L'avventurosa Storia del cinema italiano

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L’avventurosa storia del cinema italiano da Ladri di biciclette a La grande guerra

volume secondo



L’avventurosa storia del cinema italiano da ladri di biciclette a la grande guerra a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi


Questo libro viene pubblicato con il sostegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali

e della Regione Emilia-Romagna

Cura editoriale e redazione Valeria Dalle Donne e Alessandro Cavazza Progetto grafico Lorenzo Osti, Mattia Di Leva (D-sign) Impaginazione Caterina Martinelli

Per la preziosa collaborazione nella ricerca delle immagini grazie a Alessandra Bani e Rosaria Gioia. Per l’attenta rilettura del testo grazie a Mauro Bonifacino

Le immagini che compaiono nel volume provengono dall’Archivio Fotografico della Cineteca di Bologna. L’editore dichiara di aver fatto quanto in suo potere per rintracciare gli aventi diritto del materiale fotografico pubblicato e si dichiara comunque disponibile ad adempiere ai propri obblighi.

© 2011 Edizioni Cineteca di Bologna via Riva di Reno 72 40122 Bologna www.cinetecadibologna.it


indice

CAPITOLO PRIMO 1. Avamposto americano. Orson Welles scopre la dolce vita 2. “Un giorno Zavattini mi dice” 3. Dieci mesi tra i pescatori 4. Opinioni sul neorealismo 5. Presi dalla strada 6. La battaglia delle miss 7. Mondine e pastori 8. Foglia di fico per il cronista

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CAPITOLO SECONDO 1. Poveri e già belli 2. Follie per l’opera 3. L’arte di far piangere 4. In costume e al presente 5. Ridere in pace

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CAPITOLO TERZO 1. 2. 3. 4.

Produttori. Produttori. Produttori. Produttori.

L’estro e l’industria Il gatto e la volpe Milioni e cambiali Urbi et orbi

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CAPITOLO QUARTO 1. Qualche santo 2. Da Stromboli a Vulcano 3. Il film prediletto 4. Un genovese nel sud 5. Il borghese è egoista ma può cambiare 6. Eduardo regista di se stesso 7. Documentari e... truffe

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CAPITOLO QUINTO 1. “L’Italia stava a destra, il cinema a sinistra” 2. Forbici 3. Due esploratori: Fellini e Antonioni 4. Zavattini docet 5. La macchina da scrivere 6. Sette mesi di speranza 7. Il cinema messo in discussione 8. Dubbi sul neorealismo 9. L’Italia è in Europa

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CAPITOLO SESTO 1. Romanzi, racconti 2. Donne 3. Cronache nere 4. C’è regista e regista 5. Canzonette 6. L’arte di far ridere 7. Il fenomeno Totò

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CAPITOLO SETTIMO 1. Welles e Losey nel bel paese 2. Hollywood sul Tevere 3. I miracoli non si ripetono 4. Hollywood Romance 5. Un esclamativo per la Magnani 6. Donne nel sud 7. Ancora Napoli... 8. Incursioni tra i borghesi 9. La contessa Serpieri... 10. ... contro Gelsomina 11. ... ma vincono Giulietta e Romeo 12. La storia è scomoda 13. Il primo ciak 14. Rossellini va per la sua strada

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CAPITOLO OTTAVO 1. Il maresciallo e la bersagliera 2. Canaglie rosa 3. Poveri, giovani, belli, innamorati, sposi 4. Con Sordi, la commedia che cambia 5. Nostalgia dell’avventura 6. Nostalgia di Cabiria 7. Dietro le quinte

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CAPITOLO NONO 1. Ultimi fuochi del mondo contadino 2. Regista più attore uguale personaggio 3. Fellini dirige Giulietta 4. Chilometri di tulle 5. Il ‘privato’ dell’operaio 6. Vecchi e giovani

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CAPITOLO DECIMO 1. I soliti noti 2. Anno di svolta 3. Pasolini prima di Accattone 4. Maciste raddrizza i torti 5. Tirando le somme

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INDICE DELLE TESTIMONIANZE

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FONTI BIBLIOGRAFICHE

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INDICE DEI FILM

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INDICE DEI NOMI

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I numeri che compaiono alla fine delle singole testimonianze indicano fonti altre da quelle delle nostre interviste, rintracciabili nell’indice delle fonti alla fine del volume. Nel caso di persone da noi inter­ vistate, si tratta di aggiunte che ci è parso importan­ te fare alle dichiarazioni raccolte direttamente (che invece compaiono, ovviamente, prive di numero). Gli autori devono molto a molti e si sono servi­ ti, oltre che delle interviste da loro fatte nel corso di quattro decenni, di quelle che gentilmente molti amici hanno messo a loro disposizione con quei ci­ neasti che non erano riusciti, per un motivo o per l’altro, a raggiungere. Devono molto in particolare ad Adriano Aprà, Nico­ lò Borghese, Edoardo Bruno, Roberto Chiesi, Lorenzo Codelli, Paola Cristalli, Valeria Dalle Donne, Rosellina D’Errico, Jean A. Gili, Matilde Hochkofler, Emiliano Morreale, Georgette Ranucci, Tatti Sanguineti, al compianto Lino Micciché, alla Mostra Internaziona­ le del Nuovo Cinema di Pesaro, agli editori Bulzoni, Mondadori, Napoleone e alla Cineteca di Bologna. 8


L’avventurosa storia del cinema italiano

Capitolo primo

1. Avamposto americano. Orson Welles scopre la dolce vita Moses, con cui avevo lavorato all’Unrra, mi of­ frì di fargli da assistente in un film americano che si doveva girare a Roma, Cagliostro, prodotto da Edward Small. Il film doveva essere girato negli studi della Scalera, il cui proprietario era Michele Scalera. Cinecittà a quell’epoca era ancora occu­ pata da migliaia di profughi. Mio compito era di procurare i permessi necessari dai ministeri del­ lo Spettacolo e del Commercio Estero. A un certo punto arrivò il regista, Gregory Ratoff. Ratoff era stato un attore comico che avevo sempre trovato molto divertente: parlava inglese con un fortissimo accento russo nonostante avesse passato una vita negli Usa. Chi gli voleva male diceva che a Holly­ wood aveva studiato come mantenere il suo accen­ to inalterato, e che era diventato regista perdendo una fortuna a ramino: i boss di Hollywood, infatti, avevano deciso che l’unico modo di recuperare i loro crediti era quello di promuoverlo trattenendo congrue somme dal suo stipendio.

Finalmente arrivò il gran giorno. Orson Welles, che era già a Roma, si presentò agli studi. Chissà perché mi aspettavo un piccoletto, ma le ragazze dell’ufficio, cui erano state inviate le sue misure, mi assicurarono che era un gigante. Mi incaricarono di accogliere il grand’uomo. Quando arrivò, mi presen­ tai e lo accompagnai nel suo camerino. Scambiam­ mo solo poche parole. Non fu maleducato, ma certo non fu cordiale. Forse si aspettava di essere ricevuto da qualcuno di più importante. Mi sembrò un bel giovane, solo che strascicava i piedi. In seguito seppi che aveva i piedi piatti e nove anni meno di me. Io ne avevo quarantuno. alessandro tasca di cutò 1 Il Cagliostro fu la prima grossa produ­zione stra­ niera ad arrivare da noi. Orson Welles era in un pe­ riodo d’oro, era il divo dei divi. Arrivò un mese dopo l’inizio della lavorazione e Gregory Ratoff, che dirige­ va il film, in sua attesa continuava a dirci, qualsiasi cosa accadesse: “Adesso quando viene Orson ve ne accorgerete, Orson vi farà vedere!”. Così tutti ave­ vano una pau­ra verde di questo Orson, manco fosse il mammone, e lo attendevano con un gran patema 9


d’animo. A me, in verità, non me ne fregava molto perché, tra l’altro, Scale­ra mi aveva fatto un contrat­ to per due an­ni. Però, quello che combinavano gli ame­ricani a quell’epoca! Un giorno andammo a girare delle sce­ ne del Cagliostro al Quiri­nale e vidi che scaricava­ no in mezzo al cortile dei cubi di formica con un buco e uno sportello. Nessuno riusciva a capire cosa fossero. Finalmente lo feci chiedere dall’interprete al producer che era un tizio alto, con certi tacchi e un cappellone tipo cowboy, e questo ribatté che li avevano fat­ti costruire appositamente per le nostre necessità fisiologiche perché temevano che le com­ parse e noi italiani della troupe andassimo a fare i bisogni nelle stanze dell’ex palazzo reale. Insomma ci conside­ravano manco fossimo zulù. A quel punto ci vidi rosso e dissi che se quei cosi non spariva­ no entro cinque minuti succedeva un casino, ce ne saremmo andati tutti per­ché – e se lo ricordassero bene gli america­ni – noi avevamo il bagno e il cesso quan­do ancora loro giravano con le penne al culo. Così li tolsero di mezzo, però quello era il concetto che avevano di noi. Welles era forte! Ogni tanto litigava con Ratoff e dirigeva lui. E allora era roba da far perdere la pa­ zienza a un santo. Una volta stette tutta una giornata per fare una scena in cui, seduto a un tavolo con un ragazzino, faceva tre palline di carta e le metteva in un bicchiere mentre il carrello andava indietro. Be’, io credo che voles­se prenderci in giro tutti perché, che cavo­lo, per una frescaccia di scena così, e poi per un regista immenso come lui, a starci tutto il giorno mica te lo potevi spiegare in altro modo! Comunque, nella lavorazione del Cagliostro, non mi pare che si appli­casse molto alla regia, perché il film non era una gran cosa, come in genere non so­no state grandi cose i film che gli america­ni hanno fatto in Italia. Si vede che il cli­ma gli faceva male. tonino delli colli In totale la tenitura di Quarto potere a Roma era stata di quattro giorni. In Italia sono sempre stato sul fondo. Ho cominciato a risalire solo quando sono andato a vi­vere lì. Ma in molti paesi ti rispettano solo se non ci vivi. Pensano che devi avere qual­cosa che non va, se vai ad abitarci. Così, quando sono andato per Cagliostro ho fat­to furore per una setti­ mana con tutti gli intellettuali esistenti sulla piazza, dopo di che non sono stato più nessuno perché vi­ vevo lì. “Chi è quello? Avrà qualcosa che non va, o 10

non sarebbe in Italia”. Si è di­mostrato vero in molti paesi: Irlanda, Ita­lia, Jugoslavia; e conosco tantissi­ mi paesi più piccoli dove non si rispetta né il pro­prio compatriota finché non parte, né uno straniero che vive lì. orson welles 1 Durante Cagliostro, uno dei miei primi problemi furono i ‘comunisti’. Il rappresentante di Edward Small a Roma era un tale Doane. Doane e la moglie, come la maggior parte degli americani, erano para­ noici circa il ‘pericolo rosso’ e vedevano ovunque banditi armati pronti a ucciderli. Naturalmente il nostro personale faceva riferimento a un sindacato, i cui capi erano per lo più comunisti. Affrontai il problema con i sindacalisti, e sebbene io fossi un convinto anticomunista, e aborrissi la diffusa prati­ ca del ‘caporalato’, capii che il sistema era quello e che dovevo accettarlo. C’erano anche altri sindacati, tra cui uno democristiano, ma erano male organiz­ zati e non meno corrotti. Nel corso degli anni sco­ prii che i comunisti erano di sicuro i più affidabili. alessandro tasca di cutò 1 Si ritenne indispensabile ottenere la be­nedizione papale prima del primo giro di manovella. Ratoff, da buon fedele, andò al Vaticano e, tenendo il co­ pione con due mani, come un’icona, si inginocchiò, mal­grado la sua corpulenza, davanti a Sua Santità. Gli ingredienti russi del fricandò non erano affatto trascurabili: Ratoff era il regista; Akim Tamiroff un gitano; la signora Ta­miroff era la madre di Caglio­ stro; Bruce (figlio di Tamara Karsavina, la celebre ballerina di Djagilev) interpretava Phi­lippe-Egalité; la signora Pavlova era una vecchia malata miracolo­ samente guarita da Cagliostro; Soussanin aveva due parti; Gaye ne aveva tre; Danaroff (che, oltre a fa­re il mestiere di attore, era padrone – a Hollywood – di un ristorante russo) quat­tro parti; la signora Vitaly, maestra di bal­letti, e il giovane poliglotta Sascia de Fé, interprete della casa di produzione (ingle­se, francese, tedesco, italiano, russo, spa­gnolo perché della troupe facevano parte perfino degli indiani); io, per i costumi. Fra gli altri interpreti vi erano anche: la principessa Vassileikof, la baronessa Vre­deun, il principe Volkonski, il conte Orloff (esperti conosci­ tori dell’etichetta di Corte), due ex generali, otto ex colonnelli e una sessantina di altri russi, fra i quali dodici deportati e cinque ‘criminali di guerra’ sovie­ tici, fuggiti dai campi di concentra­mento e divenuti


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displaced persons, e perfi­no un pope divenuto co­ munista, che inter­pretava la parte di un alabardiere (tenen­do conto soltanto delle sue qualità fisiche). Gregory Ratoff, che era superstizioso, volle che gli trovassimo un gobbo, come por­tafortuna del film. Forse giudicava insuffi­ciente la benedizione papale. Anche Or­son Welles aveva le sue piccole superstizio­ ni: chiese che la casa produttrice gli fornis­se due o tre ‘Muse’, perché vegliassero sul suo lavoro, altri­ menti non poteva garanti­re dell’infallibilità dell’ispi­ razione. I registi percorsero tutta Roma e la produ­ zione do­vette firmare dei contratti imprevisti con tre giovani rappresentanti di quella bellez­za italiana che nessun’altra bellezza fem­minile saprebbe oscurare. Disciplinata­mente, esse erano presenti tutti i giorni nel luogo delle riprese: una romana dalle tin­te raf­ faelliane, una veneziana dalla vapo­rosa capigliatu­ ra di fuoco, e una giovane siciliana i cui occhi e la cui bocca non di­menticherò facilmente. Una di loro, sprofondata in una poltrona, sferruzzava borghese­ mente senza posa, l’altra era im­mersa nella lettu­ ra di romanzi gialli, la terza sonnecchiava nel suo angolo sbadi­gliando con discrezione e rosicchiando lentamente cioccolata. Finita la giornata, le ‘Muse’ ritiravano la loro paga insieme alle comparse e, scese dal Parnaso, torna­vano a casa. L’ultima scena che girammo al Quirinale fu quel­ la – notturna – della morte di Luigi XV. L’attore, che indossava un’ampia ca­micia, era disteso sul letto dei Re d’Italia. La scena era difficile: perciò Luigi XV morì sedici volte di seguito. L’ultima morte fu giu­ dicata soddisfacente e definitiva. “Il Re è morto”, proclamò Orson Welles, “due minuti di silenzio”. Tutti obbedirono. Ma al secondo minuto, il cadavere starnutì. Lo scoppio di risa generale lo fece risusci­ tare davvero. Il riso di Orson Welles è co­me un sacco di grossi ciottoli rovesciato su di un foglio di latta. Ma il comico, nella vita, si mescola sempre al tra­ gico. La stes­sa notte, alla stessa ora, sul suo letto d’esi­lio, in Egitto, moriva l’ex re d’Italia Vitto­rio Ema­ nuele. Uscendo all’alba dal Quiri­nale, apprendemmo questa notizia dalle edizioni straordinarie, che già la diffonde­vano nel mondo. georges annenkov 1 Invitata da Welles, che avevo conosciuto e vedevo abbastanza spesso, andai in visita sul set di Caglio­ stro. La scena era in interni, alla Scalera, e poiché quel giorno facevano recitare anche i non attori, mi truccarono da contadinella e provai l’emozione del

‘si gira’ dato da Gregory Ratoff, il regista, anche se in effetti a dirigere era Welles, che anche lui eccezio­ nalmente faceva una sorta di passaggio davanti alla macchina da presa vestito in panni rustici e dimessi come i miei. Come regista, l’unica cosa che sentii dire a Ratoff più volte rivolto alle maestranze che sbraitavano senza dargli retta fu: “Silenzio, religioso silenzio!” con un forte accento russo. Di russi, del resto ce ne erano a iosa. Si era portato appresso oltre alla sua compagna un’accolita di amici che tentava­ no di dargli man forte contro le pretese di Orson. Ri­ cordo gli occhi stupendi, di un blu intenso, di Akim Tamiroff. C’era molta confusione, e anche un gran scontento perché Welles non rispettava gli orari ed era prepotente con la troupe, che in romanesco, e neppure troppo sottovoce, lo mandava a farsi bene­ dire. Sul set Welles subiva un netto sdoppiamento ri­ spetto alla persona che conoscevo nella vita monda­ na. Non stimava Ratoff, che credo gli fosse stato im­ posto dall’America, era chiaramente costretto a fare quel film in cui non credeva affatto, e si comportava di conseguenza. Il suo incontro con Lea Padovani avvenne quel giorno, al ristorante. Lei anziché strin­ gergli la mano accostò il palmo a quello della sua; e dall’espressione stupita che si dipinse sul volto di Welles tutti compresero che ne era rimasto rapito. franca faldini

Nel sontuoso salone dell’ex palazzo reale al Quiri­ nale, cortesemente messo a dispo­sizione dei cineasti americani dal governo italiano, sono state girate pa­ recchie scene del Cagliostro. L’interminabile galleria ve­trata fu subito trasformata in magazzino per il ma­ teriale stravagante e pittoresco e sorsero subito due bar, con le scritte cubi­tali “limone spremuto” e in­ numerevoli bottiglie. Alcuni curiosi autorizzati visita­ vano la galleria, guardando, con un sorri­so beato, le cortigiane di Luigi XV addenta­re i tramezzini al pro­ sciutto e fumare le Lucky Strike sotto la sfilata delle incisioni originali del Piranesi. Gli estranei sorrido­no sempre con beatitudine quando assi­stono alle ripre­ se di un film, anche se la scena è delle più dram­ matiche. Del resto, è una reazione altrettanto logica quanto quella di levarsi il cappello davanti a un carro funebre. Con un amichevole colpet­to sulla spalla Or­ son Welles disse a un vi­sitatore sorridente: “Adesso è ancora nul­la, tornate tra mezz’ora, ci saranno delle ragazze!”. Scandalizzato il visitatore scomparve. Ma una decina di minuti do­po, l’intendente del palazzo 11


intimò alla casa produttrice di cessare le riprese e di lasciare il Quirinale: il visitatore che aveva ricevuto il colpetto sulla spalla era il primo segretario del Presi­ dente della Repubblica. georges annenkov 1 Quando Cagliostro fu portato a termine, Ratoff mi disse che avrebbe fatto un film in Italia per Ale­ xander Korda, e che mi voleva come direttore di pro­ duzione. Era il periodo in cui Orson si mise a scrive­ re la sceneggiatura di Enrico IV, di Pirandello, che doveva essere girato in Italia. Era una storia molto bella, ma purtroppo il progetto non andò oltre la fase iniziale. Dopo qualche avventura senza importanza, Welles si innamorò dell’attrice Lea Padovani. L’ave­ va vista recitare a teatro, l’aveva aspettata all’uscita degli artisti ed era rimasto incantato vedendola in­ camminarsi sola sotto la pioggia. Orson abitava in una grande casa a Frascati. Lea vi si trasferì con la madre, la sorella, il cognato e varie altre persone. Welles, nonostante pagasse per tutti, era un ospite trattato con sufficienza. Mi disse: “Sapevo che un giorno mi sarebbe capitata una situazione del gene­ re, ma non avrei mai immaginato che potesse acca­ dermi da giovane”. Aveva circa trentacinque anni. alessandro tasca di cutò 1 2. “Un giorno Zavattini mi dice” Un giorno Zavattini mi dice: “È uscito un libro di Luigi Bartolini, leggilo, c’è da prendere il titolo e lo spunto”. Era Ladri di biciclette. Bartolini ci cede il titolo e il diritto a trarre dal libro l’idea di un film, per un certo compenso. Più tardi, a film ultimato, prote­ sterà violentemente. Quel soggetto mi appassionava personalmente. Solo in altri due soggetti ho creduto con uguale fermezza: Sciuscià e Umberto D.; su tutti gli altri ho nutrito, prima della realizzazione, dubbi. Mi metto a fare il giro dei produttori raccontando La­ dri di biciclette. Faccio tutte le parti io: piango, rido, mi commuovo, mi sbraccio. Niente. Allora penso: in Francia hanno fatto soldi con Sciuscià, ora me ne daranno per fare questo. Ma a Parigi, abbastanza ra­ gionevolmente, mi dicono: “Certo saremmo felici di acquistare il film, ma quando lei lo avrà fatto”. Allora vado a Londra e vivo una strana avventura. L’unico che s’interessa al soggetto è Gabriel Pascal. Mi offre dieci milioni in tutto. Ne ho abbastanza e torno in Italia. Gli uomini coraggiosi al punto di finanziare 12

il film li trovai in tre amici: Ercole Graziadei, Sergio Bernardi e il conte Cicogna di Milano. Furono tre soci straordinari. Mi lasciarono fare tutto ciò che volevo, mi dettero tutto il denaro che mi occorreva – pochis­ simo, peraltro. Per la verità, la storia si differenzia dal libro (che è davvero festoso, colorito e direi picaresco) in ma­ niera piuttosto radicale. Basti dire che il protagoni­ sta, il derubato, non è Bartolini ma un attacchino che gira disperatamente per Roma in cerca del suo veicolo. Da qui un altro ambiente, altri interessi, adatti ai miei mezzi e ai miei scopi. Perché allora abbiamo conservato questo titolo acquistando inoltre i diritti di libera riduzione dal libro? Per un doveroso riconoscimento a un insigne artista che con le sue vive pagine ha dato, sia pure indirettamente, motivi di ispirazione per il mio nuovo film. Il mio scopo, dicevo, è di rintracciare il drammatico nelle situazio­ ni quotidiane, il meraviglioso nella piccola cronaca, anzi nella piccolissima cronaca, considerata dai più come materia consunta. Che cos’è infatti il furto di una bicicletta, tutt’al­ tro che nuova e fiammante, per giunta? A Roma ne rubano ogni giorno un bel numero e nessuno se ne occupa, giacché nel bilancio del dare e avere di una città chi volete che si occupi di una bicicletta? Eppu­ re per molti, che non possiedono altro, che ci vanno al lavoro, che la tengono come l’unico sostegno nel vortice della vita cittadina, la perdita della bicicletta è un avvenimento importante, tragico, catastrofico. Perché pescare avventure straordinarie quando ciò che passa sotto i nostri occhi e che succede ai più sprovveduti di noi è così pieno di una reale angoscia? La letteratura ha scoperto da tempo questa dimen­ sione moderna che puntualizza le minime cose, gli stati d’animo considerati troppo comuni. Il cinema ha nella macchina da presa il mezzo più adatto per captarla. La sua sensibilità è di questa natura, e io stesso intendo così il tanto dibattuto realismo. Il quale non può essere, a parer mio, un semplice do­ cumento. vittorio de sica 1, 2 Il caro Zavattini ha completamente svisato il sen­ so picaresco itifallico, satirico, morale del mio libro: peggio, secondo me, per lui. La scommessa era su cosa sarebbe piaciuto di più al pubblico ‘ciclista’: o il mio libro picaresco o la riduzione di Zavattini. Io credo che nella paziente attesa dell’arrivo dei corri­ dori del Giro d’Italia i tifosi della ‘bici’, e, fra essi,


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coloro che già ricevettero, dai ladri, un omaggio a rovescio, avrebbero fatto bene a leggere il mio libro. Poi, naturalmente, a suo tempo poterono fare il con­ fronto con la versione zavattiniana. Del resto Zavatti­ ni aveva ragione: nel contratto di cessione dei diritti d’autore riguardanti la riduzione cinematografica io avevo dato, a lui, la facoltà anche di rovinare il mio libro. luigi bartolini 1 Incredibile ma vero. Noi Bartolini non lo cono­ scevamo bene. A un certo punto egli si inventò tutta una storia di diritto d’autore mettendola in piazza per dire che avrebbe chiesto il sequestro del film che, stando a quanto asseriva, aveva tradito gli intenti picareschi, morali, satirici del suo libro. Dunque il film avrebbe potuto nuocere alla sua reputazione. Gli suggerii di togliere il nome ma lui niente, continuò a insistere e a minacciare finché la società di produ­ zione, pur di levarselo di torno, accettò di dargli altre centocinquantamila lire in più rispetto alla centomila pattuite. cesare zavattini Si andava molto in giro. Si vedevano delle cose che piacevano; le si scriveva. Esiste un lungo dia­ rio di Ladri di biciclette, pubblicato da Zavattini da qualche parte. Ma il film era tutto scritto. Nasceva nella strada e nasceva a tavolino: entrambe le cose. Per esempio, l’episodio della Santona. Era una che stava sulla Nomentana, proprio di fronte a Villa Torlo­ nia. Ci siamo andati un sacco di volte; stavamo lì alle sedute, e poi abbiamo scritto la scena. Le sceneggia­ ture vanno scritte pensando al regista che le realizze­ rà in film. Ladri di biciclette era scritto per De Sica, pensando a De Sica. Chissà che ne avrebbe fatto un al­tro! D’altra parte è da questo contatto col regista, discutendo, e criticando, magari, la sua poetica, che il lavoro di sceneggiatura diventa più appassionante, meno mecca­nico. Eravamo in tanti sceneggiatori su ogni film, per­ ché non ci facevamo caso! Pensia­mo a Ladri di bi­ ciclette. Cominciò con Za­vattini e Amidei. Amidei si ritirò perché non trovava il film congeniale e allora chiamarono me. E l’abbiamo fatto noi, De Sica, Za­ vattini, Gerardo Guerrieri e io. Poi c’è il nome di Gherardo Ghe­rardi, un commediografo che io non ho mai conosciuto, e che era in elenco perché De Sica gli aveva det­to: “Il prossimo film lo facciamo insie­ me”, ed era morto proprio in quell’epoca. Poi c’era un vecchio amico per il quale doveva trovare una

scusa per fargli avere qualche soldo, Franci. Ci mise anche quello! Non ci si faceva minimamente caso. Zavattini diventò famoso un po’ eccessivamente, perché su Ladri di biciclette eravamo stati in tanti a lavorare e alla fine sembrava che l’avesse scritto solo lui, perché lui era quello che teorizzava, che si face­ va intervistare, che scriveva... Andavamo in giro per la città a verificare i luoghi dell’azione, poi a casa di Zavattini intorno a un tavolo, affiatatissimi. Io avevo già collaborato con Zavattini a un film che aveva vin­ to l’Oscar, Le mura di Malapaga di René Clément. Poi l’importanza e la fama di Zavattini erano cre­ sciute e questo doveva portare anche a una famosa rivalità tra lui e De Sica, perché Zavattini non cre­ deva alla supremazia assoluta del regista, e credeva fortemente nell’importanza dello sceneggiatore, e della sua in particolare. suso cecchi d’amico Di Ladri di biciclette io ricordo una delle prime sedute di sceneggiatura a cui inter­venni quasi per caso. C’erano Amidei e Zavattini. Poi naturalmente la cosa nau­fragò e Amidei uscì fuori, ma quello che mi impressionò molto, nella ventina di minuti in cui mi trattenni con loro fu Za­vattini, che diceva con il suo accento nor­dico: “Secondo me il protagonista deve uscire con uno sfilatino imbottito di mor­tadella incartato in un giornale su cui si legga in evidenza la parola ‘Unità’”. Nel­la stanza regnava un silenzio assoluto. De Sica dava le spalle a tutti e teneva lo sguardo concentrato nello spazio di cielo inquadrato dalla finestra. Amidei e Zavat­tini sedevano l’uno di fronte all’altro a un tavolo e io me ne stavo in un angolino pronto a portare le sigarette al primo che me le avesse chieste. Dopo un attimo, Amidei esplo­ se in un: “Porco..., ma che cazzo c’entra l’‘Unità’, caso mai ‘tà’ solamente!”. Seguì una lunga pausa di mutismo generale e poi si udì la voce di De Sica che diceva: “Miei buoni, secondo me ci vorrebbe una mela, una mela rossa, di quelle variopinte, metà rosse e metà sfumate, e lui che esce di casa adden­ tando questa mela!”. Be’, questa cosa mi scon­volse, perché cominciai a dirmi: guarda te che problemi, quando per sceneggiare si sviscerano questo tipo di dettagli, allora deve essere proprio una faccenda pazzesca! sergio leone Su Ladri di biciclette non c’è il mio nome. Posso anche riconoscere il mio lavoro su questo film, ma resta il fatto che il mio no­me non c’è e ufficialmente 13


non è un film mio. Avevo lavorato su Sciuscià, con Viola, Franci, De Sica, e per un po’ Pa­gliero. E con Zavattini, la cui collaborazio­ne era stata un po’ ester­ na perché Zavatti­ni allora faceva Fabiola. Così, quan­ do si decise di fare questo Ladri di biciclette tratto dal libro di Bartolini, e ci siamo messi a la­vorare, io ero un po’ irritato per la manca­ta partecipazione, per la mancata presen­za di Zavattini alle sedute di Sciu­ scià, e al­lora avevo pregato che fosse presente. E siamo andati avanti, tutti insieme, ma poi mi hanno infastidito certe cose sulle quali non ero d’accordo, ero un po’ malato, a letto, e li ho pregati di andarse­ ne. De Sica è sceso giù e ha trovato Rossellini, che gli ha detto che io avevo di questi scatti ma poi mi passava. Forse poi mi è anche pas­sata, ma molto più tardi, e così sul film non ho più lavorato. È interve­ nuta la Suso Cecchi per le prime scene, credo quelle del Monte di Pietà... Io in fondo avevo dei dubbi su tutto il film, nel senso che non trovavo ‘italiano’, non trovavo giusto in quel momento che un compagno, un co­munista, un operaio che vive in una bor­gata, e al quale rubano la bicicletta, non andasse alla sezio­ ne del partito e non gli trovassero una bicicletta. Si ignorava que­sto tipo di solidarietà, che allora c’era. Per­ché? Perché dietro, anche se è stato modi­ficato, restava il personaggio di Bartolini che se ne andava a cercare il ladro. sergio amidei Gli americani avevano offerto di finan­ziare Ladri di biciclette se ci mettevamo co­me attore protagonista, al posto di Mag­giorani, Cary Grant. Oggi ci fa ridere, ma allora si fece una gran riunione, e si ri­nunciò a questo grande sovvenzionamen­to. suso cecchi d’amico Gli interpreti li trovammo in un modo avventuro­ so. David O. Selznick aveva letto il soggetto di Ladri di biciclette ed era disposto a finanziarlo. Mi scrisse che il personaggio del padre avrebbe voluto si affidas­ se a Cary Grant. Mi caddero le braccia. Non perché io non stimassi Cary Grant, ma lo ritenevo assoluta­ mente inadatto a interpretare il ruolo di un operaio italiano. Osai rispondergli che se proprio esigeva un attore americano, avrei preferito Henry Fonda, che era almeno il più semplice e sincero fra gli attori americani. Mi rispose che con Henry Fonda non c’era niente da fare. Box office = 0. Mentre continuavo a fare provini a bambini bellissimi che però non cor­ rispondevano al volto che avrei voluto, si presentò una giornalista per intervistarmi. Si chiamava Lia­ 14

nella Carell, dal nome anglo-sassone ma italiana di nascita. Incominciò a farmi delle domande e mentre la guardavo osservavo il battere delle sue ciglia, gli occhi grandi e lucidi, il suo volto pallido. Le dissi a bruciapelo: “Vuol fare del cinema?”. Rimase a bocca aperta e non ebbe più voglia di farmi delle domande. vittorio de sica 1 Io ero andata ad intervistarlo. Avevo vinto un pre­ mio di poesia, mi sentivo una letterata e mi aveva­ no dato questo incarico. Sono arrivata e c’era una confusione terribile, uno stanzone pieno di ragazze. Sono andata dal direttore di produzione e gli ho det­ to: “Devo parlare con De Sica”, e quello mi ha detto: “Per carità signora, non se ne parla assolutamente perché De Sica non è riuscito a trovare la protagoni­ sta del film”. “Ma io ho un appuntamento e ci devo parlare”. È apparso De Sica e con molta decisione gli sono andata incontro e gli ho detto: “Senta, io sono qua”. Lui mi ha guardata e mi ha detto: “Ma questa è Maria”, e rivolgendosi agli altri: “Non vi sie­ te accorti che Maria è lei!”. Non se ne era accorto nessuno, ma tutti: “Sì, sì, certo è lei”, e io: “Senta no, no, io non lo faccio, io non sono un’attrice, sono una giornalista”. Lui mi ha presa la mano e mi ha detto: “Il cinema ha bisogno di lei, del suo volto. Io ho bisogno di lei”. Io conquistata, plagiata, ho detto: “Sì”. De Sica rivolto all’operatore gli dice: “Senti, domani le facciamo un provino e vediamo cosa ne esce”. lianella carell 1 Il grande problema fu il bambino. Me ne portaro­ no a centinaia: o erano bellini, romantici, lisciati, o erano incapaci. A un tratto nella fila dei genito­ri, vidi un operaio che teneva il figlioletto per mano. Gli feci segno di avanzare, lui venne innanzi esitante, so­ spingendo il bambino come in un piatto e sorridendo pieno di malinconica speranza. “No”, gli dissi, “sei tu che mi interessi, non il bam­bino”. Era Lamber­ to Maggiorani. Gli feci subito il provino; e come si muoveva, co­me si sedeva, come muoveva le mani, pie­ne di calli, mani di operaio, non di attore, tutto in lui era perfetto... Mi feci promette­re che dopo il film non avrebbe più pensa­to al cinema, sarebbe ritornato al suo la­voro. Mantenne la parola con one­ stà, ma poi ci furono i licenziamenti alla Breda, si trovò disoccupato e al cinema ritornò co­me all’ulti­ mo rifugio. Intanto però il bam­bino non si trovava. Disperato, decisi di cominciare ugualmente il film,


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nella cellula comunista dove il padre va a trovare un suo amico spazzino, perché lo aiuti a rintracciare la bicicletta che gli è stata rubata. Ero preoccupato perché avevo iniziato il film senza aver ancora tro­ vato il bambino. Dirigevo la scena degli operai che eseguono le prove d’una commediola musicale nel piccolo palcoscenico della cellula, quando vicino a me sentii qualcuno che respirava con fatica. Era un bambino che aveva senza dubbio le adenoidi, e che avendo corso per arrivare al luogo dove si stava girando un film, respirava affannosamente. Aveva un volto buffo, un naso all’insù e degli occhi tondi, grigio gialli, e una voce un po’ nasale quando mi disse come si chiamava: Enzo Stajola. “Questo me l’ha mandato San Gennaro”, pensai. Lo presi per un braccio e lo tenni stretto a me per paura che se ne andasse. Finita la scena, i miei collaboratori si mise­ ro alla ricerca dei genitori di Enzo Stajola. Il trio con lui fu completo. vittorio de sica 1 Nel 1948 facevo le elementari in una scuola nei paraggi del Colosseo, perché noi abitavamo da quelle parti. Un giorno fui seguito da una macchina. A quei tem­pi si raccomandava sempre ai ragazzini di stare attenti, di non dare confidenza agli sconosciuti. ’Sta macchina mi venne ap­presso fin sotto casa. Dentro c’era De Sica, ma io non sapevo chi fosse. Raccon­ tai il fatto a mia madre che aveva un banco di frut­ ta e pure a mio padre che ormai non faceva niente ma prima aveva lavorato alla Breda. La cosa finì lì. Però, ’sta mac­china ricomparve una settimana dopo, quando De Sica e questi del cinema, che avevano sparso per tutta Italia la voce di essere alla ricerca di un bambino per il film, vennero a fare la selezione proprio nel cortile del palazzo in cui abitavo io. Sarà stato un caso o l’avranno fatto di proposito? Ancora me lo chiedo. Perché, curioso come tutti i ragazzini, scesi a guar­dare cosa combinavano e appena De Sica mi scorse fece: “È lui!”. Io manco gli diedi retta, la mia smania erano i giochi mica il cinema! Mio padre infatti disse: “Provate­lo se volete, però non garanti­ sco che vo­glia farlo”. Così attaccammo con ’ste pro­ve. In ballottaggio c’ero io e un mio coeta­neo, Enzo Cerusico. Poiché era il figlio del regista Cerusico, in famiglia pensa­ vano che avrebbero preso lui. Invece scelsero me, e a Enzo regalarono una bicicletta. Quanto gliela invi­ diai, Dio sa se non avrei preferito quella al ruolo del film! Comun­que mi pagarono una bella cifra, cinque­

centomila lire. Mi rendevo conto che era un guada­ gno notevole, ma il fatto non mi consola­va perché, sebbene a De Sica gli andasse quello che facevo e non mi facesse mai ri­petere la scena più di un paio di volte, a girare non mi divertivo per niente, dato che dovevo imparare la parte, dovevo la­vorare di not­ te, dovevo camminare e cam­minare sempre fracico. enzo stajola

Sono stato aiuto regista di tanti. Co­minciai con Gallone, poi ho seguito Mario Bonnard, De Sica, Comencini, Giorgio Bianchi, Camerini, Soldati, in­ somma tutti i vecchi registi. Su Ladri di biciclette feci gratuitamente l’assistente e interpretai anche un ruolo piccolissimo ma notatissi­mo. Proprio a propo­ sito di questo ruolo debbo dire che vidi nascere in De Sica l’in­tuizione della scena che non era neppure nel copione. Eravamo a Porta Portese per girare la sequenza in cui il padre del bam­bino vaga per trovare la bicicletta. Io ave­vo sedici anni, facevo la seconda liceo, sta­vo a osservare De Sica, anzi me lo beve­ vo con gli occhi, quando a un tratto lui disse: “Ah, qui mi piacerebbe vedere una com­pagine di dieci, quindici preti rossi, quelli della Propaganda Fides, è venuto a piove­re e vorrei profittare di queste luci stupen­de”. Così sospese il lavoro e l’indomani si girò la scena favolosa anche dal punto di vista coreografi­ co di questi preti rossi che, sorpresi dall’acquazzone, si rifugiano sotto un cornicione e due parlano in te­ desco tra loro, tanto che il bambino, affascinato da quella strana lingua, si distrae e rimane ad ascoltarli. Ecco: io ero uno dei due preti rossi impegnati nella conversazione, con­versazione che poi in realtà consi­ steva nel recitare dei numeri perché il tedesco non lo parlavamo, mentre il resto del gruppo era formato dai miei compagni di classe che ero andato a reclutare quando De Sica aveva detto che sul momento non sapeva dove pescare quindici ragazzi imberbi. Nel fare recitare la gente presa dalla stra­da De Sica era veramente un mago, cioè era l’attore che tutti noi conosciamo che riproponeva se stesso, la sua maestria di attore, con una pazienza enorme, al neofi­ta a cui inculcava tutto. Recitava qualsiasi ruo­ lo. In questo ho preso molto da lui per­ché, senza avere la sua abilità recitativa, quando dirigo faccio tutti i ruoli per gli at­tori, dal vecchio al bambino, pre­ mettendo che non debbono cercare di imitarmi ma capire quello che voglio. Era estroso come lo sono tutte le persone geniali, De Sica per me era veramen­ 15


te un genio cinemato­grafico perché aveva una intui­ zione, una enorme sensibilità e soprattutto era un trascinatore. Ad esempio quando aveva di fronte un bambino lo plagiava, lo pla­smava finché il bambino non diventava naturalissimo e sembrava che avesse fat­to quel ruolo da sempre. sergio leone A Stajola, che in Ladri di biciclette doveva sin­ ghiozzare dopo che il padre è stato derubato, Vittorio diede ordine alla sarta di infilare dei mozziconi di si­ garette nei pantaloncini che avrebbe indossato. E al ciak, poiché il bambino non piangeva, gli disse con aria accusatoria: “Tu sei un brutto ciccarolo!”. “Non è vero”, ribatté lui immusonito. “Non è vero? Allora sei an­che un bugiardo! Vuotati le tasche!”. Stajola ubbidì, e appena uscirono i mozzi­coni, offeso, arrab­ biato, scoppiò in sin­ghiozzi. Naturalmente, appena ottenuto l’effetto desiderato, Vittorio faceva di tutto per rabbonirli, li invitava al bar, gliele da­va tutte vin­ te. maria mercader Per carità, tutta ’sta storia delle cicche che è sta­ ta raccontata dallo stesso De Sica e da tanti altri è una leggenda. Altro che cicche, per fare piange­ re c’erano dei pro­dotti. Ricordo che mi aprivano gli occhi e ci soffiavano dentro non so quali porche­rie che me li facevano bruciare da morire; poi, appena cominciavano a scendere le lacrime, dovevo fare le smorfie per fingere di piangere. Era con Maggiorani che adot­tavano il sistema delle provocazioni; gli ur­ lavano certe parolacce, certi insulti che mi vergogno persino a ripeterli. enzo stajola “Maggiorani, t’hanno rubato la bicicletta, fai come vuoi. Adesso pensaci tu”. E difatti quando si andava in scena io face­vo una prova, due, per entrare nel perso­ naggio, perché certamente quando anda­vo al lavoro non ero sempre Ricci Antonio, ma Lamberto Maggio­ rani, un altro. Se­nonché quando andavo in scena dopo una prova o due, “ciak, si gira”, e allora entravo nel personaggio e lavoravo. Le parole venivano fuori da sé, così, non quelle del copione. E De Sica con due, tre ciak, tirava fuori la scena. Un po’ l’espressione l’ho imparata da lui, certamente, non ero un attore profes­ sionista, però veniva spontanea; per esempio quando mi prendono e mi danno le botte nel finale. E allora stavo veramente nel personaggio e sentivo la scena. Dopo il film ho ripreso il mio posto di la­voro alla Breda. Nel 1949 ci sono stati i li­cenziamenti in 16

blocco e ci sono capitato dentro anch’io fra i primi. Allora mi sono messo a fare il muratore. Un giorno arrivò una macchina americana e domandaro­no di me, perché in America il film aveva avuto un grande successo. Insomma vole­vano vedere che cosa faceva questo attore in Italia. Vennero alla palazzina dove sta­vo lavorando e mi chiamarono. Io scesi, mi guar­ darono e dissero: “Ma come, un grande attore fa il muratore?”. E io: “Che ne so che sono attore”, ri­ spondo, “lo dite voi, ma io non so niente”. Dopo Ladri di bi­ciclette non avevo preso le cose sul serio. E infatti interviste sopra interviste, tutti i giorni avevo qui gli americani perché era­no meravi­ gliati, era un via vai. Mi ricordo che il “Time Life” riportava le interviste su due, tre pagine, e che incisi anche delle scenette per gli italo-americani. Quan­ do ci fu l’anteprima di Ladri di biciclette fui invi­tato come protagonista. Caricai tutti i miei amici su un camion e siamo andati al Barberini dove proiettavano il film. I re­gisti e i giornalisti mi facevano dei compli­ menti: “Bravo Maggiorani!”. “Eh no, bravo il sor Vit­ torio”, rispondevo io. “Macché Vittorio”, dicevano, “la parte è più tua che di Vittorio”, perché si vedeva che era un personaggio semplice, naturale. Non vo­ glio dire questo perché mi voglio vantare, sono parole che hanno detto gli altri. lamberto maggiorani 1 Non ho mai avuto il coraggio di vede­re in pubbli­ co i miei film. II pubblico mi riempie di inquietudine, temo sempre che non riesca a sopportare la lunghez­ za nor­male del film; sono io invece che non la sop­ porto e vorrei che finisse prima, che le scene fossero più corte. La sera della prima di Ladri di biciclette addirittura mi nascosi agli amici; ma a una certa ora non regge­vo più, mi misi in strada, mi avvicinai al­ l’ingresso del Metropolitan di Roma. Co­noscevo il direttore e a bassa voce, come un ladro, gli doman­ dai come reagiva il pubblico. Stava per risponder­ mi quando uscì dalla sala un operaio con la moglie e quattro figli. Vide il direttore, disse: “Ari­dateci li sordi e avvertite sul cartellone le famiglie numerose quanno er film è una fregatura”. Poi presentai il film a Parigi. C’ero andato per venderlo, contando sul ri­ cordo di Sciuscià. Due amici francesi ave­vano già ve­ duto Ladri di biciclette, Georges Charensol e Jacques Becker, e il primo mi consigliò di of­frire una serata agli artisti parigini. Vide che esitavo, intimorito (era la prima volta che mi recavo all’estero in funzione di au­tore), disse: “Lo ritengo un’opera d’arte”.


L’avventurosa storia del cinema italiano

Fu la serata più emozionante della mia vi­ta. La sala Pleyel era gremita da tremila persone, uomini di letteratura e di cine­ma, tutta la Parigi intellettuale. Come se non bastasse, dovetti parlare al pubblico, per la prima volta nella mia vita; e parla­re in fran­ cese! Ma dopo la proiezione fu il trionfo. René Clair mi abbracciò, André Gide l’indomani mi mandò un libro con una dedica che faceva onore, più che a me, al cinema come arte. Ladri di biciclette ebbe cin­ que Nastri d’Argento e cinque pre­mi internazionali e guadagnò abbastanza denaro per pagare i debiti di Sciuscià. Ma ormai avevo capito che per vivere, e soste­nere il peso di nuovi film, avrei dovuto fa­re l’attore in film altrui. vittorio de sica 1 Tutta la poesia delle migliori pagine e scene descritte nel mio libro è andata a farsi friggere nel film omonimo. Caro Zavattini, tu sei stato una volta soltanto a Porta Portese, per cui hai descritto ladri, ambienti, scene che poco conosci... Per tua regola i ladri sono molto affezionati alla loro pelle e odia­ no le occasioni di reumatizzarsi. Reumatizzati dalle gelide e umide celle delle galere, quando sortono hanno dell’acqua e dell’umidità una paura matta. Cosicché non appena piove essi fan rapido fagotto e, in cinque minuti, son fuori d’ogni pista: a riparo di grotte, sottoponti, osterie, ridotti, bordelli ecc. ecc. Gridano “fine” quando sta per giungere la polizia. Ma gridano anche “piove, governo ladro!” quando già il cielo abbia dato inizio alla acquorea battaglia. Se la squagliano tutti insieme e con una rapidità, direi, un ordine, un minimo indispensabile di passi e movi­ menti degno veramente d’un grande regista. Invece De Sica non è un grande regista. L’hanno montato da anni, ma, secondo me, è più un portato, più uno che ha saputo farsi portare, che non un genio del cinema. E non essendo un grande regista ci ha dato le scene inverosimili, del mercato dei ladri a Porta Portese mentre fulmina e tuona: ladri che, in forzate comparse pagate dal De Sica, se ne stanno immobili a miccheggiare sotto la pioggia. luigi bartolini 1 ­ In Italia si ripresentò il film con un esito migliore. Mi recai a New York per ritirare il premio dei critici, e tutti gli artisti italiani presenti a New York vollero offrirmi un banchetto in un ristorante italiano, dopo una manifestazione entusiasta in un teatro di Brook­ lyn. Alla fine del pranzo, ogni artista volle dedicarmi una canzone. Erano quasi tutti cantanti di music-hall.

Terminavano il loro pezzo e venivano da me a strin­ germi la mano, e darmi un bacio sulle gote. Prima della fine della serata, si alzò una donna di sessanta e più anni. Cantò due canzoni napoletane: Mmiez’ ’o grano e ’A cartulina ’e Napule. Era Gilda Mignonette, che aveva per tanti anni portato a tutti i napoletani d’America la voce, il cuore di Napoli. Fui io ad andare da lei, alla fine della sua presentazione, per baciarle le mani. Povera Mignonette, anni dopo volle morire a Napoli, e mentre il piroscafo entrava nel porto di Na­ poli la portarono alla prua. Nel guardare la sua Napoli che si avvicinava, morì. vittorio de sica In quel momento, un tipo di narrazio­ne di quel genere e certi punti del racconto erano giudicati assolutamente impropri allo spettacolo. Quindi, la carica di rottura che il film aveva – che l’idea del film ave­va – consisteva all’inizio senza dubbio nel­ l’affrontare un tema, e dei modi di un te­ma, spet­ tacolarmente giudicati poco vivi e poco sicuri. Io ri­ cordo che ebbi anche fiere avversioni a questo film, all’idea di questo film, che trovò invece subito in De Sica la piena adesione: mentre invece non la trovò in altri che mi stavano intorno, per­ché pareva troppo privo di quegli elementi di spettacolo e di tensione e vi fosse una certa gracilità nel tema. E invece era pro­prio il contrario di quello che io personal­mente sentivo: era la mia tesi, era il mio modo, era la mia idea fissa che non esi­stesse, né in Ladri di biciclette né in altri progetti, una gracilità. Tanto è vero che se oggi esamino Ladri di biciclette lo trovo non abba­ stanza gracile. Posso perfino giungere a questo, che può parere un pa­radosso, dato l’esito del film: il cam­ mino dopo Ladri di biciclette era di trovare anco­ra una maggiore gracilità; perché in Ladri di biciclette ci sono malgrado tutto delle in­crostazioni di natura spettacolare, un po’ convenzionali. Ci sono, ancora, dei patti con il pubblico. Non è gracile – ho fatto sempre questo esempio – un uomo che va a comprare un paio di scarpe: il segreto sta nell’aprire questo fatto in tutte le sue componenti che noi non siamo soliti, non siamo ca­ paci di vedere. In Ladri di biciclette, anche se dopo ho cercato di combinarlo spettacolarmen­te in modo che questa gracilità non fosse troppo rischiosa, lo spirito che muoveva il film era proprio il vedere un padre che la mattina si alza, piglia per mano un bam­ bino, lo mette sulla canna della bicicletta e va al lavoro: e questo poteva essere un grosso fatto. Anzi 17


direi che Ladri di biciclet­te, così come è, è un ro­ manzo d’appendi­ce, addirittura. Per la mia mentalità at­tuale, per le mie prospettive, per il mio go­mitolo lo considero un romanzo d’appen­dice, come considero un romanzo d’ap­pendice Sciuscià. Io, quindi, non sono lega­to a quei film se non come tappa, per quello che significano come aspirazione di rottura in quel dato momento: coerentemente (o se fossi coerente), dovrei cercare una rottura molto ma molto più avan­ zata... cesare zavattini 1 3. Dieci mesi tra i pescatori Sono certamente uno dei primi ad aver visto Roma città aperta, perché Rossel­lini lo presentò in una saletta del ministe­ro, appena montato. Eravamo circa venti persone. Ricordo che, alla famosa scena in cui la Magnani muore, fui il pri­mo a far partire gli applausi, perché ero veramente entusiasmato, ed era ciò che tutti provavamo. In quel momento persi­ no una cosa diversa, ma che avesse corri­sposto a quella, ci avrebbe fatto saltare sulle poltrone. Perché Roma città aperta, che ho in seguito rivisto, è un film mode­sto, ma che ha tuttavia il merito di raffor­zare quella carica che in quel tempo tutti possedevamo. Perché allora ci si esaltava per una bandiera al ven­ to, per una can­nonata che colpiva nel segno. Paisà, che è un film piuttosto discontinuo, nell’insieme non regge il confronto malgrado uno o due passaggi mol­ to belli, se lo si giudica oggi come un’opera d’arte compiuta. Sciu­scià, al contrario, mi piacque molto subito, e avevo già amato il De Sica di I bambini ci guardano. Seguivo già De Sica con molto interesse e ammirazione; era il momento in cui io non lavoravo. Non ho lavorato per parecchi anni, perché i diversi progetti che sottoponevo ai produttori fallivano tut­ ti. Il movimento neorealista continua­va ma mi sem­ brava che la ricerca legitti­ma di certi temi, di una posizione morale nei confronti della vita, passassero silen­ziosamente a compromessi di comodo. Come ad esempio Vivere in pace e le diverse commedie ‘sotto il sole di Roma’, almeno quando li si vedono oggi, alla luce della trasformazione che hanno subito le cose. luchino visconti 2 Si dice di Visconti tutto il male possibile, e da alcuni è considerato un orgoglioso e un pazzo; ma il ‘si dice’ di chi invidia o di chi non sa apprezzare il 18

suo talento, dei produttori pavidi o poco intelligen­ ti che vorrebbero fare i film d’arte a tanto il metro, questo ‘si dice’ non tiene conto che le battaglie del cinema sono state sempre vinte soltanto dai pazzi, dai testardi, dagli orgogliosi. A questi pazzi, cui po­ chissimi hanno creduto e fatto credito, la cinemato­ grafia italiana deve i suoi più autentici successi; da Ossessione, per nulla rinsavito dai sei anni trascorsi lontani dal cinema, sta ora girando in un paesino del­ la Sicilia La terra trema. Dicono: “Sembra che Lu­ chino Visconti stia facendo un bel film”. Ma intanto, comodamente seduti in poltrona, stanno a guardare il trapezista. Se riesce, lo hanno detto che era un grande artista; se ci rimette l’osso del collo, era un pazzo, poveretto. E in cuor loro son contenti di aver ben speso i pochi soldi del biglietto. Nella cinematografia italiana Luchino Visconti rimane il caso di un irregolare di genio, refrattario alle regole, alla irreggimentazione, al controllo quasi sempre sordido, strozzinesco, incomprensivo del ca­ pitalista. Intransigente, nemico del compromesso, ha preferito una grossa esperienza teatrale a un cinema fatto patteggiando. Ha preferito aspettare, come il campione che solo con speciali condizioni atmosfe­ riche può tentare di migliorare il proprio record. Ben consapevole che Ossessione è un’esperienza artisti­ ca chiusa, Luchino Visconti si è accinto alla realizza­ zione del suo nuovo film con criteri del tutto nuovi, che lo pongono all’avanguardia di quel neorealismo italiano che ha già tolto parecchie penne alla gloria di Hollywood. mario serandrei 1 Le ragioni di La terra trema riguardavano anche, in fondo, questa perplessità che aumentava in me di giorno in giorno, ve­dendo che il movimento tralignava, per­deva il suo prestigio. Donde, a un certo punto, il bisogno di ritornare veramente alle origini, alla verità pura, senza alcun inganno. Senza montaggio prestabi­ lito, senza veri attori, affidandosi realmente al­la realtà e alla verità. E La terra trema fu anche un’impresa dif­ ficile, che conobbe degli alti e bassi, momenti di crisi, battute d’arresto, ma che siamo riusciti a condur­re fino in fondo. Ricordo che, al tempo di La terra trema, la mia coscienza professionale mi diceva: “Devi farlo, devi arrivare alla fine e non devi fare alcuna conces­ sione. Devi al contrario dimostrare che è la strada giu­ sta, e che le altre sono ormai vie sbagliate”. Dopo la liberazione mi stavano a cuore temi con caratteri attualissimi. In realtà, lavorai allora molto


L’avventurosa storia del cinema italiano

per il teatro e niente affatto per il cinema. Tuttavia, non è che non pensassi al cinema. Con Mario Alica­ ta e al­tri collaboratori scrivemmo due o tre sog­getti: uno era ispirato, ad esempio, dalla famosa pensione Jaccarino, tenuta dai torturatori fascisti durante l’oc­ cupazione tedesca di Roma e dove anch’io mi trovai prigioniero. Scrivemmo una storia che si chiamava Pensione Oltremare: un film sul­la tortura e sull’ucci­ sione di alcuni parti­giani. Poi scrivemmo altri sogget­ ti, due o tre, ma nessuno fu accettato dai produtto­ri. Nessuno voleva mettere il dito nella piaga. La pru­ denza dei nostri produttori non si smentisce mai, in qualunque mo­mento della storia del cinema italiano. Dovevano passare anni prima che mi mettessi al la­ voro per La terra trema. Ero tornato a Verga: avrei voluto girare I Mala­voglia. Ma intervennero la man­ canza di mezzi, la mancanza di soldi, una serie di vicissitudini complesse. Riuscii a fare un episodio unico: la storia di una famiglia di pescatori – come I Malavoglia – ma con un’angolazione diversa rispetto a Verga. luchino visconti 2 Avevo conosciuto Visconti a qualche prima di teatro, cominciavo a entrare in questo mondo, ma non avevo smesso con la mia intenzione di rag­ giungere il cine­matografo, per cui telefonai a Bar­ baro, che insegnava al Centro Sperimentale, e gli dissi che avrei voluto iscrivermi. Umberto Barba­ro fu molto gentile, mi diede un appunta­mento e mi spiegò cosa fare. “Preparati un testo per l’ammis­ sione, un esempio di trat­tamento cinematografi­ co”. E io scelsi I Ma­lavoglia. Stranissima coinci­ denza, perché Visconti stava preparando proprio La terra trema, di cui il primo episodio, l’unico che poi ha potuto girare, era tratto da I Mala­voglia. E Visconti mi offrì di andare con lui, al posto di Achille Millo, che doveva an­darci lui ma che ave­ va preferito continua­re a fare il teatro. A Viscon­ ti aveva parlato di me Patroni Griffi, e Visconti, che aveva questo gusto della sfida continua, della provocazione continua, e in questo rien­trava il suo piacere di ‘inventarsi’ i colla­boratori, mi chiamò in questo piccolissimo gruppo di gente che non aveva mai fatto cinema, tranne macchinisti e elettricisti e il fonico. Il resto eravamo tutti debuttanti: io, Zeffirelli, Aldo l’operatore... E finimmo così ad Aci Trezza per una decina di mesi, di cui sei-sette di riprese. La trilogia di Vi­sconti si fermò al primo episodio, per ra­gioni di soldi. Gli altri due doveva­

no ri­guardare uno la terra, le lotte dei contadi­ni, e l’altro una miniera di zolfo. francesco rosi 1 Conobbi Aldo Graziati nel 1947. Stavo lavorando in teatro a Roma, e avevo fatto Delitto e castigo. Co­ munque una sera salì sul palcoscenico un signore che io non co­noscevo, e mi parlò con tanto entusiasmo dello spettacolo, pregandomi di lasciargli fotografare alcune situazioni della com­media. Io gli domandai chi fosse. Mi rispo­se che era un fotografo francese, che si chiamava “Aldò”. Il suo nome non mi era nuo­ vo: avevo sentito parlare di “Aldò” co­me fotografo sia di ritratti che cinemato­grafico. E gli dissi: “Venga pure, faccia quello che vuole”. Chiesi agli attori se vo­levano posare per questo fotografo france­se, e gli attori dissero di sì. Abituati ai nor­mali fotografi di scena, credevano che le cose si sarebbero concluse in quindici, venti minuti: Aldo stette tre-quattro ore a fotografare la commedia. E gli attori era­no esterrefat­ ti, io non ero esterrefatto e co­minciavo ad apprezzare Aldo Graziati. Quando alcuni giorni dopo Aldo venne a portarmi il risultato delle sue fotografie, io ne fui entusiasta, perché Aldo aveva capi­to esattamente quello che io avevo voluto fare sulla scena e l’aveva riprodotto con fedeltà assoluta. Mi ricordo che, vedendo le fo­ tografie, gli dissi: “Lei sarà il mio ope­ratore nel mio prossimo film”. Qualunque capo operatore, già per­ fettamente esperto, si sarebbe trovato, nel girare La terra tre­ma, davanti a difficoltà quasi insormonta­ bili. Io vidi Aldo risolvere ogni situazione, la più dif­ ficile, la più disperata. Chi cono­sce il film sa di che cosa parlo, sa di certi interni non più vasti di due metri per tre, sa di case con soffitti molto bassi, sa della difficoltà di certe riprese in mare, sulle bar­ che, nella vita reale dei pescatori; sa di difficoltà di certe riprese di tempesta, di certe riprese notturne. luchino visconti 1 Nel caso di La terra trema, si trattava di una pic­ cola troupe attrezzata inizialmente per fare un docu­ mentario. All’inizio, non avevamo capito le intenzioni di Visconti. Ce ne siamo accorti piano piano, quando il documentario ha cominciato a scivolare verso il film di finzione; lo si capiva dalle scelte dei personaggi e degli ambienti. Ma la troupe era la ‘mini-troupe’ – si direbbe oggi – di un documentario e i soldi erano po­ chissimi. Occorrevano più tempo per le riprese, più tempo per le luci, più tempo per tutto, il triplo o il 19


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