CinemazeroNotizie Novembre 2018

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€ 1,00 mensile di cultura cinematografica

Domenico Scandella: l’eretico friulano

Colloquio con Alberto Fasulo in sala con il suo Menocchio

Sembra mio figlio, alla ricerca delle proprie origini Intervista a Costanza Quatriglio, ospite a Cinemazero il 7 novembre

Marcello Mastroianni, una vita tra parentesi Cinemazero protagonista delle mostra all’Ara Pacis di Roma

Zombie contro zombie

La zombie-comedy che ha disintegrato il box office giapponese

Muriel Box, chi era costei?

Riscoperta ai festival di San Sebastián e di Lione

2018 numero 10 anno XXXVIII

Le foto di Mamma Roma in mostra a Casarsa

Da sabato 27 ottobre al Centro Studi Pasolini

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Novembre

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Luci ed ombre dal check-up del cinema d’essai

A Mantova il convegno FICE per fare il punto della situazione

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Luci e ombre dal check-up del cinema d’essai

Andrea Crozzoli

Editoriale

A Mantova il consueto appuntamento per fare il punto sul cinema d’essai

«Dobbiamo lavorare sull’unicità del film. Dobbiamo ricreare quell’aurea attorno all’opera per tornare al mito che circondava un tempo il prodotto film. Devono dialogare assieme produzione, distribuzione ed esercizio, sono anelli della stessa catena! Non ha senso un convegno per categoria!» lo afferma, con la consueta determinazione, la produttrice Francesca Cima dal palco di Mantova dove si svolge il convegno della FICE a conclusione degli annuali e frequentatissimi Incontri del Cinema d’Essai. Dialogo a tre che fatica a prendere quota mentre le criticità rimangono inesorabilmente sul tappeto. Ma dove sono annidate queste criticità? Nella stagionalità delle uscite; nell’accesso ai film con ostacoli alla multiprogrammazione e all’autonomia dei palinsesti; nei multiplex che proiettano lo stesso titolo su più schermi; nelle uscite “tecniche” e nelle windows (il tempo che intercorre fra uscita in sala e in dvd del film) uguali per tutti i tipi di film; nell’obbligo di trailering a pagamento; nella forte concentrazione degli agenti regionali spesso anche programmatori e gestori; nella bassa disponibilità all’apporto di capitale proprio; nella scarsa propensione verso l’innovazione e la diversificazione. Questo è l’implacabile elenco di criticità che il Direttore Generale del Mibac Nicola Borrelli fà scorrere, a mezzo di slide, sullo schermo, ed aggiunge provocatoriamente, dando così un ulteriore brivido alla distratta sala: «Perchè lo Stato deve investire oltre ottanta milioni di euro in un settore che vede un calo costante di pubblico?». Ma quali sono i dati che poi danno il polso dello stato di salute del cinema d’essai? In Italia nel totale delle sale cinematografiche commerciali i film d’essai incidono per il 30% delle presenze, ovvero 37 milioni gli ingressi con la normale programmazione e 15 milioni e mezzo gli ingressi con il d’essai. Nelle sale d’essai, invece, la media si inverte dove il 70% sono gli ingressi con film d’essai (quasi 5 milioni) e il 30% con altri film (quasi 2 milioni). In questa ultima stagione cinematografica sono usciti in sala 421 film di cui 170 (ovvero il 40%) considerati d’essai. Di questi 170 ben 60 battevano bandiera italiana e hanno racconto oltre il 40% di quei 15 milioni e mezzo che sono le presenze d’essai. Questo strabiliante successo del cinema d’essai italiano è tanto più clamoroso se guardiamo la classifica dei dieci film d’essai con le maggiori presenze dove troviamo fra i primi quattro, che hanno superato il milione di presenze, due titoli italiani e due titoli nordamericani; ovvero al primo posto A casa tutti bene di Gabriele Muccino con Stefano Accorsi, Tea Falco, Pierfrancesco Favino e al terzo posto Benedetta follia di e con Carlo Verdone. Fra i primi dieci troviamo anche Paolo Sorrentino con Loro 1, Paolo Virzì con Ella & John e l’esterofilo Luca Guadagnino con Chiamami col tuo nome. I titoli italiani a più alto rendimento di presenze nelle sole sale d’essai sono stati, invece, Resina di Renzo Carbonera con Maria Roveran e Thierry Toscan che ha realizzato l’88% delle presenze nelle sale d’essai seguito da Lazzaro felice di Alice Rohrwacher con Adriano Tardiolo e Alba Rohrwacher col 64% delle presenze realizzate nelle sale d’essai. Risultati incredibili, al di là di ogni più rosea aspettativa, se pensiamo che mettiamo in campo solo una piccola percentuale del nostro italico potenziale creativo. Nonostante questi ottimi risultati per il cinema d’essai in genere e per il cinema d’essai italiano in particolare, nel mantovano “transatlantico” della convention un noto distributore sussurra sconsolato: «Si continua a ballare mentre affondiamo lentamente!» Definiamo almeno la “window” prima di affondare!

In copertina il primo piano di Menocchio (Marcello Martini) di Alberto Fasulo, in sala a Cinemazero dal 1 novembre.

cinemazeronotizie mensile di informazione cinematografica Novembre 2018, n. 10 anno XXXVII ISSN 2533-1655

Direttore Responsabile Andrea Crozzoli Comitato di redazione Piero Colussi Riccardo Costantini Marco Fortunato Sabatino Landi Tommaso Lessio Silvia Moras Maurizio Solidoro Collaboratori Lorenzo Codelli Luciano De Giusti Manuela Morana Elisabetta Pieretto Segretaria di redazione Elena d’Inca Direzione, redazione, amministrazione Via Mazzini, 2 33170 Pordenone, Tel. 0434.520404 Fax 0434.522603 Cassa: 0434-520527 e-mail: cinemazero@cinemazero.it http//www.cinemazero.it Progetto grafico Patrizio A. De Mattio [DM+B&Associati] - Pn Composizione e Fotoliti Cinemazero - Pn Pellicole e Stampa Sincromia - Roveredo in Piano Abbonamenti Italia E. 10,00 Estero E. 14,00 Registrazione Tribunale di Pordenone N. 168 del 3/6/1981 Questo periodico è iscritto alla: Unione Italiana Stampa Periodica


Le foto di Mamma Roma in mostra a Casarsa

Antonio Maraldi

Le foto di scena (o sarebbe meglio dire, le foto di set) quando frutto del lavoro di valenti fotografi sanno raccontare bene e molto di come una lavorazione si sia svolta e di quale clima l’abbia caratterizzata. è’ il caso delle foto di Mamma Roma di Pier Paolo Pasolini, in mostra al Centro Studi Pasolini di Casarsa della Delizia, opera di Divo Cavicchioli e Angelo Novi. Quelle foto ci dicono innanzitutto della tranquillità e dell’eleganza del regista. Pasolini è quasi sempre in giacca e cravatta e non è mai ripreso in atteggiamenti isterici o urlanti, nonostante una lavorazione non semplice. La distensione si nota anche nei confronti della protagonista Anna Magnani. E qui è il caso di aprire una parentesi. Anche guardando le successive fatiche televisive (ad eccezione forse de La sciantosa), si può affermare che quello di Mamma Roma sia stato l’ultimo, significativo ruolo per Anna Magnani, attrice simbolo del nostro cinema, morta sessantacinquenne Magnani e Pasolini sul set il 26 settembre 1973. Pier Paolo Pasolini l’aveva cercadi Mamma Roma (ph Angelo Novi) ta e voluta e lei aveva accettato con convinzione la parte. All’inizio della lavorazione del film, durata dall’aprile al giugno del 1962, i rapporti tra regista e attrice furono segnati da dissapori tecnico-professionali. Pasolini gira inquadrature brevissime, con molti stacchi, mentre la Magnani è abituata a lunghe sequenze che sfrutta per far emergere tutte le sfumature dei personaggi interpretati. Nel diario di lavorazione del film, riportato in Le regole di un’illusione (Fondo Pier Paolo Pasolini 1991) l’aiuto regista Carlo di Carlo il 13 aprile, a pochi giorni dall’inizio, annota: « [La Magnani] seguita però a discutere con Pier Paolo perché insiste a farle recitare le battute staccate e mai unite. Mai una scena intera (…). Le discussioni seguiteranno anche nei giorni a venire e Anna alla fine prenderà l’abitudine e ne sarà contenta». Le foto in mostra denotano anche una Magnani pronta ad ascoltare e a interloquire non solo col regista ma anche coi compagni di lavoro (a cominciare dallo lo scrittore Paolo Volponi nel ruolo del sacerdote) e con gli ospiti in visita al set, come il regista francese Marcel Carnè. L’esposizione – divisa in diverse sezioni - mostra molto altro, a partire dalla curiosa partecipazione degli abitanti ai vari ciak. Oltre al capitolo “Anna Magnani e Pasolini”, sono presenti le scansioni “Pasolini sul set”, “Scene”, “Set e dintorni”, “Ritratti” e “Spazi”. Le immagini esposte sono di due formati, quadrate e rettangolari. Il motivo si deve al diverso impegno dei due fotografi, Cavicchioli e Novi, citati all’inizio. Nessuno dei due nomi è riportato nei titoli di testa del film ma la loro presenza è accertata. Il citato volume Le regole di un’illusione indica come fotografo Angelo Novi. Divo Cavicchioli, all’epoca tra i più celebri fotografi di scena e titolare di un avviato studio, aveva accettato il film ma non potendo seguirlo direttamente mandava in sua sostituzione Angelo Novi, che in quel periodo muoveva i primi passi nel mondo del cinema. Grazie all’uso di diversi apparecchi (Cavicchioli lavorava con una Rolleiflex - negativo quadrato, 6x6 - mentre Novi, provenendo dal fotogiornalismo utilizzava una Leica - negativo rettangolare, 35 mm.) si è deciso di attribuire al primo le foto quadrate e al secondo quelle rettangolari. D’altronde i 1.330 negativi del film dell’archivio Cavicchioli, conservati al Centro Cinema Città di Cesena, registrano una precisa divisione di scene e formati. La gran parte – un migliaio circa - sono in 35 mm, opera di Novi (in seguito al lavoro su diversi set pasoliniani, da Il vangelo secondo Matteo a Teorema) mentre le restanti 6x6 (comprese le rarissime diapositive a colori, con Garofolo e Magnani telaietto in cartoncino su cui è impresso il timbro “Divo (ph Divo Cavicchioli) Cavicchioli fotografo” con tanto di indirizzo e numero di telefono) sono state scattate da Cavicchioli, poi fotografo per Uccellacci e uccellini.

Mamma Roma a Casarsa

Da sabato 27 ottobre al Centro Studi Pasolini


Domenico Scandella: l’eretico friulano

Andrea Crozzoli

Menocchio

Esclusivo colloquio con Alberto Fasulo regista del film ora sugli schermi di Cinemazero

Come è nata l’idea di un film su Menocchio? «Dall’incontro con Aldo Colonnello e il suo mondo da maestro, da bibliotecario, da studioso, è scaturito il mio entusiasmo per la vicenda di Domenico Scandella detto Menocchio. Ho sentito che questa storia era un viaggio possibile, anche se poi la figura del Menocchio è assolutamente da declinare attraverso la lettura di libri e documenti.» Un personaggio che accende il confronto, un ribelle in un’epoca in cui tutti, ora come allora, cerchiamo il consenso degli altri... «Il Menocchio era un personaggio che da sempre avevo voglia di conoscere, di studiare e l’incontro con Colonnello ha acceso il mio entusiasmo tanto che la prima stesura della sceneggiatura del film l’ho fatta proprio a Montereale; dove per due settimane ho dormito negli alloggi del comune per respirare l’aria dei luoghi.» Un friulano disposto a sacrificare la vita per difendere i propri principi ... «Menocchio è da quaranta anni molto conosciuto, soprattutto nel mondo universitario e oggi più che mai, si sente il bisogno di raccontare una figura di questo tipo, soprattutto per noi che diamo sempre tutto ciò che accade per scontato. Menocchio non era contro l’idea di un regime, era contro il regime tout court, contro qualsiasi posizione egemone imposta.» Come hai costruito visivamente il film? «Il film l’ho sempre avuto in testa, lo vedevo, lo sognavo. Sognavo i volti e i luoghi; il problema era poi trovarli. Questo ha significato fare il lavoro inverso a quello che avevo svolto fino a quel momento. Ero abituato a cercare i volti e i luoghi con la macchina da presa in mano, mentre questa volta ho dovuto mettermi alla ricerca prima di prendere la cinepresa.» Non ti spaventava un film in costume? «Ero più spaventato dall’architettura produttiva del film che dal film stesso. In fondo il film è fatto con la gente, con i luoghi e sui luoghi del Menocchio, con i quali però io devo amalgamarmi. Devo far crescere in me il film stesso, la storia stessa. Non a caso il casting è stato fatto sui luoghi dove poi abbiamo girato. La prima cosa, infatti, che chiedo al film è di essere credibile. La mia visione del film era chiara, ma era di una chiarezza che richiedeva tempo. Un tempo fuori dagli schermi produttivi attuali del cinema commerciale.» Come hai affrontato l’atmosfera della fine del ‘500? «Ho avuto, tra l’altro, anche la fortuna di trovare Viorica Petrovici, una costumista rumena, di un paese ancora, fortunatamente, legato alla terra, agreste, per cui la visione di realtà che volevo nel mio film lei lo ha capito immediatamente, in una perfetta sintonia. Per me filmare è riprendere la realtà, anche se siamo nel 1599 come nel caso del Menocchio. Per questo deve essere una realtà in cui credo e in cui mi immergo letteralmente.» Gli attori sono tutti non professionisti, ad eccezione di uno. Come hai lavorato con loro? «Con gli attori il mio lavoro è stato unicamente quello di metterli a loro agio, di lavorare sulla loro personalità. Quando vedo l’atteggiamento che hanno con me o con altri, sia nell’esporre un pensiero o altro, capisco i vari piani di approccio. Quando ho visto Marcello Martini, ho sentito subito questa energia, ho capito che Menocchio, il mugnaio, era lui. Da lui ho cominciato a


costruire poi la famiglia, con la quale ci siamo incontrati per quasi un anno ogni settimana a cena parlando di tutto fino a far percepire loro del tutto normale l’idea di fare un film. Capendo le persone, la loro modalità di approccio alla realtà capivo poi come meglio dirigerle sul set. Così è stato per tutta la famiglia del mugnaio Domenico Scandella.» Come ti sei documentato sull’epoca dal punto di vista iconografico? «Nella mia ostinata ricerca di costruire un film credibile sono andato a vedere tutti i quadri possibili di quell’epoca in quanto solo i quadri mi potevano dare un rimando visivo, iconico di quegli anni bui. Girando per il mondo in varie città, al seguito di TIR, coglievo l’occasione per visitare i diversi musei come la Pinacoteca Brera di Milano, il Moma di New York o Alte Pinakothek di Monaco di Baviera. Tutto questo per trovare una costellazione di immagini, di costumi, visi e situazioni del mondo di quel tempo. Ero perfino sorpreso nel trovare in quelle opere il perizoma, i sandali, le barbe che mi davano una percezione di non estrema lontananza dall’oggi. Questa incredibile percezione alimentava in me la sensazione di non fare un film così distante da una possibile realtà.» La fine del XVI secolo è particolarmente carica di cambiamenti ... «Con il Menocchio siamo nel periodo in cui Martin Lutero spacca la Chiesa. Se la Chiesa cattolica affermava che la santissima Trinità, verso la quale dobbiamo tendere, è in realtà irraggiungibile, nella sua divina perfezione di santità mentre il nord Europa luterano affermava che Dio, Gesù e la Madonna sono tra noi, sono uomini a cui noi dobbiamo tendere. Non a caso Rembrandt e Vermeer, pur avendo nei loro quadri una luce che illumina dall’alto i soggetti, hanno usato per le loro Madonne i volti popolari di donne tratte dalla strada. Per me questa di Menocchio era l’occasione per restituire quella visione, tutta quella iconografia pittorica sacra ma anche profana. I pittori hanno usato la luce per raccontarci la loro visione della realtà. Io ho usato la luce per raccontare la mia visione.» Nel film sei anche direttore della fotografia. Come hai lavorato dal punto di vista visivo? «Ho fatto un film in cui l’oscurità rimandasse, anche, a quelle atmosfere buie, fiamminghe, protestanti. Ad esempio per creare una tensione particolare, che serviva alla scena dell’interrogatorio, lasciavo gli attori per un’ora in questi ambienti bui per prepararsi psicologicamente. Poi giravo ciak lunghi anche mezz’ora, lasciandoli liberi, senza interruzione, lasciandoli andare al loro sentire, alla loro percezione.» Nel girare il film hai rispettato l’ordine cronologico del racconto? «Il film è girato quasi tutto in ordine cronologico ad esclusione della scena del bambino, che è, nella realtà, il nipote di Marcello Martini/Menocchio. Per la scena iniziale del film, quella del parto della mucca, abbiamo aspettato pazientemente una settimana l’evento e quando è accaduto, ho girato il tutto con una sola cinepresa in un unico lungo piano-sequenza anche se poi, in montaggio, lo abbiamo tagliato in vari pezzi.» Quali sono fra i grandi maestri del cinema i tuoi riferimenti? «Non ho precisi riferimenti nei maestri del cinema. Ho visto, certo, vari film su quest’epoca: da Dreyer a Bresson passando per Rossellini, ma, essendo anche operatore, quello di cui ho bisogno, quando giro, è di sentirmi dentro la storia, dentro il film, di scegliere sempre da che parte stare, anche se oggi, credo, questa scelta viene fatta più per opportunità che per libera scelta. Amo alcune cose del portoghese Pedro Costa, se proprio devo fare un nome!» Progetti per il futuro? «Durante la lavorazione del film dormivo in una casetta con tutta la famiglia Menocchio. Facevamo colazione assieme, passavamo le serate parlando. Una sera Emanuele Bertossi, nel film il figlio di Menocchio e nella realtà un valente artista visuale, fissando un vecchio scanietto di legno, diceva di vedere in questo un gatto. Mi sembrò una specie di Geppetto del terzo millennio o del terzo secolo dopo Cristo. Questo, però, mi ha fatto venire in mente un altro soggetto per un possibile film. Sento che ho bisogno di fare film che sviluppino personaggi più complessi. Che portino ad un ragionamento più profondo e aperto.» Ora il film è terminato, che cosa ti aspetti? «Ora che Menocchio è terminato mi piacerebbe che il lavoro arrivasse alla gente, che la gente ne parlasse fra loro. Il film non deve essere solo un vezzo del regista ma qualcosa che parla alla gente e che fa parlare, pensare, ragionare. Per me è importante che il film emozioni. Tutto il resto, festival, premi, recensioni, sono solo una grande lotteria.»


Mercoledì 7 novembre alle 21.00 ospite a Cinemazero la regista Costanza Quatriglio

Marco Fortunato

Intervista a Costanza Quatriglio

Sembra mio figlio Sfuggito alle persecuzioni in Afghanistan quando era ancora bambino, Ismail vive in Europa con il fratello Hassan. La madre, che non ha mai smesso di attendere notizie dei suoi figli, oggi non lo riconosce più. Dopo diverse e inquiete telefonate, Ismail andrà incontro al destino della sua famiglia facendo i conti con l’insensatezza della guerra e con la storia del suo popolo, il popolo Hazara. è la storia di un viaggio tra Oriente e Occidente quella firmata da Costanza Quatriglio in Sembra mio figlio, un’opera coraggiosa e di drammatica attualità. Abbiamo raggiunto telefonicamente la regista che sarà ospite mercoledì 7 novembre a Cinemazero Se è vero che ogni storia, in particolare quella che dà origine a un film ha dietro un’altra storia quella da cui nasce Sembra mio figlio è molto speciale Effettivamente sì, perché Mohammad Jan Azad, il protagonista, è stato anche uno dei ragazzi che ho seguito nel mio documentario Il mondo addosso, girato a Roma tra il 2005 e il 2006. Mohammad è stato, purtroppo, uno dei tanti figli che le proprie madri hanno “fatto scappare” nella speranza di offrigli un futuro migliore, lontano dalla guerra. Quando ci siamo reincontrati, nel 2010, mi ha raccontato del suo primo tentativo di rimettersi in contatto con la madre, dell’emozione, della difficoltà, della paura. E da lì è nata la mia voglia di provare a raccontare questa storia. Hai mai avuto l’idea di raccontarlo attraverso un documentario? No, fin dal primo momento ho sentito che era necessaria una traslazione ulteriore per arrivare al pubblico. I primi racconti di Mohammad sono stati la base per un cortometraggio Breve film d’amore e libertà, nato dalla trascrizione delle prime telefonate, che per me è stato una demo fondamentale per testare la “temperatura” di un’emozione così grande come quella di ritrovare la propria madre. Anche la struttura stessa di ciò che avevo per le mani, ovvero le telefonate, fatte per loro natura di molte ripetizioni, mi ha spinto a cercare altre strade per sviluppare il racconto. Un lavoro complesso che ti ha fatto a venire in contatto con il popolo hazara e la sua storia è stato un viaggio nel viaggio, un percorso personale che mi ha permesso di conoscere una realtà che prima ignoravo: gli Hazara, che oggi contano circa 8 milioni di persone, sono vittime di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità sia in Afghanistan che in Pakistan, ma incredibilmente la loro è una delle vicende meno conosciute. Ho raccolto moltissimo materiale su di loro tanto che, in fase di sceneggiatura ho dovuto lavorare molto per sottrazione e fare alcune scelte a livello narrativo cercando chiavi per costruire il racconto. Una di queste è stata sicuramente la lingua, l’hazaragi, una varietà di persiano che nel film riveste un ruolo molto importante. è stata una sfida nella sfida, quella che già ero conscia di tentare nel momento in cui ho deciso di raccontare – diversamente da quanto si fa normalmente – non qualcosa che conosco ma qualcosa che ho imparato. C’è anche una parte di FVG nel film, molte scene infatti sono state girate a Trieste, come mai? In una storia di fughe, di confini e di diversità quella di Trieste è stata una scelta strettamente connaturata alla dimensione del racconto. Avevo bisogno di girare in un luogo multietnico, di confine, ricco di Storia e preferibilmente che ne riportasse, anche in maniera evidente, le tracce e le ferite. E Trieste racchiudeva esattamente tutto quello che cercavo. Successivamente vi siete trasferiti all’estero? Tutte le scene ambientate in Pakistan, dove non è possibile girare, sono state fatte in Iran, ma anche qui è stato piuttosto complicato. Abbiamo atteso i permessi per quasi un anno e la lavorazione ha incontrato diverse difficoltà. Forse per questo l’ultimo italiano che ha girato lì è stato Valerio Zurlini con Il deserto dei tartari nel 1976! Una vera e propria avventura quindi Sì, ma bellissima. Tutta questa “diversità” che si respirava sul set è stata certamente complicata da gestire – non ti nascondo che spiegare le scene di massa in italiano, per poi farle tradurre in inglese e quindi in hazaragi è stato abbastanza complesso – ma anche fonte di numerosi (e divertenti) equivoci.



Cinemazero protagonista nella mostra dedicata all'attore all'Ara Pacis di Roma

Riccardo Costantini

Cinemazero Images a Roma

Marcello Mastroianni, una vita tra parentesi “Una vita tra parentesi”. Così Marcello Mastroianni amava definire la sua vita. Le parentesi tra un set e l’altro, tra un palcoscenico e l’altro, lungo una carriera fatta di un’infinità di film, di spettacoli, di personaggi. A Roma, dal 26 ottobre al 17 febbraio, in un articolatissimo percorso fotografico e documentale che si sviluppa all'interno dei prestigiosi spazi del Museo dell'Ara Pacis, si ripercorre la carriera straordinaria di Mastroianni - il più conosciuto volto del cinema italiano - attingendo a materiali fotografici e audio conservati e valorizzati da Cinemazero, selezionati fra le migliaia di scatti e documenti che sono conservati negli archivi di Pordenone presso la Mediateca. La mostra racconta tutta la vita artistica di Mastroianni, dagli esordi con Riccardo Freda nel 1948 alla collaborazione con Federico Fellini, di cui diventò un vero e proprio alter ego. Più di cento film tra gli anni Quaranta e la fine dei Novanta, e molti riconoscimenti internazionali: tre candidature all’Oscar come Miglior Attore, due Golden Globe, otto David di Donatello, due premi per la migliore interpretazione maschile al Festival di Cannes e due Coppa Volpi al Festival di Venezia. Un attore entrato prepotentemente nell’immaginario collettivo, identificato dal semplice profilo (pensiamo all’icona creata da Fellini in 8 e ½), ma su cui in realtà c’è ancora molto da scoprire. La mostra segue l'iter biografico, dalle origini della famiglia, di estrazione popolare, e dell’infanzia in Ciociaria (cosa che lo accomuna a due altri giganti: Vittorio De Sica e Nino Manfredi), per passare all'ingresso a Cinecittà, grazie a un preziosissimo pass avuto da alcuni parenti che lì gestivano una trattoria: le prime comparsate, fino al primo ruolo importante, in cui è doppiato da Alberto Sordi, quello del vigile in Domenica d’agosto di Luciano Emmer nel 1950. Ma anche il teatro irrompe nella vita di Mastroianni: viene scoperto nel C.U.T. (il Centro Universitario Teatrale, dove recitava pur non essendo iscritto all’università) da Emilio Amendola, amministratore della compagnia di Luchino Visconti che lo chiama nel 1948 per il ruolo di Mitch in Un tram chiamato desiderio di Tennessee Williams. La sera della prima è il panico. Ci penserà Vittorio Gassman a tranquillizzarlo! Nel decennio che segue continua la carriera cinematografica con Luciano Emmer, Mario Monicelli, Mario Camerini, Dino Risi, Luigi Comencini, Carlo Lizzani, Giuseppe De Santis, ma sarà Alessandro Blasetti a inventarsi le potenzialità della coppia con Sophia Loren, nell'articolare la quale Mastroianni metterà in campo un nuovo “tipo” di mascolinità e relazione con l'altro sesso. Infatti, quell’attore che nell’anno della consacrazione come sex symbol, il 1960, con La dolce vita, accetta il ruolo del protagonista impotente nel Bell’Antonio di Mauro Bolognini: e proprio con la sua capacità di opporre allo stereotipo del latin lover la persona normale Marcello Mastroianni inciderà sul modo di pensare degli italiani, più di molti attori che, facendo dell’impegno civile e politico il principale tratto artistico, hanno lasciato meno il segno nella società. Importante la sezione - con moltissimo dagli archivi di Cinemazero - Il lungo viaggio con Fellini, declinato da La dolce vita, appunto, a La città delle donne, passando per 8 e ½, film in cui i due si nascondono uno dietro l’altro, fino a quel Mastorna che non vedrà mai la luce. La mostra seguirà quindi la carriera all’estero di Mastroianni (quando si definiva un “turista di lusso”) e arriverà fino all’ultima tournée teatrale, Le ultime lune, al film di Manoel de Oliveira Viaggio all’inizio del mondo, uscito postumo, a Mi ricordo, sì, io mi ricordo, il film testamento girato dalla sua compagna Anna Maria Tatò. Tutta la vita e la carriera di Marcello Mastroianni sono raccontate in questa mostra: un percorso attraverso immagini, scritti, testimonianze, recensioni, oltre a un raro apparato fotografico che ritrae l’attore come non siamo abituati a ricordarlo, sul palco, vicino agli altri grandi nomi che hanno fatto la storia del teatro italiano, da Vittorio Gassman a Rina Morelli, da Paolo Stoppa a Eleonora Rossi Drago.


Tucker Film porta in sala la zombie-comedy che ha disintegrato il box office giapponese!

Gianmatteo Pellizzari

Cosa succede se il set di un b-movie sugli zombie viene improvvisamente assalito da un’orda di zombie veri? Succede che state guardando Zombie contro Zombie (One Cut of the Dead) di Ueda Shinichiro! I morti viventi, al cinema e in tivù, li abbiamo ammirati in tutte le declinazioni, dall’horror d’essai di Romero allo splatter artigianale di Fulci, dalla love story (Warm Bodies) alla parodia (Shaun of the Dead), dall’action claustrofobico (Train to Busan) al noir antropologico (Il serpente e l'arcobaleno), ma la variante metacinematografica giapponese ancora mancava all’appello. Ed ecco, appunto, una comedy autoironica e demenziale, divertente e chiassosa, premiata nei festival di mezzo mondo e “caso dell’anno” in patria! Una spettacolare zom-com su cui il Far East Film Festival di Udine ha scommesso per primo a livello internazionale (pubblico in delirio, lo scorso aprile, e Gelso d’Argento 2018 assegnato a furor di popolo) e che, il 7/8/9 novembre, arriverà in Italia sotto il segno della friulanissima Tucker Film. Ci sono film che diventano cult e ci sono film che nascono cult. Il folgorante Zombie contro Zombie appartiene, senza ombra di dubbio, a questa seconda categoria. Anzi, no, non le appartiene: la rappresenta in tutto e per tutto! Sotto il profilo cinematografico, grazie a una struttura che moltiplica i piani narrativi e grazie alla capacità di fondere commedia e horror, risate e splatter, come non succedeva da anni. Sotto il profilo dell’orgoglio indie, perché trasforma i limiti evidentissimi del low budget (del low low low budget) nella più sfacciata libertà creativa. E, ovviamente, sotto il profilo della produzione e del marketing, visto che Zombie contro Zombie è passato in un battere di ciglia dall’essere un bizzarro outsider al diventare un clamoroso fenomeno commerciale! Era già capitato a The Blair Witch Project e a quel capolavoro che è La casa di Sam Raimi, se vogliamo restare nell’ambito del cinema horror, e adesso, appunto, è la volta di questa geniale variazione nipponica sul tema dei morti viventi. Nato come saggio di un workshop cinematografico e costato circa 20 mila dollari, Zombie contro Zombie ha letteralmente disintegrato il box office giapponese nell’arco dell’estate (l’incasso complessivo, al momento in cui scriviamo, ha raggiunto i 24 milioni di dollari, per un totale di 2 milioni di spettatori, superando Solo: A Star Wars Story!) e ora si appresta ad assaltare il mercato asiatico ed europeo. Italia in testa. Sembra una favola, e forse lo è davvero (ricordate molti altri casi in cui gli attori hanno pagato per partecipare a un film?!), quindi risulta sinceramente impossibile non tifare per la crew più scombinata mai apparsa sul grande schermo! Una breve occhiata alla trama? Una troupe cinematografica e un magazzino abbandonato: la location perfetta per girare un film sugli zombie. Soprattutto se il budget della produzione è rasoterra. C’è solo un piccolo dettaglio che di perfetto ha ben poco: là dentro, in passato, sono stati compiuti misteriosi esperimenti militari e il magazzino, adesso, pullula di morti viventi! Riusciranno i nostri eroi a vendere cara la pelle? Zombie contro Zombie non è il solito splatter visto e stravisto: è un gioiello che deraglia e spiazza, giocando con i canoni del cinema horror per metterli al servizio di una commedia tanto esilarante quanto inattesa.

Arrivano gli zombie!

Zombie contro zombie


Riscoperta ai Festival di San Sebastián e di Lione

Lorenzo Codelli

L'originalissima British filmmaker

Muriel Box, chi era costei? Diciamo la verità. Fino al 21 settembre scorso nè io nè molti altri avevamo mai sentito parlare di Muriel Box. Tantomeno avevamo visto dei film suoi, perlopiù inediti in Italia. Quel giorno è iniziata la 66a edizione del Festival Internazionale di San Sebastián. E contemporaneamente è iniziata, in varie sale cinematografiche sull'incantevole spiaggia basca, la tradizionale retrospettiva completa. 5 proiezioni al giorno, ciascun film replicato 2 o 3 volte. Retrospettiva tradizionalmente accompagnata da stupendi cataloghi illustrati bilingui (castigliano e inglese), tradizionalmente curati da Maria Cristina Iriarte e Quim Casas, composti da testi scritti per l'occasione da studiosi internazionali. Il 21/9 assisto alla prima proiezione alle 14 e scopro un film eccellente, interessantissimo, in una sala gremitissima. Idem alle 16, idem alle 18, e via di questo passo, per 9 giorni di estasi. 24 film. Tutti e 14 i film diretti da Muriel Box tra il 1949 e il 1964. 10 dei 19 film sceneggiati da Muriel Box. Una selezione di 7 film diretti da Muriel Box l'abbiamo rivista assieme a Bertrand Tavernier, Michel Ciment, Thierry Frémaux e altri amici due settimane più tardi, alla 10a edizione del Grand Lyon Lumière Festival, partner della rassegna spagnola. Violette Muriel Baker nasce nel 1905 a Surbiton, un quartiere piccolo borghese a sud ovest di Londra. A 20 anni inizia a lavorare come sceneggiatrice per una ditta che produce documentari. In seguito lavora come segretaria per un gigante come Michael Powell. Inizia a collaborare con Sidney Box, commediografo in ascesa. Muriel e Sidney si sposano nel 1935 formando una coppia creativa indissolubile. Nel 1947 ottengono l'Oscar per la migliore sceneggiatura con Il settimo velo, diretto dall'esordiente Compton Bennett (1). Un mélo gotico/psicanalitico di forte impatto e dai dialoghi colti che avrà notevoli riverberi nella carriera di Muriel. Nel 1946 entra nel cinema Betty E. Box, sorella di Sidney Box e moglie del producer Peter Rogers. Betty produce una cinquantina di pellicole tra il 1946 e il 1975, soprattutto commedie popolarissime per la Rank dirette da Ralph Thomas. Muriel Box esordisce nel 1949 dirigendo alcune sequenze di The Lost People, firmato dal regista Bernard Knowles. Uno spaccato sociale sulla piaga degli esuli di guerra. Il suo vero esordio registico, The Happy Family (1952), è una produzione indipendente di Sidney Box. Una scoppiettante satira sociale sulla devastante modernizzazione della capitale inglese. Una famiglia proletaria di nome Lord (sic), che gestisce in casa un negozietto, rifiuta di abbandonare la propria dimora a due piani in una zona che viene rasata al suolo per edificare la Festival Hall. I Lord fanno appello nientemeno che a Robespierre nel loro disperato, esilarante, tentativo di opporsi a governo e forze di polizia. Un reporter della BBC trasmette i suoi servizi in diretta alla radio dalla fortezza assediata. The Happy Family deborda di gag e battute feroci, ed è senz'altro comparabile alle più incisive «social comedies» prodotte all'epoca dagli studi Ealing per la regia di Robert Hamer, Alexander Mackendrick, Harry Cornelius. Muriel Box prosegue con una straordinaria satira della BBC TV, Simone e Laura (1955), interpretata dal geniale Peter Finch in un personaggio che preannuncia, con vent'anni d'anticipo, quello di Network che gli varrà l'Oscar. The Passionate Stranger (1957), trascinante parodia dei romanzi strappalacrime, preannuncia invece i giochi marienbadeschi di Alain Resnais con il tempo e lo spazio. The Truth About Women (1957), labirintico affresco d'amore, guerre, duelli, salti cronologici, rappresenta a mio avviso «Il Casanova di Muriel Box». Nelle sue memorie, Odd Woman Out (Londra, 1974), l'autrice rivendica i propri sforzi femministi nel maschilista cinema inglese, rivelando, once more with feeling, un immenso talento letterario tramite una serie di poemetti autobiografici. (1) Questo e altri film di Muriel e Betty E. Box si possono trovare su You Tube.


FIRST MAN

LA STORIA DELLA MISSIONE APOLLO 11 DELLA NASA DI DAMIeN ChAzelle Neil Armstrong, ingegnere aereonautico e aviatore americano, conduce una vita bucolica e ritirata con la famiglia a cui ha 'promesso' la luna. La morte prematura della sua bambina lo spinge a partecipare al programma Gemini, il secondo programma di volo umano intrapreso dagli Stati Uniti il cui scopo era sviluppare le tecniche necessarie ad affrontare viaggi spaziali avanzati e successivamente impiegati nella missione Apollo. Selezionato e assoldato come comandante della missione Gemini 8, Neil è il primo civile a volare nello spazio ma sulla Terra le ripercussioni sono fatali. Tra incidenti tecnici e lutti in decollo e in atterraggio, tra la guerra in Vietnam e le tensioni sociali del '68, tra due figli da crescere e una moglie da ritrovare, Armstrong bucherà il silenzio del cosmo prendendosi la Luna. Più che all’ironia e al fascino utilizzati in La La Land, Ryan Gosling deve ricorrere alle sfumature caratteriali e comportamentali da lui già magistralmente utilizzate in Drive, fatte di rancore represso, dolore inespresso e lunghi silenzi e completate da pungenti e ben centrate sentenze e da sporadiche esplosioni emozionali. Il vero ago della bilancia narrativo diventa così la sempre più convincente Claire Foy, che sostiene intere sequenze con l’espressività del suo viso e con un sapiente uso della postura e della voce, richiamando il marito ai suoi doveri di padre e diventando l’unico anello di congiunzione fra la sua missione e i suoi legami affettivi. Il Primo Uomo ci restituisce così il ritratto di un eroe umile in equilibrio fra determinazione e squilibrio sentimentale e fra slanci eroici e inadeguatezza familiare, emblema di una pellicola stratificata e distante sia dai canoni narrativi americani contemporanei sia dal cinema vitale e passionale a cui ci aveva abituato Damien Chazelle. Il non ancora quarantenne cineasta americano rinuncia così per lunghi tratti a preziosismi registici, tirando fuori il meglio di sé nelle agognate sequenze sulla Luna, perfetta fusione fra realismo, magnificenza visiva e coinvolgimento emotivo e lasciando che a sostenere il racconto siano l’evocativa colonna sonora del sempre efficace Justin Hurwitz e le performance attoriali. (...) Damien Chazelle si dimostra ancora una volta uno dei giovani cineasti più talentuosi in circolazione, adattando il suo unico stile a un racconto sorprendentemente intimo e umano, che attraversa eventi fondamentali del secolo scorso come la corsa spaziale e la contestazione giovanile senza eccedere in retorica e soprattutto ci ricorda che i veri eroi vivono e lottano in mezzo a noi ogni giorno, districandosi fra le loro imprese e chi silenziosamente e fedelmente li accompagna. [www.cinematographe.it]

i film del mese

Un film di Damien Chazelle. Con Ryan Gosling, Claire Foy, Jason Clarke,. Or.: usa, 2018. Durata: 141’

Un film di Francesco Zippel. Con Quentin Tarantino, Matthew McConaughey, Wes Anderson. Or.: Italia, 2018. Durata: 107’

FRIeDKIN UNCUT UN DIAVOlO DI ReGISTA

UNA VISIONE INTROSPETTIVA NELLA VITA E NEL PERCORSO ARTISTICO DI WILLIAM FRIEDKIN DI FRANCeSCO zIPPel Vita e opere di William Friedkin, condensate in una lunga intervista con aggiunta di testimonianze illustri di colleghi (Wes Anderson, Quentin Tarantino, etc.) del mondo del cinema. Per andare dritto al punto Francesco Zippel sceglie la via più breve. Tra tutte le provocazioni scagliate da un professionista della materia come William Friedkin, Zippel colloca la più eclatante - "le due personalità storiche più interessanti sono per me Hitler e Gesù Cristo" - in apertura di Friedkin Uncut. Un inizio scioccante e dirimente, divisivo: o con me o contro di me. Come è sempre stato per William Friedkin e per il suo cinema, accusato di ogni possibile malefatta, censurato e osteggiato, ma allo stesso tempo adorato da fan ed emuli del regista di L'esorcista. Dal canto suo Friedkin fa di tutto per rimanere sopra le righe. Il documentariointervista ne stimola l'atteggiamento istrionico e vagamente machista, agevolando uscite come "le prove prima di girare sono roba per femminucce, per mezze calzette". Ma se qualcosa forse poteva essere escluso in fase di montaggio, il film di Zippel ha il pregio di far emergere con vigore a natura l'uomo Friedkin, lontano dalla macchina da presa. Una spavalderia tutta americana, che dialoga e contrasta, in un accostamento voluto, con l'atteggiamento di Fritz Lang, oggetto nel 1975 di analogo trattamento (con Friedkin nei panni che oggi sono di Zippel). Nell'ambito di una cornice da fan, tecnicamente assai tradizionale, Zippel ha il grande merito di concentrare testimonianze e montaggio su alcuni punti fondamentali della poetica friedkiniana. Come la relazione tra i titoli cult di Friedkin e i relativi decenni di appartenenza, o la verosimiglianza sorprendente di tecniche e metodi messi in scena - il denaro falso di Vivere e morire a Los Angeles., i locali sadomaso di Cruising - in merito alla quale Friedkin Uncut rivela aneddoti alquanto bizzarri. Un documentario che non aggiunge nulla dal punto di vista tecnico, ma regala spunti e nozioni sull'autore, note fin qui solo ai seguaci più incalliti. Un racconto esemplare su come sia travagliata la relazione tra Hollywood e autori. [www.bestmovies.it]


i film del mese

(Tit. Or.: Everybody Knows) Un film di Asghar Farhadi. Con Penélope Cruz, Javier Bardem, Ricardo Darín. Or.: Spagna, 2018. Durata: 130’

Un film di Stéphane Brizé. Con Vincent Lindon, Mélanie Rover, Jacques Borderie. Or.: Francia, 2018. Durata: 105’

TUTTI lO SANNO

PASSAGGI DI GRANDE CINEMA IN UN DRAMMA FEBBRILMENTE INTERPRETATO DI ASGhAR FARhADI Laura ritorna nel paese della sua infanzia per partecipare al matrimonio della sorella. Lasciata anni prima la Spagna per l'Argentina, è sposata con uomo che non ama più e ha due figli che ama sopra ogni cosa. Nella provincia della Rioja con gli affetti più cari ritrova Paco, amico della giovinezza e compagno per una stagione. L'accoglienza è calorosa, il matrimonio da favola, i festeggiamenti esultanti, i gomiti alzati ma la gioia lascia improvvisamente il posto alla disperazione. La figlia di Laura viene rapita. Una sparizione che fa cadere le maschere in famiglia e in piazza dove 'tutti sanno'. Precipitati di drammi intimi, i film di Farhadi (di)mostrano come un evento imprevisto possa rivelare a ciascuno le proprie debolezze, e come, in quella circostanza, i non detti, i segreti troppo a lungo custoditi disorientino fino a sconvolgere le relazioni. Nei suoi racconti morali tutti hanno torto e allo stesso tempo ragione. Ciascuno giudica sulla base dei propri criteri personali gettando sul mondo e sull'altro uno sguardo che resta parziale, soggettivo, ridotto. Everybody Knows osserva dall'alto di un campanile e di un drone una cascata di menzogne e di piccoli accomodamenti morali, trasformando un décor a cielo aperto in un labirinto angosciante. Nella Spagna rurale e nelle vigne contese tra transazioni sentimentali, giuridiche ed economiche, l'autore dispiega una suspense che indugia su un'importante somma di denaro che deve essere raccolta in poche ore. Farhadi si prende tutto il tempo per 'recuperarla' e per sviluppare la sua ricerca con scarti un po' forzati e pause esplicative che frequentano i cliché sulla Spagna (sole, vino, fiesta, carattere caliente) che Almodóvar riesce sempre a scansare. Altre riserve, l'esposizione interminabile dei fatti e la risoluzione al di sotto del prologo magistrale e muto. Ma a Farhadi, con la complicità dei suoi attori, riescono comunque passaggi di grande cinema come la disputa esacerbata tra Paco e la sua compagna, alle cui spalle prospera incurante e rigogliosa la vigna per cui si è tanto battuto e che adesso permuta con la vita e per la donna de su vida. [www.mymovies.it]

IN GUeRRA

LA BATTAGLIA DI UN GRUPPO DI LAVORATORI PER DIFENDERE LA PROPRIA DIGNITÀ. DI STéPhANe bRIzé La fabbrica Perrin, un'azienda specializzata in apparecchiature automobilistiche dove lavorano 1100 dipendenti che fa parte di un gruppo tedesco, firma un accordo nel quale viene chiesto ai dirigenti e ai lavoratori uno sforzo salariale per salvare l'azienda. Il sacrificio prevede, in cambio, la garanzia dell'occupazione per almeno i successivi 5 anni. Due anni dopo l'azienda annuncia di voler chiudere i battenti. Ma i lavoratori si organizzano, guidati dal portavoce Laurent Amédéo, per difendere il proprio lavoro. è davvero un film di guerra il nuovo di Stéphane Brizé: il lavoro come campo di battaglia, gli operai come soldati che avanzano obiettivo dopo obiettivo verso la battaglia finale combattuta a suon di parole come colpi di fucile e decisioni istituzionali come bombe, con tanto di divisione nel fronte interno. Stéphane Brizé torna, a tre anni di distanza da La legge del mercato, al sodalizio con Vincent Lindon per affrontare nuovamente una tematica che gli sta particolarmente a cuore: quella delle condizioni di lavoro ai giorni nostri. Ha dalla sua parte la garanzia della perfetta interazione, già sperimentata nel film citato, tra un attore di pregio come Lindon e interpreti non professionisti. La sceneggiatura è estremamente precisa, nulla è stato affidato al caso eppure l'esito finale è di una naturalezza straordinaria. En guerre racconta della lotta sindacale di un gruppo di operai la cui fabbrica sta per essere chiusa e, dopo un lungo sciopero e una battaglia legale, vorrebbero solo poter parlare con l’amministratore delegato della compagnia. Dopo la parentesi in costume di Une vie, Brizé – sceneggiatore assieme a Olivier Gorce – torna al cinema militante e al racconto praticamente in diretta del presente, di una Francia in marcia contro Macron. E la voglia di appartenere all’immediato, Brizé la costruisce in primis attraverso delle scelte stilistiche apparentemente semplici e in realtà radicali, che guardano al documentario militante e soprattutto al giornalismo embedded, non a caso, che si fa nelle zone di guerre, in cui la macchina da presa è immersa nell’azione, impallata, deve cercare di coglierlo il mondo anziché ricostruirlo, quasi come fosse un reportage in diretta, appunto. E in questo, il regista sembra anche raccontare della sconfitta di un certo cinema, della sua impossibilità (forse) di mettere in scena la realtà al contrario di tv e social media, in cui però la manipolazione è cosa comune. Ma oltre i sottotesti e le complessità stilistiche, En guerre è un film di impatto poderoso, dal ritmo martellante e dalla tensione inesausta, con pochissime distensioni e parentesi personali (perché anche il privato è lotta politica, in certi contesti) che non cerca appigli per piacere ma che emoziona e coinvolge con la giustezza di una posizione morale e ideologica chiara e giusta ma allo stesso tempo trattata con intelligenza antipropagandistica. E con un Vincent Lindon di bravura impossibile, inumana, per cui gli elogi e i premi sembrano ormai pleonastici. [www.cinematografo.it]


LA SCUOLA AL CINEMA | NOVEMBRE 2018

Al prezzo di € 3,00 a studente (gli insegnanti non pagano), salvo diverse indicazioni, è possibile partecipare alle proiezioni mattutine presso le sale di Cinemazero di Pordenone e dello Zancanaro di Sacile. Ogni proiezione è accompagnata dal commento critico di un esperto. E' obbligatoria la prenotazione scrivendo a didattica@cinemazero.it. Scuole e insegnanti possono richiedere una o più proiezioni garantendo una quota minima di 100 studenti a proiezione. Ogni mese le segreterie didattiche ricevono la newsletter che informa dei film e degli eventi in sala. Per essere inseriti nella mailing list, inviare il proprio contatto a didattica@cinemazero.it FILM SCUOLE SUPERIORI DI SECONDO GRADO | SETTIMANA DAL 12 AL 16 NOVEMBRE 2018 MENOCCHIO di Alberto Fasulo Con Marcello Martini, Nilla Patrizio, Emanuele Bertossi. Italia, Romania, 2018, 103' Spirituale e sociale: due prospettive entro cui si legge la vicenda biografica straordinaria di Domenico Scandella detto Menocchio. Lui, mugnaio, alla fine del Cinquecento sfida la Santa Inquisizione Sempre! UP & DOWN - UN FILM NORMALE di Paolo Ruffini, Francesco Pacini. Con Paolo Ruffini e la voce di Pino Insegno. Italia 2018, 75' Un'indagine sulla normalità, raccontata attraverso gli occhi incantati di attori straordinari: cinque attori con Sindrome di Down e uno autistico, accompagnati in un viaggio lungo un anno intero dall'amico Paolo Ruffini; è la storia di un sogno che si trasforma in un'avventura, la storia di una compagnia teatrale che vuole compiere un'impresa "normale": realizzare uno spettacolo e portarlo nei più prestigiosi teatri d'Italia Sempre! MUHI – GENERALLY TEMPORARY di Rina Castelnuovo-Hollander, Tamir Elterman Israele, Germania 2017, 89' Muhi è un ragazzino di Gaza cresciuto in un ospedale israeliano, affetto da una grave malattia autoimmune. Due patrie e due popoli ne modellano l'identità e ne indirizzano il futuro. Miglior film a Le Voci dell'Inchiesta 2018 Sempre! 1938 DIVERSI di Giorgio Treves. Con Roberto Herlitzka Documentario, Italia, 2018, 62' Italia 1938 - 2018: ottant’anni dalla Promulgazione delle Leggi Razziali Fasciste. Un anniversario importante. Come fu possibile tutto questo? E quanto sappiamo ancora oggi di quel momento storico? Vuole raccontare cosa com- portò per gli ebrei italiani l’attuazione di quelle leggi, e come la popolazione ebraica e quella non ebraica vissero il razzismo e la persecuzione PROIEZIONE-EVENTO GIORNATA INTERNAZIONALE PER I DIRITTI DELL'INFANZIA E DELL'ADOLESCENZA 2018 Promossa da Comitato UNICEF Pordenone | Martedì 20 novembre 2018 ore 9:00 GRAMIGNA di Sebastiano Rizzo Con Gianluca Di Gennaro, Teresa Saponangelo, Biagio Izzo, Enrico Lo Verso, Lucia Ragni. Italia 2016, 93' Luigi è il figlio di un boss della malavita campana condannato all'ergastolo. Cresciuto da una nonna e una madre amorevoli, il ragazzo non sa se scegliere il bene o il male. La colpa dei padri ricade sempre sui figli? Il film è distribuito in collaborazione con UNICEF ITALIA. INGRESSO LIBERO CON CORTESE DONAZIONE PROIEZIONI-EVENTO UNISONA La diretta satellitare Open Sky propone in occasione della III edizione dell’evento Emergency e della VI edizione dell’evento Sulleregole le seguenti proiezioni-evento: Giovedì 8 novembre 2018 ore 10:00 - 12:00 “LA GUERRA È IL MIO NEMICO VOLUME 2” EMERGENCY III ediz. – Gino STRADA e Rossella MICCIO Giovedì 29 novembre 2018 ore 10.00 - 12.15 “COSTITUZIONE A COLAZIONE" Sulleregole VI ediz. - Gherardo COLOMBO e PIF


TRIESTE SCIENCE+FICTION FESTIVAL Domani accadrà ovvero se non si va non si vede

Trieste - fino al 4 novembre 2018

Giunto alla sua 18° edizione, il Trieste Science+Fiction Festival propone anche quest’anno anteprime mondiali, internazionali e nazionali, con tre concorsi internazionali: il Premio Asteroide, competizione internazionale per il miglior film di fantascienza di registi emergenti a livello mondiale, e i due Premi Méliès d’argento della European Fantastic Film Festivals Federation per il miglior lungometraggio e cortometraggio di genere fantastico europeo. La sezione Spazio Italia ospiterà il meglio della produzione nazionale. Immancabili, infine, gli Incontri di Futurologia dedicati alla scienza e alla letteratura, in collaborazione con le principali istituzioni scientifiche, e la consegna del premio alla carriera Urania d'argento (organizzato con l'omonima testata letteraria Mondadori) ad un maestro del fantastico. La chiusura del Festival sarà destinata all’anteprima di Overlord, l’action-horror ambientato durante la seconda guerra mondiale prodotto da J.J. Abrams, nelle sale italiane con 20th Century Fox dall’8 novembre e in programma al festival triestino domenica 4 novembre. Il film, diretto da Julius Avery, rilancia il filone degli zombi nazisti caro a Herbert J. Leder, Tommy Wirkola e Steve Barker. Info: www.sciencefictionfestival.org

IL CENTENARIO DELL’ARMISTIZIO A VILLA GIUSTI Padova, Villa Giusti - fino al 4 novembre 2018

Erano le 18.39 del 3 novembre del 1918 quando a Villa Giusti dell’Armistizio i generali austroungarici e quelli italiani si incontrarono per firmare l’armistizio, atto che fece entrare in vigore il cessate il fuoco e avviato il processo che mise fine alla prima Guerra Mondiale. La Villa, alle porte di Padova, è diventata un simbolo di pace, un luogo che ha cambiato in le sorti della storia, luogo perfetto per ospitare un programma importante, con conferenze, incontri, momenti dedicati alla collettività, ideato per ricordare il Centenario dell’Armistizio della Grande Guerra. Tra i vari appuntamenti, in collaborazione con Cinemazero, la rassegna Cinema di guerra in Villa che prevede la proiezione di vari film scelti da Carlo Montanaro e proiettati in un’apposita tensostruttura collegata alla veranda della villa. Info: villagiusti.it

FESTIVAL DEL CINEMA LATINO AMERICANO Trieste, Teatro Miela - dal 10 al 18 novembre 2018

Il Festival, vera e propria finestra tradizionalmente aperta all'intero mondo dell'audiovisivo proveniente dal subcontinente americano, quest'anno omaggerà Fernando Birri, scomparso a dicembre 2017, considerato il padre del Nuovo Cinema Latino Americano e presidente onorario del Festival sin dalla sua fondazione. Tra le novità di questa edizione, il Premio alla Miglior Produzione, che intende riconoscere "abilità e intelligenza di chi cerca di realizzare un film attraverso sostegni alla produzione che si conquistano con fantasia". Le difficoltà nella produzione cinematografica sono enormi, in America Latina, e per questo la giuria della sezione Contemporanea del Festival è chiamata a scoprire, attraverso le immagini, i segnali che testimoniano la fantasia utilizzata per risparmiare nella produzione e la capacità di attrarre istituzioni private per realizzare il film. Info: www.cinelatinotrieste.org

IN GOD’S COUNTRY

Pordenone, Cantro culturale Casa Zanussi - fino al 31 dicembre 2018

In God’s country è una mostra fotografica, organizzata all’interno della rassegna di cinema e cultura africana Gli occhi dell’Africa, dedicata al tema della fede e della spiritualità in Africa. Un affresco sulla religiosità africana dalle molteplici sfaccettature. I grandi reporter che collaborano con la rivista Africa, con le loro reflex hanno immortalato credenze secolari, nuove liturgie, rituali segreti, cerimonie solenni, sincretismi religiosi e pericolosi fondamentalismi. Dalla preghiera solitaria, in mezzo al deserto, alla preghiera collettiva, condivisa con migliaia di persone. Un racconto per immagini sull’anima profonda di un continente che, anche nei momenti più bui, non perde mai la fede. La mostra è visitabile negli orari di apertura del centro. Info: centroculturalepordenone.it


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I Nostri Viaggi di Gruppo 24/11: Venezia ² La musica nella Serenissima 25/11: Padova, gli Scrovegni e la mostra di Gauguin 25/11: Il treno dei sapori aO ODJR G·,VHR 01/12: Val Pusteria - il Lago di Braies e San Candido 02/12: Il Trenatale del Renon e Bolzano 08-09/12: Novità ² Inverno sul Trenino Rosso del Bernina 08/12: Avvento a Canale di Tenno e Riva del Garda 09/12: Aspettando il Natale a Trieste 15/12: Venezia ² I palazzi della Serenessima 16/12: Avvento in Valle Isarco - Chiusa e Bressanone 22/12: Il Natale a Padova e la mostra di Gauguin 23/12: Avvento a Cavalese in Val di Fiemme 26/12: Il Presepe vivente nelle Grotte di Postumia 30/12-01/01:Capodanno in Toscana nella valle del Diavolo 31/12: Capodanno a Ferrara H O·LQFHQGLR GHO &DVWHOOR 31/12: Capodanno Medievale al Castello Bevilacqua 05/01: Tintoretto a Palazzo Ducale 26-27/01: Novità ² Inverno sul Trenino Rosso del Bernina 08-11/02: Weekend tra terme, degustazioni e cultura 22/02-01/03: Crociera a Dubai, Abu Dhabi e Oman 02-03/03:Novità ² Inverno sul Trenino Rosso del Bernina 16-20/03: Long weekend a Napoli: il Teatro San Carlo &¬ 03-09/04: Petra, la Giordania e il Mar Morto

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