tentato il suicidio, al di là un uomo invisibile e inudibile – Poulenc regala una partitura che mette in musica i suoni come i silenzi, rendendo percepibile proprio la presenza di quell’interlocutore remoto, le stesse sue parole che pure non sentiamo. E lo fa con il dono della trasparenza, della sintesi (e della melodia), scarnificando e riassumendo un mondo intero in una sola “voce umana”: prova d’interprete, si diceva, per una cantante che è anche attrice di personalità come Cristina Zavalloni, solita a passare con disinvoltura dal barocco alle prime esecuzioni di autori quali Andriessen, Nyman, MacMillan, per i quali è solista corteggiata dal Lincoln Center di New York quanto dal Concertgebouw olandese. E prova di concertazione anche per il pianista, che nella versione autografa del dramma – allievo di Ricardo Viñes, Poulenc era ottimo strumentista e improvvisatore – deve fornire alla voce una sorta di “spazio scenico” oltreché sonoro: alter ego ideale per la Zavalloni, con la quale condivide molte dediche ed interpretazioni di nuova musica, è Andrea Rebaudengo, valente solista coi Pomeriggi Musicali e membro dell’ensemble Sentieri Selvaggi.


La

voix humaine

mercoledì

10 marzo 2010

Giuseppina Bridelli mezzosoprano Salvatore Percacciolo pianoforte Giacomo Sagripanti pianoforte Marco Tutino (1954) Le bel indifférent – Monologo lirico per voce e due pianoforti Testo di Jean Cocteau Adattamento di Pierluigi Pizzi e Marco Tutino Regia di Pierluigi Pizzi

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Ad un’Édith Piaf appena venticinquenne è dedicato il monologo drammatico di Jean Cocteau, dove la solitudine dell’artista è quella dell’amante infelice, e dell’umanità tout court nel mondo alienato e angoscioso dell’esistenzialismo. Una cantante si strugge nell’attesa dell’amato in una camera d’albergo; quando infine lui arriva, quello che dovrebbe essere un dialogo fra innamorati si rivela uno stralunato monologo della protagonista, disperatamente aggrappata a un sentimento, un legame che non esiste più (se mai è esistito al di là della sua illusione); il bell’indifferente è forse solo un fantasma dell’amore, “misteriosa figura presente in scena, ma muta”, come spiega Marco Tutino, che nel 2005, insieme a Pierluigi Pizzi, ha costruito sulla pièce di Cocteau un monologo lirico per mezzosoprano e orchestra, qui nella versione per due pianoforti. “La musica – continua Tutino – segue i momenti psicologici della donna e si pone al servizio del teatro, pensando a ciò che deve raccontare, a ciò che accade sulla scena”, ed operando una sintesi di “esperienze differenti e linguaggi diversi”, per riandare in certo senso alla radice dell’unione fra teatro e musica che ha dato origine al melodramma. Protagonista ideale è Giuseppina Bridelli, cantante e attrice specializzatasi proprio in quei generi, come la liederistica e l’opera buffa, nei quali la componente scenica riveste un ruolo pressoché paritetico rispetto alla vocalità. Poco più che ventenne – proprio come lo era la Piaf immortalata da Cocteau – la Bridelli ha già riscosso ampi consensi, partecipando nel 2006 al Festival “Omaggio a Maria Callas”, e confermando il proprio talento con la vittoria all’edizione 2007 del Premio As.Li.Co.


Sonia Bergamasco Emanuele Arciuli

La

voix humaine

mercoledì

17 marzo 2010

voce recitante pianoforte

Edvard Grieg (1843-1907) Dai Pezzi lirici per pianoforte: Arietta op. 12 n. 1 – Oisillon op. 43 n. 4 Erotik op. 43 n. 5 – Alla Primavera op. 43 n. 6 Vision op. 62 n. 5 – Giorno di nozze a Troldhaugen op. 65 n. 6

Richard Strauss (1864-1949) Enoch Arden – Melologo per voce recitante e pianoforte op. 38 Testo di Alfred Tennyson Adattamento e traduzione a cura di Bruno Cagli 29

Enoch, il “rude figlio di marinaio reso orfano da un naufragio”, Philipp, “il figlio unico del mugnaio”, ed Annie, “la ragazzina più graziosa nel piccolo porto”: tre fanciulli che giocavano insieme sulla spiaggia, crescono e divengono protagonisti di una tragica quanto romantica storia d’amore. Questo l’epicentro del dramma vittoriano su cui Richard Strauss costruisce nel 1897 il suo commento musicale, che Quirino Principe definisce “ricco d’intelligenza drammatica e persino cinematografica ante litteram”, con la sua “presenza della dimensione temporale come agente dell’emozione, l’immagine del mare in tempesta [...] e soprattutto l’evidenza drammatica con minimi mezzi”; uno fra tutti l’utilizzo dell’evocativo Leitmotiv, o motivo conduttore, che contribuisce a leggibilità e coesione della partitura richiamando di volta in volta stati d’animo, situazioni o personaggi. Un melologo “infallibile e caldo di emozione”, secondo Sonia Bergamasco, attrice formatasi al Piccolo di Strehler e diretta fra gli altri da Bertolucci, Cavani e Giordana (è fra i protagonisti de La meglio gioventù); ma anche musicista la cui ricerca sulla vocalità, ispirata dall’incontro con Carmelo Bene, ha portato all’interpretazione di molta nuova musica per voce recitante e cantante. A sua volta un riferimento per molti autori contemporanei, come Nyman, Crumb, Ferrero, Babbitt, che gli dedicano le loro composizioni, è il pianista Emanuele Arciuli, il quale alla dimensione fiabesca dell’Enoch Arden affianca con scelta felice la fantasia nordica dei Pezzi lirici di Grieg, che dipingono in pochi istanti e con tocco lieve scene, visioni, sensazioni.



Per le attivitĂ in Santa Cristina: consulente artistico

Bruno Borsari

responsabile coordinamento e organizzazione

Annalisa Bellocchi

redazione testi e segreteria organizzativa

Fulvia de Colle

Progetto grafico e stampa: Clivis - Bologna

La Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna si riserva il diritto di apportare variazioni - dovute a motivi tecnici o di forza maggiore - ai programmi, agli orari e alle date dei concerti


Finito di stampare nel mese di ottobre 2009


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