CinemazeroNotizie Gennaio2018

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€ 1,00 mensile di cultura cinematografica

Rotterdam: un ottimo approdo per il cinema indie

Si chiude, tra le contestazioni, l’epoca di Dieter Kosslich

Notte italiana, trent’anni dopo

Al Torino Film Festival applausi commossi per l’omaggio a Mazzacurati

“Uomini cioè, non cose e luoghi” Un grande film d’esordio per un grande regista

Un film americano?

Paolo Virzì racconta Ella e John, in sala dal 18 gennaio

Alla ricerca di qualcosa di nuovo

IDFA - La capitale mondiale del documentario, tra luci e ombre

2018 numero 1 anno XXXVIII

Quo vadis Berlinale?

18

Gennaio

Da anni il festival mostra il meglio della produzione indipendente

Il cinema come nuova palestra della memoria

Cinemazero e Comune di Pordenone insieme per aiutare a ricordare spedizione in abbonamento postale L. 662/96 art. 2 comma 20/b filiale di pordenone - pubblicità inferiore al 45% contiene i.p. in caso di mancato recapito inviare al CMP/CPO di Pordenone per la restituzione al mittente previo pagamento resi


Rotterdam, un ottimo approdo per il cinema indipendente!

Andrea Crozzoli

Editoriale

Nei Paesi Bassi un interessante “porto” in cui fa tappa il meglio del cinema indipendente

Si svolgerà dal 24 gennaio al 4 febbraio 2018 la 47esima edizione dell'IFFR (ovvero l’International Film Festival di Rotterdam), una vetrina che, purtroppo, viene quasi totalmente ignorata nel nostro Paese, quando in realtà è uno dei pochi festival che propone qualcosa di realmente diverso e che ormai è considerato, all’estero, uno dei più grandi festival del cinema e dell'industria al mondo. Durante dodici giorni, infatti, sono centinaia i registi che presentano il loro lavoro a un vasto pubblico che ormai va ben oltre i 300.000 biglietti staccati, per una selezione ufficiale che supera i 250 lungometraggi e quasi altrettanti cortometraggi da oltre 50 paesi. Il 28 giugno 1972 erano solamente 17 le persone che parteciparono alla serata inaugurale della prima edizione dell’International Film Rotterdam fondato e diretto, fino alla sua morte prematura nel 1988, da Hubert Bals, cinefilo dalla solida reputazione di impegno e sostegno al cinema indipendente. Dopo la morte di Bals si sono succeduti alla direzione Anne Head (1989), Marco Müller (1990-1991), Emile Fallaux (1992-1996), Simon Field (1996-2004), Sandra den Hamer (2000-2007), Rutger Wolfson (2008-2015 ) e l’attuale Bero Beyer (dal 2015) che lo hanno fatto diventare uno dei più grandi festival del cinema al mondo, pur mantenendo sempre la sua attenzione sul cinema innovativo e borderline, sulle opere prime o seconde e sulla presentazione di contenuti multimediali d'avanguardia. Il tutto incoraggiando e stimolando sia cineasti emergenti che affermati attraverso un’azione, giorno dopo giorno da quel 1972, di cura e attenzione per il film, onde farlo arrivare il più possibile ad un vasto pubblico. «Crediamo nel potere del cinema di far aumentare - dicono gli organizzatori - la nostra comprensione della società attuale sempre più complessa. Confidiamo nel potenziale, che esprime la settima arte, per infondere cambiamenti sociali positivi. Come festival crediamo di rappresentare la forza e l'impatto di film e registi indipendenti. Stimoliamo, istruiamo, finanziamo, distribuiamo e supportiamo i registi attraverso Hubert Bals Fund (HBF), il nostro mercato annuale di coproduzione (CineMart) e le numerose attività di formazione fornite ai cineasti attraverso il RotterdamLab.» L’attuale direttore Bero Beyer, che è stato anche produttore indipendente di Atlantic di Jan-Willem van Ewijk e del dramma palestinese candidato all'Oscar Paradise Now, vuole sviluppare ulteriormente l'iniziativa IFFR Live per farla diventare un segno ancora più forte di un nuovo tipo di distribuzione, in cui i festival svolgono un ruolo chiave. Il progetto ha coinvolto i film in streaming in 40 cinema in tutta Europa, fra i quali anche Cinemazero. Ora intendono espandere questo concetto, rendendolo quasi un mini-festival nel festival in cui il pubblico può partecipare in modo interattivo da ovunque si trovi. Un modo per ribadire l'importanza dei festival cinematografici nel paesaggio della distribuzione europea, anche lanciando piattaforme in alternativa alla distribuzione tradizionale. «L’iniziativa dovrebbe quasi dare la sensazione di essere fisicamente a Rotterdam - ha dichiarato Beyer - questo per ampliare il livello di interattività. Vogliamo avere una comunicazione bidirezionale. Cercheremo di collaborare con festival che la pensano allo stesso modo, per implementare questa distribuzione e per celebrare i film in un ambiente da festival.» Durante le 46 edizioni passate l’Italia è salita sul podio dei premiati solo due volte: nel 1998 con Giro di lune tra terra e mare di Giuseppe M. Gaudino e nel 2004 con Nemmeno il destino di Daniele Gaglianone. Vedremo come andrà in questo 2018!

In copertina Giulia Boschi, coprotagonista di Notte italiana film d’esordio di Carlo Mazzacurati, al quale Cinemazero dedicherà un omaggio.

cinemazeronotizie mensile di informazione cinematografica Gennaio 2018, n. 1 anno XXXVII ISSN 2533-1655

Direttore Responsabile Andrea Crozzoli Comitato di redazione Piero Colussi Riccardo Costantini Marco Fortunato Sabatino Landi Tommaso Lessio Silvia Moras Maurizio Solidoro Collaboratori Lorenzo Codelli Luciano De Giusti Manuela Morana Elisabetta Pieretto Segretaria di redazione Elena d’Inca Direzione, redazione, amministrazione Via Mazzini, 2 33170 Pordenone, Tel. 0434.520404 Fax 0434.522603 Cassa: 0434-520527 e-mail: cinemazero@cinemazero.it http//www.cinemazero.it Progetto grafico Patrizio A. De Mattio [DM+B&Associati] - Pn Composizione e Fotoliti Cinemazero - Pn Pellicole e Stampa Sincromia - Roveredo in Piano Abbonamenti Italia E. 10,00 Estero E. 14,00 Registrazione Tribunale di Pordenone N. 168 del 3/6/1981 Questo periodico è iscritto alla: Unione Italiana Stampa Periodica


Quo vadis Berlinale?

Walter Rauhe

Quando nel maggio del 2001 Dieter Kosslick venne nominato nuovo direttore del Festival del cinema di Berlino, meglio noto sotto la sua più amichevole abbreviazione di “Berlinale“, il sollievo fra gli appassionati e addetti ai lavori fu enorme. Il tradizionale appuntamento cinematografico d’inizio anno aveva urgentemente bisogno di un lifting, di un rinnovamento generazionale e programmatico in grado di accentuarne l’immagine, rafforzarne la competitività in rapporto agli altri festival di “serie A“ come Venezia, Cannes o Locarno, di renderne più professionale la sua fiera “Film Market“ e – last but not least – di attrarre sul tappeto rosso alla Potsdamer Platz più star di grande richiamo e impatto mediatico. Compiti che Dieter Kosslick, allora 53enne e con alle spalle nove anni d’esperienza in veste di presidente del Filmboard del Nord-Reno Westfalia (la più popolosa ed influente regione tedesca), riuscì inizialmente a giostrare con maestria e anche con un notevole successo in termini di pubblico (334mila biglietti venduti), finanze (24 milioni di euro di sovvenzioni pubbliche) e interesse (3.700 giornalisti e 17.333 agenti accreditati). Ma dietro all’abbaglio delle grandi cifre, del tappetto rosso lievitato a proporzioni oceaniche di fronte al Palazzo del Cinema con un capienza di 1800 posti (peraltro scomodi e poco adatti alle proiezioni dal momento che nel resto dell’anno la sala viene utilizzata come teatro per musical) e alle tante, forse troppe sezioni collaterali (da quella del cinema gastronomico a quella del mercato delle co-produzioni) il bilancio dell’era Kosslick è controverso. Lo scorso mese di novembre ha fatto così molto scalpore un appello firmato da 79 fra registi, attori e addetti ai lavori tedeschi a favore di un rilancio del festival e di un cambio di timone ai suoi vertici. Nella lettera aperta sottoscritta da personalità come Edgar Reitz, Fatih Akin o Margarethe von Trotta, viene lamentata la perdità d’identità e autorevolezza del festival berlinese che a confronto con Venezia, Cannes, Toronto o Locarno avrebbe perso a qualità e importanza. La scadenza del contratto di Dieter Kosslick nel 2019 alla guida della Berlinale, offrirebbe l’opportunità di un rilancio della principale kermesse cinematografica tedesca. I firmatari dell’appello esigono così dalla ministra della cultura Monika Grütters una discussione trasparente e aperta per la nomina del sucessore di Kosslick alla direzione del festival e la ricerca di una personalità che non provenga dagli ambienti politici e burocratici della sovvenzione cinematografica (come appunto Kosslick), bensì da quelli artisticamente e culturalmente più affini della cinematografia stessa. L’appello non ha mancato di sollevare un polverone sulle pagine della cronaca culturale in Germania e ha finito per spingere lo stesso direttore della Berlinale a rinunciare ad un’ennesima ricandidatura alla direzione oltre il 2019. La principale critica che gli viene mossa dai firmatari dell’appello è l’ormai mediocre qualità di molti film presentati nel concorso ufficiale del festival e la moltiplicazione inflazionaria delle sezioni e sotto sezioni dell’appuntamento cinematografico di febbraio che ha finito per rendere fin troppo generica la selezioni dei film presentati a scapito soprattutto di alcune sezioni un tempo prestigioso e inconfondibili come quella del “FORUM des jungen Films“ o del “Kinderfilm“, il festival del cinema per bambini e per giovani che sotto Dieter Kosslick è stata banalmente ribatezzato come “Generation“. Ed è davvero utile ed indispensabile che un festival si attrezzi anche di una sorta di breve accademia cinematografica in formato concetrato come quella del “Talent Campus“? E ancora. Al di là delle esclusive e mondane cene preparate da cuochi di grido al termine delle proiezioni, che senso ha una serzione come quella del “Cinema culinario“?. Il dibattito attorno al senso del festival, l’imminente scadenza del mandato di Dieter Kosslick e il cambio di staffetta anche al vertice della rinomata sezione “Panorama“ offrono davvero l’occasione di un profondo rinnovamento della Berlinale, ma possono anche rappresentare un rischio.

Auf wiedersehen Dieter

Si chiude, tra le contestazioni, l’epoca di Dieter Kosslich che lascia la direzione nel 2019


Al 35 Torino Film Festival folla e applausi commossi

Lorenzo Codelli

”L’applauso più lungo e affettuoso”

Notte italiana 30 anni dopo «Dàaa-Dàradàra-Dàradàraràaa....» Quel languido, inquietante refrain alla fisarmonica di Fiorenzo Carpi, ripetuto con infinite variazioni, continua a trascinarci in una delle più vorticose cavalcate nel Far West. In Polesine cioè. L’opera prima del nostro carissimo amico padovano Carlo Mazzacurati assume, trent’anni dopo, toni biblici. Alla proiezione organizzata al 35 Torino Film Festival di Notte italiana assistevano i due produttori, esordienti nel 1987, Nanni Moretti e Angelo Barbagallo. Marina Zangirolami Mazzacurati, assistente alla regia debuttante all’epoca. Il co-sceneggiatore Franco Bernini, lui stesso alle prime armi. E il protagonista Marco Messeri, l’unico con una discreta carriera alle spalle. Prima della proiezione sullo schermo appare la foto riprodotta qui sotto. Nanni tira fuori dalla tasca un vecchio foglietto da cui legge i buonissimi propositi della Sacher Film che aveva fondato quell’anno assieme a Barbagallo. “Intendiamo produrre film che vorremmo vedere al cinema... Io mi ritenevo un regista fortunato e volevo investire in opere di esordienti, soprattutto dirette da persone interessanti. Persone come Carlo Mazzacurati”. Messeri, il toscanaccio, racconta alcuni esilaranti episodi con Carlo, e commenta la foto:“Sembriamo i quattro moschettieri, ma con una variante curiosa: Nanni è D’Artagnan; gli altri, io, Barbagallo e Mazzacurati siamo tre Porthos, cioè D’Artagnan lavorava di fioretto e noi si lavorava di forchetta!”. Barbagallo ricorda l’assoluta ignoranza delle regole che sovrintese alla creazione del film. Marina Mazzacurati è contenta che il trentennale si festeggi a Torino: “Ove il Po è ancora un giovanotto esuberante a contrasto con la calma della foce”. Bernini riflette: “Sembrava che l’Italia cambiasse, e invece no”. Partono le immagini, le note di Carpi, il prologo in bianco e nero, il rifiuto garbato dell’avvocaticchio Messeri di difendere un frodatore, l’amico d’infanzia che lo coinvolge in una vastissima operazione di espropri lungo la Laguna Veneta... Notare che i due principali tramatori sono interpretati da due colonne del teatro. Tino Carraro, vate strehleriano-brechtiano, incarna un assessore pseudo umanista, mentre Memé Perlini, l’istrione d’avanguardia, se la gode nel fare un architetto diabolicamente ambiguo. Famelico cinéphile, Carlo Mazzacurati s’ispirava, direi, per l’intrigo politico-finanziario a invasi idrici comunicanti a Chinatown di Roman Polanski; e per l’epos romantico emanante dal moribondo delta a Fango sulle stelle di Elia Kazan. Nel suo esaltante report dalla Settimana della Critica della Mostra di Venezia (Repubblica, 1/9/1987) scriveva Alberto Farassino : “Il film che ha avuto finora in Sala Grande l’applauso più lungo e affettuoso... Un film senza errori che dà più di quel che promette”. Il sottoscritto invece (Positif, novembre 1988) paragonava il “mondo piccolo” composto da Carlo a quelli cari a Giovanni Guareschi e Pietro Germi; e la sua fauna di personaggi impagabili, ciascuno accuratamente cesellato, cagnolone compreso, alle commedie corali di Frank Capra. Applauso corale, commosso da parte del giovane pubblico torinese, prolungatissimo, sì proprio come quello in Sala Grande al tempo che fu. Sulla folla che non vorrebbe più uscire incombono tanti interrogativi. Come avevano fatto Carlo e i suoi eroici spadaccini a profetizzare con tale lucidità le “notti” che avrebbero avvolto il Bel Paese? Chi si cela dietro quel rozzo pollicultore - un Mario Adorf geniale che si rivela scaltro manipolatore ? E dietro quel benzinaio padrepadrone - Remo Remotti, Noé morettiano - che chiude violentemente la bocca alla figlia? E l’ex militante terrorista - Giulia Boschi, sguardo da Cassandra - rimarrà zitta per sempre? Al filosofico zingaro migrante - Roberto Citran, futuro Prete bello mazzacuratiano - spetterà ereditare quel po’ che resta dello sfascio?


Un grande film per l’esordio di un grande regista, prematuramente scomparso ——— Mercoledì 17 gennaio | Ore 21.00 Proiezione speciale in versione restaurata di

NOTTE ITALIANA

Aldo Romanelli

di C. Mazzacurati “Uomini cioè, non cose e luoghi”La citazione da Con Marco Messeri, Giulia Boschi, Michelangelo Antonioni di Giorgio Tinazzi (Il Castoro Roberto Citran. Italia, 1987, 93 min. Cinema, Milano, 1994) è illuminante nel pensare a ——— Notte Italiana di Carlo Mazzacurati. Pare che il regista padovano abbia fatto propria questa stringa sottile, questa veloce direttiva, per il suo lungometraggio d’esordio. Alcuni estratti di questo film lo possono raccontare per intero, possono metonimicamente dare tutto quanto serva a capire la portata dell’esordio, il valore di un’opera che, rivista ora, si carica di significati allora forse non ancora ben definibili e stigmatizzabili. Messeri corre dietro a un’oca nell’aia, seguito dai bambini zingari e dalla camera a mano. Incespica, cade, si rialza e alla fine capisce, immobile nel campo, che quel posto è uno stato mentale prima che un luogo geografico e che lui, forse, ne è stato toccato, contagiato e rapito... Carlo Mazzacurati lo racconta con l’ambizione dell’esordiente, col tratto instabile del cinefilo che, per la prima volta, si trova ad avere la sua chance – e quanto importante! Vista la produzione della nascente SacherFilm di Nanni Moretti e Angelo Barbagallo! – e doverla colmare di riferimenti, d’intenti e di sogno. Case basse e linea dell’orizzonte sempre ben mostrata, strade vive e fangose, locande dalle grappe fatte in casa e un flipper. Con questo Mazzacurati accoglie Messeri nel Polesine sconosciuto. Si deve subito specificare che non è qui in atto il più banale e ridondante capovolgimento di fronte, l’ovvio recupero del pregresso contadino dimenticato e vero in opposizione alla città fredda e individualista fatta di bugie e denaro. La straordinarietà del film sta nell’invitare lo spettatore a questo tipo di visione ormai canonica e diffusa per poi stravolgere quanto atteso e scontatamente subodorato... Mazzacurati racconta una storia inventata che ben presto sarà traslata dagli schermi cinematografici alle stampe dei quotidiani. La realtà di questo paese è estratta dalla palude e mostrata. Quest’ostensione è passata per i caratteri comici e i tipi della commedia presenti e questa deviazione, questo filtro, non fa altro che rendere l’effetto più doloroso, più sarcastico e pungente. Il cinismo e il qualunquismo ignorante di questo paese sono mostrati favorendo la risata che, presto, si disarticola in un’espressione triste, tanto quanto quella dello straordinario Messeri del finale, nello sguardo perso e nel paese fottuto. L’uomo trova la serenità affianco a Giulia e al piccolo Enzo, suo figlio. La donna ha preso parte alla stagione della lotta armata restandone scottata e trovando riparo nella casa del padre che ora è assoggettato al padrone Tornovo. Mazzacurati inserisce così un altro riferimento storico e sceglie da che parte stare, come leggere i fatti, chi difendere e chi accusare. Un coraggio poco diffuso tra i suoi colleghi registi... Sull’argine che porta a Luchino Visconti, Michelangelo Antonioni e Bernardo Bertolucci, passando per Alfred Hitchcock – più che citazionistica la macchina da presa sul piatto con il pollo – questo film è un esordio perfetto per un regista che ha saputo, nel tempo, confermare quanto promesso, mantenere quanto qui tratteggiato. Continuando a interrogare la realtà e la terra grezza, nuda e fredda, dove tutto poggia e a guardare all’orizzonte che si dipana dinanzi cercando il modo migliore di collocarci la figura umana. Questo va sottolineato del film e di tutto il cinema di Carlo Mazzacurati. Questo il senso dell’incipit di Antonioni: al regista padovano interessa la figura umana, lo sviluppo del carattere all’interno del contesto scelto. La campagna, spesso, come luogo di una fuga necessaria esplicita o rivelata solo all’arrivo, la wilderness come condizione con la quale misurarsi – si pensi alla metafora della forza coatta del toro chiuso nel camion nel bellissimo Il toro (1994) – con la quale stabilire un contatto che inevitabilmente non sarà timido o delicato e riconoscerne la forza. Tutto avviene senza il “misticismo della terra” tipico di Terrence Malick ma sempre attraverso il gusto delle terra in bocca, l’odore di sterco e la nebbia nelle ossa... Il paese, intanto, resta in balia della palude morale e sociale che Otello Morsiani si è trovato a sfidare e a vincere seppur provandone la violenza attrattiva e l’efferatezza. L’invito intimista che Mazzacurati pone alla fine del suo film più bello, quello di chiudersi negli affetti più veri e lasciare fuori il mondo, ora dev’essere disatteso non per scortesia ma per la necessità improcrastinabile di bonificare la palude, di sanare l’aria. (da <https://sentireascoltare.com/>).

Un esordio illuminato

“Uomini cioè, non cose e luoghi”


Paolo Virzì racconta il suo ultimo film, il primo girato in America, prossimamente in sala

Ella e John - The Leisure Seeker

Un film americano? The Leisure Seeker è il soprannome del vecchio camper con cui Ella e John Spencer andavano in vacanza coi figli negli anni Settanta. Una mattina d'estate, per sfuggire ad un destino di cure mediche che li separerebbe per sempre, la coppia sorprende i figli ormai adulti e invadenti e sale a bordo di quel veicolo anacronistico per scaraventarsi avventurosamente giù per la Old Route 1, destinazione Key West. John è svanito e smemorato ma forte, Ella è acciaccata e fragile ma lucidissima, insieme sembrano comporre a malapena una persona sola e quel loro viaggio in un'America che non riconoscono più - tra momenti esilaranti ed altri di autentico terrore - è l’occasione per ripercorrere una storia d’amore coniugale nutrita da passione e devozione, ma anche da ossessioni segrete che riemergono brutalmente, regalando rivelazioni sorprendenti fino all'ultimo istante. Paolo Virzì racconta com’è nato il suo “primo film americano”, sugli schermi di Cinemazero da giovedì 18 gennaio: “Non avevo previsto che un giorno avrei fatto un film in un altro Paese, in una lingua che non è la mia, ancora m’interrogo sul perché sia successo. Tutto è iniziato quando un mio film, qualche anno fa, e poi un altro ancora, sono stati designati come “Italian Entry” per partecipare a quella giostra divertente e leggermente nonsense che è la campagna per l’Oscar nella categoria “Best Foreign Language”. Avendo avuto in entrambi i casi una distribuzione sul territorio americano e avendo riscosso anche qualche apprezzamento, mi era capitato di ricevere alcune proposte di girare dei film laggiù, ma avevo sempre tagliato la corda. (…) Gli amici di Indiana Production, che mi avevano accompagnato in quell’esperienza, non si davano pace, non capivano perché volessi sottrarmi. Allora feci loro una promessa: se troviamo un’idea che ci stuzzica, magari partendo da un libro, e se posso lavorare nel modo in cui sono abituato, cioè a partire dalla scrittura della sceneggiatura, sono pronto a riparlarne. Un giorno mi spedirono la novella di Michael Zadoorian che racconta fuga di una coppia di anziani a bordo del loro vecchio camper, dai sobborghi di Detroit verso la California lungo la iconica Route 66. Ci trovai qualcosa di molto attraente: uno spirito sovversivo, di ribellione contro l’ospedalizzazione forzata stabilita da medici, figli, regole sociali e sanitarie. Ma allo stesso tempo il rischio di lasciarsi catturare dai cliché, così lasciai perdere. Qualche tempo dopo, furono i miei amici Francesca Archibugi e Francesco Piccolo, penne straordinarie e adorabili a provare a convincermi di ripensarci (…) Ricordo di essermi lasciato scappare di bocca una specie di impegno: se Donald Sutherland accetta di interpretare il ruolo di John ed Helen Mirren quello di Ella allora giuro che questo film lo faccio. Ma era solo un modo per spararla grossa, per mettere le mani avanti, per allontanare la possibilità di quel progetto americano che i miei amici produttori e co-sceneggiatori caldeggiavano fanaticamente. Il destino però mi ha spiazzato: imprevedibilmente, e ancora non mi spiego come sia stato possibile, Mirren e Sutherland hanno accettato. Poche settimane dopo eravamo già sul set, non ho avuto quasi neanche il tempo di mettere a fuoco quello che stava succedendo che eravamo immersi nella preparazione, portandoci dietro mezza troupe italiana con tutte le nostre abitudini, compreso, nel bene e nel male, il nostro modo di guardare le cose e di fare il cinema: non è che avessi attraversato l’oceano per diventare “un regista americano”. E però lavorare con un’attrice sublime come Helen ed un’autentica leggenda come Donald è stato, oltre che elettrizzante, molto istruttivo. Mi incantavo a guardarli recitare, lui intenso e regale, ma anche buffo ed imprevedibile, lei acuta, saggia, spiritosissima e poi improvvisamente piena di foga, di rabbia, di dolore. Faticavo a dire la parola “stop”, anzi “cut!”. Forse è stato soprattutto per godere del piacere di condividere un’esperienza con due artisti che mi affascinano e mi emozionano che ho fatto i bagagli e sono andato a girare un film in America, almeno per una volta nella mia storia di regista italiano, anzi di Livorno”.



Alla ricerca di qualcosa di nuovo

L'International Documentary Film Festival di Amsterdam continua a essere il principale festival di documentario d'Europa, punto di riferimento per il settore e non solo. La kermesse accoglie un gran numero di ospiti “specialisti” da tutto il mondo: in totale più di 3.000 (!), che seguono gli eventi in programma, con particolare concentrazione sull' IDFA Forum (il più grande raduno europeo di cineasti, direttori acquisizioni di TV e produttori di documentari), sulla sezione di mercato Docs for Sale e sulla IDFAcademy (educazione, sviluppo e aggiornamento di giovani talenti professionali dell'audiovisivo). Per tutti i 12 giorni di festival gli specialisti hanno grazie a questi appuntamenti occasioni di incontro, confronto, trattativa. Il tessuto sociale della manifestazione è però fatto principalmente da 285.000 (!) spettatori che gremiscono le proiezioni durante tutto il giorno, registrando continui sold-out anche negli orari più impensabili. Un festival della città: cosmpopolita e – per tradizione – moderna, democratica, multireligiosa, particolarmente attenta ai temi sociali. Forse nessun'altra città europea (Berlino?) potrebbe ospitare a così pieno titolo un evento simile, dove i film diventano momento di approfondimento e conoscenza per il pubblico largo sui vari e controversi aspetti dell'attualità: ambiente, società, conflitti, politica, diritti umani... Una finestra di civiltà. Un evento da non perdere, prima di tutto come cittadini europei. La forchetta pronunciata fra numero di professionisti (comunque enorme) e pubblico ci dice però altro: se da una parte si vuole offire una manifestazione che sia di eccellenza assoluta per gli addetti ai lavori, dall'altra si cerca di accontentare un'audience ampia e variegata. Conciliare le due cose può creare qualche problema: così quest'anno, rispetto ad altri – forse complice anche il cambio alla guida della kermesse, dopo trent'anni di direzione di Ally Derks, sostituita da Barbara Visser, la sensazione diffusa è stata che il programma fosse sempre incredibilmente ricco, ma che il livello qualitativo e l'intensità generale fosse minore. Difficile ovviamente generalizzare davanti a così tanti titoli... Quel che è certo - e che può corroborare la senzazione - è che sono aumentate esponenzialmente le storie assomiglianti a se stesse: per chi scrive questo si deve principalmente a due fattori. Il primo: la tecnologia digitale – al suo apice qualitativo 5-6 anni fa – non migliora, è costante, e ha standardizzato la produzione. Per esemplificare, chi allora girava in contesti di guerra, in situazioni limite, o, ancora, dal punto di vista stilistico praticava scelte di incredibile freschezza e originalità, era anche chi dominava perfettamente la tecnica, in maniera “decisiamente superiore” alla media degli altri. L'eccellenza era percepibile, drammaticamente epifanica alle volte. Oggi i film si assomigliano troppo: perfino le

Riccardo Costantini

International Documentary Filmfestival Amsterdam

IDFA 2018 – “La capitale del documentaro mondiale”, fra luci e qualche ombra

color corrections (che danno l'aspetto finale all'estetica) hanno nomi e definizioni di stile precise, generificate (fra l'altro con termini spesso irricevibili, temporanei, spuri, che solo su “Vice” e altre riviste simili potrebbero vivere). Il secondo problema: i pitching, audit e gli altri percorsi produttivi (che molto si fanno proprio ad Amsterdam)... Ho avuto il priviliegio di seguirne diversi negli anni, coinvolto direttamente o indirettamente, con la nostra attività de Le voci dell'inchiesta. Sono incontri “decisivi”, nel vero senso del termine: per semplificare (molto) chi crea incontra chi produce; chi produce chi distribuisce, dialogando in mezzo con i membri delle direzioni acquisti delle TV o similia. Risultato: la fanno da padrone alcune nazioni, alcuni format, alcuni


canali... dunque i prodotti si assomigliano tutti. Il rischio, tremendo: la spirale discendente della qualità, con pubblico che cerca solo prodotti che gli assomiglino. Poco posto per il coraggio. Poco posto per l'innovazione. Senzazioni, che si spera non siano confortate in futuro. Certo, si vedono sempre cose shockanti, sature, eleganti, delicatissime. Cosa cercheremo di portare a Le voci dell'inchiesta 2018? Lascia basiti A woman captured di Bernadett Tuza Ritter, che conduce lo spettatore all'interno di una famiglia ungherse, dove una donna vive come schiava domestica per 10 anni. Prassi, si apprende, decisamente diffusa. Una storia di liberazione intensa, che ci offre – con un lavoro di regia molto impegnativo (vivere all'interno della casa dove si perpetua la schiavitù per mesi...) - una storia che mai avremmo pensato possibile in Europa. Un'analisi eccezionalmente pungente e necessaria è quella di Another news story? di Orban Wallace, dove si segue da vicinissimo il lavoro dei videoreporter impegnati ad “accompagnare” alla giusta distanza (alle volte non così giusta) i migranti che attraversano Grecia, Macedonia, Serbia... Immagini note ai più, molto meno i loro dietro le quinte. Wallace si chiede, nell'era caotica di oggi, quali siano il "chi, come e perché" delle notizie “gridate” quotidianamente riguardanti conflitti e le crisi mondiali. Cosa fanno davvero i giornalisti inviati? Come vivono l'essere costantemente di fronte a notizie dal potenziale devastante? Soffrono sofferenze incommensurabili, mantengono una certa sensibilità – fondamentale per il rispetto delle persone – o sono cinici e spietati? Un film che ci racconterà molto sulle fake news, sulla forza delle notizie e della loro capacità di creare mondi possibili. Degno di nota il commovente Piripkura (vincitore dello Human Rights Award), dove i registi Renata Terra, Bruno Jorge, Mariana Oliva inseguono per lunghe settimane due indios – gli unici sopravvissuti – amazzonici, che nessuno ha mai visto. E' necessario filmarli, per far sì che venga bloccata la deforestazione di quell'area. Il film appare noioso per buona parte della sua durata...ma quando improvvisamente, dopo quasi un'ora di selva amazzonica, di piogge improvvise, di terreno non accogliente, di tracce, appaiono i due indios non ci si può che commuovere: la loro diversità e, contemporaneamente per altri aspetti, la loro similitudine con le tipologie umane comunemente conosciute sono sconvolgenti e mai viste con così grande vicinanza. Degno di nota, infine, Muhi – Generally temporary, di Rina Castelnouvo-Hollander, Tamir Elterman, che raccontano con eccezionale e toccante delicatezza la vicena di Muhi: un ragazzo palestinese coraggioso e vivace che da sette anni, per una forte disabilità fisica, vive in un ospedale israeliano, impossibilitato a tornare nella sua casa a Gaza. Catturato tra due mondi e due popoli, Muhi è cresciuto in circostanze paradossali che trascendono l'identità, la religione e il conflitto che divide il suo mondo. Il suo tempo all'ospedale si sta esaurendo e Muhi ora affronta le scelte più critiche della sua vita... Un racconto sul conflitto arabo-palestinese molto più intenso e significativo di molte pagine di riviste o di saggi sul tema: da dentro, dall'assurda condizione di clausura di Muhi vista dalla sua famiglia, si capisce molto di più del mondo di oggi, di quella terra così divisa e così chiave per le sorti del pianeta... Ancora una volta, per fortuna, i grandi documentari sanno raccontare il mondo e l'essere umano.


Il cinema come nuova palestra per la memoria

Manuela Morana

Vedere per non dimenticare

In collaborazione col comune di Pordenone, Cinemazero aiuta studenti e insegnanti a ricordare

"È davvero meraviglioso che io non abbia lasciato perdere tutti i miei ideali perché sembrano assurdi e impossibili da realizzare. Eppure me li tengo stretti perché, malgrado tutto, credo ancora che la gente sia veramente buona di cuore. Semplicemente non posso fondare le mie speranze sulla confusione, sulla miseria e sulla morte. Vedo il mondo che si trasforma gradualmente in una terra inospitale; sento avvicinarsi il tuono che distruggerà anche noi; posso percepire le sofferenze di milioni di persone; ma, se guardo il cielo lassù, penso che tutto tornerà al suo posto, che anche questa crudeltà avrà fine e che ritorneranno la pace e la tranquillità". Le parole di Anna Frank accompagnano il ricordo indelebile di tutte le vittime dell'Olocausto che ogni anno, il 27 gennaio, trovano celebrazione nel Giorno della Memoria. Grazie alla collaborazione col Comune di Pordenone, Cinemazero rinnova per il 2018 l'invito a studenti e insegnanti a fare del grande schermo e del cinema di fiction e non fiction l'occasione per aggiornare la riflessione sui motivi del genocidio messo in atto dalla Germania nazista fino al 27 gennaio 1945, ai danni di milioni di uomini e donne di ogni età, di cui 6 appartenenti al popolo ebreo. Questo giorno, così importante, è e deve con forza essere vissuto anche come simbolo di tutte le discriminazioni e le conseguenti sofferenze di chi venga isolato e non accettato, per motivi religiosi, sociali, culturali, economici. Sono tre le più pregnanti proposte cinematografiche curate da Cinemazero per celebrare in sala il Giorno della Memoria attraverso le proiezioni mattutine nelle sue 4 sale. Un sacchetto di biglie, la trasposizione cinematografica del romanzo Un sac de billes di Joseph Joffo, datato 1973, è indicato per gli spettatori più piccoli d'età (classi quarte e quinte delle primarie e classi delle secondarie di primo grado). Sul grande schermo, con la regia di Christian Duguay (Belle & Sebastien – L’avventura continua), rivive la storia vera di due giovani fratelli ebrei nella Francia occupata dai tedeschi che, con una dose sorprendente di malizia, coraggio e ingegno, riescono a sopravvivere alle barbarie naziste e a ricongiungersi alle famiglie. Destinato al pubblico degli studenti più grandi, quelli delle secondarie di secondo grado, è invece La signora dello zoo di Varsavia di Niki Caro. Si tratta di un'opera dal raffinato stampo classico che pone sotto i riflettori una pagina di storia poco frequentata dal cinema: ossia, quella della resistenza polacca al nazismo. Le vicende dei coniugi Żabiński, direttori di uno zoo i cui animali verranno sterminati dalla furia militare tedesca, sono quelle di un'umanità che negli anni delle persecuzioni contro gli ebrei ha reso possibile la salvezza di centinaia di uomini e donne. È infatti nelle loro cantine e nelle gabbie per animali rimaste vuote che i due coraggiosi protagonisti riuscirono a nascondere amici e sconosciuti, liberandoli dalla minaccia della segregazione. Si tratta di un racconto storico tout-court che trova nel personaggio impersonato dalla bellissima Jessica Chastain, Antonina, il nuovo volto degli eroi a cui già ci aveva abituato Spielberg nel suo Schindler's List. Il trittico di proposte si completa con un film documentario tutto italiano che, seppur non centrato sullo specifico tematico di Shoah e Olocausto, comunque si presta perfettamente e con efficacia alla riflessione sul ruolo della memoria e sulla sua valenza come strumento educativo e formativo per i giovani in età scolare. Stiamo parlando di I cento anni di Davide Ferrario. Fresco di anteprima al Torino Film Festival e poi a Cinemazero, il nuovo film del regista di Tutti giù per terra e La zuppa del demonio racconta la storia italiana e le sue "Caporetto". Facendo tappa nel 1917, in occasione della disfatta, poi negli anni della Resistenza, quindi nella piazza della Loggia di Brescia dove si consumò la strage delle stragi, e infine nel Sud spopolato e narrato dal poeta Franco Arminio, Ferrario fa di I cento anni la ricognizione cinematografica di un secolo di disastri e di riscatti, e svela come il popolo italiano, anche attraverso l'esercizio del ricordo, sia capace di resistere al decadimento, ai fascismi, all'inabissarsi della speranza a favore del suo rifiorire continuo, ancora e ancora, tra le mani delle nuove generazioni. Per programmare una proiezione mattutina a Cinemazero a gennaio 2018 e per conoscere tutte le altre proposte cinematografiche, scrivere una mail a: didattica@cinemazero.it.


TRIESTE FILM FESTIVAL

Torna dal 19 al 28 gennaio il Trieste Film Festival, primo e più importante appuntamento italiano con il cinema dell'Europa centro-orientale, giunto quest'anno alla 29a edizione, nato alla vigilia della caduta del Muro di Berlino (l'edizione "zero" è datata 1987), il festival continua ad essere da quasi trent'anni un osservatorio privilegiato su cinematografie e autori spesso poco noti – se non addirittura sconosciuti – al pubblico italiano, e più in generale a quello “occidentale”. Più che un festival, un ponte che mette in contatto le diverse latitudini dell'Europa del cinema, scoprendo in anticipo nomi e tendenze destinate ad imporsi nel panorama internazionale. Il Festival, dedicato al cinema dell'Europa centro-orientale, quest'anno omaggia il 50esimo anniversario del '68 con una rassegna declinata a est e a ovest con Godard, Roeg e Bertolucci da una parte e Pintilie, Dezso, Nemec e Žilnik dall'altra. Info: www.triestefilmfestival.it

UNA CITTÀ IN FESTA PER I DIRITTI DELLE BAMBINE Pordenone, Cinemazero - lunedì 29 gennaio, ore 20.45

"4 ottobre 2017, ore 14 e 13 minuti: Il parlamento europeo ha votato con una maggioranza assoluta la risoluzione contro la pratica dei matrimoni precoci (Spose bambine)”. In sei mesi di tempo tutti gli stati membri della Comunità Europea dovranno dotarsi di una legge contro la barbarie dei matrimoni con “spose bambine”, che saranno dunque vietati in tutta Europa. Un fenomeno, purtroppo, ancora enorme sia nel vecchio continente che - in massima parte - nei paesi in cui è radicato, per tradizione, cultura e religione (più di 700 milioni sono le spose bambine in tutto il mondo). Una svolta storica, una vittoria in una battaglia di civiltà importante, un successo tutto pordenonese, condotto negli anni grazie all’incessante attività dell’Associazione Nedaday di Pordenone, anche con molte altre realtà del territorio, su tutte Cinemazero. Una data da festeggiare, dunque. Una serata speciale, con musica della tradizione persiana, degustazione di prodotti tipici, proiezione di video e la premiazione delle vincitrici della borsa di studio Neda Day, per tesi di laurea dedicate all’analisi della situazione della donna nella società. Info: www.cinemazero.it

ELIO CIOL: I PUTTI DEL PORDENONE

Pordenone, spazio Due Piani - fino al 4 febbraio 2018

In questa serie di fotografie, dedicate al Pordenone, le riprese di dettagli raffiguranti putti ci consentono di poter scoprire e “gustare” particolari altrimenti poco o mal visibili dal vero, o addirittura trascurati se non ignorati. La resa materica e cromatica nelle sue immagini, e in particolare la restituzione delle tonalità dorate, è semplicemente sorprendente. Un’operazione non soltanto fotografica: si tratta di aderire a una concezione moderna della narrazione in senso lato, che è stata etichettata come “poetica del dettaglio”, ossia valorizzazione di aspetti che appaiono come marginali a una lettura superficiale, ma che invece si rivelano come assolutamente non trascurabili per la comprensione del tutto. Questo modo di leggere l’opera d’arte non è guidato dalla volontà di essere semplicemente originali, ma piuttosto, come diceva Edward Weston, dalla “passion of seeing”, dalla voglia di vedere meglio e capire meglio. Con l’iterata proposizione del dettaglio Ciol ci regala un’indicazione utile per l’arricchimento della nostra esperienza visiva: imparare a scoprire il bello nel bello. (Guido Cecere). Info: www.due-piani.it.

Domani accadrà ovvero se non si va non si vede

Trieste, dal 19 al 28 gennaio 2018


i film del mese

Un film di Ridley Scott. Con Christopher Plummer, Mark Wahlberg, Michelle Williams. Or.: USA, 2017. Durata: 120’

Un film di Martin McDonagh. Con Frances McDormand, Woody Harrelson, Sam Rockwell. Or.: USA, 2017. Durata: 115’

TUTTI I SOLDI DEL MONDO

LA VERA STORIA DEL RAPIMENTO DI JOHN PAUL GETTY III

DI RIDLEY SCOTT Alle tre di notte del 10 luglio 1973, a Roma, nei pressi di Piazza Farnese, John Paul Getty III viene sequestrato. La richiesta di riscatto dei rapitori non è però presa sul serio dalla famiglia, a parte dalla madre Gail; infatti gli altri famigliari credono sia un espediente del giovane ribelle per scucire soldi all'avaro e ricchissimo nonno. I rapitori contattano alcuni quotidiani e arrivano a tagliare e mandare alla redazione de Il Messaggero un orecchio del sedicenne John Paul Getty III, con una nota dove ribadivano di fare sul serio. Con l'aiuto di un esperto, un ex agente della CIA ingaggiato dal nonno, iniziano quindi le vere e proprie trattative per il pagamento del riscatto e il rilascio. Tutti i soldi del mondo, diretto da Ridley Scott, tra l'Italia e l'Inghilterra dove si era trasferito il miliardario americano John Paul Getty, racconta fatti reali che al tempo fecero scalpore e a cui sono stati dedicati vari libri. Uno di questi, "Painfully Rich: The Outrageous Fortunes and Misfortunes of the Heirs of J. Paul Getty" di John Pearson ha fatto da base alla sceneggiatura di Scarpa. Al cuore del film il contrasto tra la madre Gail e il resto della famiglia. John Paul Getty era un personaggio quasi intrattabile, una sorta di Paperon de' Paperoni dal vero, arricchitosi con il petrolio fino a diventare uno degli uomini più danarosi del mondo e celebre per frasi come: «I miti erediteranno la terra, ma non i diritti minerari» oppure «una relazione duratura con una donna è possibile solo se si fallisce in affari». Naturalmente è famoso quel che disse quando inizialmente si rifiutò di pagare il riscatto: «Se ora pagassi solo un penny, mi ritroverei con 14 nipoti rapiti». La richiesta iniziale dei rapitori fu di 17 milioni di dollari, che il nonno accettò di pagare a patto che la cifra fosse sottratta all'eredità del padre del rapito, il quale però rifiutò, perché conduceva una vita piuttosto dissoluta. La madre Gail invece aveva una boutique vicino a Piazza di Spagna e quattro figli che manteneva con le proprie forze. La trattativa fece scendere la richiesta a tre milioni di dollari, di cui John Paul Getty pagò 2.2 milioni, ossia la massima cifra deducibile dalle tasse, e prestò i restanti 800mila dollari al figlio, che dovette rimborsarglieli con un tasso del 4%. A far sì che il tutto fosse inizialmente preso come una burla del nipote aveva contribuito che lui avesse scherzosamente detto di voler organizzare il proprio rapimento, per potersi comprare una villa in Marocco dove trasferirsi con la fidanzata. Anche se aveva solo sedici anni, John Paul Getty III tirava già di cocaina che oltretutto faceva circolare nella "dolce vita" romana, e la sera del rapimento si era ubriacato dopo aver bevuto con Mick e Bianca Jagger, Andy Warhol e Roman Polanski. Al New York Times raccontò di aver telefonato al nonno per ringraziarlo, ma questi non gli rispose. Il soggetto del rapimento di John Paul Getty III sarà anche al centro della prima stagione della serie Tv Trust di Danny Boyle, ma Scott ha battuto il connazionale sul tempo.[www.mymovies.it]

TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI

UNA BLACK COMEDY SCONVOLGENTE CHE METTE A NUDO L’ANIMA DELL’AMERICA

DI MARTIN MCDONAGh Mildred Hayes non si dà pace. Madre di Angela, una ragazzina violentata e uccisa nella provincia profonda del Missouri, Mildred ha deciso di sollecitare la polizia locale a indagare sul delitto e a consegnarle il colpevole. Dando fondo ai risparmi, commissiona tre manifesti con tre messaggi precisi diretti a Bill Willoughby, sceriffo di Ebbing. Affissi in bella mostra alle porte del paese, provocheranno reazioni disparate e disperate, 'riaprendo' il caso e rivelando il meglio e il peggio della comunità. Il dolore per la perdita di una figlia, il morso logorante dei sensi di colpa, il sentimento di frustrazione e di rabbia per una giustizia che non sembra appartenere a questo mondo: McDonagh si discosta sia dalla rappresentazione della provincia americana dei fratelli Coen sia dal Quentin Tarantino al quale è sempre stato paragonato per via del talento nei dialoghi, andando per la propria strada in un affresco diretto con uno stile registico asciutto e preciso. Il mélange di registro in bilico tra black comedy e tragedia greca non blocca la creatività visiva dell'autore che sviluppa il proprio lavoro puntando sì sulla bravura degli interpreti ma anche sulla gestione degli spazi e dei paesaggi su cui aleggiano suggestioni western. Tre manifesti a Ebbing, Missouri mostra il lato sconsolato ma ancora vivo di un mondo in cui né Dio né Patria riescono a rimettere la realtà sui giusti binari, spostando la catarsi al di là dei titoli di coda quando lo spazio della cittadina si allarga virtualmente in un on the road che potrebbe coinvolgere tutta l'America. L'autore che, come il fratello John Michael viene dal teatro, si conferma un ottimo direttore di attori: se la prova della McDormand avrebbe meritato la Coppa Volpi al 74° festival dei Venezia, non sono da meno le interpretazioni di Woody Harrelson, raramente così asciutto, e di un eccellente Sam Rockwell che riesce a dare spessore e umanità al poliziotto-bullo Dixon. Tra i titoli più applauditi della Mostra, ha vinto meritatamente l'osella alla miglior sceneggiatura. [www.ondacinema.it]


L’ORA PIù BUIA

IL MOMENTO CRUCIALE IN CUI CHURCHILL DISSE NO ALL'EGEMONIA DI HITLER. DI jOE wRIGhT Gran Bretagna, 1940. È una stagione cupa quella che si annuncia sull'Europa, piegata dall'avanzata nazista e dalle mire espansionistiche e folli di Adolf Hitler. Il Belgio è caduto, la Francia è stremata e l'esercito inglese è intrappolato sulla spiaggia di Dunkirk. Dopo l'invasione della Norvegia e l'evidente spregio della Germania per i patti sottoscritti con le nazioni europee, la camera chiede le dimissioni a gran voce di Neville Chamberlain, Primo Ministro incapace di gestire l'emergenza e di guidare un governo di larghe intese. A succedergli è Winston Churchill, con buona pace di re Giorgio VI e del Partito Conservatore che lo designa per soddisfare i Laburisti. Avevamo bisogno di un altro film su Winston Churchill? Probabilmente no ma davanti alla performance di Gary Oldman L'ora più buia è la benvenuta. L'Homburg di feltro, il grosso sigaro, il panciotto, la voce grassa, il corpo goffo, il whisky (sempre) alla mano, il mumbling permanente, lo rendono una sfida irresistibile per qualsiasi attore. L'ultimo a cimentarsi è Gary Oldman, che lo coglie nella tarda primavera del 1940 e in quella che fu certamente la sua ora più buia. Chi meglio di un vampiro per sopravvivere all'oscurità dell'epoca? E come un redivivo Joe Wright lo introduce al pubblico, schiudendo le tende e lasciando che la pallida luce londinese lo accechi dentro il suo letto e davanti la più abbondante delle colazioni. Ma a questo giro non è Gary Oldman a ridursi in polvere ma le illusioni di un avversario feroce che ha sottovalutato la resilienza britannica e il potere della lingua di Shakespeare. Dietro a un trucco che non impedisce l'evoluzione sottile del suo personaggio, riconosciamo lo sguardo di Oldman, la riserva segreta dove conserva quella facoltà incredibile di terrorizzare, tante volte dimostrata sullo schermo. Il re ha paura, la segretaria ha paura, l'emaciato (e straordinario) Lord Halifax di Stephen Dillane ha paura di lui, montagna di eloquenza e forza espressiva in grado di mandare la parola sui campi di battaglia. Hanno paura davvero perché Gary Oldman trova il DNA di Churchill, allacciando il lavoro interiore con le capacità fisiche fuori norma. È lui il punctum visivo della messinscena che oscura il nemico e concede zero repliche alle altre forze in campo. Non c'è misura scenica che possa sopraffare o solo ridurre di scala la sua centralità. Joe Wright lo sa e mette la regia al servizio di quell'adesione istintiva ed energica, che abita un tempo pieno di angoli bui, di quell'apparizione folgorante intorno a cui gravita un cast blasonato, su tutti Kristin Scott Thomas, Ronald Pickup, Stephen Dillane. Davanti al ritiro inglorioso della Gran Bretagna dall'Europa, L'ora più buia oppone il ritratto dell'uomo che ha contribuito a salvarla in una primavera nemmeno troppo lontana. Thriller politico che fa il paio con l'opera immersiva di Christopher Nolan Dunkirk) il film di Joe Wright ripassa una pagina drammatica della sua Storia. Un intervallo delicato e opaco in cui il nemico muoveva dall'esterno e dall'interno attraverso l'impassibilità maligna di Lord Halifax, che si batteva per patteggiare coi nazisti e minare la posizione parlamentare di Churchill. L'ora più buia ha ovvie affinità col dramma di Jonathan Teplitzky Churchill, interpretato appena ieri da Brian Cox, tuttavia l'opera di Wright dimostra un'ambizione narrativa, un'inventiva romantica e una qualità delle perfomance decisamente più efficaci. [www.mymovies.it]

i film del mese

Un film di Joe Wright. Con Gary Oldman, Lily James, Ben Mendelsohn. Or.: Gran Bretagna, 2017. Durata: 117’

Un film di Luca Guadagnino. Con Armie Hammer, Timothée Chalamet, Michael Stuhlbarg. Or.: Italia , 2017. Durata: 130’

ChIAMAMI COL TUO NOME

LA STRAORDINARIA MESSA IN SCENA DELL’EDUCAZIONE SENTIMENTALE

DI LUCA GUADAGNINO Estate 1983, tra le province di Brescia e Bergamo, Elio Perlman, un diciassettene italoamericano di origine ebraica, vive con i genitori nella loro villa del XVII secolo. Un giorno li raggiunge Oliver, uno studente ventiquattrenne che sta lavorando al dottorato con il padre di Elio, docente universitario. Elio viene immediatamente attratto da questa presenza che si trasformerà in un rapporto che cambierà profondamente la vita del ragazzo. Ambiguità e tensione sessuale sono al centro di una storia che non ha nulla di troppo complicato, ma allo stesso tempo è elaboratissima. Elio ha 17 anni, Oliver ne ha 24. Siamo nel 1983, nella nuova Italia di Craxi: basta anche questo per definire il contesto in cui si sviluppa la storia d’amore tra Elio e Oliver. E il primo che pensa che qualcosa non possa nascere tra due uomini è proprio Oliver. Viene dall’America di Reagan, certo. Elio, nonostante osservi molto e studi prima di agire, si dimostra molto più ‘coraggioso.’ Non solo ha il vantaggio di avere qualche anno in meno, cosa che gli permette quella spregiudicatezza di cui prima, ma ha alle spalle una famiglia ricca e borghese (come quelle che piacciono molto a Guadagnino) che ha utilizzato la cultura e gli idiomi (nel film si parlano italiano, inglese, francese, tedesco…) come strumenti per aprirsi la mente. Era possibile anche in un paese 'da qualche parte in Italia’ negli anni 80. Se le idee c’erano appunto già tutte nel romanzo, Guadagnino e James Ivory le portano a una dimensione cinematografica indimenticabile. L’incontro tra la sensibilità dell’autore di Maurice e le ossessioni del regista di Io Sono L’Amore (gente ricca e bellissima, l’estate, i corpi, e tutto ciò che è vagamente sexy) è una sorpresa che va oltre ogni più rosea aspettativa. [www.cineblog.it]


LA SCUOLA AL CINEMA | GENNAIO 2018

Al prezzo di € 3,00 a studente (insegnanti e adulti accompagnatori non pagano), è possibile partecipare alle proiezioni mattutine presso le sale di Cinemazero e dello Zancanaro. Ogni proiezione è un evento, accompagnato dal commento critico di un esperto. E' obbligatoria la prenotazione scrivendo a didattica@cinemazero.it Ogni mese insegnanti e segreterie didattiche ricevono tramite mail la lista di tutti gli appuntamenti in sala. Per essere inseriti nella mailing list, inviare il proprio contatto a didattica@cinemazero.it EVENTO SPECIALE | 7 febbraio Giornata nazionale contro il bullismo a scuola Ancora una volta e in ragione della collaborazione con la Garante regionale per i diritti della persona con specifiche funzioni per l'infanzia e l'adolescenza, Cinemazero propone di riflettere su uno dei temi più controversi del nostro tempo. La sua diffusione, di cui giunge una forte eco attraverso i media, impone una presa di coscienza e una consapevolezza tra adulti e minori che il cinema può facilitare. Tre sono le proposte cinematografiche per le matinée destinate agli studenti, in base a tre fasce d'età, e programmabili in occasione del 7 febbraio: L'età imperfetta di Ulisse Lendaro, la storia dell'amicizia tra due diciassettenni che tocca tutte le emozioni e tutta la potenza deflagratrice del conflitto e del superamento dei limiti (secondarie di secondo grado); La forma della voce di Naoko Yamada, la trasposizione di un manga di 7 volumi che illustra con insolita intensità l'incontro tra un ragazzo, una ragazza sordomuta e un gruppo di bulli (secondarie di primo e secondo grado); Ernest & Celestine di Stéphane Aubier, Vincent Patar, Benjamin Renner, il delizioso film di animazione ispirato dai disegni di Gabrielle Vincent e apologo sul ruolo scomodo del pregiudizio nella costruzione di una relazione. L'amicizia tra l’orso Ernest e la topolina Célestine è una lezione magistrale sul rispetto e l'empatia quali valori imprescindibili su cui si fonda la vita affettiva e quella civile. Per informazioni, scrivere a didattica@cinemazero.it

I grandi capolav apolavori ori del muto musicati dal vivo vivo dalla

DOMENICA 7 GENNAIO doppio spettacolo ore 117.00 7.00 e 18.30 Ex Con vento di San FFrancesco rancesco Convento Pordenone

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