Editore: Il Sole 24 ORE Business Media S.r.l. – Sede operativa: Via Granarolo 175/3 - 48018 FAENZA RA - Tel. + 39 0546 63781 - Fax +39 0546 660440 – info.faenza@businessmedia24.com - www.faenza.com - ISSN 1123-816X - € 4,00 - La Ceramica Moderna & Antica n. 274 - Ottobre/Dicembre 2009 - Trimestrale - Anno XXX - n. 10/12.
3 an 0 ni
3 editorale 4 mostre
Se son... capolavori, fioriranno Antonella Ravagli
8 Artisti al macello Alida Gianti
12 I luoghi della ricerca di Ugo La Pietra Franco Bertoni
13
Antonia Campi – fantasie di serie, fantasie di eccellenza
14 design
Enzo Mari: una storia al servizio del design Tiziano Dalpozzo
17 missive
Enzo Mari
18 musei
Il MIDeC di Cerro di Laveno Mombello Emma Zanella
20 Il museo di Doccia Oliva Rucellai
23 Museo della Maiolica a Lustro di Gubbio Ettore A. Sannipoli
25 le Città della Ceramica Italiana Calabria
Seminara e Squillace - Ceramica in Calabria Antonio Pugliese
29 Lombardia
45 artisti
Bertozzi e Casoni alla Biennale di Venezia Franco Bertoni
47 a.a.a. altreartiapplicate
In fondo al mare c’è tutto Jean Blanchaert
50 La Nuova Fratellanza Jean Blanchaert
51 concorsi
Faenza è un paese per giovani vecchi? Enzo Biffi Gentili
54 dischilibri
Il Cotto dell’Impruneta
Maestri del Rinascimento e le fornaci di oggi
55 Hector Zazou & Swara - In the house of Mirrors Giovanni Bolognini
56 Il fascino del passato -
“Sulle tracce dei vasai” Antonella Ravagli
57 antiche curiosità ceramiche
Non si può dire certamente che esse siano donne insipide Elisabetta Alpi, Flora Fiorini
60 eventi
Mostra della ceramica di Castellamonte
61 abstract 62 notizie
La ceramica artistica lodigiana Grottaglie Daniela De Vincentis
35 Maiolica laertina 36 Toscana
Impruneta: la città del Cotto Ida Beneforti Gigli
38 Cultura e ricerca storica: Montelupo Fiorentino Fausto Berti
41 extramoenia Fake
Intervista a Grayson Perry Anna Babini
In copertina:
30
anni
Antonia Campi, Forma, 1998, porcellana decorata a freddo con acrilico, 30 x 22 x h 15 cm, esemplare unico. Produzione Arcadia, Trezzano sul Naviglio. MIAAO, Torino.
sommario
32 Puglia
Editore: Il Sole 24 ORE Business Media S.r.l. – Sede operativa: Via Granarolo 175/3 - 48018 FAENZA RA - Tel. + 39 0546 63781 - Fax +39 0546 660440 – info.faenza@businessmedia24.com - www.faenza.com - ISSN 1123-816X - € 4,00 - La Ceramica Moderna & Antica n. 273 - Luglio/Settembre 2009 - Trimestrale - Anno XXX - n. 7/9.
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editoriale Elisabetta Bovina
Il Devoto Oli, alla voce riserva offre, fra le diverse accezioni, quella di “condizionamento, limitazione, restrizione dell’assenso” così come alla voce riservare propone un “tenere a disposizione per qualcuno e non per altri”. Per la voce riservato propone “la destinazione esclusiva può identificarsi nella preclusione ad altri, con l’idea implicita di discrezione o segretezza”. Il vocabolario latino ci fornisce sicurezze dando come traduzione di riservato locus certus. La nostra storia, il nostro quotidiano, sono pieni di riserve, in senso concreto e figurato; a partire dalla romanzata riserva indiana, territorio abitato, in decenni di filmografia, dai cattivi, i selvaggi, salvo poi recuperare un briciolo di umanità (bontà) nel “Balla coi lupi” di Kevin Kostner, passando per i “riservato alle donne”, “riservato ai bianchi”, “riservato ai gay”, “riservato agli ebrei”. Con tutte le nostre riserve oggi in Italia siamo arrivati al reato per immigrazione. Dove ha senso la riserva? Questo certamente non è il luogo per un’apologia della riserva ma un tententativo di riflessione sulle tante forme di limitazione che imperversano ovunque, soprattutto – e qui la questione ci riguarda da vicino – nel mondo dell’arte. Senza il Turner Prize, riservato agli artisti britannici, Grayson Perry avrebbe avuto la visibilità di oggi? Damien Hirst, i fratelli Chapman, Tracey Emin, sono diventati gli Young British Artist solo per un fatto anagrafico e grazie a una mostra, senza riserve, alla Saatchi Gallery. L’Art Star System è pieno di concorsi riservati ai giovani, quasi che per assioma giovane significhi sempre: nuovo, interessante, rivoluzionario, inedito. Non che i giovani non abbiano bisogno di essere sostenuti, soprattutto quando iniziano a camminare sulle sabbie mobili del Sistema dell’Arte ma in passato, con questa logica anagrafica, una come Louise Bourgeois sarebbe rimasta nella riserva delle “casalinghe disperate”. L’obiettivo di premi e concorsi è la rivelazione del Talento, ma come si fa a credere che Tiziano Scarpa, vincitore del Premio Strega 2009 – dopo aver denigrato e definito quello stesso premio un pretesto per fare soldi, avere potere, collezionare medagliette e coppe – sia un vero, nuovo talento della letteratura italiana? Siamo veramente certi che riservare e marchiare siano sempre sinonimi di qualità? O non è forse vero il contrario che cioè, quando la qualità è leitmotiv di un’opera, sia
essa musica, scultura, abito, scarpa, gioiello, piatto in ceramica, diventa automaticamente riserva o marchio? Philiph Glass, Armani, Valentino, Bulgari, Ferragamo, Bertozzi & Casoni docent. Forse, dovendo vivere ogni giorno nella costante incertezza dell’essere il locus certus ci conforta, lasciandoci credere di essere più vivi, più importanti, più collocati rispetto agli altri, più degni di far parte della Storia e del Mito. Anche l’abito bianco una volta era riservato alle vergini ma ci piacerebbe conoscere oggi le illibate degne di salire all’altare dell’Arte. È solo un problema italiano, quello di una certa visione dell’arte e della cultura, sempre asservite a ideologie di provincia (destra o sinistra che siano) o la questione è planetaria? Certo è che la visibilità improvvisa può giovare a una carriera artistica quando però l’arte stessa, il singolo linguaggio, non siano improvvisati. L’artista, per definizione, è un cervello pensante libero: chissà che prossimamente non nasca un nuovo Mito dell’arte, un Michelangelo che entri nelle collezioni e nei musei più importanti, osannato da tutti senza essere apparentato, in qualche modo, con “Picone”. A proposito di Mito e di ceramica, vale la pena rileggersi, e non a caso, “La vasaia gelosa” di Claude LéviStrauss in cui il filosofo francese analizza il mito dell’argilla che, dovendo essere cotta, ha bisogno del fuoco, conquista che nel pensiero degli Indiani d’America significava il passaggio dalla natura alla cultura. Nel saggio, per gli Indiani l’argilla è l’oggetto del contendere fra un popolo celeste e uno dell’acqua o del sottosuolo; un’interessante analisi del processo creativo del vasaio che rimanda ai rapporti di forza fra contenitore e contenuto, significato e significante, nell’ottica della riserva che è alla base di tutto il processo ceramico “…Demiurgo in piccolo, la vasaia, anch’essa gelosa, impone delle limitazioni a una materia in libertà”. (Claude Lévi-Strauss, La vasaia gelosa, Torino, Einaudi Paperbacks, 1987). Paolo Schmidlin, Il matrimonio della vergine, 2003, terracotta policroma, h. cm 90.
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Kate Street, Orchis Lobularuis, 2008, acquerello e penna su carta, 84 x 60 cm, courtesy: L’Artista e Galleria Nettie Horn
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mostre
Diego Perrone, Senza titolo, 1997, colori su terracotta, cm 9x43x18, Collezione privata, Torino
Se son… capolavori, fioriranno
Flower Power è il grande evento espositivo con cui viene riaperta al pubblico la storica Villa Giulia sul Lago Maggiore Antonella Ravagli
Gli “artisti della ceramica” -imparando da quanti, nomi già affermati nella pittura o nella scultura, non hanno disdegnato, seppure tardivamente, a mettere le mani in pasta- finalmente hanno abbandonato l’ossessione maniacale verso la tecnica o la decorazione a regola d’arte, per dedicarsi piuttosto alla conoscenza del mondo o per lo meno dell’arte contemporanea. A questo proposito, il risultato più alto è certamente quello raggiunto dal duo Bertozzi-Casoni, oggi protagonisti alla Biennale di Venezia e ormai celebri in tutto il mondo. La ceramica sta uscendo dall’isolament; infatti, è ormai prassi comune trovare esposte nelle grandi mostre un discreto numero di opere realizzate in materiale fittile: terracotta, gres, porcellana, ma soprattutto connubi con sup-
porti di diversa natura (quelli che in didascalia sono definiti materiali diversi). Non è fuori luogo perciò occuparci della mostra “Flower power”, con cui viene riaperta la storica villa sul lago Maggiore appartenuta alla famiglia Branca, perché, nella dettagliatissima indagine alla scoperta dei più significativi contributi floreali dell’arte (dalla fotografia, all’artigianato, alla pittura, alla scultura) dalle prime civiltà e fino ai giorni d’oggi, non mancano originali opere in ceramica. Johan Creten, Lucio Fontana, Franco Garelli, Ma Jun, Markus Karstiess, Corinne Marchetti, Aldo Mondino, Diego Perrone, Wieki Somers, Luisa Valentini hanno indagato il tema del fiore attraverso la ceramica, al fianco di artisti del calibro di Abrahm Brueghel, Tina Modotti, Karl Blossfeldt, Giorgio De Chirico, Fortunato Depero, Giorgio Morandi, Andy Warhol, Joseph Beuys, Robert Mapplethorpe, più fedeli al loro linguaggio usuale. Una insolita raccolta di oltre 160 opere attraverso epoche e stili diversi.
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A sinistra: Emmanuelle Dupont, Phalaenopsis o Orchidée Papillon, 2008, Tecnica mista, cm h. 35 x 24 cm ø, Courtesy: Emmanuelle Dupont, PRIX Liliane Bettencourt pour l’Intelligence de la Main 2008. Sotto: Ma Jun, Coca Cola bottles II, 2006, porcellana dipinta, cassa di legno, 36,5x36,5x31, Courtesy: L.A. Galerie – Lothar Albrecht, Frankfurt.
Un inciso a parte merita la scelta del soggetto della mostra: il fiore, appunto, come elemento che racchiude in sé non solo banali valenze estetiche, ma come elemento di forza, in grado di trasmettere emozioni, ideali, riflessioni. Ne è un esempio a tale proposito, la storica fotografia di Bernie Boston in cui dei giovani americani, per protesta, introducono fiori nelle canne dei fucili che i militari gli puntano contro. Andrea Busto, sottolinea proprio questo aspetto, sostenendo che è evidente che la maggior parte dei fiori dipinti, esula dalla semplice descrizione formale, «..., ci parlano di mondi invisibili attraverso mondi visibili». Così, viene spontaneo citare il celebre fiore in Guernica di Picasso che, nei suoi pochi petali striminziti, riassume in sé tutta la forza e la speranza di una città destinata a risorgere.
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A sinistra in altro: Lucio Fontana, Fiore e farfalle, 1938, Ceramica riflessata, 13x38x23, Collezione Privata, Courtesy: Galleria Martini & Ronchetti, Genova. Al centro: Corinne Marchetti Plante verte, 2007, Pezzo unico, 21 x 35 x 29 cm, Gres, smalto, Courtesy: Galerie Laurent Godin, Paris. In basso: Andy Warhol, Fiori, 1965, cm 61 x 61.
È vero che il fiore nell’arte è sempre stato considerato un genere minore, come è pur vero che nella casa (quindi a stretto contatto con la vita dell’uomo), da millenni è protagonista incontrastato delle decorazioni per pareti (si pensi ai decenni in cui i motivi floreali sono stati protagonisti incontrastati dei motivi su piastrelle), e complementi d’arredo. Senza dimenticare i tessuti, in cui i fiori -dagli arazzi rinascimentali, al liberty, alla moda dei nostri giorni- hanno vissuto ogni sorta di copiatura e di trasformazione di pari passo con le più sorprendenti mutazioni coloristiche e tecniche, che vanno dalle tinte fosforescenti alla riproduzione tramite immagini digitali. È giusto perciò, per facilitarne la lettura, che il percorso di questa mostra segua diverse tematiche: “Flower power” incentrata soprattutto sull’accusa di carattere politico e ambientale; “La vita silente” che comprende il percorso principale della mostra e indaga l’evoluzione di questo soggetto sul tema della natura morta; “Erbari” l’arte come fonte di studio e mezzo per tramandare le proprie conoscenze; “Thanatos” la morte, la simbologia legata al fiore soprattutto nell’arte del passato; “Eros” quando l’immagine del fiore si carica di valenze sensuali in rapporto ai corpi; “Mutazioni genetiche” la fusione tra umano e naturale; “Verso l’astrazione” di cui potrebbe essere simbolo il celebre albero di Mondrian che, per progressivi passaggi di sintesi, viene stilizzato definitivamente in linee perpendicolari e colori primari; “Geometrie, decorazioni, pop” la stilizzazione formale, il gesto dell’artista. Questa mostra che apre un ciclo espositivo voluto dal CRAA (Centro Ricerca Arti Attuali) della Regione Piemonte, è allestita nella prestigiosa Villa Giulia a Verbania sul Lago Maggiore. L’esposizione resta aperta fino a l’11 ottobre 2009. Per informazioni 0323 503249; www.craavillagiulia.com. Catalogo Silvana Editoriale.
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Claudio Carrieri, Urna, 2008, bronzo, h cm 145.
mostre
A fianco: Franco Bratta, Scimmia seduta, 2009, particolare, bronzo patinato, h cm 100.
Artisti al macello Collettiva a Savona Alida Gianti
Il titolo lapidario e certo curioso dell’esposizione che mi accingo ad illustrare va preso alla lettera: “Artisti ospitati presso il macello (ex) di Savona”, nel quartiere ovest di Lègino. Cinque personalità che utilizzano diversi linguaggi artistici, con prevalenza, in loco, di quello ceramico: Franco Bratta, Claudio Carrieri, Giovanni Rossi, Fulvio Rosso, Roberto Scarpone. Da aggiungere inoltre il simpatico contributo degli “Au-tori”, ovvero i bambini di cinque scuole primarie (quattro di Savona, una di Càrcare-Sv), che hanno modellato la bellezza di seicento piccoli tori, poi raggruppati come un vero esercito di figurine tridimensionali all’interno di una grande vasca inox. Va peraltro precisato che la parola “macello” può assumere anche un valore simbolico, come giustamente osserva in catalogo (edito da ADW, Vado Ligure) Anna Venturini: “La collettiva si apre con una dichiarazione esplicita: la volontà di superamento dei dogmi di tutte le avanguardie, intese come sperimentazioni ottimistiche di nuove tecniche e materiali. Nomadismi culturali ed eclettismi stilistici sembrano aver condotto l’arte verso un simbolico macello. La merce artistica ha invaso il mondo al pari di qualsiasi altra merce”. L’interessante evento savonese, inaugurato lo scorso maggio 2009 e prorogato a luglio per il notevole successo di pubblico, presentava un carattere di doppia originalità, sia perché ha avuto luogo in un posto decisamente insolito, forse mai offerto per una esposizione, sia perché rimarrà un fatto isolato, unico, in quanto l’edificio di piazzale Amburgo, non più utilizzato dopo il suo ammodernamento (sono cambiate le leggi sulla macellazione, mi diceva in mostra il cordialissimo Roberto Scarpone), ospiterà in futuro il mercato del pesce. In sé gli spazi hanno un che di inquietante, dal momento che vi si trovano attrezzature predisposte per i “riti” che ben possiamo immaginare. La presenza delle opere artistiche ha consentito un salto visivo ed una sorta di depistamento sensibile, vorrei dire: dimentichiamo il sangue versato, il dolore, la morte, pur programmati per l’alimentazione degli esseri umani; al contrario, alleggeriamo per qualche tempo
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l’ambiente (arredato come esso appare con contenitori di acciaio, catene, uncini e quant’altro) grazie alla presenza di molte opere che, facendoci scordare certe materiali necessità, ci introducono in un bel mondo di esaltante creatività. Entrando al macello, la vista corre in prospettiva immediata verso una grande opera di Claudio Carrieri; si tratta di un’”odalisca” in ceramica grezza che esprime la tipica modalità di costruzione fittile dello scultore savonese (foggiatura a grandi colombini). Ma il percorso si snoda poi in modo abbastanza libero e propone talvolta un raggruppamento di opere di un unico artista in uno spazio stabilito (come capita ad esempio alle sculture ceramiche di Giovanni Rossi), oppure mette in scena, altrove, una sorta di dialogo fra lavori
di artisti diversi. Inoltre, in molti casi, una larga striscia di colore bianco tirata sul pavimento sta a delimitare la scultura o l’installazione, sino ad arrivare al profumato ambiente dove lo stesso Carrieri ha predisposto un tappeto di petali di rosa alla base di una sua grande tela. Franco Bratta è scultore di Savona molto apprezzato e più che famoso per il suo ormai nutritissimo “bestiario”. Spesso sono animali esotici, come scimmie, trampolieri, felini della savana, ma non mancano figure selvatiche a noi più vicine, come rapaci notturni e ranocchie. Le sculture sono in ceramica, per lo più, con l’eventuale presenza di supporti in metallo (come le zampe di certi grandi uccelli), però troviamo anche interessanti fusioni in bronzo. Fra gli esempi possibili,
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Giovanni Rossi, La storia di Pinot, 2009, semire e smalti, h. cm 23 ca. Sotto: Fulvio Rosso, Uccello, 2009, stampa da plotter, 50 x 70 cm.
un leone-sfinge tridimensionale, posizionato in parallelo con un rinoceronte dipinto che, per citare la Conti, “ci rassicura esibendo fiori freschi sul naso”. Claudio Carrieri, savonese anch’egli, è creatore di grandi forme-vaso, plastiche e sensuali, allusive alla fisicità femminile. Si tratta di “Odalische” ed “Osmunde” ceramiche, le quali, ci dice l’autore, “modellano il vuoto, l’assenza, il pneuma dimora dello spirito, del mistero di cui vogliono essere forma esteriore e impronta”. Ricordo inoltre i poderosi coccodrilli presenti in mostra (uno dei quali in bronzo), che sono l’esito formale evidente di una grande capacità tecnica. Una novità per chi scrive è invece l’aspetto pittorico di Carrieri, che oscilla iconograficamente fra onirici nudi femminili ed immagini floreali, all’insegna di cromatismi pieni, talvolta volutamente confettati; mai stucchevoli, tuttavia. Giovanni Rossi allestisce un variegato teatro di figurine umane che danzano, leggono, osservano. Sono figurine maiolicate, bianche con leggiadri decori in blu (è il caso delle donnine nude con grande cappello da suore, ad esempio), oppure decisamente colorate, in verde, ancora blu, giallo. Formalmente improbabili, molto naif, esse animano in ogni caso uno scenario verosimile, tinto di auspicata umanità, alla quale non si risparmia qualche sfumatura di ridicolo e di grottesco, tanto per rimanere in sintonia con il vero. Le ceramiche di Rossi alludono in buona parte alla storia del contadino “Pinot”, storia percorribile sul librone sistemato sul leggìo che sta al centro della cella espositiva deputata. Pinot, andato al mercato per acquistare una capretta, si lascia convincere a comprare una nuvola. Sembrerebbe una vera pazzia, per chi ha denaro misuratissimo, ma l’impalpabile oggetto si rivela un alleato formidabile… e la vita del protagonista migliora decisamente. Con Fulvio Rosso, fotografo di Calice Ligure, torniamo agli animali, per la precisione agli uccelli, ma con un repertorio di immagini tecnicamente molto diverse da quelle di Bratta.
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Claudio Carrieri, Coccodrillo, 2000, bronzo patinato, lunghezza cm 150. Sotto: Roberto Scarpone, Madre, 2009, legno di castagno, h. cm 150.
Intanto, mi si fa notare in visita, è utile partire visionando un vecchio raccoglitore di figurine, “stinte al punto da sembrare dipinte: proiettate sulla parete di una cella, riportano l’osservatore alla dimensione immaginifica dell’infanzia” (Viana Conti). Il balzo tecnico e visivo si effettua passando alle grandi fotografie ad alta definizione esposte a fianco che ci fanno sperimentare la piena modernità. Sono iperrealistiche immagini di volatili, nostrani ed esotici, o, altrimenti, una “collezione di volo per imparare a volare”, come suggeriscono due versi di Sara Maltese. Roberto Scarpone, di Savona, predilige un altro materiale, il legno. È un legno trovato, lasciato nelle sue forme naturali,
quasi sempre solo ripulito con cura ed adeguatamente patinato; ciò per non togliere agli oggetti, ormai nobilitati come opere artistiche, i caratteri primigeni dovuti al ciclo biologico dell’albero e ai suoi successivi eventi. Molto affascinanti le profonde solcature impresse nella materia, che evidenziano i cordoli a rilievo della corteccia e generano nuove superfici. Ogni lavoro reca un titolo, poiché ciascuno di essi suggerisce almeno un richiamo iconografico. V’è anche il caso di un’opera decisamente più realistica, che dimostra un maggiore intervento scultoreo da parte dell’autore; Scarpone ha infatti pensato di restituirci le vigorose e plastiche forme di un torso maschile.
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mostre
Ugo La Pietra, dalla serie “Libri Aperti”, ceramica policroma, realizzati da Bertozzi & Casoni, Imola, 1993.
I luoghi della ricerca di Ugo La Pietra Si terrà al MIC di Faenza, dal 18 ottobre 2009 al 10 gennaio 2010, la mostra dedicata a Ugo La Pietra - architetto, designer, disegnatore, art director e artista. Franco Bertoni, Esperto delle collezioni moderne e contemporanee del MIC, e curatore della mostra, scrive in catalogo: “Ugo La Pietra è un poeta viaggiatore. Con la sua magica valigetta ha instancabilmente percorso tanti luoghi - e tanti momenti sociali, artistici e culturali - dell’Italia dagli anni Sessanta ad oggi. Ha osservato e proposto, lasciando nella memoria collettiva i segni, sempre generosi, ottimistici e leggeri, di una tanto concreta quanto sognante possibilità di una umanizzazione dell’ambiente, della città, della casa e degli oggetti. Dalla sua valigia ha estratto architetture, disegni, dipinti, scritti, film, performance, mobili, oggetti, allestimenti provvisori e ceramiche per affascinanti spettacoli sempre sospesi sul filo della più ragionata spericolatezza e della più seria ironia. Concettuale quanto serve per essere criticamente contemporaneo, metafisico quanto basta per mantenere le distanze dalle false pressioni del presente e surrealista quanto occorre per travasare i sogni in realtà, Ugo La Pietra ha trovato nella ceramica un partner ideale per viaggi in illustri passati ormai negletti e dimenticati la cui nostalgia è, in lui, pari solo all’insofferenza nei confronti di un presente ormai privo di quella percezione delle differenze che è, in fondo, sintomo di civiltà e termometro della qualità dell’arte, se non della vita. A volte souvenir e a volte monumento, le ceramiche di La Pietra si impongono per una esemplare chiarezza compo-
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sitiva che si ribalta in sorpresa; per l’utilizzo delle più tradizionali tecniche senza scadere nel compiacimento della stucchevole ‘bella pagina’; per una intima necessità narrativa. Quella forma, quella funzione e quella narrazione ancora contenute nel simbolico vaso spezzato dalla modernità artistica per andare a cantare il frammento, la deriva, le schegge e le rotture del ‘secolo breve’. Le opere più belle? I Libri aperti, con le pagine vergate da fitti segni geometrici e fitomorfi; i piatti Casa e giardino, con mappe territoriali incise nell’ingobbio e, nella versione in solo cotto, con emergenze plastiche di casette elementari o archetipiche, alberelli e siepi che dialogano con solchi allusivi a stradine di campagna, a ruscelli, a conduzioni agricole o a piccoli, ben tenuti orti; gli Itinerari siciliani, installazione con libri aperti su leggii e a terra un ammasso di libri anch’essi ingobbiati ma con gli itinerari compromessi o distrutti. In queste opere la lievità del segno, l’utilizzo della più povera materia ceramica e l’intento comunicativo trovano la più felice, asciutta coincidenza. Strade di campagna sterrate, polverose e odorose, forse inattuali, ma più belle da percorrere di quelle levigate dall’asfalto; se non altro con il pensiero. Ideologia antimoderna e antiurbana? Forse. Rileggere le pagine sulla campagna di Combray è, comunque, sempre un conforto poiché “anche da una visuale puramente realistica, i paesi che noi desideriamo tengono in ogni istante assai più posto nella nostra esistenza vera dei paesi dove abitiamo in realtà”. In una attesa che si annuncia lunga, leggiamo anche i ‘libri’ di Ugo La Pietra”. info@micfaenza.org www.micfaenza.org
mostre
Antonia Campi
Antonia Campi, Torena, serie di sanitari per SCI, progetto del 1958, produzione dal 1959, Lavenite (vitreous-china), bianco rigato verde. Riproposto poi anche da SCI Richard Ginori e da Pozzi Ginori.
Fantasie di serie, fantasie d’eccellenza
Nell’ambito di un rinnovato interesse del Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza nei confronti del design, e quindi di una delle più interessanti declinazioni industriali della ceramica, sono state organizzate mostre dedicate ai più significativi protagonisti di questa vicenda. Nel 20072008 si è tenuta la mostra dedicata ad Ambrogio Pozzi e nel 2008-2009 quella su Franco Bucci e i primi anni del Laboratorio Pesaro. Si tratta di figure emergenti di una vicenda che, nel secondo dopoguerra, ha visto il nostro Paese guadagnare un ruolo di primaria importanza nel panorama progettuale internazionale. In questo quadro si inserisce la mostra monografica dedicata ad Antonia Campi - progettista, scultrice, disegnatrice, art director, artista che ha fatto dell’utilizzo delle terre la sua “cifra” qualificante - che si tiene al MIC dal 3 ottobre 2009 al 31 gennaio 2010. Questo “omaggio” cade a sessant’ anni di distanza dalla prima presenza della ceramista a Faenza, da quella prima partecipazione, nel 1949, all’VIII Concorso Nazionale della Ceramica d’Arte (divenuto poi internazionale), dove ottenne il secondo premio (il primo non fu assegnato) in una sezione dedicata al tema “Trofeo per un centro tavola”: premiata una sua Fruttiera (in mostra) - “pezzo interessante”, così nella motivazione - , in terraglia forte, un materiale non facile da “domare”. Antonia Campi aveva già donato alcuni suoi pezzi l’anno precedente al riaperto e rinascente Museo, sollecitata da Angelo Biancini, che la mette in contatto con Gaetano Ballardini. A seguire una annosa corrispondenza con questo indimenticabile direttore, la cui figura è legata non solo alla storia della cultura della ceramica. La rassegna, dedicata alle eccellenze della ceramista, si caratterizza per la messa in scena di più di centocinquanta pezzi scelti tra una variegata campionatura dei suoi prodotti, che riflettono la sua personalità poliedrica al crocevia di ambiti disciplinari molto diversi. E che illustrano i suoi straordinari articoli Fantasia (declinati in colori e decori diversi individuati sia presso i collezionisti che nelle raccolte del Museo faentino e del Museo di Laveno), la cui free form ha sancito un’epoca. Ad affiancarli alcuni pezzi unici d’eccezione, come i pannelli per un negozio Richard Ginori. Per l’occasione, è anche esposto il pannello ceramico, un particolare landscape, che svettava, nel 1951, al culmine dello Scalone d’Onore della IX Triennale, “illuminato” dal grande arabesco luminoso, “Luce spaziale”, di Lucio Fontana, rientrato in Italia e appena restaurato dalla Sezione Restauro dello stesso Museo faentino. A completare la lettura del percorso della progettista e art director alla Società Ceramica di Laveno, designer e coordinatrice poi in Richard Ginori (che aveva assorbito S.C.I.) e in Pozzi Ginori, una serie dei suoi plastici ma ergonomici sanitari a sottolineare come Antonia Campi abbia saputo rinnovare, anche qui anticipando un trend, quell’ambiente bagno che di fatto ha trasformato. Questo ritorno a Faenza, non è per ricordare, ma per proiettarsi con tutti quanti la apprezzano, la stimano e le rico-
noscono un ruolo importante nella progettazione ceramica. Per l’occasione Antonia Campi ha prodotto una nuova sua forma - una sinuosa geometria - che tre “botteghe” (Studio Elica, Mirta Morigi, Ceramiche Vignoli) hanno realizzato, in piccola serie numerata, interpretandone in maniera diversa le superfici e le cromie. A documentare la mostra è stato realizzato un piccolo catalogo, mentre una più allargata analisi della protagonista viene offerta dal volume Antonia Campi, creatività, forma e funzione, Catalogo ragionato, a cura di Anty Pansera, Silvana editoriale, Milano 2008, recensito nel numero 269 “Speciale de La Ceramica Moderna & Antica”. La mostra è a cura di Jadranka Bentini e Anty Pansera con Mariateresa Chirico. info@micfaenza.org; www.micfaenza.org
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design
Porcellane, prod Danese, 1973.
Enzo Mari: una storia al servizio del design Tiziano Dalpozzo
Negli anni dell’Università, così lontani eppur ancora così vicini lessi un libro (1), della gloriosa collana Einaudi con la costa rossa, sul design italiano. In questo libro si consacravano ufficialmente alcuni personaggi del design italiano. Uno di questi era Enzo Mari. Allora rappresentava perfettamente una Italia con una forte tensione al nuovo, sia in senso ideologico che in senso materiale. Il nuovo era allora sinonimo di qualità, qualità della ricerca delle aziende, qualità dei materiali, qualità del disegno. In quegli anni si gettano alcune delle basi che, ancor oggi, a 37 anni di distanza, segnano la nostra qualità sul piano internazionale. Il design è inteso come qualità complessiva di prodotti per l’arredo, per la casa o prodotti di alta eccellenza artigiana, come la sartoria nella doppia eccezione, ancora una volta, di disegno e ricerca sulla qualità della materia. Assieme a Mari assurgono agli altari Bruno Munari, Ettore Sottsass Jr, Castiglioni, epigoni e maestri. In questo contesto Mari si è sempre caratterizzato per la sua diversità verrebbe da dire “ideologica”. La sua affermazione, a priori, di asserti ideologici fortemente caratterizzati poteva indurre ad altrettanto aprioristiche adesioni contrapposizioni al suo design. Le
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aziende, per nulla condizionate da tali asserti, si sono rivolte liberamente a Mari per il disegno dei loro oggetti. Nessuna attività credo sia così confacente al sistema economico dominante come quella del designer. È assai improbabile - e non mi risulta sia mai accaduto - che possa essere fatto design “contro” questo sistema. Nè dai fratelli Campana, nè da... (Design per un mondo in sviluppo). Il design è un anello - più o meno forte - del e nel sistema economico dominante; diversamente non è, non esiste, non può esistere. Questo accade, anzi non accade, anche quando si tratti di design d’avanguardia, radicale, povero, ecc. Guardavo recentemente una poltrona realizzata dai fratelli Campana per una azienda di avanguardia, progettata e nata per il riutilizzo dei cascami, degli scarti di una azienda di legname. Il Catalogo (Vitra) riportava la certosina riproduzione della poltrona. Che fatica e che scarti si devono produrre per realizzare esattamente l’una uguale all’altra con gli stessi pezzettini di legno!. Dal riutilizzo dello scarto alla creazione dello scarto. Le aziende apprezzano e riconoscono le straordinarie capacità progettuali di Enzo Mari. Danese, Arnolfo di Cambio, Alessi, Zanotta, Artemide, Kartell, Zani e
Serie elementare, prod. Gabbianelli, 1968.
Zani, Gabbianelli, Robots, per poi lavorare per la Konigliche Porzellan Manufaktur, Muji, Ideal Standard. L’elenco delle aziende per cui ha lavorato Mari costituisce da solo un elenco esaltante della storia del design italiano prima e internazionale poi. Un elenco di successi, di “volti noti” che hanno scritto e accompagnato tutte le storie del design. In questa sede sono di particolare interesse le sue originali e sistematiche sperimentazioni col mondo della produzione artigiana, individuata - ancora una volta - in buona parte come momento d’oro per ricucire lo strappo intercorso tra il momento dell’ideazione, quello della produzione, quello della manualità produttiva. Le sperimentazioni con Danese sulla porcellana assemblata per parti, quelle fatte al Museo delle Ceramiche di Faenza per dare un volto contemporaneo ad alcune produzioni sette/ottocentesche, scimmiottate tuttora; il laboratorio ad Hasami (Giappone), i vetri per Daum, i tentativi per rileggere in chiave contemporanea la tradizione vetraria di Murano (ancora con Danese) per iniziare e finire con la grande mostra “Dov’è l’artigiano”, organizzata per la
Regione Toscana e presentata alla Fortezza da Basso ed alla Triennale milanese: tutta la vita di Enzo Mari è una vita di intensa ricerca. Questa ricerca raggiunge l’apice, momenti di particolare ed originalissimo interesse nel confronto tra design e sistema produttivo artigiano. Questo sistema, dato per morto sin dall’800 da teorici ed economisti (“ruota della storia che gira all’incontrario”) in realtà è tuttora ben vivo in tutte le parti del mondo ed ha capacità straordinarie di rinnovamento e di ricerca... una resistenza che la grande industria, al contrario, non possiede. La grande industria può creare nuove forme ma IMPORLE al mercato, la grande industria ha bisogno che le forme che produce siano immediatamente riconosciute (e, per questo, comprate) da larghissime fette di mercato. L’artigianato può produrre forme del tutto nuove per piccoli numeri, per una grandissima qualità. La qualità può essere quella della forma, del materiale prezioso, della sua accurata manutenzione nel tempo, della riconoscibilità e durevolezza dell’oggetto nel tempo. L’esatto contrario della grande industria che deve program-
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Servizio da tavola “Berlin”, Kogliche Porzellan Manufactur, 1995.
mare l’obsolescenza materica e formale dell’oggetto. Molti suoi progetti sono apparsi immediatamente entusiasmanti e si sono fissati nella memoria di ogni cultore del design italiano. Ad esempio gli animali per Danese del 1957, che consentivano di sottrarre il gioco e i giochi alla stupidità e al cattivo gusto imperante. L’uso intelligente di una tavoletta di legno ridotta ai suoi minimi termini in cui la ricchezza è data dal progetto dall’ideazione da una parte ma dall’altra, dalla scoperta della sua complessità ed articolazione. La porcellana assemblata con pezzi diversi a mano, del 1973 su cui ho scritto e detto molte altre volte. Questa esperienza mi è stata più volte utilissima anche nella mia esperienza didattica: con pochi gesti potevo far comprendere a studenti, alle volte poco portati alla mediazione intellettuale del disegno, come si potessero fare cose meravigliose col portato immediato della manualità. La serie elementare progettata per Gabbianelli nel 1968, rimasta in produzione per moltissimi anni, che dava al committente - o al progettista delegato - la possibilità di usare le piastrelle come strumento per configurare ambienti in modi affatto diversi. Il servizio di porcellana “Berlin” realizzato con la KPM che ha ridato un volto nuovo alla grande tradizione - precipuamente italiana - della convivialità FORMALE (e quindi reale) a tavola. NOTE 1 - P. Fossati “Il design in Italia 1945-1972”, Torino, 1972. 2 - G. C. Bojani, “Tre mostre di Enzo Mari”, catalogo della mostra “Enzo Mari. Tra arte del progetto e arte applicata”, al Museo Internazionale delle Ceramiche, Faenza (6-11/2000), Studio 88 Editore, Faenza 2000. 3 - “Enzo Mari. L’Arte del design”, catalogo della mostra, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, GAM, Torino (10/2008-1/2009), Federico Motta Editore, Milano 2008.
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Corolla, vaso in vetro della serie Memoire d’une fleur, prod. Daum, 2000.
missive
Della ceramica mi ha sempre colpito ed emozionato la sua durata e resistenza nel tempo. Se immaginiamo un edificio moderno tra mille anni, il calcestruzzo o l’acciaio saranno ridotti in polvere, restera’ solo la ceramica (come dimostrano le raccolte di tutti i musei archeologici). La sua eternita’ induce ad un profondo rispetto progettuale dell’essenza della sua forma... Ma, ahime’, oggi i “creativi della merce”... stars, starlettes, nani e ballerine, realizzano forme destinate a durare un giorno... Enzo Mari
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musei
Il MIDeC di Cerro di Laveno Mombello Un museo per la valorizzazione del patrimonio e la sperimentazione di nuove idee. Emma Zanella, direttore del MIDeC Il MIDeC, Museo Internazionale Design Ceramico – Civica Raccolta di Terraglia di Cerro di Laveno Mombello, apre al pubblico nel 1971 nel cinquecentesco Palazzo Perabò con una dotazione di opere in ceramica che ne segna con chiarezza il destino, la vocazione e l’identità complessiva rendendolo diverso dagli altri musei civici e unico nel suo genere. Il museo è infatti e prima di tutto la testimonianza di un’importante storia locale legata alla famosa produzione ceramica di Laveno Mombello e alla presenza di forti personalità artistiche che hanno segnato questa produzione, tra cui Giò Ponti, Guido Andlovitz, Antonia Campi, direttori artistici delle ceramiche lavenesi. La maggior parte delle opere provengono dalla raccolta
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della Società Ceramica Italiana Richard-Ginori, dalla donazione Scotti-Meregalli, dalla donazione Franco Revelli e da altre significative donazioni private, costituendo un patrimonio eccezionale che testimonia l’evoluzione del gusto, la raffinatezza e la capacità di innovazione della produzione ceramica lungo il XIX e il XX secolo a Laveno. La collezione del MIDeC e l’edifico che la ospita rappresentano così l’elemento costitutivo e la ragion d’essere del museo impegnato nell’immediato futuro in importanti campagne di schedatura e di restauro sia di alcuni “pezzi” di straordinario valore storico e artistico sia dello stesso edificio, su cui il Politecnico di Milano sta concludendo la stesura del Documento preliminare alla progettazione, punto di partenza per il restauro dell’edifico e la ridefinizione delle
Palazzo Perabò, sede del MIDeC e una delle sale del museo.
funzioni museologiche insediate e da insediare a Palazzo Perabò. Lo scorso 26 settembre, in occasione delle Giornate Europee del Patrimonio, il MIDeC in collaborazione con la Soprintendenza e il Politecnico di Milano ha ospitato un convegno dedicato proprio a queste tematiche e alle prospettive future. D’altro canto il MIDeC non è solo importante luogo di conservazione e valorizzazione della propria collezione ma anche luogo di confronto e ideazione, fucina di idee, laboratorio continuo legato al tema della ceramica in tutte le sue multiformi declinazioni: design, ceramica scultorea, ceramica decorativa, ceramica come elemento di “decoro” della città. La stessa storia di Laveno e del suo museo insegnano infatti che solo la progettazione sul campo porta idee e innovazioni, vivificando un terreno fertile come quello di Laveno e dell’intero lago. Da qui la recente svolta internazionale data al MIDeC legata al design, alla ricerca artistica contemporanea, alle sinergie e sovrapposizioni che gli artisti da tempo ricercano nel trascorrere tra diverse forme espressive, offrendo uno sguardo rivolto oltre che al passato al nostro immediato futuro. E da qui la programmazione di mostre, eventi, laboratori didattici avviata proprio quest’anno che vede il museo impegnato a muoversi contemporaneamente su più versanti legati da un unico filo conduttore rivolto principalmente alla ceramica. Mi riferisco, a titolo d’esempio, ai nuovi laboratori didatti-
ci aperti d’estate alle famiglie e a partire dall’autunno alle scuole, volti a far comprendere le tecniche specifiche, i linguaggi della contemporaneità e a far sperimentare, in museo, la possibilità espressive della materia. Così come mi riferisco alla mostra Fuori Registro. Attidudini concettuali nella ceramica italiana, a cura di Emma Zanella, Alessandro Castiglioni e Lorena Giuranna, con opere di Vincenzo Cabiati, Chiara Camoni, David Casini, Michela Formenti, Michele Lombardelli, Amedeo Martegani, Luigi Presicce, Luisa Rabbia (26 settembre – 29 novembre 2009) L’estetica del frammento, della traccia, della micro narrazione, atta più a suggerire che non a descrivere, pone in relazione i diversi interventi, appositamente scelti per essere allestiti all’interno della prestigiosa collezione storica del Museo, instaurando con essa un dialogo che attraversa il tempo e gli stili. Accanto a queste singolari incursioni, viene poi presa in considerazione e documentata più in generale la poetica che caratterizza il lavoro di ciascun artista, prescindendo dalla semplice tecnica ceramica e riflettendo su come essa venga scelta ogni volta come privilegiato linguaggio espressivo, come deriva possibile dell’immaginazione. Emerge così un disegno chiaro che condurrà il MIDeC a diventare un vero e proprio centro di ricerca capace di innestare una storia unica e prestigiosa in un presente ancora tutto da inventare.
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musei
La passeggiata archeologica, Urna con coperchio, su disegno di Gio Ponti, 1924, porcellana policroma e oro segnato a punta d’agata, montatura interna in metallo, h cm. 33+17, Museo Richard Ginori della Manifattura di Doccia.
Il museo di Doccia Oliva Rucellai Direttrice Museo di Doccia
Barocco, Rococò, Neoclassico, Impero, Storicismo, Liberty, Decò, tutti questi stili e altri ancora, si sono avvicendati, incrociati e hanno talvolta convissuto nella variegata produzione della Manifattura ceramica Ginori (poi Richard-Ginori). Oggi il museo Richard-Ginori raccoglie, conserva e valorizza il risultato di questa secolare attività creativa con una vasta esposizione permanente allestita al piano superiore dell’edificio progettato nei primi anni ’60 da Pier Niccolò Berardi. Originariamente il Museo era situato al piano terreno della Villa di Doccia in
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cui nacque la Manifattura; dopo il trasferimento della produzione nel nuovo stabilimento di Sesto, avvenuto nel 1950, si decise di spostare anche la collezione storica in una struttura costruita appositamente nelle immediate vicinanze. La storia del Granducato di Toscana prima e dell’Italia unita poi, dal ‘700 ai giorni nostri, si riflette nelle vicende dinastiche, economiche e produttive della manifattura, delle sue committenze e persino in alcuni dei suoi prodotti. Nata nel 1737, anno cruciale per la storia del Granducato perché segna il passaggio dalla dinastia dei Medici alla Reggenza lorenese, la manifattura Ginori è stata sempre profondamente
Teiera del servizio Ulpia, su disegno di Giovanni Gariboldi, 1954, porcellana dura, h cm. 12,6, Museo Richard Ginori della Manifattura di Doccia. Fotografia di un isolatore, Archivio del Museo Richard Ginori della Manifattura di Doccia.
radicata nel territorio e allo stesso tempo proiettata verso orizzonti più vasti grazie alla cultura e alle relazioni dei suoi proprietari. Nel 1896 la fusione con la Richard, grande industria ceramica milanese, aprì ulteriori frontiere e diede vita a un vero e proprio colosso che ancor oggi è leader del settore. Al valore artistico e storico della collezione si aggiunge l’interesse tecnico-scientifico: la storia della Manifattura è anche la storia delle innovazioni nel complesso processo produttivo della porcellana. Il percorso espositivo comprende porcellane, maioliche, disegni, modelli in terracotta, gesso e piombo, ed è visitabile negli orari di apertura; la Bilblioteca e l’Archivio storico, sono invece accessibili solo su appuntamento. Una sezione a sé stante ospita la preziosa raccolta di sculture tardo-barocche in cera acquisite dal fondatore, Carlo Ginori, per realizzarne copie in porcellana oggi sparse nei Musei di tutto il mondo, dal Metropolitan di NY all’Hermitage di San Pietroburgo: il Museo di Doccia conserva, tra gli altri, un magnifico gruppo raffigurante Davide e Golia con il relativo modello in cera di Giambattista Foggini, ma forse le sculture più ammirate dell’intera collezione sono la Venere de Medici, lo Scita e Amore e Psiche, stupefacenti repliche in porcellana a grandezza pressoché naturale di celeberrime sculture antiche ancora oggi visibili agli Uffizi. Il nuovo Museo, inaugurato nel settembre 2003, non è il risultato di una trasformazione radicale della sistemazione degli anni ’60, ma nasce piuttosto da un’integrazione di quest’ultima finalizzata a una migliore valorizzazione della collezione e a consentirne una più facile lettura. Il percorso cronologico che illustra la storia della Manifattura mantiene infatti una posizione centrale, perché l’unicità della collezione dipende in buona parte proprio dall’eccezionale longevità dell’azienda, attraverso le cui creazioni è possibile ripercorrere tre secoli di evoluzione stilistica della arti decorative: dal tardo Barocco fino all’industrial design. Nell’ambito di questo percorso, alcune sezioni sono di eccezionale inte-
resse, come la sala interamente dedicata alle opere realizzate da Gio Ponti negli anni in cui fu direttore artistico della Manifattura di Doccia, vale a dire fra il 1923 e il 1930, periodo testimoniato da opere quali i grandi vasi e i piatti in maiolica decorati con il motivo noto come “Le mie donne”, le porcellane appartenenti alle famiglie “La conversazione classica” e “La passeggiata archeologica” e i decori in oro brunito con punta d’agata. Nel nuovo allestimento, tuttavia, queste sezioni “tradizionali” sono state arricchite da una sequenza parallela di aree tematiche specifiche che suggeriscono al visitatore chiavi di lettura alternative al tradizionale percorso cronologico lineare strettamente connesso alla storia dell’azienda. Ad esempio, attraverso salti temporali e raffronti inediti, il nuovo
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Vaso modellato a conchiglia con decoro in rilievo a soggetti marini, su disegno di Giovanni Gariboldi, 1935 circa, porcellana e oro, h cm. 13,5, Museo Richard Ginori della Manifattura di Doccia
Sotto: una delle sale del Museo.
allestimento consente di focalizzare con immediatezza determinati aspetti della varietà e dell’evoluzione stilistica. Così, è possibile trovare il famoso decoro “a roselline” esposto in una vetrina in cinque diverse varianti quasi contemporanee, laddove, in un’altra vetrina, sette zuppiere prodotte tra il 1750 e il 1930 consentono di cogliere, con un solo colpo d’occhio, centottant’ anni di elaborazione formale. Altrove è
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la storia, quella politica, quella economica, o ancora quella del costume e della tecnica, a rappresentare una possibile chiave di lettura, perché la collezione del Museo di Doccia non riflette solo l’evolversi degli stili, ma anche gran parte dei molteplici aspetti che hanno caratterizzato la realtà degli ultimi tre secoli. Per fare un esempio, il sontuoso servizio realizzato fra il 1873 e il 1875 per il Kedivè d’Egitto, al di là della sua posizione nell’evoluzione stilistica della Manifattura, è espressione di un particolare momento storico-economico, quello seguito all’apertura del Canale di Suez, avvenuta nel 1869, nonché dell’ondata di “egittomania” tipica di quegli anni, gli stessi in cui Verdi compose l’“Aida”. A suggerire questa molteplicità di possibili letture contribuisce anche l’esposizione di disegni e documenti provenienti dall’archivio del Museo e di recentissime acquisizioni di porcellane elettrotecniche e da laboratorio. La ridefinizione dell’assetto museale è stata infine accompagnata da un potenziamento dell’apparato didattico, allo scopo di rendere più comunicativo il percorso dell’esposizione. Un percorso espositivo innovativo e stimolante, dunque, che non pretende tuttavia di essere definitivo, ma resta aperto a un’ulteriore evoluzione, nell’ottica di garantire una sempre maggiore leggibilità e di valorizzare al meglio la varietà e la ricchezza di una collezione unica al mondo. www.museodidoccia.it museo@richardginori1735.com Orari: da mercoledì a sabato10.00-13.00/ 14.00-18.00.
musei
Coppa con ‘girandola’ e perle, circa 1520-1530, maiolica a lustro, diam. cm 25,5, Gubbio, bottega di Mastro Giorgio Andreoli.
Museo della Maiolica a Lustro di Gubbio Ettore A. Sannipoli
Il Museo della Maiolica a Lustro ‘Torre di Porta Romana’ è stato inaugurato nel 1993 all’interno della porta civica medioevale di Sant’Agostino, detta anche Porta Romana. Realizzato grazie all’intraprendenza del dott. Mario Luconi, illuminato collezionista locale, ospita una pregevole raccolta di maioliche a lustro, comprendente opere del Cinquecento e un vasto assortimento di ceramiche dello storicismo eugubino-gualdese, ma anche di altri centri italiani ed europei, specie fra Ottocento e Novecento. Da poco sono state definitivamente sistemate nel museo alcune delle più recenti acquisizioni, già presentate alla cittadinanza in una mostra allestita la primavera scorsa nella Galleria Della Porta. Tra le pregiate opere eugubine del Cinquecento assai singolare è la coppa con ‘girandola’ e perle, che sembra di produzione alquanto precoce, e le due coppe ‘abborchiate’, rispettivamente con l’Agnus Dei e con l’Aquila bicipite, lustrate dal ‘Maestro N’, che la maggior parte degli studiosi identifica con Vincenzo Andreoli, figlio di Mastro Giorgio. A una manifattura spagnola, con ogni probabilità di Manises del XVIII secolo, vanno invece riferiti due piatti ‘ispanomoreschi’ contraddistinti da un filiforme ornato fitomorfo e da un bel lustro ramato. Sempre d’ispirazione ‘ispano-moresca’ è l’esemplare ‘a otto petali’ confezionato, con l’usuale perizia e rigore, dalla celebre Fabbrica Ginori di Doccia, che introduce degnamente alla maiolica storicistica dell’Ottocento, periodo nel quale rifulsero le manifatture di Gubbio, Fabriano, Gualdo Tadino, Faenza etc. Alla fabbrica eugubina di Giovanni Spinaci e Compagni si possono ricondurre diversi pezzi della raccolta, tra i quali la targa con un ritratto virile a mezzo busto, firmata da Spinaci nel 1879, e il piatto con putto e grottesche in rilievo, di cui rimangono diversi altri esemplari, uno dei quali conservato nel MIC di Faenza. Allo «stabilimento ceramico» di Antonio Passalboni va invece riferito il piatto ‘in bassorilievo’ col Buon Pastore e gli Evangelisti entro ornato a grottesche, della stessa tipologia di esemplari custoditi a Pesaro e a Gubbio. Di grande interesse è il piatto con la cosiddetta ‘Madonna Ranghiasci’ entro ornato a embricazioni, che costituisce la prima
maiolica autografa finora reperita dello sfuggente Marino Pieri, personaggio cui verosimilmente si deve la diffusione del lustro ottocentesco eugubino in varie località, tra le quali Faenza e Gualdo Tadino. E proprio alla produzione storicistica di Gualdo appartiene il bel servito con il Sacrificio di Isacco e puttini entro ornati a grottesche, riferibile alla Fabbrica Paolo Rubboli, nonostante il marchio impresso della Fabbrica Antonio Sergiacomi (a cui forse spetta la fattura delle stoviglie prive di decorazione). Tra Gualdo e Fabriano sembra porsi la bella zuppiera ornata a grottesche, che potrebbe essere stata decorata in un opificio sul tipo di quello di Paolo Rubboli usando una stoviglia della Fabbrica Erminio Corsi. Di sicuro fabrianesi sono invece i due pezzi della Fabbrica Cesare Miliani: il piatto con Pio IX in preghiera entro ornato fitomorfo, decorato a transfert, e quello neorinascimentale con un amorino entro ornato a grottesche. Faenza è documentata tramite una mensola con mascherone, festone e volute della Fabbrica Farina e, in-
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Vaso biansato d’ispirazione ispano-moresca, maiolica a lustro, h. cm 49, 1885, Roma, Pio Fabri. Boccalone con girali puntinati, maiolica a lustro, h. cm 37,5, 1933, Deruta, Alpinolo Magnini (?) nel Consorzio Italiano Maioliche Artistiche.
tarelli e nel piatto con grifo rampante della Società Ceramica Umbra ‘Paolo Rubboli’. Deruta trova posto nell’esposizione con un grande vaso della Società Anonima Grazia; sempre alla Fabbrica Grazia si devono alcun i pezzi con il caratteristico ornato in lustro dorato a foglie ricurve crestate. Di sapore ‘anticomoderno’, ossia orientate a coniugare tratti revivalistici e desinenze moderne, in prevalenza déco, risultano alcune ceramiche eseguite o comunque ideate tra le due Guerre, come la coppa faentina con busto virile, opera della Fabbrica Focaccia e Melandri, nella quale sembra quasi proporsi un inedito incontro tra la tradizione padana delle ‘ingobbiate e graffite’ e quella umbro-marchigiana del lustro; come il piatto eugubino ove il decoro damasco si rifà agli ornati di antichi corami o lampassi rivisitati secondo lo ‘stile 1925’; oppure come la coppia di piatti con cavalieri medievali, realizzati nella fabbrica gualdese di Alberto Rubboli e derivati forse da disegni e spolveri di Aldo Ajò, nei quali il medioevo trobadorico si arricchisce di lemmi art déco. Infine ci sono le proposte schiettamente innovative, nate dall’impegno di Aldo Ajò nella manifattura dei Rubboli: tra esse il bel tagliere della S.C.U. con due giraffe, basato su spolveri dell’eugubino ed eseguito quando già era cessata la collaborazione tra Ajò e la ditta gualdese. Ma anche l’affascinante boccalone con girali puntinati in rilievo realizzato per il Consorzio Italiano Maioliche Artistiche da un altro protagonista della ceramica umbra di quegli anni, il derutese Alpinolo Magnini.
direttamente, attraverso il bellissimo piatto con ‘girandola’, anelli e borchie in rilievo firmato da Lodovico Farina nella fabbrica londinese di William De Morgan. Gli «esotici eclettismi» della ceramica romana di fine Ottocento ci sono invece restituiti da tre pezzi di grande interesse: un piatto ‘in bassorilievo’ con pesci d’ispirazione persiana, firmato da Guglielmo Castellani ma prodotto anche da quel Pio Fabri cui si devono altri due oggetti, un vaso biansato d’ispirazione ispano-moresca e un piatto con decoro ad arabesco in maiolica riflessata, che forse è già opera del nuovo secolo. Per quanto riguarda la produzione storicistica della prima metà del Novecento, Gubbio è rappresentata da alcune ceramiche della ditta Vasellari Eugubini ‘Mastro Giorgio’, la prima che sorse subito dopo la Grande Guerra. La riconoscibilissima cifra stilistica dei ceramisti neorinascimentali di Gualdo Tadino si può invece ammirare nel grande tondo con stemma Andreoli della Fabbrica di Alfredo San-
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Le ittà della eramica taliana
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Anche in questo numero della rivista le pagine centrali sono dedicate alle Città della Ceramica Italiane. Uno spazio che racconta quei territori ad alta densità culturale e di tradizione che oggi, pur fra mille difficoltà, sostengono e promuovono – attraverso la modellazione, la decorazione, la pittura dell’argilla – un genius loci tutto italiano, quell’incredibile mix di genio e tradizione che ancora oggi può fare la differenza all’interno del mercato globalizzato delle merci; non un racconto filologico di stili e di resoconti territoriali ma un diario di impressioni, di punti di vista, affidate a protagonisti diversi che in quelle città e territori operano e lavorano ogni giorno. In questo numero: CALABRIA LOMBARDIA PUGLIA TOSCANA
Calabria Seminara e Squillace
Babbaluto e Babbaluta di Seminara, ceramica smaltata, h cm 40, ceramica di Seminara, 1955, Collezione Museo Etnografico “Raffaele Corso”, Palmi.
Ceramica in Calabria Antonio Pugliese
Prima di scrivere questo breve testo sull’arte ceramica in Calabria, ho avuto modo di leggere alcuni articoli che riguardano altri territori con tradizione ceramica, riscontrando un comune denominatore. Quasi tutti parlano di crisi, di riduzione della produttività, di fabbriche o botteghe che chiudono battenti e di uomini e donne che perdono il posto di lavoro. Allora ho pensato: in Calabria siamo fortunati, perché questa crisi noi non l’avvertiamo, le botteghe da noi non chiudono. Si, non chiudono perché non sono mai state aperte, la nostra è una condizione di crisi permanente, visto che la crisi vera e propria è maggiormente sentita da chi ha attraversato prima un periodo economicamente felice e successivamente può denotarne il cambiamento. Quando si parla di ceramica in Calabria, il riferimento scontato è la “Magna Grecia”, sulla bocca di tutti, nella “dimensione” di nessuno. Un glorioso passato, un patrimonio storico e artistico poco “sfruttato”, visto che nessuno produce manufatti neanche lontanamente accostabili a quel periodo. Portare avanti una tradizione ceramica vuol dire conoscerne tutti gli aspetti
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ca la br ia
Maschera apotropaica, ceramica smaltata, Seminara, Collezione Museo Etnografico “Raffaele Corso”, Palmi.
In basso: Maschera apotropaica, ceramica smaltata, grande dimensione, Collezione Museo Etnografico “Raffaele Corso”, Palmi.
produttivi, dai materiali alla lavorazione, dalle tipologie alle cotture, al significato; non si può imbrattare un coccio con colori acrilici a freddo e parlare di “Magna Grecia”. La Grecia dei grandi pensatori, dei filosofi dalle mille domande, (qui nessuno si domanda niente), la Grecia instauratrice di Democrazia, la Grecia dell’Agorà. E poi, dove sono i luoghi di Ulisse, dov’è quel mitico mare azzurro e cristallino tanto decantato? Oggi purtroppo la realtà è molto più cruda, le Sirene non cantano più e soprattutto non incantano più e Poseidone è sempre più adirato. Probabilmente vi chiederete cosa c’entri tutto questo con la ceramica. C’entra, c’entra perché è tutto collegato, la ricchezza di spirito produce bellezza ed economia, mentre la cultura dell’improvvisazione, la mancanza di progettualità, il non chiedersi, la poca attitudine al dialogo, la mancanza di meritocrazia alla fine producono solo pochezza. Non intendo dare responsabilità specifiche, che ognuno trovi la sua, la riconosca, la metabolizzi e ne faccia buon uso. Con questo non voglio certo dire che in Calabria non vi siano bravi ceramisti, ma qualche rondine non fa primavera. E allora, forse, potremmo affidare la soluzione dei problemi di questo maledetto malocchio che pervade il territorio calabrese alle ceramiche di Seminara. Dobbiamo sperare che le maschere apotropaiche facciano effetto, realizzate per allontanare gli spiriti maligni e tutte le negatività. Sono oggetti dalla forte carica simbolica, volti umani in segno di sberleffo, maschere linguacciute con lo sguardo ipnotico e orecchie a sventola, o i ricci dai numerosi aculei a scacciare i mali proditoriamente introdottisi. Tuttavia, siccome non è sufficiente rimuovere il male, ma si desiderano anche bene e felicità, intervengono gli oggetti propiziatori, come i mascheroni cornuti che procurano la fertilità dei “Campi” e la fecondità della “Donna”. Le ceramiche di Seminara sono realizzate con argille ad alto contenuto di ossido di ferro reperita sul luogo. Sono ceramiche dalla forte e intensa colorazione, il giallo, il verde e il blu sono i colori predominanti. L’attività ceramica risale a tempi remoti, alla fine dell’Ottocento erano presenti sul territorio circa trenta fornaci con relativi mulini azionati a mano per la macinazione degli smalti; quasi certamente oggi con i forni elettrici trenta non li troviamo su tutto il territorio calabrese. Gli abitanti venivano chiamati “stagnacanteri” da “Càntaro”, vaso liturgico di età paleocristiana, e ancora prima “Kàntharos”, tipica forma della ceramica greca. La lavorazione in passato era soprattutto finalizzata alla manifattura di oggetti necessari alle esigenze della casa e del lavoro quotidiano, mentre quelle odierne hanno più un valore prettamente decorativo. Anfore biansate, “lancelle”, “cannate”, orci abborchiati detti “porroni a riccio”, borracce a forma di pesce sono le forme più conosciute. Molto caratteristiche sono le bottiglie e le fiasche a figura umana, e i cosiddetti “babbuini” o “babbaluti” di Seminara, grosse brocche ed orci antropomorfi con la parte anteriore a forma di grotteschi mascheroni, con funzioni apotropaiche. Alcune di queste ceramiche realizzate dal Cavaliere Paolo Condurso, furono
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Nella pagina successiva: Antica fornace in pietra, struttura verticale a cielo aperto, risalente alla fine del 1600, di proprietà della famiglia Commodaro, Squillace.
Piatto e bottiglia, ceramica ingobbiata e graffita con ornati naturalistici, riproduzione; forma e decoro del Sec. XVII, piatto diam. Cm 32, bottiglia h cm 26, 2009, Bottega d’arte Il Tornio di Claudio Panaia e Betraice Russomanno, Squillace.
acquistate da Pablo Picasso negli anni Sessanta.. A differenza dei manufatti di Seminara, che mostrano una ceramica di stampo più arcaico, un modellato di impatto, dove si percepisce ancora il gesto delle mani conficcate nella materia e una colorazione accesa quasi aggressiva, la ceramica di Squillace ha una foggiatura e toni più pacati, è quasi monocromatica. La ceramica di Squillace trova nella tecnica del graffito la sua riconoscibilità territoriale, di origine Bizantina, come messo in evidenza dallo studioso Guido Donatone, autore del volume “La ceramica di Squillace”, dal quale ho ripreso le notizie storiche. Tesi, quella del professor Donatone, che potrebbe essere messa in discussione dagli scavi recentissimi all’interno del castello, i quali hanno riportato alla luce tantissimi reperti in ceramica, ma non con la tecnica del graffito. La tipicità di questa ceramica è data dall’ingobbio bianco graffito su manufatto rosso, spesso con ricchissime composizioni a minuti ornati floreali ed è caratterizzata dalla calda luminosità delle gradazioni rosso cupo delle terrecotte e dal mielato del decoro. Databili intorno all’inizio del XVIII secolo sono i piatti a patina rossa, una materia coloristica che si ritiene ottenuta con l’impiego del bolo, un’argilla ricca di ossido di ferro visibile nelle ceramiche medievali; tali pezzi sono di destinazione araldica e spesso le tese mostrano una ricca decorazione vegetale e floreale a leggero rilievo ritoccato in oro. Di notevole importanza, per la ricostruzione della storia ceramica di Squillace fu lo studio sul piatto del 1654, recante l’indicazione del centro di produzione “Sqllci”. Sul piano decorativo è di grande interesse l’intricata partitura naturalistica e figurativa, dai suggestivi motivi di ascendenza orientale, rappresentati anche sui serici damaschi contro-tagliati e sulle altre stoffe di seta, ed eseguiti dalle abili maestranze catanzaresi del ‘500 e ‘600. Le forme tipiche della ceramica graffita sono i piatti da parata o da pompa, le giarette anche in colorazione cromatica giallo bruno e verde, le borraccette ad anello sempre in decorazione floreale graffita. Ceramiche di Seminara e Squillace si trovano oggi in musei italiani e stranieri tra cui: Museo “Capodimonte” di Napoli, Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza, Museo Etnografico “Raffaele Corso” di Palmi. Spero, con l’aiuto degli Dei, di poter parlare la prossima volta di iniziative pubbliche e private tese a valorizzare la cultura del fare cerami-
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ca la br ia
Borraccia ad anello, ceramica ingobbiata e graffita con decorazione floreale, riproduzione; forma e decoro del Sec. XVII, diam. cm 35, 2007, Bottega Ideart di Antonio Commodaro, Squillace.
ca la br ia co in Calabria. Un territorio ricco di storia che deve saper ritrovare le giuste motivazioni, per ricoprire oggi più di ieri un ruolo di primo piano nel contesto culturale globale. Ma per arrivare a ciò è necessario riscoprire quell’indignazione che, come sosteneva “Cioran” “è la molla dell’ispirazione”. Mi piace concludere questo breve intervento con il canto omerico “La Fornace”, che dedico ai vecchi vasai calabresi e ai tanti giovani che vorranno intraprendere questo affascinante mondo fatto “solo” di terra, acqua, aria e fuoco.
La fornace (Omero) Se voi del canto mio mi darete, o vasai la mercede, qui vieni Atena, e su la fornace protendi la mano, a buon termine fa’ che giungano coppe e bicchieri, che la cottura giusta ne sia, che li paghino bene, che molti per le vie se ne spaccino, molti al mercato,
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ed il guadagno giusto facciate, n’esulti il cuor vostro. Se poi bando al pudore darete, e sarete bugiardi, dèmoni qui chiamerò che struggan le vostre fornaci, Stritola, Spicina, Incènera, insieme con Bòmbito e Spacca, che dar sapranno a questa fornace travagli a bizzeffe. Struggi i fornelli, struggi la casa, e con lei la fornace, tutto a sconquasso vada, fra un altro fragore di cocci. Qual di cavallo mugghia la fauce, così la fornace mugghi, ed a briciole, dentro di sé tutti i vasi riduca. Figlia del sole, Circe, maestra di filtri, e tu vieni, e questi e l’opera loro danneggia coi farmachi tristi. Anche Chirone venga, qui guidi i Centauri a schiere, quanti alle mani d’Alcide sfuggirono, e morti non sono, e pestin tutto quanto, sicchè la fornace sprofondi, si che dobbiate, piangendo, riflettere ai vostri misfatti. Io gioirò vedendo distrutte le vostre fatiche. E se qualcuno farà capolino nel forno, la faccia tutta gli vada a fuoco; e imparino a fare i bricconi.
Lombardia La ceramica artistica lodigiana
Grande vaso con coperchio, Fabbrica di Simpliciano Ferretti, ( 1730-35), Lodi, Museo Civico.
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lo mba r di
In basso: Grande centro tavola, Fabbrica di Antonio Maria Coppellotti, 1743, Lodi, Museo Civico. Al centro: Piatto tondo sagomato e centinato, Fabbrica di Giorgio Giacinto Rossetti, 172936, Lodi, Collezione privata.
L’arte ceramica, le cui prime tracce risalgono addirittura all’età romana, ha avuto a Lodi il suo periodo di massimo splendore e floridezza soprattutto nei secoli XVII e XVIII. L’ottima qualità dell’argilla, l’abile tecnica nel lavorarla, un’armonia equilibrata nel darle forma, il buon gusto dei decoratori nell’abbellirla e nell’ornarla, il fine senso artistico dei pittori nel dare vita, luce e colore alla gelida e vitrea materia, hanno creato pezzi di meravigliosa bellezza. I marchi delle storiche manifatture lodigiane (Coppellotti. Rossetti, Ferretti, per citare le più note) erano conosciuti ovunque e la loro produzione molto ricercata. I ceramisti, modellatori, decoratori e pittori, venivano considerati dei veri e propri artisti più che artigiani, per il prezioso e brillante modo di trattare i colori, grazie anche alla introduzione della particolare
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tecnica di cottura a “Piccolo fuoco”, nonché per l’originale gusto artistico nel comporre le decorazioni. La ispirazione per la grande varietà e ricchezza dei decori affonda le sue radici sia nel gusto e nella storia locale che riprendendo le tradizioni di altri Paesi di grande sensibilità all’arte ceramica, quali la Francia ed i Paesi dell’Oriente. La ricerca di una forma che affermasse la distinzione della produzione locale aveva portato alla creazione di un particolare stile, detto “Vecchia Lodi”,
che consisteva, e consiste, in un motivo decorativo originale, formato da mazzi di fiori e di foglie, gli uni e le altre finemente ed accuratamente dipinti, quasi miniati, dai vivaci e brillanti colori: rosso porporino, le rose ed i garofani; rosso violaceo i tulipani; verde smagliante le foglie; giallo oro e azzurro cupo i fiori più piccoli di contorno. Questa denominazione è quella che oggi identifica storicamente ed artisticamente la produ-
lo mba r dia
In basso: Grande centro tavola, Fabbrica di Giorgio Giacinto Rossetti, 1729-36, Limoges, Musèe Adrien Dubouchè.
zione ceramistica delle nostre fabbriche del passato, sebbene essa abbia avuto esistenza ben più ampia di quella afferente tale denominazione. A buon diritto si può pertanto affermare che, per la città di Lodi, che ha appena celebrato l’850° anniversario della fondazione (1158–2008) la ceramica significa tradizione, identità storica e culturale, emblematica forma di espressione della tipicità locale. Ancora oggi, seppur tra mille difficoltà legate anche alla difficile situazione economica, valenti artigiani locali proseguono a tener vivo il legame con l’arte ceramica, così connaturata all’immagine ed al vissuto della città, grazie anche al riconoscimento di legge (unica città in Lombardia) del marchio di qualità CAT (Ceramica Artistica Tradizionale).
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Puglia Grottaglie Daniela De Vincentis Resp. Museo della Ceramica di Grottaglie
La storia della città di Grottaglie (dal lat. «Cryptae Aliae» = molte, diverse grotte) va ricercata negli insediamenti rupestri che si sono susseguiti nella zona fin dal periodo del Paleolitico. I primi gruppi umani abbandonarono man mano le gravine per occupare le alture isolate sulle quali stabilirono i loro villaggi fortificati che diedero vita ai vari casali tra cui il Casale Cryptalearum, nucleo primigenio dell’attuale centro storico di Grottaglie dove è ubicato il famoso Quartiere delle Ceramiche, caratterizzato dalle numerose botteghe scavate nella roccia, in alcune delle quali si conservano ancora antiche fornaci, e dagli accatastamenti dei manufatti ceramici visibili sulle terrazze. Le radici della produzione artisticoartigianale affondano in un passato lontanissimo, stando ai numerosi reperti ceramici rinvenuti, risalenti all’età classica e magnogreca. Per lungo tempo l’attività fu prevalentemente a carattere artigianale, volta alla produzione di laterizi e di suppellettili di uso quotidiano. La diffusione della produzione di maioliche a Grottaglie è databile a partire dal ‘700, con la conseguente specializzazione in due filoni, l’«arte ruagnara» e l’«arte faenzara»: il primo riferito alla produzione d’uso comune, con un forte legame al mondo contadino, il secondo, invece, a carattere prevalentemente decorativo ed ornamentale, rivolto ad un uso più elitario ed aristocratico. Attualmente le tipologie e le tecniche produttive tendono comunque ad integrarsi e ad incrociarsi anche nelle stesse botteghe, dove i ceramisti lavorano quotidianamente rivolgendo particolare attenzione alla tradizione ed alla ricerca di nuove forme espressive. Il Museo della Ceramica Assieme al “Quartiere delle ceramiche” è possibile apprezzare l’artigianato figulino nel Museo della Ceramica, ubicato nell’affascinante Castello Episcopio, edificio medievale costruito nel XIV secolo dall’Arcivescovo Giacomo D’Atri, nel quale sono esposte circa 500 opere che coprono un arco cronologico che va dall’VIII secolo a. C. sino ai giorni nostri. Sono oggetti che raccontano la storia di un passato in
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Vaso Graffito, Fabbrica Calò, inizi sec. XX, Museo della Ceramica, Archivio Città di Grottaglie. Foto Ciro Quaranta. A fianco: Il quartiere delle Ceramiche, Archivio Città di Grottaglie. Foto Ciro Quaranta.
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Zuppiera, premio Mostra della Ceramica Mediterranea, Museo della Ceramica, Archivio Città di Grottaglie. Foto Ciro Quaranta. Brocca monoansata, fornaci di grottaglie, sec. XIX, Grottaglie, Museo della Ceramica, Archivio Città di Grottaglie. Foto Ciro Quaranta.
cui la ceramica rivestiva un ruolo di primaria importanza, soddisfacendo i bisogni di igiene personale e della casa, di conservazione degli alimenti, di decorazione e di abbellimento delle abitazioni. Il Museo si articola in quattro sezioni: Ceramica tradizionale d’uso, Reperti archeologici, Maioliche e Presepi, in attesa dell’istituzione della sezione dedicata alla ceramica contemporanea, costituita dalle opere premiate sin dal 1971 nell’ambito della “Mostra della Ceramica Mediterranea”. Nella sezione della Ceramica tradizionale d’uso vi sono manufatti ceramici usati per la dispensa, per i servizi domestici e per l’igiene personale e della casa. È una tipologia ceramica che copre un arco temporale che va dagli inizi del secolo XVIII alla prima metà del secolo XX e risulta variamente rappresentata da forme tradizionali usate per contenere acqua, vino, olio, aceto, per trasportare acqua o per la conservazione di provviste alimentari (“capasone”, “capasone alla capuana” “trimmone”, “capasa”, “vummile”, “cicine”, “pitale”, “cammautto”, ecc.). A queste si aggiungono gli oggetti usati per cucinare (“tiestu”, “pignata”), lavare biancheria, piatti, verdure e cibi vari (“crasta ti cofanu”, “limmu”, “scafarea”, “pendriale”), contenere piante (“crasta”, “casc’pò”) e quelli usati per i servizi igienici (“nicissario”, “rinale”, ecc.), i vasetti per attingere acqua dai pozzi (“vucale pi puzzu a ‘ngegna”), i comignoli (“ciminiera”) e i tubuli usati per costruire le volte delle fornaci (“orieni”). - Nella Sezione archeologica sono esposti numerosi reperti provenienti dal sito di Masseria Vicentino, ubicato in agro di Grottaglie, datati tra l’VIII e il IV sec. a.C., fra cui spiccano le olle globulari con motivi geometrici e le patere dipinte o incise. - Nella Sezione delle maioliche sono in mostra oggetti che vanno dagli inizi del secolo XVIII alla prima metà del secolo XX. Vi si può trovare una grande varietà di piatti e di brocche per acqua e vino (“sruli”) ma anche le tipiche “ciarle”, vasi dotati di una duplice ansa a nastro, i vasi da farmacia o albarelli e le zuppiere, i cui pomoli di presa sono solitamente modellati a riprodurre figure umane, elementi vegetali (una pigna, un frutto) o animali. Tra le maioliche figurano anche le mattonelle per pavimentazione, realizzate sia a Grottaglie sia in altri centri salentini e campani. - Nella sezione dedicata ai Presepi, costituita dai presepi premiati nell’ambito della rassegna annuale della “Mostra del Presepe”, avviata a partire dal 1980, si possono apprezzare le varie forme interpretative dell’antica tradizione presepistica in ceramica, dal presepe monoblocco o miniaturistico, a quello monumentale ricco di personaggi.
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Gianni Carrera, La bella di Laterza, 2008.
Laterza è situata nell’estremo lembo occidentale della provincia di Taranto. Il suo territorio s’insinua come un cuneo fra le province di Bari e Matera, confinando con Gioia del Colle, Santeramo in Colle, la stessa Matera e con Castellaneta e Ginosa. L’agro di Laterza parte da un’altezza di circa 340 metri sul livello del mare -dalla diramazione appenninica del barese (detta Murgia) nei gradi 2, 32, 37 di longitudine orientale e 40, 23, 20 di latitudine boreale- e degrada con il suo profondo canyon (denominato Gravina) e con Ginosa verso il golfo jonico. L’estensione territoriale del Comune di Laterza copre un’area pari a 160 Kmq e la sua popolazione residente conta circa 15.070 anime. Nonostante sia ad una quota discretamente elevata, Laterza è adagiata in un luogo protetto da colline che ne limitano il suo orizzonte. Il viaggiatore, infatti, soltanto quando è giunto nelle prossimità dell’abitato, può scorgerla improvvisa e mirabile come perla in uno scrigno. Le origini di Laterza si perdono nella notte dei tempi, a fornirne l’evidente prova vi sono i ritrovamenti emersi dai lavori di scavo effettuati nel 1965 in una necropoli risalente al 2000 a.C. in località Candile. Diverse sono le tesi in dibattito sull’origine del nome di Laterza, ma una sembra meglio accreditarsi: quella secondo cui il nome del Comune derivi dai Laertiadi (soldati di Laerte, re di Itaca e padre di Ulisse) che, nel 1150 a.C., a seguito della guerra di Troia, giunsero in questi luoghi fissandovi definitiva dimora e civilizzando i pochi aborigeni presenti. Ai greci seguirono i romani e un lungo avvicendarsi di dominazioni materane, borboniche, normanne e saracene; fino all’era feudale dei nobili di Spagna, D’Azzia, i cui segni indelebili del loro passaggio consistono principalmente nel Palazzo Marchesale, la Fontana medievale e la Cantina spagnola. Fino dalle epoche più remote Laterza è stata un originale centro di attività ceramica, come testimoniano i numerosi reperti rinvenuti appartenenti all’età della Magna Grecia, a quella Romana e a quella Medievale. L’arte figulina laertina, definita maiolica artistica, ha conosciuto il suo massimo splendore tra il XVII e il XVIII secolo. Sono proprio di questo periodo le testimonianze storiche più vivide dei ceramisti laertini i cui manufatti sono esposti nei maggiori musei italiani ed esteri. La storia documentata del Comune riporta che Laterza, sino dall’antichità, si è distinta per la pastorizia tanto che, nel medioevo, divenne punto di riferimento territoriale per la produzione laniera e la concia delle pelli. Sicché, di conseguenza, ebbe a svilupparsi un mestiere, quello del wuccjire ovvero il Macellaio. Una professione costituita essenzialmente da due attività: quella commerciale, rivolta alla vendita al dettaglio e quella artigianale dedita, appunto, all’arte dell’arrosto delle carni nei famosi fornelli in pietra, tutt’oggi in uso e largamente graditi da laertini e forestieri. Uno dei prodotti tipici della gastronomia laertina è senza dubbio il pane di Laterza - divenuto ormai famoso in tutta Italia per la
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Maiolica laertina
sua bontà e squisitezza - cotto nei tradizionali forni a platea fissa, fatto di “chianche” (speciale pietra refrattaria), con legna di quercia, di ulivo o di macchia mediterranea (lentisco e terebinto), tutte essenze particolarmente aromatiche. Laterza, come del resto tutta la penisola salentina, sin dall’età neolitica, ha avuto forti influenze culturali che le hanno consentito di apprendere, nel corso dei secoli dagli antichi maestri greci, l’arte della ceramica. Il susseguirsi, poi, delle sopravvenzioni etniche e lo sviluppo graduale della lavorazione stessa, hanno permesso agli artigiani locali di acquisire nuove conoscenze di tipo tecnico ed ornamentale tali da trasformare un ordinario oggetto ceramico in una raffinata maiolica artistica. La piena fioritura dell’arte figulina laertina esplode nel 1600 e prosegue per tutto il 1700, con forniture di vasellame e grandi piatti per le case di nobili del circondario e mattonelle per decorazioni in varie chiese. Diverse opere ceramiche di quel periodo sono gelosamente custodite in musei nazionali ed esteri. Elemento di rilievo della maiolica laertina è l’elegante stesura cromatica, prevalentemente turchina su smalto bianco con sobri interventi di giallo e verde. Tra i soggetti s’impongono tracce ornamentali di margherite palmette, il giglio stilizzato, i festoni a frange pendenti, alcune figure di uccelli ed animali. Attualmente la maiolica artistica laertina sembra essere rinata, grazie ai nuovi maestri ceramisti ed alla Scuola d’Arte del Liceo G.B. Vico. È d’obbligo una visita alle antiche fornaci nel centro storico e ai laboratori dei ceramisti locali. La ceramica laertina è tutelata dal marchio CAT “Ceramica Artistica Tradizionale” istituito nel giugno del 1997 con decreto del Ministro dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato.
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Toscana Orcio Soderi, 1613, Terracotta. Foto Sergio Bettini.
Impruneta: la città del Cotto Ida Beneforti Gigli, Sindaco di Impruneta
Impruneta e terracotta sono legate da sempre in maniera indissolubile. Fino dalla fondazione dei primi insediamenti abitativi, i giacimenti di argilla furono da subito utilizzati per la produzione di manufatti in cotto. Questo legame è vivo ancora oggi, grazie alle numerose fornaci che hanno saputo tramandare l’arte della terracotta, divenuta ormai un elemento centrale dell’identità culturale imprunetina. Sono proprio le caratteristiche chimico-fisiche del particolare tipo di argilla (Galestro) presente in abbondanza nel territorio, a conferire alla terracotta di Impruneta la sua straordinaria robustezza e resistenza agli agenti atmosferici (al gelo, in particolare) e a determinare le caratteristiche estetiche del prodotto finale (il caldo colore rosso-rosato). Questa resistenza agli agenti esterni ha costituito da sempre uno degli elementi fondamentali per la fortuna di questo materiale; non è un caso che Filippo Brunelleschi abbia utilizzato proprio la terracotta di Impruneta per la Cupola del Duomo di Firenze: il suo capolavoro doveva sfidare l’usura del tempo. Il 23 marzo 1309 è un altro momento fondamentale per la storia dei fornaciai imprunetini: un atto notarile stipulato
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dal notaio Benintendi di Guittone e conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze, testimonia che gli “orciolai” e “mezzinai” di Impruneta si erano riuniti in una corporazione al fine di proteggere e regolare la produzione e la qualità dei manufatti in terracotta, testimoniando come in quel periodo questa attività manifatturiera fosse viva e fiorente. Da allora la produzione del cotto è continuata nei secoli dando vita a vere e proprie dinastie di fornaciai. Nel Novecento la produzione si è differenziata e spe-
t o sca na Ninna Nanna, 54x68 h. 24 cm, e Tulipano, h. 63 cm, Terracotta, Azienda: Poggi Ugo.
cializzata su due versanti distinti: industriale e artigianale. Il primo si concentra sulla realizzazione di pavimenti e laterizi, oltre che su produzioni innovative e altamente tecnologiche quali le pareti ventilate e frangisole o i nuovi materiali per rivestimenti nati dall’unione di galestro e resine naturali. Il secondo, quello artigianale, continua a tramandare le antiche tecniche di lavorazione manuali nel solco della tradizione, sia mantenendo le forme piÚ tipiche della terracotta toscana quali conche, orci e cassette, sia innovando tali forme con oggetti di design piÚ vicini al gusto contemporaneo e alle moderne esigenze di arredo per interno ed esterno. Dalle sapienti mani artigiane che combinano i quattro elementi aristotelici (terra, acqua, aria e fuoco) per dar vita a oggetti unici, agli edifici progettati da architetti contemporanei come Aldo Rossi o Mario Botta, il cotto di Impruneta mantiene inalterato il suo fascino.
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Cultura e ricerca storica: Montelupo Fiorentino Fausto Berti, Direttore Museo della ceramica di Montelupo Montelupo Fiorentino è collocata a pochi chilometri dal capoluogo toscano e deve la sua fortuna alla particolare collocazione geografica che la collega direttamente alle principali vie di accesso della toscana e del territorio nazionale. La sua posizione al centro della Toscana, non lontana da altri luoghi importanti come Pisa, Siena, Volterra e San Gimignano, in un territorio ricco di materie prime, come l’acqua ed il legname, è anche l’elemento determinante per lo sviluppo della lavorazione tipica della città: la ceramica. Negli anni fra il 1450 e il 1530 la locale produzione era conosciuta ed esportata in tutto il mondo, anche grazie alle numerose committenze fiorentine da parte della Farmacia di Santa Maria Novella e degli stessi Medici. Di fatto, Montelupo era il centro di fabbrica fiorentino per la ceramica, entro le mura cittadine si contavano oltre 50 manifatture, alcune delle quali avevano un proprio marchio distintivo. È possibile riscoprire la storia della produzione montelupina
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e le relazioni con la città di Firenze visitando il Museo della Ceramica. La nuova sede di quello che rappresenta uno dei più importanti musei europei nel suo genere è stata inaugurata a maggio 2008. Il museo contiene oltre 3000 pezzi, gran parte dei quali frutto di un lavoro di scavo, ricerca e restauro sul territorio. Per l’allestimento e per la tipologia di materiale esposto si tratta di un museo unico a livello internazionale. Ancora oggi la ceramica è un tratto distintivo del territorio: sono numerose le botteghe e le fabbriche attive. Alcune si dedicano alla riproduzione dei decori tradizionali (e i loro lavori sono certificati dal Marchio della Ceramica Artistica e Tradizionale di Montelupo, introdotto dalla Legge 188/90), altre hanno intrapreso la strada della ricerca realizzando spesso oggetti che sono vere e proprie opere d’arte contemporanea o oggetti d’uso e arredo tavola. Ciò che, oggi, caratterizza la città di Montelupo rispetto ad altre città di antica tradizione ceramica è la conte-
Veduta esterna del Museo della Ceramica di Montelupo.
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Museo della Ceramica di Montelupo Piazza Vittorio Veneto, 8/10 50056 Montelupo Fiorentino (FI) Ph. 0039 0571/ 51352-51060 Fax. 0039 0571 542588 Museo Archeologico Montelupo Via di Santa Lucia all’Ambrogiana 50056 Montelupo Fiorentino (FI) Ph. 0039 0571 541547 Museo Contemporaneo e Artistico Industriale Via Bartolomeo Sinibaldi, 45 Ph. 0571/518993 (aperto nei weekend e su prenotazione) info@museomontelupo.it ufficioturistico@museomontelupo.it www.museomontelupo.it www.tuscany.name Sistema museale completamente accessibile ai non deambulanti Orari Museo della Ceramica e Museo Archeologico: apertura al pubblico dalle 10.00 alle 18.00 chiusura lunedì chiuso per: Pasqua, Ferragosto, Natale Museo Contemporaneo: giovedì e venerdì 10,00-13,00 Sabato e domenica 10,00-18,00 Altri giorni su prenotazione Visite guidate e laboratori didattici su prenotazione – tel. 0571- 51352 Info: www.scuolaceramica.com; www.museomontelupo.it; www.comune.montelupo-fiorentino.fi.it; www.tuscany.name; www.ceramicatoscana.it
stuale sopravvivenza di tutti gli aspetti legati alla ceramica: 1) La cultura e la ricerca storica, data dalla presenza del Museo della Ceramica, del Museo Archeologico, del Museo Contemporaneo e di un’attività di ricerca continua ad opera del Gruppo Archeologico; 2) La formazione professionale e il dialogo con il mondo produttivo, data dalla presenza della Scuola della Ceramica di Montelupo, modello formativo per la ceramica artistica frequentato da esperti, formatori, docenti e allievi provenienti, oggi, da tutto il mondo. Nata per la precisa esigenza di formare manodopera specializzata nel campo della ceramica artistica, la Scuola di Ceramica a Montelupo Fiorentino, si colloca in un ambito formativo di alta professionalità tecnica, vista la sua ormai venticinquennale esperienza nel settore, con personale insegnante reperito dal mondo produttivo in grado di trasmettere tutte le conoscenze tecnicopratiche indispensabili per poter continuare un’arte che altrimenti rischierebbe di estinguersi, vista la complessità di formazione professionale che il settore richiede. La metodologia di insegnamento, che abbina lo studio teorico ad un’ampia attività pratica oltre ad uno stage aziendale, è stata gradualmente affinata, come il materiale bibliografico, progettato e realizzato internamente, vista la totale assenza di riferimenti in materia al momento in cui la scuola ha iniziato la sua attività.
L’efficacia della scelta formativa a suo tempo operata, che si differenzia dai percorsi didattici degli istituti artistici e delle accademie, è oggi dimostrata dalle centinaia di allievi che hanno frequentato la scuola in questi anni e che, nel 74% dei casi (questo il dato regionale più recente), hanno trovato occupazione dopo l’ottenimento della qualifica. Nel tempo si è trasformato il profilo dell’allievo tipo, che sempre più oggi è diplomato o laureato e proviene da altre province e regioni, quando non dall’estero (circa il 10% degli allievi). Questi elementi, uniti alla elevata professionalità dei docenti, provenienti per la quasi totalità dal mondo produttivo, hanno reso questa esperienza unica in Italia nel campo della formazione professionale. 3) La produzione. Oggi Montelupo Fiorentino è uno dei maggiori poli ceramici italiani, vocato alla produzione delle materie prime e della maiolica artistica per l’esportazione; sul territorio dell’odierno Comune di Montelupo e del comprensorio produttivo insistono oltre 120 aziende (dato Camera di Commercio di Firenze) che producono materie prime (terre e coloranti), ceramica tradizionale, ceramica di design contemporaneo, piastrelle, terrecotte occupando un totale di circa 1300 addetti. Il “Saper Fare” della Toscana contraddistingue le produzioni di Montelupo, che si caratterizzano per l’alta qualità estetica e funzionale e per
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Zaffera Tricolore, 1410-40
Il Comune di Montelupo Fiorentino e l’Associazione Terre di Toscana sono, inoltre, interlocutori importanti della Regione Toscana per le politiche promozionali e di sviluppo legate al settore ceramico. Nel 2008, ad opera di questa collaborazione costante, la Regione Toscana ha emanato la Legge Regionale 10/2008 “Disciplina delle strade della ceramica, della terracotta e del gesso di Toscana”, con l’obiettivo di realizzare percorsi culturali e turistici in grado di valorizzare non solo il prodotto ma anche il territorio che lo ospita.
la capacità degli artisti, degli artigiani, delle imprese ad alto contenuto tecnologico di creare sinergie e contaminazioni destinate a rappresentare il valore aggiunto del manufatto che nasce dall’idea e dalla passione. La produzione del territorio è certificata da due marchi di qualità: - La Ceramica Artistica e Tradizionale di Montelupo Fiorentino, il “fatto a mano” della ceramica di Montelupo. Tutela della Ceramica Artistica e Tradizionale (L. 188/90) prodotta secondo forme, decori, tecniche e stili divenuti patrimonio storico e culturale, e secondo innovazioni ispirate alla tradizione. Disciplinare approvato dal Consiglio Nazionale Ceramico in data 08/07/1998 con successiva integrazione del 03/11/1999. - La Ceramica di qualità di Montelupo Fiorentino, la Ceramica nel suo territorio di produzione. Ceramica di Montelupo Fiorentino realizzata nei confini identificati come “territorio di produzione” e realizzata secondo le caratteristiche tipiche della maiolica montelupina identificate sulla base di studi e di ricerche storiche. Disciplinare approvato dal Comitato di Disciplinare il 05/02/2009. Montelupo Fiorentino riveste, inoltre, la Presidenza della prima Associazione Regionale dei Comuni che hanno ospitato e/o ospitano tradizioni ceramiche significative, ovvero l’Associazione Terre di Toscana, che riunisce 11 comuni toscani accomunati dalla volontà di promuovere e valorizzare il prodotto ceramico locale.
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Montelupo Fiorentino è una “città murata” medievale posta sull’Arno, lungo l’asse viario tra Firenze e Pisa, che storicamente ha svolto il ruolo di centro di fabbrica per la ceramica smaltata (la “maiolica”) nell’area fiorentina. Una serie di fortunate ricerche archeologiche, iniziate negli anni ’70 ha permesso il recupero di un ingente patrimonio, composto da oltre 4.000 esemplari ceramici restaurati, che illustrano la produzione di ben cinque secoli, dalla fine del Duecento al Settecento. Le collezioni ceramiche sono esposte presso il nuovissimo Museo della Ceramica una delle realizzazioni più moderne tra quelle dedicate alla ceramica antica del panorama internazionale. Montelupo ha organizzato un vero Sistema Museale cittadino, del quale, oltre al Museo della Ceramica, fa parte anche il Museo Archeologico, che riunisce le testimonianze di un vasto territorio, esteso tra il Chianti fiorentino, il Montalbano ed il Medio Valdarno. Si tratta di reperti preistorici e protostorici, etruschi, romani e medievali, riuniti in un importante complesso edilizio, comprendente le ex chiese di S. Quirico e S. Lucia all’Ambrogiana, la prima delle quali risalente all’VIII secolo. Oltre all’esposizione museale, il visitatore può visitare i siti archeologici di riferimento, quali il grande abitato etrusco di Montereggi e la villa romana del Vergigno. Presso l’edificio della ex podesteria di via Bartolomeo Sinibaldi, che è stata la prima sede museale cittadina, è si è infine inaugurato, a giugno 2009, il Museo Contemporaneo, dedicato alla ceramica contemporanea ed alle più moderne espressioni dell’attuale design.
extramoenia
We’ve Found the Body of Your Child, 2000, Ceramica smaltata, 49 x 30 cm, Courtesy: Galleria Victoria Miro, Copyright: L’Artista. Photo: Stephen Brayne.
Fake
Intervista a Grayson Perry Anna Babini
Controllo l’e-mail per la centesima volta. Le solite venti news letters di e-flux che non aprirò mai, tre offerte di Ryanair per voli in Grecia a una sterlina (che se aggiungi le tasse e bagaglio ti va a costare settanta) e almeno cinque, dico cinque, offerte sul viagra. Ma dalla galleria Victoria Miro niente di niente. È da due mesi che pazientemente li corteggio per ottenere un’intervista con Grayson Perry. I galleristi regolarmente inoltrano le mail all’artista, ma da lui - così almeno mi dicono - neanche l’ombra di una risposta. Non mi spiego proprio questo silenzio. Non voglio neppure pensare che Grayson non mi abbia voluto incontrare deliberatamente, magari reputando questa graziosa rivista un po’ troppo misconosciuta per i suoi gusti. Sarà stato indaffarato, probabilmente troppo assorto nel suo lavoro creativo. Oppure che sia forse affetto anche lui dalla terribile swine flu, la febbre suina, (o “febbre maiala”, come dicono alcuni) che continua a mietere vittime qui a Londra e sembra non voler risparmiare nessuno, neanche me purtroppo, che sto scrivendo infatti dal mio letto, anzi, si potrebbe dire dal mio capezzale, in quarantena, con il cervello che mi ribolle e brividi gelidi che passano come scosse elettriche lungo la schiena? Sarà forse l’effetto della febbre da cavalli, ma una sorta di delirante fantasia inizia a prendere forma nella mia testa... Da sotto il catafalco il mio cellulare comincia a squillare. È un numero che non conosco... Rispondo, con la bocca impastata dalla febbre. “Hello...” “Hello? Miss Babini? It’s Grayson”. Il taxi mi scarica direttamente sotto la villa georgiana di Grayson Perry. Tutti a Londra lo conoscono. Vincitore dell’ambitissimo Turner Prize nel 2003, Grayson fece allora molto scalpore, e nella fattispecie per tre motivi. Il primo fu che riuscì a scalzare il premio ai concorrenti fratelli Chapman, gli acclamatissimi artisti che tutti davano per vincitori. Il secondo era che le sue opere consi-
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stevano in vasi in ceramica, ed erano quindi considerate da una parte della critica benpensante non opere d’arte ma di “basso artigianato”. Il terzo motivo di scandalo era dato dal fatto che Perry è un travestito. Fu quindi nello sconcerto generale dei presenti che all’annuncio del vincitore del Turner Prize si presentò sul palco a ricevere il premio non già Grayson Perry, ma il suo alter ego femminile, Claire, una signora di mezza età conciata come una bambina, con fiocchi rosa in testa, scarpe di vernice rosse e un vestitino a frappe con sopra ricamati dei coniglietti. Mentre mi accingo a suonare il campanello della villa, mi chiedo chi sarà a ricevermi: Grayson o Claire? Mi sbaglio: nessuno dei due. Ad aprire la porta è Philippa, la moglie di Grayson, accompagnata dalla figlia Florence, di diciassette
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anni. Phlippa è una bella donna di circa quarantacinque anni, dai nervi saldi, e che ti guarda dritto negli occhi. Mi spiega che il marito è in ritardo, e mi chiede se intanto gradisco una tazza di the. Accetto volentieri e ne approfitto per fare qualche domanda anche a lei. Philippa mi racconta del loro primo appuntamento, nel 1986. “Sapevo già che Grayson si travestiva. Passai da casa sua perché dovevamo andare insieme in un locale di drag queen. Mi aprì la porta vestito da Claire e io pensai: “O mio Dio, chi è questa persona? Perché Grayson vive con una donna di mezza età? Che sia sua madre?” Fu molto divertente quando mi disse: “No... veramente sono io”. Philippa di mestiere fa la psicoterapeuta e mi dico tra me e me che dev’essere una attaccata al lavoro, se ha scelto di
sposare un tipo come Perry. Prima di fidanzarsi con lei, Grayson abitava in uno squat di Camden con la sua precedente ragazza, Jennifer Binnie, con la quale partecipava al gruppo artistico dei Neo-Naturisti, famosi per le loro performances nudiste in gallerie e night clubs londinesi. Fu la sorella di Jennifer, Christine, anche lei artista, ad indirizzare Perry alla ceramica, suggerendogli di frequentare un corso serale. A un certo punto dalla strada si sente il fracasso di una moto da corsa. “Ah, deve essere lui!”, esclama Philippa. Difatti poco dopo compare sull’uscio di casa Grayson, con il casco sottobraccio. Indossa una delle tute da motociclista in pelle da lui decorate, con scritte e disegni che si potrebbero definire “ambigui”, se non fossero di un’esplicitezza pressoché imbarazzante. Devo fare uno sforzo per non sgranare gli occhi quando vedo sulla sua tuta, nella zona dei genitali il disegno di un grande fallo eretto. Grayson è un uomo attraente, biondo e spettinato, tutt’altro che effemminato, e con gli occhi neri come due pozzi. Ci sediamo in salotto, vicino a un pianoforte con sopra un gattino di porcellana che regge la scritta “Life is meaningless” e un aereo militare in ceramica appeso alla parete. “Questo è X92”, mi spiega Grayson. “L’ho appeso lì perché sembra un po’ un crocefisso... Mescolare religione e guerra è qualcosa che mi affascina molto. Poi l’aereo è anche un simbolo forte dell’aggressività maschile, ma questo - vedi? - è decorato con immagini di cose carine: fiorellini, gattini... Mia figlia lo chiama “l’aereoplano delle femmine”. “Qualcosa di autobiografico?” azzardo a chiedere. “Sì, assolutamente...”. Si azzittisce, e io capisco che non è il caso di insistere sull’argomento. E poi non ce n’è bisogno: conosco già la sua storia. Tutti la conoscono, a memoria, come una filastrocca triste. Perry nacque nel villaggio di Chelmsford nel 1960. Quando aveva appena sette anni, suo padre lasciò la moglie, che aveva una relazione con il lattaio. Questi, divenuto il patrigno di Grayson, si rivelò essere un uomo incomunicativo e violento, da cui il bambino trovava rifugio solo nelle sue fantasie e nell’orsacchiotto Alan Measles, che divenne per lui una specie di padre putativo. All’età di tredici anni Grayson cominciò a vestirsi con gli abiti della sorella, e a quindici fuggì dalla casa materna per abitare con il padre. Ma nell’agosto del ‘76 la sorellastra, dopo aver letto di nascosto il diario intimo di Grayson, chiese alla madre cosa significasse “travestito”, e questa, venuta a conoscenza di tutto, cacciò Grayson di casa. Dopo aver vissuto qualche mese per strada, Perry tornò a vivere con la madre e il patrigno, e fu costretto a subire umilianti sessioni di analisi psichiatrica. I lavori di Perry sono saturi di riferimenti ai traumi della sua infanzia. Accanto a scene di guerra e perversione sessuale, spunta sempre l’orsacchiotto Alan, che lui definisce una figura chiave della sua mitologia personale, mentre sono continui i riferimenti ad abusi e a maltrattamenti su minori. E poi compare sempre lei, Claire, conciata nei modi più assurdi. E proprio da Claire parto con le mie domande, curiosa di sapere da dove sia saltata fuori, e che significato abbia per Grayson il travestimento. “All’inizio - mi racconta l’artista - quando avevo 13 anni, travestirmi era qualcosa di estremamente sessuale. Ma il vero punto è che mi permetteva di esprimere cose che non potevo, che mi erano proibite perché ero un maschio, sentimenti che solo le ragazze, si pensa, dovrebbero avere. Travestirsi tuttora equivale a poter dialogare con questi sentimenti che fanno parte della mia persona, e che posso provare ed esprimere solo quando sono vestito da donna. È un modo per preservare una parte di me stesso, ed è qualco-
sa di strettamente legato alla mia infanzia. Io credo che si passi attraverso l’infanzia come collezionando bonus, che puoi prendere da varie cose: maltrattamenti dei genitori o a scuola, oppure modelli femminili e maschili molto forti. E tu collezioni questi bonus, e se ne hai abbastanza... beh, hai buone chances di diventare un travestito. E poi... il travestimento per me è anche un modo per distinguermi. Carl Jung diceva che essere normali è la perfetta aspirazione per il fallito. Credo che le persone in genere abbiano paura di “venire fuori”, di emergere. Penso che abbiano paura dell’attenzione che possono ricevere... Io invece quest’attenzione la voglio”. “Però - osservo - ora ti travesti meno di un tempo...” “Beh, un po’ è perché sono molto impegnato nel mio lavoro, e truccarsi e vestirsi richiede molto tempo. E un po’ forse perché la società sta cambiando. Credo che il travestismo sia sintomo di sessismo ed intolleranza, va a braccetto con il pregiudizio e il bigottismo. Se l’intolleranza scompare, anche la necessità di travestirsi tende a diminuire. Il mio travestismo più che sulla società di oggi è basato però sull’archeologia emozionale della mia infanzia. È come se fossi sposato sessualmente e socialmente alla generazione precedente”. “Per questo Claire, che in passato si vestiva spesso come una donna attraente di una certa età, negli ultimi anni è quasi sempre vestita come una bambina con vestiti démodés?” “Credo di sì”, risponde Grayson pensieroso. “E poi... poi i vestitini pieni di fronzoli, e i cerchietti e i nastrini tipici delle bambine che mi metto a volte rappresentano per me la femminilità più hard core, più estrema che possa immaginare: è la cocaina, il crack della femminilità. Adoro vestirmi con tutto ciò che un uomo non deve essere, con tutta quella dolcezza, preziosità, impraticità, e soprattutto quella invulnerabilità”. Fa una pausa. “Poi probabilmente è anche un modo di esplorare l’infantilismo della cultura, il modo in cui i media vogliono solo slogan ad effetto, e tutto o bianco o nero. Ecco, credo che alla base delle mie idee ci sia il concetto che il mondo è un posto più complesso e adulto che non quello...” Altra pausa. “E forse c’è un’altro motivo per cui mi vesto così, ed è la mia bassa autostima. Essere donna nell’immaginario collettivo equivale a essere inferiore, di seconda classe. La mia è una presa di posizione da outsider”. “Allora” azzardo “è sempre per questo motivo che utilizzi vasi in ceramica, per i tuoi lavori?” Annuisce. “Anche la ceramica in effetti è qualcosa di totalmete outsider. È estremamente umile, è del tutto antifashion, ed è per questo che la trovo attraente. E un’altra ragione per cui uso la ceramica è che tutti abbiamo un’idea rispetto ad essa, tutti portiamo come un vago bagaglio intellettuale ed emozionale quando guardiamo un vaso. Un vaso per tutti è un oggetto domestico, calmo, non presuntuoso, decorativo, carino... piccolo. Mi piace giocare con le associazioni mentali della gente...”. “...e ti piace scovolgerle, con decorazioni dai contenuti schoccanti e disturbanti...” “Sì, in effetti molti dei miei lavori usano una tattica “da guerilla”, furtiva. Voglio creare qualcosa che sia per l’occhio un bel pezzo d’arte, ma che a uno sguardo ravvicinato faccia emergere un contenuto polemico o ideologico. E visto che il vasellame non è un mezzo di comunicazione così efficace, per veicolare un’idea utilizzo un linguaggio estremamente crudo: è una strategia. Però le idee che comunico, l’immaginario che utilizzo e che molte persone trovano disturbante, non sono lì perché voglio schoccare la gente, ma perché il sesso, la guerra e il genere sono soggetti che fanno parte
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Model Jet Plane X92, 1999, Ceramica smaltata, 84 x 58 x 18cm, Courtesy: Galleria Victoria Miro, Copyright: L’Artista. Photo: Stephen Brayne.
di me e che mi affascinano, e sento che ho qualcosa da dire a riguardo. Uso soggetti che hanno una rilevanza emozionale per me, cose ordinarie, non cerco eventi glamour e internazionali. Ma posso parlare della violenza domestica, dei morti sulla strada, di droga e povertà, dei pub incendiati, della gente ordinaria...” Dietro le spalle di Perry riconosco due vasi che presentò al Turner Prize: We’ve Found the Body of Your Child e Golden Ghosts. Il primo racconta la storia - ambientata in un paesaggio innevato di campagna di inizio Novecento - del ritrovamento del corpo di un bambino. Accanto alla figura di questo, che giace per terra, sta la madre accasciata e urlante. “Questa donna” mi spiega Grayson “come vedi viene confortata da dei giovani poliziotti, ma l’ambiguità è che non è chiaro se questi la stanno confortando, o se la stanno arrestando per il delitto”. Delle piccole scritte decorano il vaso scandendone la narrazione, frasi crudeli come “Cry baby” e “You fucking little shit”. “Penso - mi dice Perry - che tutti i genitori a un certo punto si sorprendano a dire al loro bambino cose come queste. E probabilmente non hanno la più pallida idea di quali effetti queste potranno forse avere sul loro figlio, e sulla sua autostima”. Golden Ghosts, Grayson lo definisce invece una sorta di mappa globale della sofferenza infantile nel mondo, ed il suo pezzo più “tenero”. In realtà anche questo è un pezzo crudissimo: l’immagine principale è quella di una bambina dalle mani tagliate, che fa riferimento alle multilazioni perpetrate dai soldati nei villaggi della Sierra Leone. In pratica le cose che per Perry «hanno una rilevanza emozionale», sono di una perversione estrema o di un’angoscia abissale, e danno origine a queste visioni dissacranti, inquietanti, da incubo. Ma tutto questo misto di oscenità e sofferenza convive con la innocua “remissività” del vaso,
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e con la bellezza del prodotto artistico, con la sua superficie brillante, spesso dorata o in madreperla, in cui colpisce la sapienza artigianale e la cura del dettaglio. “La fabbricazione di un vaso è un lungo processo” mi spiega Perry. “Per completarne uno ci metto dai due ai tre mesi, così in genere lavoro su dieci vasi alla volta per non dovermi girare i pollici nel frattempo”. Grayson non ha mai imparato a modellare un vaso sul tornio perché, mi spiega, è molto difficile farlo con un vaso largo. “E poi non mi serve”, afferma. Infatti preferisce modellare delle strisce di creta e poi sovrapporle pian piano. “Le forme che scelgo per i miei vasi sono tradizionali, perché amo usare delle forme convenzionali come “cornice” per ciò che voglio dire. Le forme dei vasi orientali sono le migliori perché quando una persona pensa a un vaso il primo che gli viene in mente è cinese, o giapponese. Poi viene la fase della decorazione, che è la parte che amo di più, la più eccitante. In genere parto da delle immagini, spesso delle foto che mi colpiscono, e poi penso a quale tecnica utilizzare. Amo usare diverse tecniche, dalla pittura, al collage, allo stencil, e adoro il contrasto tra diversi stili e immagini. Spesso metti insieme delle immagini e resti sorpreso... ti dici: “Però, funziona! Pensavo che non funzionasse e invece c’è della poesia che passa”. Poi, una volta finita la decorazione, faccio un passo indietro dal mio lavoro e mi dico: “È interessante?” Essere artista significa essere sensibile a ciò che si sente di fronte al proprio lavoro e dirsi “è questo che voglio?”. Ciò che che mi interessa è proprio questo: voglio che il mio lavoro mi dia delle cose che non potrei avere in nessun altro modo”. Resto un attimo attonita... sbatto le palpebre e chiedo: “Cioè... cosa?” Domanda sbagliatissima. Infrazione della regola numero 1 del dialogo con un artista: MAI, per nessun motivo, chiedergli che cosa significhi o comunichi il suo lavoro. Grayson mi guarda come si potrebbe guardare un velocista che scivoli a 5 metri dal traguardo su una buccia di banana. “Scusa, ma non posso dirlo” risponde socchiudendo gli occhi. “Non ho una ricetta per il mio lavoro. Odio usare clichés ma non farei quello che faccio se potessi dirti di preciso di che cosa parla...” L’intervista è finita. Perry sorride, un po’ teso, e mi accompagna alla porta, seguito da Philippa e Florence. Dall’alto della scalinata mi salutano tutti e tre con la mano. Mi rigiro nel letto tutta sudata. Faccio in tempo a girarmi ancora una volta e vedere Grayson che prima di infilare la porta di casa mi fa un ultimo, larghissimo sorriso. Ma ora mi appare vestito come una bambina, con un ridicolo vestitino rosa e azzurro a pois. Ha due palloncini in mano, e un orso di peluche sotto il braccio. Mentre lo saluto un’ultima volta, ricordo di avere lasciato anch’io qualcosa sotto il braccio... Recupero affannosamente il termometro, che ora segna più di 39. Cerco a tentoni il cellulare sotto il letto e a stento riesco a comporre un numero. “Dio mio, speriamo non sia occupato...” Risponde la voce annoiata di una donna. “Hello, here is the Central Hospital… How can I help you?”
artisti
Qui e nella pagina seguente: Vista d’insieme delle due opere di Bertozzi & Casoni presentate alla Biennale e, sotto, un particolare di alcuni dei 507 stipi che costituiscono l’opera “Composizione non finita – infinita” in ceramica policroma.
Bertozzi e Casoni alla Biennale di Venezia Franco Bertoni
In un contesto quale il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia che anche quest’anno ha ricevuto le critiche di rito, a volte gratuite o prevenute e a volte doverose, la presenza di Bertozzi e Casoni è in ogni caso di notevole e notabile rilievo, ben oltre i limiti della sezione di accoglienza. Il loro lavoro si staglia per raro potere di attrazione e di fascinazione, per le incredibili capacità esecutive e tecniche che li hanno resi famosi, per prensili e avvolgenti doti scenografiche, per un riscoperto senso della meraviglia e della bellezza e, soprattutto, per quella complessità che molta parte dell’arte moderna e contemporanea ha fatto dimenticare relegandola ad appannaggio esclusivo dell’arte antica. Minimalisti nel pensiero (un albero è un albero e una cassetta del pronto soccorso è una cassetta del pronto soccorso) e massimalisti per generosità espressiva (chi mai ha plasticato un pappagallo applicando le piume una per una, oppure guardate attentamente i rami e gli aghi dell’albero di Natale esposto), Bertozzi e Casoni sono meticolosi come chirurghi plastici e, al tempo stesso, dispensatori dei più avventurosi e immaginifici viaggi nella realtà e nel fantastico. In loro, non più la poetica del frammento o dell’eterna attesa di una epifania artistica ma, finalmente, un’opera complessa che con riflessioni sulla contemporaneità (il prediletto tema iconografico del trash) sa riannodare legami con l’antecedente antico del memento mori; che utilizza le tecniche ceramiche più difficili e sperimentali senza cedere al compiacimento della bella pagina e, anzi, sembra sottacerle; che può essere letta come scultura, per valori plastici, ma anche come pittura, per calcolate attenzioni coloristiche; che è basicamente concettuale ma anche devotamente fabbrile secondo i più antichi dettami delle botteghe rinascimentali; che sa recuperare al proprio interno tante, diverse istanze dell’arte moderna e contemporanea e ricomporle in una inedita versione sincretica permeata da un, non solo contemporaneo, senso del dubbio; che sa conquistare una distanza di visione di ampiezza quasi epica in un momento in cui prevalgono soggettivismi e pensierini da diario scolastico;
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Rebus, l’opera in bronzo e ceramica policroma del duo di Imola.
che sa essere attrattiva per i mezzi utilizzati e repulsiva per crudezza e crudeltà dei temi iconografici; e l’elenco potrebbe continuare. Della semplicità, in epoca moderna e contemporanea, sono stati tessuti gli elogi, forse oggi tocca alla complessità. E di una nuova complessità Bertozzi e Casoni sono tra i più autorevoli rappresentanti. Già ospitati nel 2007 a Ca’ Pesaro in occasione della precedente edizione della Biennale, Bertozzi e Casoni presentano quest’anno due opere (Rebus e Composizione non finita - infinita) che al di là del valore intrinseco definiscono, a nostro avviso, una precisa linea di confine, un anno zero, un prima e un dopo Bertozzi e Casoni, almeno nel mondo ceramico. Le opere: un albero di Natale in bronzo di circa quattro metri caduto a terra e con le nude radici disarticolate come i poveri arti di un caduto della Prima Guerra Mondiale e una composizione di cassettiere del pronto soccorso lunga dieci metri e alta quasi tre. L’albero sembra vero ma è di bronzo. Non tutti se ne accorgono ma chi lo fa entra davvero nell’opera e nello spirito di una avvincente sfida: una ricostruzione della realtà che non ha altro scopo che non sia quello di esprimere la fatica di uno sforzo tanto inutile quanto ammirevole: il destino dell’arte. L’albero è decorato con le tradizionali palle colorate ma, di nuovo, è un’apparenza. Le palle di Natale riportano immagini erotiche tratte dal Kamasutra e i decori astratti sono di invenzione. Infine, dei pappagalli multicolori. Iperrealismo? Surrealismo? Forse Metafisica. L’albero è come un Icaro caduto. Qualcuno che ha tentato di essere qualcos’altro, che ha sfidato le proibizioni, ed è stato punito. Collassato sul terreno, in una posa innaturale, attende la fine come le verdure, i frutti e i fiori colti nell’attimo del maggiore splendore e adagiati, come eroi greci caduti in guerra, sul geometrico piano di una spiaggia da Filippo De Pisis. Pietas e ironia. La colossale messinscena con le cassettiere, sono cinquecentosette e contengono milleduecento figure, riprende un tema caro agli artisti: quello della paura della morte declinato in chiave contemporanea e della conseguente attivazione di un pronto soccorso personale, tra pillole, tubetti medicinali e i prodotti più vari. In questo caso le cassettiere, memorie dei vuoti contenitori minimalisti di Donald Judd additivati di funzione e di diversità dimensionali, contengono i ritratti
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o gli autoritratti di una umanità che sembra affacciarsi alla realtà dalla profondità di un loculo, da una finestra illuminata nel buio cupo di una strada deserta o da un ricettacolo di passati ricordi. Una umanità, passata e presente, decapitata dalla falce del tempo e pietosamente ricomposta, anzi affastellata, senza schemi gerarchici, nazionalistici, storici o culturali. I volti sono tutti lì a ricordarci una urgenza di essere e di esistere pur nella consapevolezza del monito stampigliato a chiare lettere nella Trinità di Santa Maria Novella. Sui fondi delle cassette immagini serigrafate e oggetti eterogenei in un brulicante gioco di rimandi senza fine. Pietas e ironia. Innovativi, nella produzione degli artisti, sono il tema della figura umana, in genere assente dalle loro orchestrazioni, e l’asciutto registro monocorde che sostiene un’opera teoricamente illimitata e in ipotetica, infinita espansione: come il tempo, la storia e le pretese umane. Lo stinto colore generale e l’assenza di quelle sovrapposizioni tematiche cui gli artisti ci avevano abituati contribuiscono al meglio a rendere l’idea di una calcificata uniformità finale o, quantomeno, l’indifferenza dei particolarismi poco che si allontani il punto di osservazione. Unico punto dissonante in questa dilagante marea di maschere della commedia umana illuminate da una fredda luce siderale è la citazione di Brancusi con la testa dalla perfetta forma a uovo e in incorruttibile oro. Una astrazione: tutto quello che non siamo mai stati e che mai saremo. Tra le due opere, pur autonome e indipendenti, si sviluppa, per forza di una comune genesi concettuale, un dialogo e nasce una scenografia forte di quelle altalenanze che contraddistinguono il lavoro di Bertozzi e Casoni. Tra contemporaneità e storia, tra pittura e scultura, tra astrazione e figurazione, tra concettualità e realismo, tra perfezionismo tecnico e understatement, tra affermazioni di pensiero e subitanee negazioni, tra bellezze e miserie, Bertozzi e Casoni allacciano relazioni e nodi inediti sotto il segno di una visione che sta perdendo sempre più i segni di un tempo particolare per assurgere alle dilatazioni di uno sguardo epico. E solo con la polimorfa ceramica condotta alle prove mimetiche più impervie e difficili si poteva ottenere quella oggettiva presenza che rende credibili anche gli avvitamenti più arditi. Per Bertozzi e Casoni una tappa in un tour de force dal quale ci aspettiamo ulteriori innovazioni, sorprese e sovvertimenti; per la ceramica un punto di non ritorno.
Venussiano, composto da 2 elementi, l’uno in cristallo con bolla rubino l’altro in vetro Rubino maculato nero, 2001, cm h.24x30x20. Soffiato e lavorato a mano volante da Pino Signoretto.
a.a.a. altreartiapplicate
In fondo al mare c’è tutto Jean Blanchaert
Entrando nella buia stanza musicale del Padiglione Venezia alla 53 Biennale dove Maria Grazia Rosin ha disposto le sue sospensioni in vetro soffiato, si è risucchiati immediatamente da un buco nero che vi porta in uno spazio e poi in un altro ancora. Le note del commento sonoro a queste sculture non sono del gruppo svedese Nordic Lounge bensì di due musicisti mestrini, Gianni Visnaghi e Camomatic che già nel 1983, venticinque anni fa dunque, “misero musica”, allora in qualità di disk jockey, alla prima mostra dell’artista ampezzana. Gli spazi ai quali abbiamo appena accennato non sono la stanza accanto, bensì galassie lontanissime, risultato mistico-religioso, non voluto, ma inesorabilmente ottenuto, ancora una volta, da un lavoro laico, serio ed ispirato. Maria Grazia, già da piccolissima sciava su quelle montagne che avrebbero incontrato ininterrottamente il suo sguardo per i primi diciannove anni della sua vita. Il Pomagagnon, le Tofane, il Cristallo, le 5 Torri, il Nuvolao, l’Averao, il Lagazuoi, il Faloria, le 3 cime di Lavaredo, il Montepiano, il Civetta ed il Pelmo sono depositate per sempre nella sua memoria alla voce paesaggio geografico di provenienza. Duecento anni prima, la Rivoluzione Francese aveva risparmiato il marchese Déodat Guy Silvain Tancrède Gratet de Dolomieu la cui testa geologica era stata giudicata troppo pensante per essere decapitata. Viaggiando per il Portogallo, Malta, l’Italia e l’Egitto, il marchese ebbe modo di descrivere molti nuovi
minerali come l’analcime (occhio di gatto) lo psilomelano,il berillio, lo smeraldo, la celestite e l’antracite ma, l’intrepido de Dolomieu, sarà ricordato per sempre perché nel 1791, nel Journal de Physique pubblicò un articolo intitolato: “Su un genere di pietre calcaree molto poco effervescente con gli acidi e fosforescente per collisione”. Questo sasso venne chiamato Dolomia. Nel 1864 il pittore Josiah Gilbert e il naturalista inglese George Churchill pubblicarono il resoconto del loro viaggio da quelle parti d’Italia dal titolo “The Dolomites Mountains”. L’archiviazione di questo scritto nella Biblioteca della Royal Geographical Society di Londra fu la consacrazione di questo nome. Erano nate le Dolomiti. Tornando a Maria Grazia Rosin, non è forse anch’ella un genere di pietra calcarea molto poco effervescente con gli acidi e fosforescente per collisione, non è forse anch’ella una delle Dolomiti? Dura e impenetrabile per qualsiasi acido ma subito effervescente ad ogni collisione- contaminazione culturale, esclusivamente non malefica, la Rosin ha saputo
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Serie gelatina – lux RED, 2007, Sospensioni luminosa composta da elementi in vetro rosso soffiato a mano volante da Silvano Signoretto con cristallo luci LEDs e fibra ottica, H. cm. 150 Ø cm. 100. Foto Guido Baviera. Courtesy Galleria Caterina Tognon_Arte Contemporanea_Venezia.
prendere per mano il suo destino senza fargli lo sgambetto perché ella, autolesionista non è. Si è lasciata condurre dalle scuole che Cortina d’Ampezzo, il suo paese, le offriva. Ed è stata anche fortunata nell’incontrare all’Istituto d’Arte, diretto magistralmente da Renato Balsamo, insegnanti di grande valore che l’hanno introdotta nel mondo della filigrana, dell’intarsio, del disegno dal vero, di quello geometrico, della plastica, della storia dell’arte e della progettazione del tessuto e dei mobili. Gli studenti dell’istituto avevano la possibilità di ottenere una formazione completa che avrebbe loro consentito di iscriversi alle Accademie di Belle Arti con un ottimo bagaglio culturale. L’architetto pugliese Beppe Olivieri, professore di progettazione del legno, conduceva gli allievi a visitare la Brianza degli stabilimenti. In quella scuola d’avanguardia, su modello Bauhaus, dove i laboratori non erano soltanto di gesso e di creta ma anche di polistirolo, si insegnava pure arte cinetica e visione optical. Per questo la Dolomite Rosin quando non è artista, non è designer, ma gestalterin. Formatrice di nuove forme dunque, come quei musicisti contemporanei che svettano nella creazione di nuovi linguaggi perché oltre all’ispirazione hanno alle spalle solidi studi di Conservatorio. La medesima cosa accade in letteratura, nulla di nuovo è buono se non è figlio di una vecchia partitura. Oltre alla scuola e al paesaggio, la formazione di Maria Grazia Rosin fu influenzata da un’ altra fortunata circostanza: il padre Anacleto era gestore del cinema Ariston che, essendo Cortina la Sankt Moritz italiana, non poteva non avere una programmazione più che varia. Si parla di più di duecento film all’anno. Con la wild card paterna, lasciapassare gratuito per la sala, come faceva il bambino di Nuovo Cinema Paradiso, Maria Grazia ebbe modo di popolare il suo immaginario dolomitico di tutte le più belle storie del mondo, fantascienza compresa. Anche Woody Allen
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è venuto così perché la madre lo parcheggiava al cinema più pomeriggi alla settimana. Nella cornice ampezzana,la fantasia della giovane studentessa fu molto colpita dai film giapponesi degli anni’50 in bianco e nero, quella dei mostri improbabili-probabili. Ma anche 2001 Odiseea nello spazio, Arancia Meccanica, Il Pianeta delle scimmie, L’Ultimo Tango a Parigi, Barbarella e Blade Runner, passarono di lì. Fra il cinquecentesco cadorino Tiziano Vecellio e il novecentesco californiano John Cage, si trovano le radici ispiratrici della scultrice in vetro dal nome floreale. Fresca di studi, informata su Mackintosh, la Secessione Viennese, la Bauhaus, Rietveld, Gropius, Alvar Aalto, le Corbusier e così via,quando la studentessa Maria Grazia mise per la prima volta il naso fuori da Cortina, in gita scolastica, agli stabilimenti Cassina, Arflex, Gabbianelli Ceramiche, alle seterie Mantero e Ratti di Como, la roccia Rosin, proprio come sosteneva De Dolomieu, divenne effervescente per collisione. L’esperienza del quinquennio veneziano dove seguì il corso di pittura di Emilio Vedova fu importante ma va ascritta ancora alla voce formazione culturale perché Maria Grazia, che cominciò a dipingere e dopo gli studi si trasferì a Milano, come pittrice, non decollò mai. Ci ricorda il caso settecentesco del pittore bergamasco Filippo Comerio, che su tela e su muro era medio ma divenne il più grande illustratore ceramico della storia d’Italia, alla fabbrica Ferniani di Faenza. Anche il ciclista Vanni Pettenella, detto il Polivendolo volante, su strada era medio, ma fu un grande pistard e, nel 1968, un‘anno che di rivoluzioni se n’è inteso, rivoluzionò lo stare in sella conquistando il titolo mondiale surplace ancora imbattuto. Maria Grazia Rosin sta al vetro come Filippo Comerio alla ceramica e Vanni Pettenella alla pista da velodromo. È stato il desiderio di tridimensionalità, come spiega Lia Durante, a spingere la Rosin verso il vetro. Sicura di sé e non timida rispetto al proprio surrealismo, la Rosin si è da subito imposta come una “matta” seria, non appartenente alla folta tribù dei pazzi che fanno perdere tempo ma a quella più sparuta dei visionari, regalatori di sorprese inedite e significative. Il cortinese e il muranese sono gli idiomi che si sentono in fornasa quando Maria Grazia lavora. Due dialetti veneti diversi fra loro ma molto sintonici. Il fuoco, protagonista assoluto, ha messo in fila maestro vetraio e gestalterin interpretando i disegni e le idee di quest’ultima ogni volta con una nuova magia. Danilo Zanella, Pino Signoretto, Andrea Zilio, Silvano Signoretto, Vittorio Ferro, Sergio Tiozzo e l’americano Eric Meek, sono i maestri vetrai-chefs d’orchestre che hanno diretto la sua musica. Meno noti di Riccardo Muti, Claudio Abbado, Daniel Baremboim, Myung Wung Chung, Valery Gergiev, Antono Pappano e Riccardo Chailly ma non meno bravi. I Bicchieri con le pillole spiritose come Prozac e Viagra, gli oggetti della casalinga, Detergens, i lampadari a forma di polipo, Folpi, le colorate sculture assemblabili, Venussiani, e le ultime sospensioni opaline che lampadari non sono ma, piuttosto, esseri viventi del profondo dei mari. Influenzata dal metodo della sua scuola superiore, Maria Grazia Rosin è affascinata dal mondo della meccanica, dalle nuove scoperte sui materiali nella biogenetica e per lei, un laboratorio, una fabbrica, uno stabilimento sono fonte di mille idee. Per questo vediamo comparire i polimeri luminosi nei Cosmini e sappiamo che in futuro vorrà eliminare i fili elettrici dai suoi lavori perché in questo modo si trasmette anche la corrente. Vengono vetrificate immagini osservate al microscopio e si accompagnano a materiali al fosforo, a fibre ottiche e al poliuretano tecnogel. Ologrammi del Sol Levante suggeriscono nuove composizioni. La collaborazione vincente fra la gallerista Caterina Tognon e Maria Grazia Rosin
Gelatine LUX, 2007/09, Sospensioni luminescenti in vetro, led e fibre ottiche, Maestri soffiatori: Sergio Tiozzo, Pino Signoretto, concetto sonoro: Visnadi e Camomatic, Video:” Buco d’Acqua”Black Water Hole”, designer 3d Andrew Quinn, Ph: Francesco Allegretto, Courtesy: Caterina Tognon Arte Contemporanea, Venezia.
ha portato questo lavoro di vetro fuori dal mondo del vetro. L’arte contemporanea ci sembra molto spesso temporanea. Non questa però. È un lavoro trasversale che è finito al SOFA di Chicago, a Design Miami Basel con la Galerie Italienne di Parigi, e sarà presto a Seattle, al Museo della Musica e del Design, quello dell’architetto Frank Owen Goldenberg, un po’ più noto come Frank Gehry. Parliamo ora dell’ultimo lavoro. Quello che porta alla Biennale più di duemila spettatori al giorno, da giugno a novembre, una delle grandi sorprese di questa edizione. La gente si è passata la voce. Entrando nella stanza buia della Rosin si è invasi dalle sonorizzazioni composte da più di quattro mila suoni elettronici diversi. È vero che siamo forse in mondi lontani, sempre opera del Creatore, ma è anche vero che questi mondi lontani, magari, ci sono vicini. Basta andare qualche migliaio di metri sott’acqua per sentire i suoni e vedere le forme che questa mostra propone. Se le montagne ci ricordano il Grande Artefice, il mare è però, evidentemente, il nostro inconscio. Il teorema Rosin dimostra che le galassie distanti di cui parlavamo prima, quelle dove siamo stati condotti dai buchi neri, si possono in realtà trovare nell’acqua, sotto di noi. E non è in fondo un errore indicare il cielo quando si parla di Dio? Non sta egli in ogni dove? Questa esposizione dove gli alieni viaggiano alla velocità di un milione di anni luce mostra gli abissi, li rende alla portata di tutti. L’inesplorato, l’ignoto, è qui. Uccellini, rospi, suoni elettronici. Canarini, mitragliatrici, usignoli. È un vortice. I visitatori stupiti si sentono avvolti in un’atmosfera extraterrestre. I film che sono tanto piaciuti all’artista dell’Istituto d’Arte di Cortina d’Ampezzo fanno sentire la loro voce. Meduse, calamari, essenze organiche e bioforme inventate sono gli ingredienti di questa dark-room che ubriaca. È la rivincita del mare dove è nata la prima cellula, che solo dopo si è trasferita sulla terra. Visitatori di tutto il mondo, unitevi nell’osservazione e nell’ascolto di questi vetri musicali e luminosi. I suoni del profondo del mare improvvisamente diventano armonici e fanno pensare che Ludwing van Beethoven avesse potuto ascoltare, da medium qual’ era, i dialoghi fra la medusa e il riccio. Ci sono girini dappertutto, come omaggio alla fecondazione. È l’ennesimo tentativo artistico riuscito di interpretare la natura. È anche una stanza della meditazione, dove sentiamo le voci dei nostri cari che non sono più con noi ma ci proteggono. Come sono delicati i microorganismi a meno cinque mila metri. Non è stato un viaggio normale, non è stata una mostra normale, di normale, qui dentro non c’era niente. Grazie Biennale, grazie Tognon, grazie Rosin.
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a.a.a. altreartiapplicate
Jacinthe Clotilde Kondji, Collana modello Regina Bantou lunga, perle di vetro e perle africane in metallo.
La Nuova Fratellanza Jean Blanchaert
All’inizio del terzo millennio è scesa dal cielo su Murano donna Jacinthe Clotilde Kondji figlia del nobile Jean Bruno e della principessa Jeanne Yema, terza figlia della dodicesima moglie di Gabriel Mafouta. Il nonno paterno, N’Giange, era Gran Capo Guerriero Tribale. Il nonno materno, invece, era solo Gran Capo Tribale. Non guerriero, latifondista, poligamo ma mecenate della Chiesa Catholica Christiana alla quale regalò centinaia di ettari di terra per costruire la cattedrale Notre Dame de M’Baiki e le case che ci stanno intorno, in nome della Nuova Fratellanza. Entrambe le famiglie discendono dalla tribù di M’Bati- Bantou della foresta equatoriale. I genitori di Jacinthe sono nati a M’Baiki dove risiedono i capi della regione della Lobaye’, nel sud della Repubblica Centrafricana. In quella zona abitano anche i Pigmei e i Peul. Questa nazione pur essendo più grande
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della Francia non raggiunge i quattro milioni di abitanti. Ha un sottosuolo ricchissimo di petrolio, plutonio, uranio, diamante e anche di acqua. Gli animali e le piante sono quanto di più incredibile si possa immaginare. È il quinto paese più povero del mondo. Evidentemente non sono gli indigeni a godere della ricchezza del loro territorio. Ma usciamo ora dalla giungla per tornare in Laguna dove Jacinthe crea perle e gioielli in vetro di Murano secondo le antiche tradizioni dei maestri vetrai. Dopo aver studiato alla scuola del vetro Abate Zanetti, l’artista africana, socia del Consorzio della Promovetro può certificare i suoi lavori col marchio di Murano che sta al vetro come il gallo nero sta al vino. Mentre le mani creano gioielli in Veneto,la mente torna continuamente all’Africa e alle sue suggestioni. Ramentiamoci che i Bantu erano eccellenti maestri forgiatori già mille anni prima dell’era corrente. Regina Bantu, Makeda D’Etiopia, Queen del Bornou-Kanem, Regina Mokonzi, Regina Yema, Saba D’Abissinia. Ecco i nomi di alcune collane della jewel designer bantu che fra l’Africa e l’Italia ha vissuto ben venticinque anni a Parigi dove grazie all’Associazione religiosa della Fratellanza Cristiana conobbe la famiglia di Roger e Mireille Carità, lui maestro tappezziere, lei ricamatrice che la introdussero nel mondo delle antichità francesi e della decorazione delle case. Tessuti, stoffe, colori, disegni, libri e non ultimo il profumo dell’atelier dei Carità, influenzarono grandemente la piccola bambina africana che crebbe trascorrendo le vacanze d’inverno e d’estate con Roger e Mireille. Oltre alla Francia le fecero visitare la Svizzera, l’Italia e la Germania, trattandola come una figlia. Grande sognatrice con i piedi per terra, Jacinthe che non ha mai digerito fino in fondo il modo in cui la Francia ha trattato suo paese guarda ora agli Stati Uniti d’America con sorpresa, entusiasmo ed affetto. Per una persona di colore abituata a vedere la sua gente sfruttata è motivo di ottimismo sapere che il Presidente Obama non solo è nero, ma ha ancora una nonna che vive all’Equatore. Le elezioni americane hanno ispirato l’ ultimo lavoro di Jacinthe che infatti s’intitola “Yes we can”. Un altro monile si ispira invece al momento in cui, insieme a suo padre, l’ingegnere geologo oggi purtroppo scomparso, ha assistito in diretta da Chicago al discorso che il nuovo presidente ha rivolto alla nazione. L’uomo del Centrafrica si è alzato piangendo ha rivolto al piccolo schermo una benedizione tribale che voleva dire crediamo in te, aleluia. Se è nota, anche grazie alla letteratura l’elegante e triste decadenza dell’aristocrazia russa in Francia dopo la Rivoluzione d’ottobre la gente ha fatto meno attenzione al declino dell’aristocrazia nera africana dopo gli ultimi grandi esilii. Nel suo laboratorio in Laguna le perle metalliche sono di provenienza africana mentre quelle in vetro sono create dall’artista che è stata a lezione da Paolo Cenedese per la modellazione del vetro,da Davide Penso per la perla etnica e da Renata Ferrari per la perla tradizionale veneziana. Anche la collaborazione con Andrea Penso ha fatto parte del suo percorso. Fabio Fornasier, Simone Cenedese, Claudio Tiozzo, Alessandro Albertini, Igor Balbi e Alessandro Mandruzzato seguono con attenzione il lavoro della Kondji che traduce in gioiello le sue sensazioni. Ha dedicato al padre la sua ultima collezione Gad che in ebraico vuol dire tribù. Quattro sono le muse di Jacinthe: fede,bellezza, forza e armonia. Se il nonno aveva regalato le terre ai cristiani affinché ci facessero chiese in nome della Nuova Fratellanza, la Nuova Fratellanza di Jacinthe è mescolare i colori della laguna con quelli dalla giungla.
concorsi
Mariko Wada, Terra-Morphologia n.2, 2008, argilla e terra sigillata.
Faenza è un paese per giovani vecchi? Enzo Biffi Gentili, direttore MIAAO Torino
Al MIC quest’anno il concorso che assegna il Premio Faenza compie settant’anni (sarebbero più precisamente settantuno, perché l’evento fu istituito nel 1938 come concorso nazionale annuale, trasformato in internazionale nel 1963, e divenuto biennale nel 1989: per matematiche ragioni da allora in poi cade negli anni dispari). Dobbiamo tirargli le orecchie? La domanda sorge spontanea, perché va stabilito se ci si trovi di fronte a un settantenne arzillo -caso tra le persone fisiche ormai assai frequente- o affaticato. La risposta parrebbe scontata, almeno proseguendo in considerazioni anagrafiche, e trovandoci quest’anno di fronte a un certame, da questo stretto punto di vista, “ringiovanito”: è la seconda volta infatti, nel nostro XXI secolo, che il concorso viene riservato a ceramisti sotto i 40 anni d’età. In teoria quindi, con questa attenzione agli estrogeni e al testosterone, agli ormoni freschi e autoprodotti, si poteva creare una straordinaria opportunità -piuttosto infrequente nel nostro Paese- di far largo ai giovani, che tuttavia non ha attirato quella folla di candidati che caratterizza ogni altro tipo di pubblico concorso, anche molto meno titolato e qualificato. Lo stesso direttore del Museo delle Ceramiche Jadranka Bentini ammette nella sua introduzione al catalogo del Premio che “non si assiste come un tempo ad una partecipazione massiccia di giovani artisti”. Ipotizzando poi che il concorso sia stato “consumato” dal sorgere di altre e maggiori occasioni espressive, espositive, di riconoscimento e di visibilità per l’arte ceramica anche oltre i tradizionali ambienti, e confini, disciplinari. E ancora, altrove, la Bentini ammette che “non è stata premiata nessuna novità di impostazione”. Parrebbe proprio così, guardando a una prima opera insignita del Premio -i vincitori anche quest’anno
sono stati due, perché l’ex-aequo, la mediazione sta nel DNA della nazione…- quella foggiata dal giapponese Tomonari Kato, una sorta di “torciglione” intitolato Topological Formation, giudicata dall’esperto del contemporaneo del MIC, Franco Bertoni, “di rara perfezione formale” (ma per noi non troppo, artisticamente, attuale: basti ricordare le storiche avventure estetiche e prove topologiche di un maestro come Max Bill, quelle sì di inimitabile perfezione formale). È invece vero che questo lavoro dimostra “una esemplare perizia esecutiva” ma, per capirci, si tratta della stessa perizia di un gran panettiere quando deve far lievitare e montare e cuocere e far reggere senza collassare un torcettone di pasta; o di un casaro che volesse far star dritta una trecciona di mozzarella, ed è il rischio
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Claire Lindner, Ramipèdes, 2009, porcellana grezza, estremità smaltate.
che corre ogni arte “materica”, come ci ha insegnato Gillo Dorfles, quello di poter essere, controvoglia, apparentata con la pur rispettabilissima culinaria. Non essendo evidentemente indimenticabile quest’opera “astratta”, la giuria del concorso ha deciso di farle condividere il primo premio con quella di un romagnolo, Andrea Salvatori, intitolata Waiting on the moon, che invece è proprio molto “figurativa”, ben rappresentando il satellite con la sua superficie butterata e, sopra, un minuscolo cagnino seduto. Anche Salvatori, come Kato, dà prova di una tecnica “virtuosa” nell’arte ceramica, della quale però offre una versione meno reverenziale, indulgendo a una deriva quasi “comica”. Del resto,
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egli si è formato, e tuttora lavora, presso l’Opificio di Giampaolo Bertozzi e Stefano Dal Monte Casoni di Imola, celeberrima coppia di fatto artistica -quest’anno anche presente nel Padiglione Italia alla Biennale di Veneziaadusa a pratiche ceramiche estreme, per “plastiche viziose licenze” e posizioni iconograficamente acrobatiche. Bertozzi e Casoni non hanno mai vinto il Premio Faenza, ma la Biennale della Ceramica di Vallauris in Francia sì, nel 2000, in un’edizione anche quella riservata a giovani under 40. Insomma, con Salvatori si è premiata una scuola, una “maniera”, a suo tempo non adeguatamente riconosciuta in patria. In conclusione, potremmo irrispettosamente esprimere un giudizio sull’evento faentino di quest’anno affermando che ci è sembrato piuttosto un concorso riservato a “giovani vecchi”. Perché la gioventù, si sa, non è un valore di per sé. E non necessariamente la creazione di una “riserva” di under 40, oppure il garantire delle “quote” produrrà maggiore qualità e vitalità. Il termine “quote” richiama subito anche quelle “rosa”, altra vessata questione, anche nelle arti applicate. Ma a volte avviene che anche in occasioni concorsuali nelle quali non sia prestabilita alcuna rappresentanza obbligata, massima o minima che sia, di donne e giovani, questi possano egualmente, e più originalmente, affermarsi. Persino a Faenza: il concorso del 2005 a esempio fu vinto da Silvia Zotta, una ragazza, allora, under 40, che però doveva battersi contro avversari d’ogni età. E che quest’anno ha partecipato al Concorso Europeo delle Arti Applicate -tutti contro tutti, giovani e vecchi, uomini e donne e recchie, ceramisti metallari ebanisti…organizzato dal World Crafts Council a Mons, città candidata a divenire capitale europea della cultura nel 2015, riuscendo a superare la prima massacrante selezione-decimazione, con un lavoro ceramico anch’esso basato su intrecci di trecce d’argilla ma “alleggerito” da una dichiarata allusione alla forma di alcuni suoi dolcetti preferiti (ed è proprio questa sua divertita consapevolezza nel dichiarar la ceramica cugina della cucina a escludere il kitsch, in cui invece è caduto Kato). Ecco, sono a mio avviso le giovani donne oggi a caratterizzarsi per uno spregiudicato approccio concettuale ma molto sensoriale, analogo all’ organico, a volte quasi “carnale”, all’arte fittile. È pure il caso della giapponese Mariko Wada, attiva in Danimarca, segnalata quest’anno sia a Faenza che a Mons, con la sua serie Terra-morphologia dalle belle suggestioni gastroenterologiche. Oppure, rinviando ora esclusivamente al contest belga, quello della tedesca Claire Lindner, attiva in Francia, con i suoi Ramipèdes, strane creaturine porcellane da attaccare, o spiaccicare, a muro, tra la formazione vegetale e quella animale, un po’ teratologiche. Mentre la parigina Carole Deltenre sembra ossessionata dalle Nymphes, in senso lato, che incastona protruse e labbrute in barocche cornici elaborate, rendendo folgorante per icasticità la definizione,
A fianco: Cecilio Castrillo Martinez, Medusa and tentacles, 2009, maschera in cuoio. Sotto: Carole Deltenre, Nymphe, 2008, argento, porcellana, filigrana e calco.
vernacolare, di bigioia, che noi piemontesi diamo a quella cosa là… Sono, tutte quelle citate -ma dovremmo aggiungere almeno la poco più che adolescente Marie Pendiarès, sempre a proposito di una coltura della terra da cui gemma un inquietante, diverso linguaggio e ornamento del corpogiovani europee, onorate a Mons pur senza essere state preventivamente “garantite”. Un’altra differenza va rimarcata tra il concorso faentino e la sezione ceramica di quello belga: la significativa, massiccia elezione in quest’ultimo, e non nel primo, di quel tipo di artefatti definibili, secondo ormai storiche tesi teoriche, ma tuttora attuali, del World Crafts Council, come “sospesi tra la memoria e l’ipotesi dell’utile”. Insomma, di lavori non tanto “sculturali” quanto “progettuali”, di “composizioni” come sofisticate indagini, a differenti scale, sulla forma “architettonica” o su quella del “contenitore”; o ancora sulla tassellatura nei patterns decorativi; o infine sull’utensileria tipica dell’atelier ceramico. Sono a esempio i casi, qui illustrati, dei “plastici” architetturali candidi, con i loro sottili cavi a indicare tensioni e torsioni strutturali, di Marie-Laure Gobat-Bouchat o delle “piastre” allagate da colori saturi di Satu Syrjänen; e ancora i calcoli tissurali di Louise Neugebauer e di una Lut Lalemant; e infine della splendida, concretissima e insieme “astratta” clay machine dell’ Atelier NL: si tratta della “riesumazione” di una vecchia strumentazione di bottega, ready-made, ricomposta, e trasfigurata in raffinata installazione. Una direzione di lavoro, e di ricerca, gemmata da una certa “tradizione del nuovo” della ceramica, ancor feconda e consideratissima da tutti i membri della giuria internazionale di Mons* anche per la sua capacità di rappresentare una antagonistica “concorrenza” della vecchia arte fittile, riarmata, con il tanto
più mediatizzato, ma fighetto design, e invece da tempo trascurata dal milieu faentino. Troppo spesso così “complessato” nei confronti dell’arte da privilegiarla negli investimenti per pubbliche manifestazioni, e da “patirla” anche in quelle ceramiche come il concorso, prediligendo lavori “artistici”, ma appunto “pasticciati”, o “sottogenerati” (problema cruciale intelligentemente sollevato a Mons dalla concorrente eccellente Christine Fabre che con i suoi oggetti -vagamente assimilabili a cesti basculanti- eseguiti in diverse versioni materiche, reali o simulate, in ceramica in vetro in bronzo, instaura un “paragone” tra tre tecniche espressive, e induce a un giudizio su tre “classiche bellezze” che ha visto i più assegnare la palma alla terra. Mentre nell’Atene di Romagna sovente qualche ceramista o qualche “competente”, sedicente, ha considerato comunque più “importante” il bronzo: stronzo).
* I membri della giuria dell’European Prize of Applied Arts di Mons, e commissari della Triennale Internazionale delle Arti Applicate che si terrà sempre a Mons dal novembre 2009 al gennaio 2010 (durante il vernissage saranno annunciati i nomi dei vincitori del Premio), sono Anne Leclercq, presidente del World Crafts Council del Belgio francofono; Rosy Greenlees, direttore del Crafts Council di Londra; Françoise Foulon, direttore del Museo Grand-Hornu Images di Mons; Denise Biernaux, direttore della galleria Les Drapiers di Liegi; Frédéric Bodet, curatore presso il Musée des Arts Décoratifs di Parigi; Wolfgang Lösche, direttore della Handswerkskammer di Monaco di Baviera; Johan Valcke, direttore del centro Design Flanders di Bruxelles; Enzo Biffi Gentili, direttore del MIAAO Museo Internazionale delle Arti Applicate Oggi di Torino (n.d.r.).
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Manifattura fiorentina, Vaso da coronamento con festoni di frutta, XVIII sec., terracotta, h. cm 90, Firenze, Palazzo Pitti.
dischilibri
Sotto: Manifattura fiorentina, uno di Due cani, da un originale in pietra di Romolo Ferrucci detto Del Tadda, XIX sec., terracotta, h cm.110 ciascuno, Firenze, Giardino di Boboli.
Il Cotto dell’Impruneta Maestri del Rinascimento e le fornaci di oggi Edifir, 2009, Firenze, euro 22,00
Lo scorso 23 marzo il cotto dell’Impruneta ha compiuto 700 anni. Sette secoli di vita documentati all’Archivio di Stato da un atto notarile datato appunto 23 marzo 1309, primo statuto della corporazione dei fornaciai imprunetini, produttori per Firenze di brocche, conche e orci pregiati per la conservazione degli alimenti, nonché di embrici, coppi e mattoni per l’industria delle costruzioni, oltre a bellissimi vasi da fiori e sculture di ogni tipo. Per celebrare l’evento, lo scorso marzo si inaugurava all’Impruneta una grande mostra di sculture rinascimentali e manufatti in cotto di ieri e oggi, corredata da un vasto calendario di iniziative (esposizioni, pubblicazioni, convegni, restauri) che hanno coinvolto tutto il Chianti fiorentino nelle celebrazioni di questo straordinario materiale che, a cominciare dalla cupola brunelleschiana del Duomo di Firenze, rappresenta uno degli elementi artistici e architettonici più identitari e riconoscibili di questo territorio, oltre a restare un’attività economica assai importante. Il cotto dell’Impruneta. Maestri del Rinascimento e le fornaci di oggi, corredata dall’omonimo catalogo, è rimasta aperta fino a luglio nei secolari locali di piazza Buondelmonti . Quattro le sezioni, cinque i curatori, oltre cinquanta le opere, capolavori della scultura, orci e vasi antichi e moderni, reperti etruschi, romani e medievali. La sezione più spettacolare, curata da due noti storici dell’arte come Giancarlo Gentilini e Rosanna Caterina Proto Pisani, era quella dedicata alle sculture in cotto di Brunelleschi, Ghiberti, Donatello, Michelozzo, Della Robbia, Desiderio da Settignano, Verrocchio, Benedetto da Maiano, e altri maestri del Rinascimento, le cui opere sono state messe a disposizione dai principali musei fiorentini. Lo storico dell’architettura Gabriele Morolli presentava invece un interessantissimo panorama dell’uso del cotto nelle costruzioni, dagli etruschi ai giorni nostri. In tema di arredi da giardino e di copie di sculture rinascimentali, l’eccellenza artigiana dei fornaciai imprunetini era documentata con una serie di stupendi manufatti dalle storiche dell’arte Caterina Caneva e Laura Casprini Gentile. Quest’ultima, con il Comune di Impruneta, ha curato anche la quarta sezione dedicata ai fornaciai di oggi, con la partecipazione di 15 aziende. Con il settecentenario è iniziato anche il restauro della fornace Agresti, una delle più antiche di Impruneta, con l’obiettivo di ospitare un museo, esposizioni, laboratori didattici e un incubatore di imprese legate ai materiali tradizionali toscani (argilla, ceramica, marmo, legno, argento, ecc.).
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dischilibri Hector Zazou & Swara In the house of Mirrors Crammed 2008 Giovanni Bolognini
Un anno fa, esattamente l’8 settembre 2008 ci lasciava, dopo una lunga malattia e a soli sessant’anni, Hector Zazou, figura di spicco della musica di ricerca negli ultimi 30 anni. Nato in Algeria da padre francese e madre spagnola, portava già nelle sue origini lo stile eterogeneo che avrebbe caratterizzato tutta la sua vasta produzione; prima musicista poi arrangiatore e produttore spaziò dal pop/rock alle polifonie vocali (Les Nouvelles Polyphonies Corses, 1991), dall’ambient alla musica sacra (Lights in the Dark, 1998), fondendo insieme influenze classiche , elettronica, musica popolare ed etnica. Innovativo e poliedrico, vantò collaborazioni del calibro di Sakamoto, P. Gabriel, D. Sylvian, L. Anderson, B. Laswell, Bjork, H.Budd ecc. (solo per citarne alcune), firmando veri autentici gioielli come “Sahara blue” ispirato alla poesia di A. Rimbaud o “Gliph”, con Harold Budd. “In The House of Mirrors” è l’ultimo lavoro uscito postumo nel novembre 2008, registrato a Mumbai con un quartetto di musicisti chiamati Swara (T. Kuziyev al tambur e oud, M.Raykar al violino, M. Majumdar al flauto e M. Pingle alla chitarra slide), provenienti dall’India e dall’Uzbekistan assistiti da N.P. Molvaer alla tromba, C. Nunez al flauto, B. Riefling alle percussioni, D. Amador al piano e Z. Lantos al violino. Il punto di partenza in questa “casa degli specchi” è un gioco virtuale, dove il suono tradizionale si riflette sugli specchi per ritornare riflesso e deformato; un esperimento che, come dicono le note del disco, rimanda alla famosa scena de “La signora di Shanghai” di Orson Welles. È un album strumentale basato su un sottile uso del contrappunto concettuale, dove Zazou incoraggia ogni musicista a riflettere il lavoro dei colleghi. Il risultato va ben oltre l’improvvisazione: in un ronzio atmosferico di violini e chitarre emergono i colori sempre sottomessi, bilanciati dalla supervisione del maestro. Il brano di apertura “Zannat” è ipnotico e mescola il pizzicato metallico del tambur (un tipo di liuto dal collo lungo) con un pulsante tappeto di percussioni e campionature di suoni antichi, quasi a ricordare un ronzio di improbabili insetti ubriachi. In questa atmosfera si snoda l’intero disco dove, uno ad uno gli artisti emergono ognuno con la propria caratteristica musicale; dieci bellissimi brani per oltre un’ora di magia (consiglio l’ascolto in vasca da bagno magari in cuffia per coglierne tutti i dettagli elettronici). Tutta l’opera, profondamente spirituale, ha come sorgente d’ispirazione non soltanto la terra ma il cuore umano con le sue molteplici sfaccettature; è un disco calmo e tranquillo, per riflettere e, allo stesso tempo, ci premia con una grande esperienza uditiva. È un ottimo punto di partenza per coloro che sono curiosi di musica classica orientale e delle sue derivazioni ma che sono trattenuti dalla sua apparente au-
sterità. I sontuosi arrangiamenti di Zazou fanno emergere le sonorità seduttive degli strumenti, senza che le ritmiche soffochino il loro fascino come spesso succede in questi prodotti fusion. Fra la buona scelta di musicisti ospiti spiccano la tromba nordica di Molvaer, il piano flamenco di Diego Amador e il collega da lungo tempo Carlos Nunez, il cui flauto suona distintamente celtico in “ Nazar Shaam”. In tutta l’opera i rimandi più colti sono alle folgorazioni orientali di Terry Riley e di Lamonte Young , con qualche eco alle “Frippertronics”. Questo lavoro è il testamento di un uomo che ha fatto della musica la sua ragione di vita; miglior ricordo non poteva lasciare, da alchimista di suoni quale era, fu grande sostenitore della musica come strumento di elevazione spirituale. Spesso diceva: “Se la musica non può cambiare il mondo, allora a cosa serve?” Rimango fermamente convinto che tutta la stampa (specializzata e non) abbia peccato di superficialità e noncuranza non dando il giusto risalto alla scomparsa di una personalità come quella di Hector Zazou.
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dischilibri
Sotto: Claudio Bartocetti al tornio nella sua casa.
Il fascino del passato “Sulle tracce dei vasai” Gianni Volpe, Astragalo editore, 2008, Fano. Antonella Ravagli
Pesaro, Urbino, Urbania: un triangolo ben noto ai cultori della ceramica artistica tradizionale e della maiolica decorata destinata alle corti ducali e alle signorie. Contemporaneamente a questa produzione, è esistito un mondo parallelo di ceramisti che vivevano un rapporto molto più diretto con la terra, un popolo umile che si rivolgeva non ai ricchi signori, ma che realizzava oggetti semplici e funzionali, indispensabili alla vita di tutti i giorni: i vasai. Questa produzione, che va dal ’400 fino, in alcuni casi, ai giorni nostri, se fino a poco tempo fa era scarsamente considerata dagli amanti della ceramica, oggi -vuoi per un mutamento del gusto più incline ad apprezzare le forme essenziali (il design insegna) in cui la materia prevale sulla decorazione- è diventata fonte di studio divenendo protagonista di mostre e collezioni permanenti nei musei. Alcuni studiosi lungimiranti, tra cui citiamo Gian Carlo Bojani che nel tempo si è prodigato per diffondere attraverso mostre e ricerche storiche il culto delle ceramiche popolari, hanno anticipato di diversi decenni questa riscoperta. Oggi, Giovanni Volpe, con un volume di recente pubblicazione, dà avvio ad un approfondimento dal punto di vista storico, geografico e antropologico relativo all’arte vasaria nelle città e nei paesi delle bassi valli del Metauro e del Cesano. Fano, la valle dell’Arzilla, Mombaroccio, Cartoceto, Saltara, Serrungarina, Montefelcino e Monteguiduccio, Fossombrone, Pergola, San Lorenzo in Campo, Fratte Rosa, Sant’Ippolito e Sorbolongo, Barchi, Mondavio e Sant’Andrea di Suasa, Orciano e Montebello, Piagge, Monteporzio, Mondolfo costituiscono un itinerario dettagliato e ricco di curiosità che può risultare, anche per un profano, un invito alla scoperta di luoghi suggestivi come gli antichi borghi medievali, i resti di antiche fornaci e alcune tipologie di costruzioni che rischiano di scomparire, ma soprattutto, “andando per cocci” è possibile ritrovare le antiche forme (i modelli di orci e altri manufatti erano tramandati da generazione in generazione) che contraddistinguevano la vita dei nostri nonni. Sicuramente una nota a parte va dedicata a Fratte Rosa, considerata la capitale delle terrecotte, soprattutto per i tipici manufatti color nero melanzana riconosciuti come le più originali ceramiche delle Marche. Non a caso, è il paese dove si è sempre avuta un’alta concentrazione di laboratori e botteghe e dove resiste
una continuità tra passato e presente. Erano tipici manufatti: le “teje” per cuocere la piada sul fuoco, i “testi” per le infornate della mietenda e della battitura, certe pignattine minuscole per il sugo da condire i tagliolini, o per i fagioli da unire alla polenta. Nei secoli addietro, la vita era strettamente legata al ritmo delle stagioni e così anche la produzione di ceramiche: gli orci panciuti per l’acqua fresca in estate oppure per dare il solfato alle viti, le “sine” in autunno per marinare le olive, d’inverno le “monache” per scaldare i letti e gli scaldini, in primavera le “frescle” per far scolare il siero alle formaggelle di pecora cagliate di fresco. Oggetti destinati principalmente ai contadini ai quali spesso si davano in affitto anche i grandi servizi di piatti e di bicchieri per le rituali mangiate che si facevano al tempo della trebbiatura. Oltre ai mercati locali, le principali occasioni di vendita per gli artigiani erano le fiere; a cavallo trasportavano i loro prodotti, per poi adoperarsi a lasciare gli oggetti invenduti in zona fino all’appuntamento dell’anno dopo; potevano essere le soffitte di comuni cittadini, oppure come avveniva a Saltara, alcune vecchie grotte. Quando era possibile i contadini cercavano di riparare le ceramiche danneggiate; compito degli “spranghini” (generalmente erano sempre i vasai), era appunto realizzare un restauro molto primitivo cucendo con fili di ferro o legando a seconda dei casi, i frammenti dei manufatti. Il “ferro filato” era anche utilizzato dai vasai per legare le tarrecotte destinate a restare sul fuoco: ceramiche imbrigliate in una rudimentale, ma raffinata rete di ferro, tessuta manualmente. La povertà e l’umiltà di questi artigiani colpisce nella testimonianza di un discendente che, all’età di 10 anni andato a far visita al nonno ricorda che il laboratorio (un’unica stanza) era spoglio e molto umido, il pavimento non c’era e lui lavorava sulla terra; l’argilla per fare i vasi era messa in una mangiatoia appoggiata al muro. Il nonno prendeva una palla di terra e la metteva su di un piatto di legno a terra: un tornio rudimentale che azionava col piede stando seduto su un banchetto bassissimo e da cui nascevano enormi vasi. La terra si prendeva dai campi e veniva setacciata e lavorata (battuta) fino ad ottenere una superficie perfettamente liscia. Ovviamente non esisteva l’elettricità perciò i torni erano tutti a mano e spesso, soprattutto per gli oggetti più grandi si usava la tecnica “a bigolo”. I tempi delle cotture erano molto variabili a seconda delle terre impiegate e dei tipi di manufatti; certamente erano ritmi di lavoro oggi impensabili. Si hanno testimonianze di cotture in fornace lunghe dai dieci ai quindici giorni per poi attendere altri15-20 giorni per il raffreddamento. Gianni Volpe, architetto, fotografo, designer, storico dell’architettura, svolge da anni attività professionale soprattutto nel settore del restauro architettonico. Docente presso l’Accademia di Belle Arti di Urbino, è membro dell’Accademia Raffaello di Urbino e del Centro Beni Culturali Marchigiani. Ha pubblicato saggi e volumi con importanti case editrici italiane e straniere; ha vinto diversi premi letterari.
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antiche curiosità ceramiche
Saliera, XIV sec., terracotta ingobbiata e graffita, h. cm. 16,9, Forlì, Museo delle Ceramiche.
Non si può dire certamente che esse siano donne insipide Elisabetta Alpi*, Flora Fiorini **
A Forlì, nel 1927, durante i lavori di sistemazione della casa del Dott. Pio di Luigi Pantaleoni (Imola 1890 – Bologna 1958) in Corso Vittorio Emanuele n. 22, l’attuale Corso della Repubblica, venne alla luce una grande quantità di ceramiche, principalmente graffite arcaiche padane e alcuni oggetti in maiolica arcaica. L’analisi del rinvenimento di Casa Pantaleoni ci permette di riconoscere l’importanza e la ricchezza del contesto poco conosciuto nel panorama della produzione emiliano-romagnola. I materiali, infatti, attestano che Forlì fu un centro piuttosto importante nella produzione della graffita arcaica; la particolarità delle ceramiche rinvenute mette in evidenza non solo la grande creatività dei ceramisti locali, ma anche la loro manualità, maestria e sicurezza, che denunciano una tradizione consolidata in lunghi decenni di produzioni artigianali. Il nucleo di Casa Pantaleoni è identificabile come materiale di scarico di una bottega attiva già dalla seconda metà del XIV fino alla prima metà del XV secolo; essa produceva ciotole, catini, boccali, e alcune figure femminili che portano una gerla a foggia di coppetta. Si tratta di particolari saliere a figura femminile realizzate in parte al tornio e in parte modellate poi assemblate insieme, che trovano un confronto, per tipologia d’uso, ma non di tecnica, con una scultura orvietana in maiolica arcaica (fine XIV – inizi XV sec.) del Museo Nazionale di Palazzo Venezia a Roma, e un frammento di piede di forma chiusa sempre in maiolica arcaica dei Musei Comunali di Rimini. Non ci è dato a conoscere se queste saliere a foggia femminile siano modellate con tale forma per essere utilizzate come omaggi alla donna amata o se sono una allusione al faticoso lavoro di raccolta spesso affidato alle donne; la rarità di questo tipo di manufatto ci porta soltanto a delle congetture. Nel Medioevo e nel Rinascimento questi contenitori per il sale, a sottolineare l’importanza del loro contenuto, raro e prezioso, assunsero una grande valenza simbolica: la loro dimensione o il loro numero nelle apparecchiature delle tavole era attestazione della ricchezza del proprietario. Le saliere divennero opere d’arte, in certi casi dei veri e propri
gioielli, basti pensare alla saliera opera di Benvenuto Cellini (Firenze 1500-1571), commissionata da Francesco I di Francia (1543), in oro ebano e smalti. Ma le saliere realizzate con materiali più comuni sono forse meno belle? Nei banchetti la saliera divenne non solo un indicatore dell’importanza della famiglia ma fu un simbolo che condi-
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Schede Tecniche a cura della Sezione Restauro dell’Istituto Statale d’Arte per la Ceramica “G. Ballardini” di Faenza OGGETTO:
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OGGETTO:
zionò anche la disposizione dei convitati alla tavola. Infatti la collocazione del commensale rispetto alla posizione della saliera era un dato allusivo alla gerarchia sociale. In certi casi la saliera, posta al centro della tavola, definiva una linea di demarcazione dove quelli che sedevano al di sopra del sale erano gli ospiti di prestigio mentre ai parenti poveri erano destinati i posti definiti al di sotto del sale. La preziosità del sale era riconosciuta già dai Romani che lo utilizzavano nelle loro offerte agli dei; dai Latini era chiamato “sal”, radice di salve (in segno di saluto), salus (salute), salubritas (sanità) ed anche salario, dalla razione di sale ricevuta come paga dai soldati assieme al altri alimenti. Questo “oro bianco” rappresentava per l’uomo un bene prezioso per l’alimentazione, la conservazione dei cibi ed anche per le attività artigianali come la conciatura delle pelli, i processi di lavorazione di vetro metalli ed anche nelle ceramiche; Cipriano Piccolpasso (Casteldurante, 1524-1579) nei suoi Tre libri dell’Arte del Vasaio descrive una miscela composta da quarzo, feccia di vino e sale impiegata per preparare il marzacotto da usare come fondente nei rivestimenti vetrificati (vetrina e smalto) e in alcuni colori. Il sale fu utilizzato come moneta di scambio e ad esso, come elemento incorruttibile alla trasmutazione e purificatore, furono anche associati poteri “apotropaici”. Le “vie del sale” partivano dal mare e si addentravano nei territori interni. Queste furo-
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ATTRIBUZIONE: TIPO TECNICO: MISURE: STATO DI CONSERVAZIONE: PROVENIENZA: COLLOCAZIONE:
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ATTRIBUZIONE: TIPO TECNICO: MISURE: STATO DI CONSERVAZIONE: PROVENIENZA: COLLOCAZIONE:
Figura plastica dalle fattezze muliebri, le braccia, modellate e applicate al corpo, sorreggono una ciotola che poggia sulla spalla sinistra, la quale è decorata all’interno con una stella o asterisco, mentre all’esterno è disegnata con linee verticali. L’abito è decorato, nella parte anteriore alta, da una pettorina costituita da un doppio quadrato con tratteggio interno. La gonna è evidenziata da linee verticali, sul davanti una lunga fila di puntini simula una abbottonatura, il bordo è caratterizzato da una decorazione a gruppi di barrette oblique. I tratti anatomici del viso, le mani e i capelli sono evidenziati da graffiture. Eseguita in parte a stampo e in parte modellata poi assemblata. Scarto di fornace. Corpo in frattura (Munsell, 7.5YR 7/3 pink). Forlì, seconda metà del XIV secolo. terracotta ingobbiata e graffita. h cm 16,9; diam. max piede cm 9,3. buono, abrasione dell’ingobbio, frammentata. Ripristino formale e cromatico. Forlì, Casa Pantaleoni, Corso della Repubblica, recupero 1927. Forlì, Museo delle Ceramiche, inv. n. 2.
Figura plastica dalle fattezze muliebri, le braccia, modellate e applicate al corpo, sorreggono una ciotola su alto piede, la quale è decorata all’interno con una stella o asterisco, mentre all’esterno è disegnata con linee verticali. L’abito è caratterizzato da una pellegrina con orlo ondulato decorata con una serie di linee verticali, nella parte anteriore serie di piccoli archetti (occhielli) che simulano una abbottonatura, la gonna è evidenziata da linee verticali, il bordo termina con una decorazione plastica a ditate graffite. Eseguita in parte a stampo e in parte modellata poi assemblata. Scarto di fornace. Corpo in frattura (Munsell, 7.5YR 7/3 pink). Forlì, seconda metà del XIV secolo. terracotta ingobbiata e graffita. h cm 17,1; diam. max piede cm 9,3. buono, abrasione dell’ingobbio, frammentata, lacunosa. Ripristino formale e cromatico. Forlì, Casa Pantaleoni, Corso della Repubblica, recupero 1927. Forlì, Museo delle Ceramiche, inv. N. 7.
Figura plastica dalle fattezze muliebri, le braccia, modellate e applicate al corpo, sorreggono una ciotola che poggia sulla schiena decorata all’interno con una stella o asterisco, mentre all’esterno è disegnata con linee verticali. L’abito è decorato, nella parte anteriore alta, da una pettorina costituita da un doppio quadrato con tratteggio interno. La gonna è evidenziata da linee verticali, sul davanti una lunga fila di puntini simula una abbottonatura, il bordo è caratterizzato da una decorazione plastica a ditate graffite. I tratti anatomici del viso, le mani e i capelli sono evidenziati da graffiture. Eseguita in parte a stampo e in parte modellata poi assemblata. Ingobbiata e graffita sotto vetrina in bicromia verde ramina e bruno ferraccia. Corpo in frattura (Munsell, 10YR 7/4 very pale brown). Forlì, seconda metà del XIV secolo. terracotta ingobbiata e graffita. h cm 16,9; diam. max piede cm 9,3. buono, incrostazioni e scheggiature del rivestimento, frammentata, lacunosa. Ripristino formale e cromatico. Forlì, Casa Pantaleoni, Corso della Repubblica, recupero 1927. Forlì, Museo delle Ceramiche, inv. n. 41.
Foto: Giorgio Liverani (Fiorlì).
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Nella pagina precdente: Saliera, XIV sec., terracotta ingobbiata e graffita, h. cm. 17,1, Forlì, Museo delle Ceramiche.
Sotto: Saliera, XIV sec., terracotta ingobbiata e graffita, h. cm. 16,9, Forlì, Museo delle Ceramiche.
no le prime grandi strade e per percorrerle era necessario pagare una gabella che era calcolata in base alla merce trasportata. La grande importanza economica che rivestivano questi preziosi cristalli di cloruro di sodio fu anche causa di violente guerre, le guerre del sale, come quelle che ebbero luogo tra Veneziani, Bolognesi, Ravennati, Cesenati, Faentini e Forlivesi, per il possesso delle saline di Cervia. Nell’alto Adriatico verso la fine del XII secolo Venezia adottò una politica di controllo sul commercio del sale; venne istituito il “Magistrato del Sal” ossia l’organo che aveva il potere di sorvegliare con dazi e pedaggi trasporti, commerci e depositi ed era preposto alla lotta al contrabbando di questo prezioso alimento. I veneziani, che avevano già affermato la propria autorità sulle saline di Chioggia, dopo varie lotte con il Papato divennero, verso la fine del XIII secolo, padroni incontrastati di Cervia; dalle generose saline (da Cervia giungevano a Venezia ogni anno 2-3mila tonnellate di sale) ricavavano il sale per l’esportazione in tutta l’area padana, finanche ai territori della Toscana. Venezia estese il controllo e il commercio del sale in buona parte del bacino del mare Adriatico e del Mediterraneo Orientale, con saline gestite direttamente e altre sotto il controllo della Serenissima, disciplinate da leggi e pene severe ed anche militari. L’estrazione del sale avveniva attraverso l’evaporazione solare dell’acqua prelevata dal mare e raccolta negli appositi bacini, chiamati saline; qui l’acqua raggiungeva le condizioni ottimali di concentrazione salina ed in seguito avveniva la raccolta del ricercato condimento. Il trasporto si suppone venisse fatto dalle colonie con un’imbarcazione veneziana denominata marciliana, marsiliana o anche marziliana, già nota con questo nome nel 1261, che risulta presente nei documenti relativi alla navigazione e ai traffici in Adriatico fino al XVII secolo. L’uso di questa imbarcazione è sempre stato mercantile e risulta essere stata impiegata su rotte di volta in volta più lunghe; inizialmente impiegata nei collegamenti con l’Istria, la Romagna e le Marche, poi dal XVI secolo le rotte si allungarono fino al Mediterraneo. Questi natanti tondeggianti sono raffigurati in dipinti e stampe come nel dipinto di Carpaccio, Incontro dei fidanzati e partenza, del ciclo di S. Orsola (Gallerie dell’Accademia), nella xilografia con Veduta di Venezia del 1500 di Jacopo de’ Barbari (collezione privata). Sono forse solo congetture o voli pindarici, ma queste piccole imbarcazioni sono protagoniste anche dei medaglioni centrali di piatti (e ciotole) con ornato detto “alla porcellana”, databili al XVI secolo. Quanta storia racchiudono un contenitore, dei cristalli biancastri e un piccolo gesto come quello del condire con un pizzico di sale! Questo “oro bianco” testimone di conflitti, discordie e scambi è divenuto sinonimo della vita stessa; non è un caso che quando qualcosa o qualcuno sono fondamentali nella nostra esistenza si afferma che è il sale della nostra vita. * Associazione Amici della Ceramica e del Museo Internazionale in Faenza ** Servizio Pinacoteca e Musei Comune di Forlì
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eventi
Ugo Nespolo, Monumento alla stufa, 2008, ceramica, Castellamonte. Sotto: Sandra Baruzzi, Piciol a due, S. Baruzzi e S. Vigliaturo, 2008, ceramica policroma, 60x48x20cm.
Mostra della ceramica di Castellamonte È stata inaugurata lo scorso 4 settembre la 49sima edizione della Mostra della Ceramica - VI Mostra Di Arti Applicate di Castellamonte (TO). Oltre 200 gli artisti coinvolti, italiani e stranieri, e oltre 1000 le opere esposte. La rassegna, giunta ormai quasi al mezzo secolo di vita, tiene conto di alcuni ambiti centrali: l’arte, l’arte ceramica, l’arte applicata, il design e l’artigianato artistico e di temi cardine: l’arte del Novecento, l’arte di strada, il Design italiano, il Design internazionale e i maestri della ceramica. La manifestazione, anche quest’anno curata da Vittorio Amedeo Sacco, si compone di diversi momenti o occasioni che, uniti, concorrono a dar vita ad un progetto molto articolato: la Mostra della Ceramica, la Mostra di Arti Applicate, le Strade della Ceramica e gli eventi collaterali. È stato inoltre annunciato il concorso per fregi architettonici, “Premio Carlo Trabucco”, che verrà organizzato in vista della 50esima edizione della mostra. Come sempre, il percorso mostra interessa gli edifici storici più importanti della città e quest’anno vengono utilizzati anche angoli inediti ed inconsueti e tutti da riscoprire. A palazzo Botton trovano posto la Ceramica e le Arti Applicate. La Chiesa parrocchiale dei SS. Pietro e Paolo ospita le opere dell’artista castellamontese Angelo Pusterla. L’Ex Cinema, oggi salone “Piero Martinetti”, ospita oltre 70 artisti dell’arte ceramica del Novecento. Maestri d’eccezione sono ospiti dell’antico castello. L’ex palestra di piazza della Repubblica ospita alcuni tra i maggiori esponenti del Design internazionale. Come sempre è inoltre possibile ammirare gli elaborati dei giovani talenti dell’Istituto d’Arte “Felice Faccio”. Da quest’anno i castellamontesi riscoprono la loro antica vocazione di ambasciatori della ceramica e, venendo in Canavese per riscoprire il fascino della terra rossa, è possibile seguire un percorso d’arte e creatività che si snoda lungo le “Strade della Ceramica” da Castellamonte verso la Fornace di frazione Spineto per poi proseguire a Bairo, Torre Canavese, Agliè, Pavone Canavese, Colleretto Giacosa e Caluso terra di vini, arte e cultura. Nei diversi centri sono esposti i manufatti degli artisti, degli artigiani e dei costruttori di stufe di Castellamonte. Nel corso della rassegna ceramica, che chiuderà il prossimo 4 ottobre, è possibile visitare la sede dell’Associazione Casa Museo “Famiglia Allaira”. Un autentico viaggio nel tempo alla riscoperta della lunga tradizione ceramica locale. Il 12 settembre è stata attribuita ufficialmente la Cittadinanza Onoraria a Ugo Nespolo. Al pari di altri artisti come Pomodoro o Mastroianni che hanno donato alla città le loro opere dimostrando rispetto e apprezzamento per l’arte e l’artigianato locali, il Maestro Nespolo è stato insignito della Cittadinanza per aver realizzato presso piazza della Repubblica il Monumento alla Stufa. Un vero e proprio omaggio all’antica tradizione artigiana castellamontese. Ad affiancare gli allievi dell’Istituto d’Arte “Felice Faccio” nelle visite guidate alla Mostra della Ceramica e nell’accompagnamento dei visitatori all’interno dei punti espositivi quest’anno c’è anche un folto gruppo di studenti del liceo “Piero Martinetti” di Caluso. Info: Ufficio Cultura del Comune, tel. 0124.5187216.
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Ceramics under forties - page 4
New research into contemporary ceramics at Faenza’s 56th International Competition of Contemporary Ceramic Art, reserved for young artists Last June, Faenza’s International Ceramics Museum – MIC - launched the Contemporary Ceramic Art competition. The jury - made up of Jadranka Bentini (Director of the International Ceramics Museum), Franco Bertoni (expert in the International Ceramics Museum’s Modern and Contemporary Collections of Faenza), David Cameo (the Director of the Galerie de la Manufacture of Sêvres, France), Luigi Ontani (artist), Matteo Zauli (director of the “Carlo Zauli” Museum of Faenza) – presented the following Awards: The “Premio Faenza” worth € 26.000,00 was awarded by the Fondazione Banca del Monte e Cassa di Risparmio Faenza ex aequo to: Tomonari Kato (Japan) and Andrea Salvatori (Italy). A voucher worth € 10.000,00 was awarded by the Confindustria Ceramica to Mariko Wada (Japan). Franco Bertoni, expert in the International Ceramics Museum’s Modern and Contemporary Collections of Faenza – the Foundation, wrote in the catalogue: “It is the second time since 2000 that the International Competition of Contemporary Ceramic Art has been dedicated to young under 40 artists. There were many reasons behind this choice. The main one being to encourage these new players who are on a stage that is always changing and ever more complex, with the awarding of the Premio Faenza and with an exhibition visibility in such an important and recognised context. Those now obsolete and anachronistic barriers between the so-called artists of ceramics and artists with ceramics, and this means of expression has reached the same level as the other forms of expression, becoming privileged and of widespread interest, from sculpture to design. In a more artistic context, ceramics has shown signs of a new vitality be it through the work of confirmed artists, as well as through the experiments carried out through the new creative stimuli that with this material have captured a certain ductility and expressive potential, and in the materials and colours, being particularly skilled in interpreting the dreams and doubts of the contemporary world: from the ostentatious executive and conceptual excesses and a related, intimate fragility. Ceramics is truly in the limelight”.
À la recherche du Wood perdu - page 6 Andrew Wood’s work is just this: ‘majolicalised’ music. Andrew is a reserved person. His parents took him to the Hammersmith Odeon in 1963 to see Don Everly and the Everly Brothers rock concert. From then on Andrew would have found his way following the guiding light of a comet rock star. The sources of inspiration for his first works were the highly popular Rolling Stones concert in Hyde Park and the first Glastonbury Festival. Andrew did not find a guitar, but ceramics, and he fell deeply in love with this material. Once he left the School of Art, his conventional parents and their sixth sense sent him to the UC Davis University of California, North California, where there was a Ceramics Department led by Robert Arneson, who in fact turned the place into the capital of Funk Art. At that time groups of the likes of the Doors, Grateful Dead and Frank Zappa went to play in those areas. Thanks to the husband and wife team Isaac Tiggrett and Maureen Starkey, Ringo Starr’s ex-wife, Andrew Wood was able to meet all the world’s rock starts. Today Andrew Wood lives in Italy, in Tuscany. If in Florence or in Pistoia it is possible to admire the magnificent Della Robbia high relief wall operas, today in Cortona Andrew Wood is working as a ceramic rock star with his bas, medium and high relief surrealist pop works. First he draws them, then he models the clay. Currently, Andrew Wood is working on The Shape of Things to Come. Pay attention though, Andrew Wood does not appeal to everyone. The harmonious work Niccone Day is about a clear summer day in Val Niccone in Tuscany. Whereas, Fish of Gold starts by wriggling out of the Torrente Esse creek in the Arezzo area, Wood’s unconsciousness has created the work The Future. A Critiche colonial pop helmet. Le Wood retrouvé.
On Franco Battiato’s painting - page 11 Today it is not unusual to find, off the beaten tracks of the consecrated sites of contemporary art, of the temples invaded by triumphant academics, an authentic modernity, capable of challenging the way that has been traced by easy irony that is taken for granted by the critics who, practically consider every experience a finalised one. It is not unusual to recognise in those who give themselves up to a disinterested “pleasure” in art, phenomenon of extremely clear expressiveness, the fruit of a personal research, that avoid the trap of the schematic way of thinking enforced by the dominating doctrinal limits. This is the case of Franco Battiato who, free from any stylist dogmas of any type, can allow himself the ‘luxury’ of opposing the normal alignment with an autonomous, critical, conscious research, that is insinuated in the fabric of a world where musicality and figuration seem to melt together into a kind of mystic union, giving life to a rather particular, essential and even lyrical aesthetic experience of an unexpected evocative power. This gallery of images, that actually finds the leading theme, in fact, in the relationship between music and painting, recomposing the sequence of Battiato’s painting course, in which painting becomes a representation of a personal universe, where the purity of the musical signs and sounds cohabit in dialectic tension; a universe in which the human figure breathes and moves to the rhythm of a clear, prolonged sound, evoking memories of blooming records. This is how Battiato underlines, in an extremely lucid manner, his own concept of art, his aesthetic choice of the actual pictorial language, the sublimation between this and the other forms of artistic activity. Pure forms and shades, pushed to the maximum values of the combination of gold backgrounds or monochromatic depth, images (the favourite contemplation) to which the Levite of apparition, and that we believe dissolved in the evanescence of the patterns of the background light. Much has often been said regarding Franco Battiato’s painting, of a reinterpretation of Byzantine art, involving the primitive Tuscans of the XIII and XVI centuries. I believe that Battiato feels all the fascination of the harmony tied to those principles of rigour, ad this cannot but be rediscovered in the study into ancient art, in the admonition of several Byzantine icons, with their reference to discipline, meditation, to the solemn and austere concentration that is an indispensable premise. Only his individual story follows, his evolution. This renders Franco Battiato’s art an authentic source of hope. Text from “Libro d’Artista” Gilgamesh, a precious limited edition volume – one hundred and fifty issues – published in December 2007 for Edizioni della Bezuga of Florence. This volume concentrates on the lyrical operas Gilgamesh composed by Franco Battiato and performed in 1992 at Rome’s Opera House; it contains three lithographic reproductions of original works created by the author at different times, and inspired to the famous epic ‘sumero’ poem.
notizie
Linde Burkhardt: inside and beyond ceramics - page 15
Personal exhibit at the MIC International Ceramics Museum of Faenza
Enough can never be said, even when it will be time to begin, regarding the importance of the erogenous contributions in the long history of ceramics. When it comes to the deep tracks etched by many twentieth century artists and architects she is the contemporary leading player of a complex dialogue between art, architecture, design and ceramics. The fact that this artist can boast of polytechnical interests and powers is well known. In the sixties, she was a painter, but soon she abandoned the easel to undertake aesthetic tests on an urban scale. It is the group Urbanes Design’s greatest moment, as far as their activity was concerned. Founded in 1968 in Hamburg together with her husband Francois Burkhardt, determined to present art through works carried out public places, to let art come out of the usual circuits and to favour its integration in urban areas. Amongst the attempts to overcome constrictive and disputable barriers – without forgetting the bitter and truly long lasting querelle amongst artists of ceramics and artists with ceramics – Linde Burkhardt’s attempt was based upon wide ranging prescriptions and, in fact for this reason, seems to us to be amongst the less casual and those more worthy of attention. The totem stelos entitled Belle di giorno, belle di notte – Lovely by night, lovely by day – on exhibit at the International Ceramics Museum for the first time are also complex and it seems to me that in this group of works it is possible to find a contemporary point of arrival for many of her previous experiences: from the urban scale works of her initial years of activity to the design, right up to the studies into fabrics that somehow helped to gain access to the decorative ceramic universe. Blends and experimentation where Linde Burkhardt moves at ease because her keyword is “freedom”. The freedom to turn the mass of a kind of modern obelisk (an elegant and refined urban sign or a delicate irony regarding naïve presumptions of eternity?) that is smooth and silky like a luxurious fabric. The freedom to move through this petrified forest with the attention – and the excitement – of an entomologist ready to grasp even the tiniest colour variations of a surviving butterfly. The freedom to be contemporarily antique. The freedom to rest fragments of a travelling imagination around unchanging and “absent” forms. The freedom to think that the surfaces change the forms. The liberty to not just be a designer or artist or ceramist. The freedom to stress that cathedrals have never been completely white. The freedom to be “light” and, in this way, perhaps also happy. Text taken from the catalogue of the exhibit, running until 13th September.
Cinderella make-up - page 18 The Enzo Biffi Gentili’s deposit-archive of artefacts in the MIAAO – International Museum of Applied Arts Today of Turin, with its curtains in “brocade” and obscure fabric, reminds me, I hope you will allow my irreverence – of the traditional “alien” Disney character, created by Bill Walsh and Floyd Gottfredson, Eeega Beeva’s black skirt-pants. This hazardous similarity is motivated by the fact that they are both receptacles from which, when necessary, an incredible quantity and variety of objects can be extracted. Like those illustrated on these pages: they are liquor bottles or ceramic jugs, especially of Italian origin, produced in the 1950’s and 1960’s, “fantasy objects”, gifts or for that “important” present, and which once their pouring function had been completed, could turn into interior design accessories, for the living room or the den. The scholar from Turin stands out for his selective approach, one that is “discriminatory”, and therefore essentially, and basically factiously, critical. He prefers and puts forward an “avant-garde form” of this type of artefact, highlighting, additionally therefore a disturbing aesthetic dissymmetry towards their “passito sweet content” (those sweet, syrupy liqueurs, today unthinkable like: maraschino and appassito sweet moscato, goccia d’oro and nocciolino of Chivasso…). This is because he has always been interested in, events of “avant-garde for the masses” – the creators of these objects were very often just simple workers – that in this and other cases, practically in real time managed to absorb and metabolise stelos and graphisms of abstract geometric or organic movements, sign based, gesture based or even to represent pop or post modern solutions. For example, a bottle dated 1959 and created by the company Coronetti of Cunardo is impressive, with its proliferating handless and multi coloured Kandinsky style little triangles that seem to anticipate Alessandro Mendini’s research. The photographs published here are the work of Massimo Forchino, from Turin, who in fact successfully aimed at showing a further considerable feature of this production: the invention of the “variable series”, that is the ongoing aesthetic modification of one same model, therefore creating unique, handmade pieces, at full pace. Thus demonstrating that these vessels, once embarrassing, have today become extremely interesting.
New renaissance majolica find in Cesena - page 48 During the last months of 2008, a new and important archaeological find was made in a building in Cesena’s historic centre: a “butto”, that is a piece of ceramics that had been “thrown away” – buttare in Italian – and dating back to Renaissance times. This exceptional find not only tells us about the objects in use at the time, but it also reunites many of the main Renaissance forms like tankards, dishes, cups, bowls and plates, whose decorations range from the porcelain and even bordered style, to the “berettino” light blue glaze, right up to the istoriato style. Archives show that during the period from which the “butto” is presumably dated, the building belonged to the Beccari family (with Papal ties). The presence in this setting of various pieces, including the plate shown here, bearing a central effigy of an emblem in two parts, most likely representing a marriage union, at the moment allows us to just hypothesis a commission made for an entire dinner set for a limited event and regarding which, at the moment, only historic-archive based researches are underway; it is important to note the left-hand location of the coat of arms, where there are the outlines of three pomegranates, perhaps to be associated with the Melagranati family (from Melagrano – pomegranate in Italian); perhaps it is no coincidence that today this surname can still be found in Cesena? The work carried out by the volunteers of the “Gruppo Archeologico” group is worthy of merit, and the news of this find is thanks to them, who during excavations also found remains of structures belonging to cities from Roman times and in particular also of the building dating back to the late Mediaeval times, from where the “butto”, sealed up by rear structures, was an integral part. Cesena’s “Gruppo Archeologico” has been working for nearly thirty years in close and successful collaboration with the Superintendence and it is also thanks to the activities and hard work of its volunteers that today Cesena can boast of such an enviable archaeological heritage and of such a rich collection of majolica (covering the entire time span from the fourteenth century right up to the end of the seventeenth century); milestones in the uncovering of the city’s ancient ceramic manufacturing activity, that fell into oblivion and came back to life thanks, in fact to the archaeological finds made over the past thirty years; unfortunately to date very little has been published and the contexts are only partially known even by the actual scholars of the sector.
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notizie
4x5 - I sensi della ceramica
La Scuola d’Arte Ceramica “Romano Ranieri” ha inaugurato lo scorso luglio la mostra “4x5”- i sensi della ceramica presso la Fabbrica Grande (ex maioliche) di Deruta. Designers di fama internazionale e Artisti derutesi” hanno interpretato i 4 elementi, terra, acqua, fuoco, aria attraverso la percezione sensoriale. Organizzata nell’ambito della manifestazione Magia di un’arte, la mostra e’ stata progettata e curata dall’Architetto Fabio Gigli.
Terralha 09”
Se è tenuto lo scorso luglio il “Festival Européen des Arts Céramiques- Terralha 09” a St. Quentin La Poterie, cittadina di tradizione ceramica tra le regioni di Laughedoc e Provenza, in Francia. Il Festival realizza due eventi di carattere europeo, “La Jeune Cèramique Européenne”, concorso realizzato all’ interno del” Musée de la Poterie Meditérranéenne”, dove è stata invitata Martha Pachón, ceramista scultrice Italo-colombiana che si è aggiudicata il Premio del Pubblico “una residenza d’artista” a St. Quentin La Poterie,dove ritornerà nel 2010 per uno scambio e per realizzare una mostra personale. Mirta Morigi unica Italiana a fare parte de “Le Parcours Céramique 2009” evento a carattere europeo che invita e ospita 20 Ceramisti con lo scopo di mostrare un percorso contemporaneo qualificato. Le opere erano esposte in luoghi pubblici e privati, da uffici, dimore importanti e orti molto suggestivi in sintonia con il carattere della manifestazione che coinvolge totalmente il paese di 3000 abitanti che, con oltre 20 botteghe ceramiche, un piccolo museo e manifestazioni, crea una forte attrazione turistica.
Memorie di Santi
È difficile recuperare oggi una memoria autentica, in un periodo in cui, riesumare significa rischiare spesso di aggiungere a un lungo e raffazzonato elenco di improbabili restauri, un nome che invece è certamente meritevole di un posto adeguato nella storia di chi conosce la vicenda ceramica del ‘900. Luigi Santi era un faentino di razza,
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Particolare di un’opera ceramica di Santi.
nell’ingegno e nel carattere. Apparteneva al gruppo dei “faentein luntan”, di coloro che avevano trascorso gran parte della loro vita più attiva, lontani dalla propria città. Frequentò l’Istituto per la ceramica “G. Ballardini” già nel primo anno della sua costituzione, avendo il numero di matricola 24. Suoi compagni di scuola e di vita, Poppi, Ghinassi, Morelli e tanti altri più o meno noti alla storia ceramica. Ebbe per insegnante Domenico Rambelli ed alcuni tra i migliori che la storia dell’Istituto faentino ricordi. Rambelli lo ebbe come modello per il monumento “al marinaio” di Viareggio, e su di lui espresse lusinghieri giudizi durante una sua visita a Rimini negli anni ’50. Trascorse 30 anni a Civita Castellana, dove collaborò con le aziende più significative, apportando, con le sue innovazioni, la sua incisiva creatività e la feconda frenesia artistica, un contributo non secondario alla crescita ceramica della cittadinanza laziale. Nel 1952, gli si offrì l’opportunità di fondare una propria azienda ceramica a Miramare di Rimini, con il contributo di circa 50 addetti, provenienti da molte delle aree ceramiche italiane, Grottaglie, Caltagirone, Vietri e soprattutto Faenza. Molte sono le testimonianze di quegli anni in cui visse ed operò quell’azienda (1952-1960) così orginale per indirizzo e così innovativa per il carattere della produzione. Tra l’altro fu la prima azienda italiana che installò un forno continuo, a “piastre striscianti”, costruito dalla Scei di Novara. Conclusa l’esperienza riminese, rese attiva una seconda azienda ceramica a Cattolica che riprese e ampliò ulteriormente il fraseggio ceramico riminese. A Cattolica, in età ormai avanzata, si concluse l’attività ceramica, e
proseguì invece, con sempre rinnovato impegno, quella grafica di cui esiste un’amplissima testimonianza. Morì a Cattolica nel 1981. È importante ricordare i suoi collaboratori, alcuni peraltro assai noti, perchè tutti, nessuno escluso, condivisero con lui sia l’amore per la ceramica sia il bisogno di andare sempre oltre quell’esperienza quotidiana, nella ricerca di una nuova e misteriosa dimensione; quella di portare dentro quel lavoro straordinario la capacità creativa, anarchica e geniale, e quell’emozione quasi surreale che si realizza solo con l’argilla e con il fuoco. La “sua ceramica” non ama la materia fine a se stessa, non indulge al cromatismo nè agli artifici del lustro. Lo smalto, lucido o opaco, è un supporto sul quale egli agisce in punta di pennello, con un segno sicuro, che indaga nel motivo e ne trae immagini ironiche, irridenti, ma assieme tragiche e malinconiche. La punta del suo pennello indaga nelle forme, disegna la struttura, definisce entro confini certi le sue figure improbabili, immagini di un mondo surreale, ironiche e tragiche, che si iscrivono nella tragedia della vita. Il colore accompagna ed alimenta il suo segno, ma con garbo, senza presunzione, senza accorate ed inutili cantilene. Il suo dunque è un mondo irreale, onirico, ma pieno di mostri e di clown, di preti e di mercati, di case appese nel vuoto e di animali danteschi. La sua ceramica è tutto questo, ma anche il suo contrario; è, come i suoi quadri, un infinito caleidoscopio di personaggi, cui soltanto la sua fertile immaginazione sapeva dare vita. Franco Santi
Italiani a Parigi
Selective Art è una galleria situata nel centro di Parigi, all’ingresso di Saint Germain des Prés. I proprietari Mario Rizzardo e Gabriella Artoni, italiani, propongono artisti italiani dando largo spazio ai ceramisti. A pochi metri dalla galleria storica, si è aperto il nuovo ”espace selective art”, caffè letterario, un luogo espositivo dove vivere da protagonisti l’editoria , la videoart, la scultura, la pittura, la fotografia, tra l’angolo della musica dal vivo, con un caffè, un pasticcino e un bicchiere di vino. Il 24 settembre si è aperta la stagione con 2 personali: Paolo Staccioli e le sue gioiose ceramiche (espace
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Durante la prova tecnica di foggiatura del cilindro più alto. Foto R. Tassinari
Vista d’insieme della galleria parigina con, in primo piano, un’opera di Staccioli.
selective art) e Sabina Feroci “Ritratti intimi” (galleria storica). Gli Artisti in permanenza sono: Nino Caruso, Paolo Staccioli, Nicola Boccini, Marino Ficola, Antonio Buonfiglio, Martha Pachon Rodriguez, Paola Staccioli, Beatrice Rizzardo e Nicola Tripodi. www.selective-art.com
Le Olimpiadi della ceramica
A Faenza, il 5 e 6 settembre 2009 si è svolta “L’Oro del Vasaio - 30a edizione del Mondial Tornianti”, un’originale competizione fra i migliori ceramisti provenienti da tutte le regioni d’Italia e dall’Estero. La 30esima Edizione, ha visto una incredibile partecipazione di pubblico e di concorrenti ( 44 concorrenti provenienti dalle maggiori città della ceramica italiane e da rappresentanti di Danimarca Svezia e Giappone) che testimonia come questa manifestazione dopo 30 edizioni sia ancora una volta il teatro più prestigioso nel quale i tornianti possono mettersi alla prova. Gli spettatori, infatti, in
Durante la prova tecnica di foggiatura della ciotola più larga. Foto R. Tassinari
piazza Nenni, non sono mancati in entrambe le giornate di gara, sia il sabato che durante tutta la giornata di domenica. Impossibile, non dedicare quest’edizione al compianto e amatissimo Piero Bandini, segretario generale dell’Ente Ceramica Faenza, al quale è stato intitolato il Titolo del Campione Mondiale Tecnico Donne. Di seguito i risultati finali: - Città con maggior numero di partecipanti: Grottaglie (TA). - Squadra Campione del Mondo: Grottaglie 2, formata da Aversa Leonardo, Caraglia Salvatore e Monteforte Santo. - Campione Mondiale Tecnico Allievi: Russo Giuseppe. - Campione Mondiale Esteta, opera Innovativa: Luigi Bertolin, Marosica (VI). - Campione Mondiale Esteta, opera Tradizionale: Santoro Paolo, Grottaglie (TA). - Campione Mondiale Tecnico Donne, 1° Trofeo Piero Bandini: Bente Brosbol Hansen, Kagerod, Svezia. - 3° classificato Mondiale Tecnico Maestri: Colì Giuseppe, Cutrofiano (LE). - 2° classificato Mondiale Tecnico Maestri: Girolamini Augusto, Deruta (PG). - Campione Mondiale Tecnico Maestri, 10° trofeo Alteo Dolcini: Motolese Francesco, Grottaglie (TA). Molto merito del successo di questa edizione va dato alla collaborazione, mai fatta in precedenza, con il laboratorio didattico Giocare con l’Arte del Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza, che ha permesso a bambini e ragazzi di intervenire in maniera creativa sui manufatti realizzati dai tornianti nelle qualifiche e nelle finali delle prove del cilindro e della ciotola. Altro motivo di vanto, prima di archiviare questa edizione, è il successo avuto dell’asta realizzata dopo la cerimonia di premiazione, che ha esaurito tutte le opere (43 opere che sono il frutto dei manufatti realizzati nella scorsa edizione del Mondial Tornianti e che sono state magnificamente
maiolicate e decorate dai maestri ceramisti e dalle botteghe artigiane di Faenza). L’intero ricavato, 2595,00 euro, è stato interamente devoluto all’IRST di Meldola (FC), come offerta alla memoria di Piero Bandini da parte dell’Ente Ceramica Faenza, dell’organizzazione del Mondial Tornianti e di tutti i tornianti che in questi anni, partecipando all’Oro del Vasaio, lo hanno conosciuto e amato. Il “Mondial Tornianti” 2009 è organizzato e promosso dal Comune di Faenza e dall’Ente Ceramica Faenza. enteceramicafaenza@zero.dinamica.it
FRANCO GENTILINI A MILANO
Pittore, disegnatore, ma ancor prima decoratore ceramista. Franco Gentilini, considerato fra i maggiori protagonisti della cultura del XX secolo, si è formato nel contesto della cultura italiana tra la seconda guerra mondiale e il dopoguerra ma, come tutti i ragazzi faentini, incominciò decorando ceramiche, nel mito di Domenico Baccarini, anche lui figlio di calzolaio e lavorante in una fabbrica di ceramiche. E l’attenzione e la precisione che imparerà in bottega lo accompagneranno per tutta la sua vita, diventando aspetto peculiare della sua arte. In occasione del centenario della nascita del pittore Franco Gentilini (Faenza, 1909 – Roma, 1981), La Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente di Milano presenta dall’11 novembre 2009 al 3 gennaio 2010 la più importante e completa antologica dedicata all’artista dal titolo “Franco Gentilini. Dipinti, collages e opere su carta dal 1922 al 1979” (info al pubblico: 02 6599803). L’esposizione, curata da Maria Teresa Benedetti, ripercorre l’intero percorso pittorico dell’artista, che si compie sin dall’inizio nel nome della poesia essendo la crescita di Gentilini strettamente legata a figure come Dino Campana, Giuseppe Ungaretti, Stéphane Mallarmé, Pablo Neruda, Italo Calvino, Vittorio Sereni, Giorgio Baffo, Alfonso Gatto, Cesare Vivaldi. Le figure delle sua opera sono le tipiche Cattedrali, i Battisteri, i muri di città, i giocolieri, i suonatori di strada, le donne caratterizzate da stivaletti con tacchi a rocchetto, le biciclette, i carretti e gli animali.
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