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Più che positivo il bilancio del festival Le Voci dell’Inchiesta
Proiezione, l’ovvietà della pellicola
La pellicola ci rende consapevoli dell’atto del guardare
Tutte le donne della Croisette
La figura femminile al centro dei film in concorso a Cannes 2016
Agnèes Varda nostra contemporanea Al via l’attesa retrospettiva sulla cineasta francese
Nessuno mi troverà: il memorandum Majorana
Intervista al regista Egidio Eronico ospite l’11 maggio a Cinemazero
16
Maggio
Ripartendo...con slancio
2016 numero 5 anno XXXVI
Quando i francesi “giravano” in Italia
Storia di un manifesto festivaliero
Arrivano i nostri (e sono bravi)
Poca Italia ma tanto FVG al prossimo festival di Cannes
Non solo cinema, anche letteratura e storia Sesta edizione del Festival “Curdi tra noi” dal 17 al 24 maggio
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Storia di un manifesto festivaliero
Andrea Crozzoli
Editoriale
Quando i francesi “giravano” in Italia Maggio è il mese del Festival di Cannes (11/22 maggio 2016). Tutti aspettano questo evento per misurare lo stato di salute del cinema, per capire quali saranno i film della prossima stagione, quali gli autori che caratterizzeranno il cinema prossimo venturo. La stampa italiana, come al solito, ha pianto lacrime amare per non veder alcun film nostrano in concorso per la 69ma Palma d'oro, dopo il trittico dello scorso anno con Sorrentino, Moretti e Garrone. Ma se non ci sono film italiani in gara, i nostri cugini d’oltralpe hanno voluto rivolgere ugualmente un omaggio all’Italia. Dopo il manifesto con Marcello Mastroianni in Otto e mezzo di due anni or sono, hanno scelto per questa 69ma edizione ancora l’Italia e la villa di Curzio Malaparte a Capri in un fotogramma da Le Mépris (Il Disprezzo, 1963) per la regia di Jean-Luc Godard. Film prodotto da Carlo Ponti e tratto dall'omonimo romanzo di Alberto Moravia e girato tutto in Italia, tra Capri e Sperlonga, con Brigitte Bardot, Michel Piccoli, Jack Palance e Fritz Lang nella parte di se stesso. Dell’anziano regista tedesco, poi emigrato negli Stati Uniti, scrisse Godard nelle sue note a margine: «Un vecchio capo indiano, saggio, sereno, che ha meditato a lungo e infine ha compreso il mondo, e che abbandona il sentiero di guerra ai giovani e turbolenti poeti». La Villa Malaparte, costruita a metà degli anni trenta grazie alla personale conoscenza dello scrittore con un figlio di Mussolini, è considerata un capolavoro di architettura razionalista italiana. Qui hanno soggiornato personaggi come Jean Cocteau, Albert Camus, Pablo Picasso, Palmiro Togliatti, André Breton, Alberto Moravia e tanti altri. Non vi soggiornò la troupe di Carlo Ponti che viveva, invece, tutta in un hotel a Capri. Ogni mattina facevano 25 minuti a piedi per raggiungere Villa Malaparte dove Jean-Luc Godard filmava magistralmente i suoi pittoreschi panorami mozzafiato, sui quali si svolgono le ultime sequenze del film. L’omonimo libro di Moravia era uscito 9 anni prima, e Godard, con una certa perfidia, tanto per non smentire la sua fama di teppista turbolento e raffinato, scrisse: «Il libro di Moravia è un volgare e grazioso romanzo da stazione, pieno di sentimenti classici e fuori moda, nonostante la modernità delle situazioni. Ma è proprio da questi romanzi ferroviari che si ricavano i film migliori.». Carlo Ponti, quando vide terminato il film di Godard rimase inorridito. Cercava la versione cinematografica del romanzo di Moravia e si ritrovava un film al di fuori degli schemi, pieno di eros e di dissacrante nichilismo. Il produttore rimontò il film a modo suo confezionando un incomprensibile pasticcio, accorciandolo di oltre 20 minuti e togliendo tutti i nudi della provocante Brigitte Bardot. Fortunatamente dopo 50 anni il film è stato, però, restaurato come in origine.
In copertina Marion Cottilard, protagonista a Cannes di Mal de pierres della francese Nicole Garcia
cinemazeronotizie mensile di informazione cinematografica Maggio 2016, n. 5 anno XXXVI Direttore Responsabile Andrea Crozzoli Comitato di redazione Piero Colussi Riccardo Costantini Marco Fortunato Sabatino Landi Tommaso Lessio Silvia Moras Maurizio Solidoro Collaboratori Lorenzo Codelli Luciano De Giusti Manuela Morana Elisabetta Pieretto Segretaria di redazione Elena d’Inca Direzione, redazione, amministrazione Via Mazzini, 2 33170 Pordenone, Tel. 0434.520404 Fax 0434.522603 Cassa: 0434-520527 e-mail: cinemazero@cinemazero.it http//www.cinemazero.it Progetto grafico Patrizio A. De Mattio [DM+B&Associati] - Pn Composizione e Fotoliti Cinemazero - Pn Pellicole e Stampa Sincromia - Roveredo in Piano Abbonamenti Italia E. 10,00 Estero E. 14,00 Registrazione Tribunale di Pordenone N. 168 del 3/6/1981 Questo periodico è iscritto alla: Unione Italiana Stampa Periodica
Più che positivo il bilancio del Festival appena concluso
Più di 50 eventi, oltre 40 ospiti - tra registi, esperti, giornalisti – una selezione di 30 documentari italiani e internazionali, di cui circa la metà in anteprima italiana assoluta, sono i numeri della nona edizione del festival di Cinemazero Le Voci dell’Inchiesta, che tra mercoledì 13 e domenica 17 aprile, ha presentato anche mostre di fotografia d’inchiesta che hanno “popolato” negozi sfitti nel centro città, workshop, e una serie di webdoc, documentari nati espressamente per la rete visibili nella Mediateca di Cinemazero su tablet. Esercitare, in un’epoca troppo sbrigativa, la “memoria dell’oggi” è stata una delle mission principali di questa nona edizione, che ha aperto uno sguardo sulla più stretta attualità – dai cambiamenti del costume all’evoluzione geo-politica internazionale, dalle trasformazioni sociali alla situazione dell’ambiente che ci circonda – spostando il baricentro della manifestazione sul cinema del reale. Pordenone è diventato per cinque giorni l’osservatorio privilegiato di quelle “realtà mai viste” che connotano un genere cinematografico in ascesa, il più vivo e denso di contenuti: il documentario contemporaneo, che spesso non trova in Italia un’adeguata distribuzione. Davvero considerevole la risposta del pubblico che ha affollato, sin dalla mattina, la Sala di Cinemazero così come tutti gli altri spazi che hanno ospitato le iniziative collaterali, gli incontri e i workshop. Sono praticamente raddoppiati gli ingressi rispetto all'ultima edizione (che ricordiamo si è svolta nel 2014 perchè lo scorso anno il festival ha subito una pausa) e si è attestata, in generale, come la migliore edizione di sempre per afflusso di pubblico: un dato ancora più eclatante se si considera che da quest’anno è stato introdotto il biglietto per ogni singola proiezione, e non più il biglietto cumulativo per l’intero programma del pomeriggio. L’età media del pubblico è molto giovane, e un’ottima risposta hanno avuto anche i matinée dedicati alle scuole. Il pubblico ha premiato – con un testa a testa fino alla fine con The fog of Srebrenica di Samir Mehanovic – Guantanamo's Child, Omar Khadr, di Patrick Reed e Michelle Shepard, testimoniando la forte vocazione dell'audience del festival ai valori sociali e all'attenzione ai diritti umani. Il successo di pubblico è senz’altro un risultato di grossa importanza e soddisfazione, ma non è l’unico parametro su cui si valuta la riuscita della rassegna: i curatori di Cinemazero si propongono come obiettivo quello di svolgere un ruolo culturale per far conoscere un tipo di cinema poco visto, come il documentario di inchiesta. Un ruolo che ha anche una valenza sociale visti i temi trattati dalle opere presentate: dai diritti del singolo e delle famiglie contemporanee, alla sensibilizzazione verso l’ambiente e gli sprechi, fino allo svelamento di verità scomode e sottaciute. Alto il riscontro anche per le dirette quotidiane in streaming degli incontri con i protagonisti del festiLILIANA CAVANI val, che ha evidenziato come alcuni appuntamenti FOLLIA, SANTITÀ, avrebbero sicuramente necessitato di una sede più POTERE, POVERTÀ grande. Scritti e interviste 1960 - 2016 Le Voci dell’Inchiesta ha anche l’ambizione di essere un festival che lascia una ricaduta nel tempo, come A cura di Fabio Francione testimoniano il libro realizzato quest’anno che raccoglie i principali scritti di Liliana Cavani (a fianco la edizioni cinemazero le voci dell’inchiesta copertina) e i numerosi worhshop per studenti accreditati (tra tutti il seminario con il regista Andrea Segre). In questo senso grande significato assume anche la decisione dei due ospiti di punta di quest’anno, Gianni Minà e Liliana Cavani, di voler affidare alle cure di Cinemazero alcuni dei loro preziosi materiali, tra articoli, sceneggiature, pellicole e filmati: una volontà espressa da entrambi dopo una visita alla Mediateca e all’archivio storico di Cinemazero. Ultima nota riguarda i finanziamenti: il festival, anche se giunto ormai al suo nono anno di vita, non ha un capitolo di finanziamento diretto da parte della Regione FVG. L’'auspicio è che ci sia in futuro un adeguato riscontro delle istituzioni regionali, proporzionato ai risultati ottenuti dalla manifestazione.
Le Voci dell’Inchiesta
Ripartendo... con slancio!
I film che non vorresti vedere in alcun altro posto che non sia un cinema
Gerwin Tamsma
L’ovvietà della proiezione
Proiezione: l’ovvietà della pellicola La domanda «C'è qualche film che semplicemente non vorresti vedere in nessun altro luogo che non fosse un cinema?» è apparsa nella mia casella di posta elettronica il giorno prima del mio viaggio annuale a Cannes. Quella sera c'era una proiezione di Sayat Nova/The Color of Pomegranates – Il colore del melograno (Sajat-Nova/Cvet granata, 1968) al WORM a Rotterdam. Così sono andato a vedere di nuovo il film, nella speranza che la specifica risposta a questa domanda mi sarebbe apparsa nella mente come un'epifania : è sempre più semplice dare una risposta senza troppe elucubrazioni accademiche. Erano passati più di vent'anni dalla prima volta che ho visto il film, ma era quasi certamente la stessa copia quella che veniva proiettata, proveniente dalgli archivi di distribuzione dello EYE (ndr. Film Institute Netherlands) con sottotitoli in olandese. La condizione della pellicola era «cattiva» secondo quanto riportato dall'archivio, ma molte «brutte» copie sono in uno stato peggiore, da quanto è risultato. Alcuni tratti di pellicola hanno effettivamente seri graffi, ma questo non ha danneggiato l'esperienza filmica e i colori sono ancora buoni. I 78 minuti sono rascorsi con un fascino senza tempo. In un certo qual modo misterioso, Parajanov non ci fa mai sentire come se dovessimo sforzarci per tenere il passo con lui, o che potremmo aver tralasciato qualcosa di essenziale. Come per una scultura di granito, la sua impenetrabilità non ne limita l'impatto visivo. Un'altro motivo per assistere a questa proiezione era anche il fatto che Sayat Nova era stato proiettato in una versione restaurata alla sezione Cannes Classics, i Classici di Cannes. Sfortunatamente, non avevo potuto assistere, e non avevo ancora alcun riscontro in merito. Ma immagino che i colori fossero stati riportati al loro pieno splendore e che non ci fossero graffi visibili sulla pellicola: come per tutti i film alla selezione ufficiale di Cannes di quest'anno, la proiezione è stata in digitale.
Una scena di Sayat Nova/The Color of Pomegranates di Sergei Parajanov (1968)
Non c'è nulla di male nel guardare un film in DVD o in televisione, o per quello che m'importa, in un museo, in aereo o sul vostro iPad. Ciò che uno vede assomiglia chiaramente al film e uno può più o meno dedurre da quelle «piattaforme» di cosa si tratta. Ma per me non è lo stesso: l'unico posto per guardare un film è il cinema. Dopo pochi giorni a Cannes, ho incontrato per caso un amico argentino e gli ho chiesto se avesse già visto Jauja (2014), la misteriosa indagine del paese del cinema di Lisandro Alonso. «Beh, ehm...» mi ha detto con uno sguardo che sembrava di terribile sofferenza «ho visto il Blu-ray, ma vorrei vedere il film». Sono certo non abbia nemmeno detto «vedere il film di nuovo». E non mi sono azzardato a chiedere oltre. La proiezione di Jauja il giorno successivo è stata un trionfo. Che sia stato il lavoro cinematografico di Timo Salminen su 35 mm, o quello che hanno fatto in post-produzione, o addirittura perfino la luminosa proiezione digitale, il risultato è stato che il film quasi fissa-
Una scena di Hard to be a God di Aleksej German (2013)
va col suo sguardo il pubblico, e il pubblico non ha potuto fare altro che arrendersi a quella fonte di luce. Il più importante film dello scorso anno da vedere essenzialmente al cinema è stato anch'esso girato in 35 mm. E come per Jauja, il film per ora può essere visto solo in proiezione digitale: si tratta di Hard to Be a God – È difficile essere un dio (Trudno byt' bogom, 2013) di Alexei Y. German. È uno di quei film che si capisce fin da lontano che vederlo al di fuori della sicura e oscura sala cinematografica, sarebbe un'esperienza piuttosto inutile. Gli spettatori che abbiano fruito appieno e correttamente dell'universo parallelo di German non saranno mai più in grado di guardare al nostro mondo allo stesso modo. Con uno sguardo che forse è più saggio, ma anche più triste, perchè non si potrà più tornare a quel terribile paradiso perduto, quegli spettatori osserveranno pietosamente i noniniziati. Quella segreta conoscenza è stata trasmessa. Non c'è niente che non vada nel DCP di Hard to Be a God, assolutamente. Sarebbe un pò snob e nostalgico lamentarsi di cose del genere. Siamo nel 2014 ed è così che proiettiamo i film. Ma mi manca l'inconsapevole sfarfallio del 35 mm. Mi manca il fatto che le pellicole fossero buone o pessime, rendendoti consapevole dell'atto del guardare. Mi manca il confortante impercettibile rumore che indicava l'inizio di una nuova bobina. Mi mancano i proiezionisti. Quando so che una proiezione viene fatta da film in pellicola, sento un moto di sollievo. Ma questo accade sempre più raramente. La proiezione in 35 mm (o in 16 mm) sembra per lo più confinata al regno dei filmmaker sperimentali, il cui tema principale sia la vera natura del materiale utilizzato, ma questa è tutta un'altra storia: quello che davvero mi manca è l'ovvietà della proiezione da pellicola. Bill Nichols nel suo saggio «Global Image Consumption in the Age of Late Capitalism» (1994) – La fruizione globale dell'immagine nell'era del tardo capitalismo – scrive uno dei testi più influenti sull'odierna cultura cinematografica: «I contenitori di rulli 35 mm non possiedono nulla del valore intrinseco che una scultura di Moore o una statua di Dogon invece hanno. Il valore ora risiede nel significante dell'immagine dematerializzata e nei diritti di proprietà intellettuale attaccati a questi fantasmi sullo schermo». Penso che Nichols non abbia del tutto ragione. Si, vent'anni dopo, l'immagine si è veramente dematerializzata, ma al punto in cui ci fa rendere conto che invece ci sia un valore intrinseco in quei contenitori di pellicole. Fra vent'anni a partire da ora, non vedo l'ora di assistere ad una proiezione in 35 mm di una copia vecchia e malconcia di Hard to Be a God. [traduzione a cura di Valentina Lanza] Gerwin TAMSMA è responsabile della programmazione dell’International Film Festival di Rotterdam dove cura la selezione dei i film provenienti dalla Cina e dalla Corea, America Latina e in Europa - Belgio, Paesi Scandinavi, Italia, Spagna e Portogallo. Sempre pr l’IFFR coordina la sezione Bright Future, fa parte del comitato di selezione per la Hivos Tiger Awards Competition e del comitato del Fondo Hubert Bals. Ha curato numerose retrospettive e programmi speciali.
La figura femminile, tra forza e fragilità, al centro dei film in concorso a Cannes
Marco Fortunato
Festival di Cannes 2016
Tutte le donne della Croisette Più di 1.800 i film visionati dai selezionatori, oltre 70 quelli scelti finora per comporre le diverse sezioni del ricchissimo cartellone - ancora non del tutto completato - del più importante appuntamento cinematografico del mondo: il festival di Cannes. Da che parte iniziare per cercar di offrire una chiave di lettura interessante, e speriamo non banale, per provare a “leggere” tra le righe i tanti film in concorso per la Palma d’Oro? Di fronte a tanta abbondanza il rischio è lo spaesamento, per cui ci focalizzeremo sui film inseriti nella selezione ufficiale. Uno spunto viene dall’analisi dei temi affrontati ed in particolare dai ruoli femminili, la cui centralità sembra essere uno dei fil rouge che caratterizza il programma 2016. Se è vero che sui venti film che compongono la “Competition” solo tre vedono una donna dietro la macchina da presa, è pur vero che in una gara – e un festival in fin dei conti è anche e soprattutto questo – conta spesso la qualità più che la quantità. Ed è altrettanto vero che a questa apparente penuria di quote rosa alla voce “registi” viene decisamente compensata da un peso specifico assai imponente alla voce “protagonisti”. Sono davvero tante infatti le pellicole che vedono al centro della narrazione la figura femminile. Prima di tutto sono proprio le tre registe che scelgono di raccontare altrettante storie tutte al femminile. L'inglese Andrea Arnold (American Honey) con la giovane Stella, una ragazza in fuga da una famiglia disastrata, racconta la difficile scoperta dei sentimenti in una banda di giovani che insegue il sogno americano, tra notti di party scatenati e giorni di lavoro. Altrettanto intimo e personale, anche se più ricco di ironia, l’approccio di Maren Ade (Orso d’Argento a Berlino nel 2009 con Alle Anderen) che in Toni Erdmann segue Ines, consulente aziendale di Bucarest, che si ritrova ad avere a che fare con il padre, rientrato in città sotto mentite spoglie. Quest’ultimo, convinto che la figlia abbia perso la gioia di vivere, decide di diventare “Toni Erdmann”, stravolgendo i suo aspetto e iniziando a tormentarla con scherzi e battute trasformando il loro rapporto, inizialmente burrascoso, in qualcosa di veramente speciale. Alla fragilità delle donne tratteggiate in questi due film fa in qualche modo da contraltare una veterana del festival, Marion Cotillard, che in Mal de pierres della francese Nicole Garcia interpreta Gabrielle, donna della borghesia agricola che decide di ribellarsi al suo destino di promessa sposa in una matrimonio combinato, fuggendo con un tenente ferito nella guerra in Indocina. Forza e determinazione caratterizzano questo personaggio, le stesse doti che non mancano anche a Isabelle Huppert (Elle di Paul Verhoeven), secondo le prime indiscrezioni già candidata in pectore alla Palma, impegnata nel ruolo di torbida dark lady protagonista di un enigmatico gioco con un assalitore e aggressore che da carnefice diverrà vittima. Il personaggio più forte in assoluto sembra però essere quello di Julieta - il cui nome dà il titolo al film di Pedro Almodòvar - una donna che sull'"orlo di una crisi di nervi" comincia a dare i primi segni di follia. Nella sua vita, dopo un periodo di felicità, è stata abbandonata ad un destino amaro, dove si susseguono una serie di disastri uno dietro l'altro. Quando sembra che solo un miracolo possa salvarla accadrà per davvero qualcosa di straordinario. Potrebbe sembrare che forza e fragilità siano le due categorie con cui sia più semplice incasellare le “donne del festival” ma, più si scorrono i titoli, più la questione si fa complessa e i confini di questi concetti si fanno sempre più sfumati e le due caratteristiche, invece che alternative, sono spesso compresenti, facce di una stessa medaglia che spesso ruota su sé stessa in maniera vorticosa.
Difficile definire, ad esempio, Charlize Theron, diretta dall’ex compagno Sean Penn in The last face, in quella che potrebbe essere una banale storia d’amore tra la direttrice di un'organizzazione internazionale di aiuti umanitari e un medico coinvolto nella missione in Liberia. Tuttavia le implicazioni etiche del loro lavoro, con le quali i due dovranno fare i conti durante la guerra, metteranno a dura prova la loro relazione. La stessa ambiguità sembra connotare anche Jenny, anch’essa medico, (La fille inconnue per la regia dei fratelli Dardenne) alle prese con il terribile senso di colpa per non aver accolto una ragazza ritrovata morta poco tempo dopo. La giovane dottoressa sembra inizialmente distrutta ma, quando scopre che l’identità della ragazza è sconosciuta, ritrova forza e determinazione per cercare di ricostruirne la storia ed il passato. Entrambe queste donne sembrano fare un percorso da un’iniziale fragilità, spesso determinata da una non facile situazione esterna, ad una progressiva (ri)scoperta delle propria forza interiore. A fare in qualche modo un percorso inverso è Marie (in Rester Vertical di Alain Guiraudie) una pastora dallo spirito libero che incontra Leo, un regista che decide di partire per raggiungere il sud della Francia alla ricerca dei lupi. I due si innamorano e lei rimane incinta. Dopo aver dato alla luce il bimbo, comincia a soffrire di depressione post partum e, in preda alla disperazione, abbandona sia Leo che il figlio. Qui la fragilità sfocia nel dramma, in storie cariche di sofferenza. Un mood che ritroviamo anche nel nuovo horror di Nicolas Winding Refn, The Neon Demon, ambientato nel mondo della moda, con Elle Fanning e Keanu Reeves dove la figura femminile è quella di una giovane modella di talento che entra in un mondo pericoloso di superficialità, potere e violenza in cui bellezza e giovinezza sono merci preziose quanto letali e in Personal Shopper di Olivier Assayas. In questo caso la protagonista è Kristen Stewart – che vedremo anche nel film di apertura targato Woody Allen – nei panni della dolce Maureen, una giovane tormentata che ha perso il fratello gemello e che comunica con gli spiriti. La ragazza, molto sola e triste (così come l’ha descritta la stessa Kristen Stewart in una recente intervista), oltre a vivere questa difficile situazione personale è alla prese con l’altrettanto arduo compito di assistere una famosissima attrice americana. Difficilmente inquadrabili, qualsiasi categoria si scelga, le protagoniste di Park Chan-wook che torna a lavorare nella terra natìa con il thriller The Handmaiden. Al centro di questo fosco intrigo ambientato nella Londra di fine Ottocento sono due giovani orfane: Sue Trinder, figlia di un’assassina, cresciuta in un mondo dickensiano di piccoli delinquenti, e Maud Lilly, una ricca ereditiera, che vive in una grande casa con uno zio dispotico. Le due decidono di allearsi in un crudele piano che sfocerà in esiti inaspettati portando quello che sulle prime poteva sembrare un melodramma vittoriano a tingersi di atmosfere gotiche, trasformandosi in un sinistro thriller che mescola con grande raffinatezza emozioni, suspense e scene di erotismo. Insomma tra tante donne, e tante storie, (un tema su cui sicuramente ritorneremo al termine del Festival) la vera difficoltà sarà scegliere la migliore interpretazione e le quote rosa potrebbero essere determinanti anche nella giuria. La sua composizione ad oggi è ancora sconosciuta (ad eccezione del regista di Mad Max George Miller come presidente) per cui è impossibile dire quante donne ci saranno. Di sicuro per ora, c’è solo chi non potrà esserci.. E’ il caso di Naomi Kawase, lo scorso anno in concorso ufficiale e già vincitrice del Grand Prix du Jury di Cannes 2007 con Mogari No Mori, chiamata a presiedere la sezione Cortometraggi.
Al via l’attesa retrospettiva dedicata alla grande cineasta francese
Lydia De Martin e Walter Dal Cin
Agnès Varda
Agnès Varda nostra contemporanea "Non mi sono mai posta la domanda se sono legittimata a fare ciò che sto facendo. Non ho alcuna laurea, solo il diploma di liceo. Ho seguito all’università, come libero uditore, dei corsi di Gaston Bachelard ed ho assistito all’ultima conferenza di Antonin Artaud. Ho imparato disordinatamente attraverso la griglia dello sguardo dei surrealisti e degli astrattisti, dei “rischia-tutto” come Picasso, Magritte e Prévert. Dopo la guerra, alla fine degli anni ‘40, la poesia e l’arte erano molto importanti, lo erano per tutti. Non ci si domanda se si ha il diritto di creare. Da quando ho fatto le prime riprese del mio primo film, mi sono sentita cineasta. Ecco ciò che profondamente credo: dal momento in cui si scrive poesia, si è poeti." Come non innamorarsi di questa dichiarazione di libertà? Libera dai bagagli accademici, dalle sudditanze professionali, dal diritto o meno di creare, Agnès Varda si fa scuola da sè́, per scrivere di sè e del suo mondo. Ecco ciò che la rende così forte e risoluta. Agnès Varda “mette alla prova” l’arte e la vita. Mette alla prova i suoi personaggi, li espone alla possibilità che accada qualcosa. Si mette alla prova, tramite le sue femmes, sempre più frequentemente, film dopo film. Recitando se stessa e rivolgendosi allo spettatore, lo interpella, attiva la possibilità di dialogo, rinunciando all’apparente invisibilità del regista, ponendosi, infine, davanti alla macchina da presa. Mette alla prova lo spettatore infrangendo le regole della messinscena, del racconto classico. “Dal mio primo film, ho sperimentato un linguaggio originale che non ha niente a che vedere, per esempio, con quello dell’adattamento letterario”. La sua originalità sta nell’aver sempre cercato di proporre punti di vista dichiaratamente personali, autoriali e non ideologici, caratterizzati da una costante curiosità verso nuove possibilità linguistiche e da un approccio anticonformista, a volte spiazzante, verso le vicende trattate. Il cinema di Agnè̀s Varda ha spesso avuto la donna, il mondo visto da una donna, al centro delle sue rappresentazioni e delle sue riflessioni. Cléo è la prima “eroina” di Agnès Varda che rompe con le convenzioni e che, dal “dovere”, passa al “volere”. Cléo, afferma la regista, è una marcia femminista, è il ritratto di una donna che si definiva dallo sguardo altrui, ma che, dal momento in cui comincia a guardare, cambia, si evolve. Al contrario, Monà, la protagonista di Sans toit ni loi, abbandona il mondo della definizione, del lavoro e delle relazioni sicure. Le persone che incontra tentano di darle un contenitore e un contenuto, ma la sua estraneitaà la porta in mondo desolato, sempre più lontano dalla possibilità di un dialogo. In Le Bonheur, un film costituito da un’ampia tavolozza di colori, Varda pone due donne, Émilie e Thérèse, in due diverse stagioni della vita di François. Lui le ama entrambe e dà voce alla possibile estensione degli affetti. Pomme e Suzanne, di L’une chante et l’autre pas, attraversano il mondo partecipando alla sua trasformazione: vivendo un inesauribile scambio di sguardi e di vedute, immaginando nuovi legami da proporre ai loro uomini. Émilie, in Documenteur, è una donna in attesa, che guarda il mondo a lei divenuto estraneo. Esiliata, tenta attraverso i gesti e gli accadimenti, di ritrovarsi e di ridarsi un posto. Jane B. e Agnès V. sono l’una di fronte all’altra, si studiano e si provano. La regista invita l’attrice a protendersi, con ruoli inusuali, verso territori a lei sconosciuti, approfittando delle sue avventure per puntualizzare la sua visione dell’arte, dell’amore, dell’amicizia. Dotate di un’inequivocabile personalità, le femmes d’Agnès esibiscono la loro natura senza mascherarla, la affermano sia con gesti intimi che con dichiarazioni manifeste. Per loro, Agnès Varda non inventa mondi, guarda i mondi possibili che la abitano e ci trasporta in essi attraverso la forza della sua scrittura, del suo metodo. Ogni film, proprio per questo, è permeato da un elemento dominante, sia esso l’estraneità̀, la complicità̀, la fedeltà o la separazione, che è trattato in modo specifico, unico, per poter manifestare la propria verità̀. Per questo il suo cinema ed il suo punto di vista ci sembrano sempre più necessari.
L’11 maggio a Cinemazero ospite il regista Egidio Eronico
Marco Fortunato
Dicono fosse un eccentrico e un visionario, un timido, poco propenso alle chiacchiere. Dicono fosse un genio della statura di Galileo e Newton, dotato di quello che nessun altro al mondo ha, ma sprovvisto di quello che normalmente hanno gli altri: il semplice buon senso. O forse no, forse era solo un uomo, Ettore Majorana. Per provare a rispondere a questa domanda, per ricostruire non solo il personaggio ma anche la “persona” di Majorana, Egidio Eronico – che sarà ospite il prossimo mercoledì 11 maggio a Cinemazero – ne ripercorre la vita e la misteriosa scomparsa che ancora oggi, quasi ottant’anni dopo, non smette di produrre quesiti, dubbi, ricerche. Proprio da quest’ultime parte Eronico per scandagliare tutti i retroscena di un enigma che, lungi dall’essere risolto, è diventato un paradigma di questioni scientifiche, politiche, morali, che agitano ancora la nostra società. E più l’analisi procede, più il mistero s’infittisce, facendo emergere interrogativi e contraddizioni che spingono ad indagare tra le pieghe più nascoste la vita e la personalità del giovane fisico. Cosa è stato di Majorana? La notte della scomparsa, a soli trentuno anni, (era il 26 marzo 1938) qualcuno dichiara di averlo visto per l’ultima volta a bordo della nave che da Palermo fa rotta verso Napoli. E subito ha inizio la ridda delle ipotesi, delle congetture. Suicida? Rapito da potenze straniere? Fuggito dall’Italia? Ritiratosi in un convento?... Tra documentazione e immaginazione – lungo la scia tracciata dalle approfondite ricerche di Francesco Guerra e Nadia Robotti intorno alla figura e all’attività di Majorana – Nessuno mi troverà cerca di rispondere magari solo ad alcune di queste domande. Senza la presunzione di fornire certezze, com’è ovvio, ma senza neppure adagiarsi nelle comode incongruenze di un’immancabile quanto insoddisfacente “verità ufficiale”. Abbiamo incontrato regista Egidio Eronico per un’anticipazione in attesa dell’11 maggio. Da dove nasce l’idea di un film su Majorana? Al di là dell’interesse sull’uomo di scienza, che c’è sempre stato, mi sono deciso a fare il film in qualche modo per reazione alla vulgata che da decenni grava sul personaggio e sulla persona di Majorana. È questa in particolare ad interessarmi. Tutti conosciamo il mito e le teorie di Majorana, la sua importanza nel mondo scentifico è fuori discussione ma da molto tempo, ad esserci trasmessa è l’immagine del“genio”, con tutto quello che ciò comporta dal punto di vista umano. Quello che non mi convinceva era proprio questa immagine di Majorana come persona, descritto come un uomo difficile, misantropo, controverso, asociale, inadatto a fare gruppo. Avevo voglia di capire se fosse veramente così. Ha lavorato con materiali molto diversi: documenti, immagini d’archivio, animazioni da graphic novel, testimonianze. Come ha gestito il tutto per renderlo un corpus organico? Cinematograficamente parlando il progetto si ispira al metodo di lavoro di Alan Moore più che alle sceneggiature per così dire “classiche”, nel senso che volontariamente ho deciso di mescolare materiali eterogenei. Il mio obiettivo era quello di reperire più informazioni possibili, così ho attinto a tutte le fonti disponibili. Esattamente come fa Moore nei suoi romanzi grafici – penso a Providence ad esempio – ecco, è a lui che mi sento debitore nel linguaggio che ho usato per costruire il film. Il film può vantare molte testimonianze personali ed inedite, come quella del nipote di Majoarana (Ettore Majorana Junior). Come l’ha convinto a partecipare al progetto? Ci sono stati diversi incontri durante i quali ho cercato sempre di trasmettergli la mia idea, quella appunto di raccontare il lato umano di suo zio, invece che focalizzarmi solo sulle polemiche relative al rapporto con Fermi o sulla scomparsa. Sapevo che glielo avevano chiesto già molte volte ma non si era mai prestato. Probabilmente in questo caso ha accettato perchè ha riconosciuto l’onesta intellettuale del progetto e ha capito che il suo contributo sarebbe stato determinante. Essendo frutto di un linguaggio nuovo anche il risultato finale rappresenta un ibrido, quasi un genere nuovo di difficile definizione, nè documentario nè inchiesta, sei d’accordo? Assolutamente sì. Questo è un film che fa dell’ibridazione dei linguaggi e dei generi il suo punto forte o per meglio dire il suo carattere. Mi rendo conto che è qualcosa di anomalo e anche rischioso, è un film che richiede un’attenzione particolare da parte dello spettatore ma che forse, proprio per questo, ne cattura maggiormente la curiosità.
Incontro con l’autore
Nessuno mi troverà, il memorandun Majorana
Tra i pochi italiani molti vengono dal FVG
Andrea Crozzoli
Il FVG a Cannes
Arrivano i nostri (e sono bravi) Il nuovo che avanza. Privi di film pronti per Cannes rimangono a casa i Moretti, i Garrone e i Sorrentino; ma sbarcano sulla Croisette i rappresentanti delle nuove generazioni di cineasti italiani. Dopo la vittoria (primo italiano dopo otto edizioni) alla Festa del Cinema di Roma di due anni or sono del friulano Alberto Fasulo con TIR, i nuovi registi della nostra regione (fra cui anche Bianchini, Oleotto, Zoratti, Gergolet) sono stati in qualche modo sdoganati nei principali festival cinematografici ed ora anche Cannes, primo in assoluto per importanza e grandezza, apre le sue porte a due notevoli autori del Friuli Venezia Giulia: Davide Del Degan (classe 1968), triestino con un lunga e bella carriera alle spalle, presenta L'ultima spiaggia regia a quattro mani con Thanos Anastopoulos, regista greco ma di adozione triestina da alcuni anni, presente nella selezione ufficiale come evento speciale; e Alessandro Comodin (classe 1982), altro sanvitese come Fasulo, al suo primo fiction movie con I tempi felici verranno presto girato tra i monti del Piemonte seppur pensato in Friuli. Davide Del Degan, conosciuto dal pubblico di Cinemazero fin dal 2002 in occasione della prima edizione di FilmMakers al Chiostro - ora FMK International Short Film Festival - dove presentò i suoi lavori e dove tornò nel corso del tempo, porta quest’anno a Cannes L’ultima spiaggia, un film sul muro che separa, in una spiaggia triestina, gli uomini dalle donne: il “Pedocin”. In questo stabilimento balneare il muro nessuno lo vuole abbattere. Non per un atteggiamento “bigotto” ma per una posizione sostanzialmente laica, per sentirsi più liberi. Qui tutto l’anno (lo stabilimento non chiude mai) si incontra la meglio triestinità popolare. Un luogo bizzarro, con un’umanità strana, adatta per essere raccontata al cinema; grazie anche alla presenza di Trieste, città di mare, terra di confine con la Slovenia e un tempo porto commerciale dell’Impero austro-ungarico. Definito dagli autori “una tragicommedia sulla natura umana” il film è anche, o forse soprattutto, una riflessione sui confini, le identità, le generazioni. L’altro talentuoso autore friulano, Alessandro Comodin, dopo il grande successo di L’estate di Giacomo, film distribuito dalla nostra Tucker Film e Pardo d’Oro a Locarno come miglior promessa, sarà presente a Cannes come evento speciale alla Semaine de la Critique, prestigiosa sezione del Festival, con I tempi felici verranno presto, un’opera simbolica e poetica, girata al confine tra Piemonte e Francia, che racconta di due ragazzi, Arturo e Tommaso, che scappano dalla prigione nella foresta. Tanti anni dopo, la foresta, che ha visto morire Arturo e Tommaso, pare sia ora infestata di lupi affamati. Ai giorni nostri, nessuno si ricorda della storia dei due giovani ma, proprio in quella foresta, Ariane scopre uno strano buco. Ariane è forse, allora, la ragazza di cui parla quella leggenda della valle? Il perché Ariane sia entrata in quel buco rimane un mistero, fatto sta che poi, di lei, non si è saputo più nulla. Ognuno la racconta a modo suo questa storia, ma tutti concordano nel dire che Ariane il lupo l’ha incontrato. Ma altri italiani ancora saranno quest’anno a Cannes: Stefano Mordini con Pericle il nero in concorso a Un Certain Regard e alla Quinzaine des Realisateurs ben tre autori come Paolo Virzì con La Pazza Gioia, il veterano Marco Bellocchio con Fai bei sogni (dal romanzo di Massimo Gramellini) e Claudio Giovannesi (Alì ha gli occhi azzurri) con Fiore.
Sesta edizione del Festival del cinema Curdo. Dal 17 maggio a Palazzo Badini
Ludovica Cantarutti
Curdi tra noi
Non solo cinema ma anche letteratura e storia
Abbiamo sperato di poter parlare finalmente di sola cultura in questa sesta edizione del festival del cinema curdo intitolato “Curdi tra noi”, voluto dall'Associazione “via Montereale, con il patrocinio del Comune di Pordenone e della Fondazione CRUP. Il festival, unico in Italia, vorrebbe raccontare ogni anno la straordinaria vitalità e la ricca storia di un popolo conosciuto, invece, più per la sua bellicosità che per le antichissime saghe nelle quali si forma. Abbiamo tentato questa strada due anni fa quando è stata premiata a Pordenone la giovane regista curda turca Mitzin Arslan ed anche l'anno successivo quando abbiamo avuto ospite il regista curdo iracheno Kae Bahar. Quest'anno invece, siamo dovuti tornare sui nostri passi e presentare, ancora una volta, situazioni condizionate dalla stato di guerra e intrecci complessi dovuti ai fatti che stanno insanguinando ancora il Medio Oriente ed in particolare la Siria. Non rinunciamo, tuttavia, a cercare gli argomenti che ci stanno a cuore, cioè la letteratura, la storia antica, la poesia e le ragioni di una essenza del popolo curdo tanto interessante che, com'è noto, è un popolo senza terra, o meglio senza nazione. Gran parte dell'antico Kurdistan, delle cui origini si fa cenno in una stele nel 2000 a.C. e che nel medioevo era formato principalmente da molti principati e piccoli stati indipendenti a struttura feudale, dopo il 1915 è stato incluso nei confini ottomani. Tutti sanno, infatti, che i curdi, oltre trenta milioni di individui, stanziano oggi fra Turchia, Siria, Iraq, ex Unione Sovietica ed altri Paesi limitrofi e non hanno una loro terra nazionale ed hanno per questo manifestato sempre una forte resistenza ad essere assimilati. Ciò ha creato molto spesso tensioni visto il primo desiderio dei Curdi di avere un'autonomia possibile pur restando nei confini di altre nazioni. Detto questo, la cinematografia curda è sempre stata l'elemento più significativo per definire la loro identità. Con tali presupposti è nato a Pordenone il festival la cui madrina è stata, fino alla sua prematura scomparsa, la studiosa Mirella Galletti (docente di storia dei Paesi Islamici presso l'Università di Napoli) alla quale l'Associazione “via Montereale” che da molti anni ormai lavora sulla sensibilizzazione alle culture lontane, ha poi dedicato l'intero evento. Non solo, a Mirella Galletti sono stati intestati due premi, il primo per un film e il secondo per una tesi di laurea, entrambi a cadenza biennale ed alternata, proprio per ottemperare a quanto diceva Mirella sull'alienazione culturale dei curdi cui puntano i governi centrali dei Paesi “ospitanti”. Il festival si svolgerà a Pordenone, presso la Sala Ellero di Palazzo Badini (in via Mazzini 2) nei giorni 17 e 24 maggio prossimi con programmi che cercano di andare comunque oltre la situazione di guerra. Martedì 17 alle ore 20,30 ci sarà la presentazione di un volume dal titolo “Siediti e ascolta”di Necat Cetin tradotto da Laura Anania (edizioni Pentagora) che raccoglie per la prima volta alcuni racconti antichi della cultura curda, racconti raccolti dall'autore in condizioni drammatiche. Sarà la voce di Carla Manzon a dare vita ad alcune di queste storie. Seguirà la proiezione del documentario di Ivan Grozny Compasso intitolato Puzzlestan. Si tratta di un documento (in italiano) che racconta un viaggio dalla Turchia a Kobane assediata, da qui all'Iraq e poi di nuovo a Rojava nella città appena liberata dall'Isis. La seconda serata del 24 maggio sarà aperta dalla premiazione della tesi di laurea scelta da una giuria presieduta da Andrea Galletti. Seguirà la proiezione, sempre in italiano, di “Un giorno in Siria” tra le donne curde combattenti. Un documentario del giornalista freelance Rosh Ahmajd che riprende l'interessante discorso sul piccolo esercito delle donne curde che fanno fuggire i nemici. Perché li fanno fuggire? Il Corano promette ad un uomo che muore di essere accolto nell'Aldilà da settantadue vergini (chissà perché proprio questo numero). Ma se lo stesso uomo muore per mano di donna il premio non ci sarà. L'ingresso al Festival è libero.
Un film di Paolo Virzì. Con Valeria Bruni Tedeschi, Micaela Ramazzotti. Italia, 2016. Durata 118 min.
LE VITE, GLI AMORI, LE SPERANZE E LE DISILLUSIONI ATTRAVERSO DUE GENERAZIONI
Al DI l à Del l e mont Agne
DI j IA zhAn g -ke Fenyang, 1999. La Cina è a un passo dal nuovo secolo e da Macao, ultima colonia portoghese in Asia. Mentre il Paese si appresta a ristabilire la propria sovranità, Tao, una giovane donna di Fenyang, non sa decidere a chi appartenere. Corteggiata da Zhang, proprietario di una stazione di servizio che si sogna capitalista, e Lianzi, minatore umile che estrae speranze e carbone, Tao prova a fare chiarezza nel cuore. Tra una corsa in macchina e un piatto di ravioli al vapore, sceglie Zhang e getta nella disperazione Lianzi, che abbandona casa e città. Quindici anni, un matrimonio e un figlio dopo, Tao è separata e sola, Lianzi ha un cancro e Zhang vive a Pechino con un'altra donna. Cinico e ricco ha ottenuto l'affidamento del figlio, che ha chiamato come la valuta americana (Dollar) e ha deciso di far crescere in Australia. Terra promessa dall'altra parte del Mondo, l'Australia diventa la patria di Dollar che maggiorenne e inquieto ha deciso di ritrovare sua madre e la Cina. A ostacolarlo c'è Zhang, che non ha mai imparato l'inglese e non ha parole per raggiungere il suo ragazzo. A casa e sotto la neve, attende da sempre Tao. La mutazione accelerata del (suo) mondo è l'oggetto ideale del cinema di Jia Zhangke. Registrare una realtà che evolve sotto gli occhi con tale velocità e tali proporzioni è la sua vocazione e in un certo senso quella del cinema (delle origini). Dopo il gigantismo del cantiere di Still Life, che conduceva a conseguenze gigantesche, Jia Zhangke svolge una relazione d'amore attraverso gli anni e le trasformazioni economiche del suo Paese. Cuore centrale della storia è ancora una volta Fenyang, città natale dell'autore e punto di ancoraggio estetico e sociale del suo cinema. La sua produzione artistica, avviata nel 1995 e rimasta a lungo clandestina in Cina, testimonia da sempre la fragilità dell'uomo sottomesso a volontà che lo doppiano. Funambolo su un filo teso tra fiction e documentario, l'autore è ritrattista e paesaggista insieme di sentimenti forti emersi da una società in crisi. Vedere i suoi film è come accedere a un laboratorio estetico, un diapason che produce un suono puro, frequenze armoniche che accordano tecnica digitale e finzione, documentario e lirismo elettrico, (iper)sensibilità poetica e interazione tra uomini e ambiente. Se il suo cinema precedente minacciava l'assorbimento dell'individuo nelle metamorfosi capitaliste, Al di là delle montagne realizza la minaccia e la spiega lungo un'asse temporale che contempla presente, passato e futuro. Sospeso tra la certezza di quello che è stato, il film apre sul Capodanno del 1999, e l'ipotesi di quello che potrà essere, il film chiude sull'inverno del 2025, Al di là delle montagne materializza l'ambizione cinese nella figura di Zhang. Indietro restano Lianzi, senza lavoro e in compagnia del suo cancro, Tao, corpo nazione indecisa sulla strada da prendere al debutto e poi votata al consumo, e Dollar, il prezzo pagato alla conversione economicaUn film che porta a compimento la minaccia dell'assorbimento dell'individuo nelle metamorfosi capitaliste, spiegandola lungo un'asse temporale che contempla presente, passato e futuro. [www.mymovies.it]
UN'IMPREVEDIBILE AMICIZIA TRA DUE PAZIENTI PSICHIATRICHE
l A PAzzA g Io IA
DI PAo l o VIRzì Dopo il successo de Il capitale umano, Paolo Virzì torna dietro la macchina da presa per girare una commedia drammatica ambientata in Toscana. Il regista livornese ha dichiarato che il film racconterà "una passeggiata fuori da una struttura clinica che si occupa di donne con problemi in quel manicomio a cielo aperto che è l'Italia". Beatrice Morandini Valdirana è una chiacchierona istrionica, sedicente contessa e a suo dire in intimità coi potenti della Terra. Donatella Morelli una giovane donna tatuata, fragile e silenziosa, che custodisce un doloroso segreto. Sono tutte e due ospiti di una comunità terapeutica per donne con disturbi mentali, dove sono sottoposte a misure di custodia giudiziaria. Il film racconta la loro imprevedibile amicizia, che porterà ad una fuga strampalata e toccante, alla ricerca di un po' di felicità in quel manicomio a cielo aperto che è il mondo dei sani. Sollecitato a descrivere questo suo nuovo film, Paolo Virzì risponde così: "Sono molto eccitato da questa nuova impresa, da questa storia di pazzia, di desiderio di libertà e di amore, scritta insieme a Francesca tra risate e lucciconi, che ci ha spinto a perlustrare i luoghi più diversi dove ci si prende cura dei disturbi psichici, a volte con percorsi di terapia ottimistici, o più spesso sbrigativamente con la custodia e la restrizione. Con questo film avventuroso, in bilico tra ironia e dramma, esploriamo il confine labile tra sanità e insanità mentale, immergendoci nel cuore di esistenze condannate allo stigma sociale della follia e della pericolosità, e provando ad osservare - attraverso quel loro sguardo ritenuto strano, di donne imperfette - la fragilità, la miseria e a volte anche la ferocia delle nostre esistenze ritenute normali".
i film del mese
(Tit. Or.: Shan He Gu Ren) Un film di Jia Zhang-Ke. Con Zhao Tao, Yi Zhang, Jing Dong Liang. Cina, 2015. Durata 131 min.
INVISIBLE CITIES Domani accadrà ovvero se non si va non si vede
Gorizia, sedi varie - dal 6 al 29 maggio 2016
Dal 6 al 29 maggio 2016 a Gorizia sarà nuovamente tempo di In\Visible Cities, Festival Internazionale della Multimedialità Urbana in cui le arti multimediali incontrano la città per valorizzarne il patrimonio visibile e invisibile, invadendo strade, piazze, negozi dismessi e giardini. Con la sezione “Dopo la catastrofe / città, trasformazioni, memorie” l’edizione 2016 indagherà, attraverso gli strumenti e i linguaggi della multimedialità urbana, ciò che avviene dopo una catastrofe naturale. Durante il Festival la città si accenderà di luci, proiezioni, musica e parole attraverso installazioni artistiche, live performance, workshop e seminari, il cui fil rouge sarà la sperimentazione di percorsi innovativi capaci di raccontare la città nelle sue innumerevoli vesti. Info: www.invisiblecities.eu
IL FILM AMATORIALE COME PATRIMONIO STORICO E SOCIALE Gemona del Friuli, mercoledì 18 maggio 2016
A conclusione del progetto sulla Memoria di massa curato da Andrea Collavino e Renato Rinaldi, coordinato dalla Cineteca del Friuli e sostenuto dalle fondazioni CRUP, CariGo e Antonveneta, mercoledì 18 maggio alle 21.00 al Cinema Sociale di Gemona è in programma una serata dedicata ai materiali realizzati da filmmaker - locali e non - sul terremoto del 1976, conservati nell’archivio della Cineteca e recentemente digitalizzati. I filmati, che documentano i profondi cambiamenti avvenuti nel paesaggio e nella vita delle persone dopo il sisma, sono testimonianze preziose quanto delicate. Girati nel fragile Super8 (erano gli ultimi anni di utilizzo di questo formato amatoriale, prima dell'invasione e della moltiplicazione dei numerosi standard video), spesso in copie uniche, stanno deperendo, con perdita del colore e rigature dovute all'eccessivo utilizzo. Digitalizzarli e conservarli in condizioni ottimali di temperatura e umidità è fondamentale per sottrarli a un destino segnato di dispersione e di oblio. Info: www.cinetecadelfriuli.org
ÈSTORIA 2016 - SCHIAVI
Gorizia, sedi varie - dal 19 al 22 maggio 2016
L’obiettivo che si prefigge l’edizione 2016 di èStoria è quello di spaziare sul tema della schiavitù, declinandolo come di consueto con un approccio storiografico ma anche interdisciplinare, che intrecci – attraverso una rigorosa prospettiva storica affidata alle voci più autorevoli del panorama storico e culturale – letteratura, cinema, musica, arte, antropologia, psicologia, filosofia, economia e altre materie. èStoria inoltre continua a dedicarsi al tema della Grande Guerra, prolungando idealmente il Festival 2014 fino al 2019 con la sezione Trincee. Il programma proporrà al pubblico una fitta serie di appuntamenti in varia forma (dibattiti a più voci, incontri con l’autore, reading, presentazioni, mostre). Info: www.estoria.it
GLI AMICI DI GIÒ
Borsa di studio in memoria di Giovanni Scrizzi
A marzo sono state assegnate a quattro studenti di musica le prime borse di studio istituite con i fondi raccolti dagli “amici di Giò”, gruppo formato dagli amici di Giovanni Scrizzi, indimenticato ed indimenticabile personaggio pordenonese. I promotori intendono riproporre la borsa anche nei prossimi anni e a questo proposito chi vuole partecipare al progetto può effettuare una donazione sul conto corrente intestato alla società cooperativa onlus Polinote, aperto alla Banca di credito cooperativo Pordenonese, iban IT14R0835664780000000042213, specificando la causale: “Donazione borsa di studio Gli amici di Giò”. Info: info@polinote.it - tel. 0434-520754
ZERORCHESTRA E FILARMONICA DI PORDENONE PRESENTANO
BERLINO, SINFONIA DI UNA GRANDE CITTÀ
TEATRO COMUNALE CORMONS | 2 MAGGIO 2016 ORE 20.45 | INGRESSO LIBERO