Dialoghi in cammino

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Dialoghi in cammino

PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO



Dialoghi in cammino

Un viaggio in Siria ed un impegno con la societĂ civile trentina

PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO

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Spero non si debba passare per le sanguinose persecuzioni relig iose bilaterali vissute in ques ti luog hi per giungere all’attuale pacifica convivenza. Credo sia tremendamente sbag liato ostacolare, criminalizzare e perseguitare i vari credo relig iosi quando in realtà si può andare d’amore e d’accordo.

Massimiliano

In Siria ho cons tatato quanto una profonda spiritualità, un forte senso di comunità, una gratuita ospitalità siano alcuni indispensabili tasselli per una piena umanità. Elena

Convivenza come uno sguardo che parte da lontano, che mantiene fisso l’obiettivo su ciò che è importante: l’uomo. Dialogo: porta picco la e stretta, sempre aperta per chi vuole entrare. Non fermiamoci sulla soglia

Giorgio

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Il mondo è un libro e chi non viaggia legge solo una pagina. S. Agostino

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Soggetti proponenti

Cinformi Il Cinformi, Centro informativo per l’immigrazione della Provincia autonoma di Trento, si pone come principale obiettivo quello di informare sulle procedure di accesso ai servizi esistenti sul territorio provinciale e sulle modalità di ingresso e soggiorno in Italia. In materia di immigrazione tale centro si configura come punto di riferimento per i cittadini stranieri ed italiani nonché per gli enti pubblici e privati. Il Cinformi realizza inoltre studi e ricerche per indirizzare più efficacemente le decisioni politiche e tecniche in materia di immigrazione, nonché gestisce direttamente progetti finalizzati all’inserimento nella comunità trentina dei cittadini stranieri. Sostiene, infine, le iniziative degli enti locali e del privato sociale a favore dell’integrazione degli immigrati. Per informazioni: Cinformi via Zambra 11, 38121 Trento Tel. 0461.405600 - www.cinformi.it

Centro per la Formazione alla Solidarietà Internazionale Il Centro per la Formazione alla Solidarietà Internazionale è un’associazione costituita nel maggio del 2008 dalla Provincia Autonoma di Trento, dalla Federazione Trentina della Cooperazione, dalla Fondazione Opera Campana dei Caduti di Rovereto e dall’Università degli Studi di Trento. Nasce come soggetto di riferimento a livello locale e internazionale per la formazione e la ricerca alla solidarietà internazionale. Partecipano e supportano il Centro OCSE-Leed Trento, il Forum Trentino per la Pace e i Diritti Umani, le associazioni trentine di solidarietà internazionale. Per informazioni: Centro per la formazione alla solidarietà internazionale vicolo San Marco, 1 38122 Trento Tel. 0461.263636 - www.tcic.eu

Servizio emigrazione e solidarietà internazionale della Provincia Autonoma di Trento Il Servizio cura l'atturazione degli interventi previsti dalla legislazione provinciale in materia di cooperazione allo sviluppo e promuiove iniziative di educazione, formazione e informazione sullo stesso tema. Per informazioni: Servizio emigrazione e solidarietà internazionale Palazzo della Regione, via Gazzoletti 2 (IV piano) 38122 Trento Tel. 0461/493438 - www.trentinosolidarieta.it

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Poco più di un anno fa, un gruppo di giovani trentini partiva verso la Siria per un viaggio dal significato unico non solo alla scoperta di nuovi territori, ma soprattutto di nuove emozioni, di nuove speranze. Dal loro ritorno, questi ragazzi sono testimoni – e ambasciatori – qui, in Trentino, della possibilità di aprirsi, di dialogare fra le diverse culture, di una convivenza che va oltre la “conpresenza” su uno stesso territorio. È questo lo spirito del progetto “Dialoghi in cammino” che valorizza la capacità dei giovani di comunicare, coinvolgere e farsi portavoce, con la loro freschezza, di quella carica di emozioni positive che l’energia dei ragazzi trasmette in modo efficace e diretto. Proprio per valorizzare questa “carica”, questo entusiasmo degli adulti di domani, l’esperienza di cammino e scoperta di una “convivenza possibile” è stata ripetuta con un nuovo gruppo di giovani che hanno voluto, proprio attraverso questa pubblicazione, cominciare a condividere le loro sensazioni, il loro “diario di viaggio”. Ed è significativo che progetti come questi partano dal nostro Trentino, modello di coesione sociale come anche autorevoli studi affermano da tempo. Un territorio dove la Giunta provinciale ha approvato, per incentivare e alimentare tale coesione, uno specifico “Piano Convivenza”. Ma proprio perchè forti di questi strumenti, di queste prerogative e dei valori di solidarietà che da sempre caratterizzano questa comunità, è importante che diventiamo noi pionieri, in un Paese di recente immigrazione, di un percorso di apertura, di un cammino di conoscenza reciproca che apra la strada a un futuro in cui trentini e nuovi trentini, italiani e nuovi italiani, rappresentanti dell’una o dell’altra religione vengano considerati, nel rispetto e nella valorizzazione delle differenze, prima di tutto persone.

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Dialoghi in cammino I mutamenti socioculturali a cui si assiste ogni giorno ci ricordano costantemente che il mondo sta cambiando; si tratta di un processo sociale che coinvolge pressoché ogni angolo della terra, compreso il nostro Trentino. In realtà l’uomo non è nuovo ai mutamenti, anzi; la storia, maestra di vita spesso incompresa, insegna che nei secoli scorsi l’umanità si è scontrata con cambiamenti di grande rilevo: dalla caduta degli imperi secolari alla colonizzazione di nuove terre, dalla nascita di nuove religioni all’annullamento delle credenze pagane, dalla crescita economica al tracollo finanziario. E come ogni cosa che cambia, anche i grandi mutamenti epocali hanno influenzato i secoli a venire. Oggi però si è in presenza di un fattore innovativo che accompagna i recenti cambiamenti: la velocità con cui i mutamenti avvengono. Basti pensare alla recente storia italiana: in pochi anni abbiamo assistito ad un’inversione di tendenza dei flussi migratori che interessano il nostro Paese: da un fenomeno di emigrazione di massa che ha caratterizzato buona parte del ventesimo secolo (qualcuno stima che siano circa 25 milioni gli italiani che sono migrati all’estero), assistiamo già da qualche decennio a consistenti flussi di immigrazione, che coinvolgono persone di differenti etnie e religioni. Se fino a pochi anni fa i nostri paesi e le nostre scuole si stavano “svuotando”, recentemente invece uffici anagrafe e segreterie registrano segnali di ripresa. Il cambiamento è stato però troppo repentino e in molti hanno avvertito un senso di destabilizzazione e di paura. Parte anche da queste considerazioni la seconda edizione del progetto Dialoghi in cammino promosso anche quest’anno dal Cinformi in collaborazione con il Centro per la Formazione alla Solidarietà Internazionale e il Servizio emigrazione e solidarietà internazionale della Provincia Autonoma di Trento; un’iniziativa inserita nel Piano Convivenza 2009-2010, nata dall’esigenza di favorire il passaggio, sul territorio trentino, da una situazione di multiculturalità ad una proposta, invece, di interculturalità. Si tratta in altre parole di un andare oltre la semplice condivisione di un medesimo spazio per arrivare all’incontro e alla conoscenza reciproca. E chi meglio di un gruppo di giovani avrebbe potuto interpretare questo ruolo? Persone motivate e disposte a mettersi in gioco per recitare il ruolo di “animatori culturali”.

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Dialoghi in cammino è quindi un gruppo più che un progetto, un gruppo di quindici ragazzi provenienti da vari luoghi del Trentino che si sono messi a disposizione per diventare protagonisti di questo cambiamento. Un compito difficile che implica un processo di messa in discussione di sé, delle proprie certezze e dei propri punti di riferimento; per poter avviare questo percorso i ragazzi sono partiti da se stessi, dalle proprie conoscenze comuni, dai dubbi e dalle paure. Hanno partecipato a numerosi incontri formativi durante i quali i diversi relatori hanno presentato loro diverse esperienze significative. Si sono confrontati sui temi dell’immigrazione, del razzismo, dell’integrazione e dell’identità religiosa, facendo in particolare riferimento alla realtà trentina. Per completare il percorso di formazione ed approfondire sul campo queste tematiche, i ragazzi sono partiti alla volta della Siria, paese di inestimabile ricchezza culturale e culla delle civiltà. Un viaggio di dieci giorni che li ha portati a visitare tra l’altro anche il monastero di Deir Mar Musa dove il gesuita padre Paolo Dall’Oglio lavora assieme ai suoi monaci per favorire l’integrazione religiosa. In questo luogo di meditazione e di preghiera si incontrano genti provenienti da ogni luogo e da ogni cultura: musulmani, cattolici, ortodossi, protestanti ecc. Numerosi sono poi stati gli incontri con le persone del posto e i rappresentanti delle diverse confessioni religiose, tutte importanti occasioni per capirne un po’ di più dei rapporti tra culture e religioni diverse. L’esperienza siriana ha fatto comprendere loro come la conoscenza reciproca rappresenti un primo passo fondamentale per superare le difficoltà di integrazione. Questa pubblicazione vuole essere un primo strumento che i ragazzi mettono a disposizione di tutti coloro che sono interessati ai temi dell’interculturalità e dell’incontro tra le religioni. La prima parte infatti presenta le riflessioni dei ragazzi stessi, la seconda, invece, riporta i contributi che i relatori del percorso formativo hanno voluto donare per arricchire la pubblicazione. Le testimonianze dei ragazzi ed i testi preparati dagli esperti non hanno la pretesa di essere esaustivi di questa importante tematica, vogliono però essere un primo passo per iniziare una riflessione, riflessione che poi ogni lettore potrà proseguire autonomamente. Buona lettura!

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Momenti

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Diario di viaggio

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Negli interventi delle prossime pagine i ragazzi hanno scelto il titolo di un articolo dei quotidiani, prendendo spunto da questo per riflettere e riportare le loro sensazioni del viaggio in Siria.


38°

SYRIAN ARAB REPUBLIC 37°

Tarsus

Gaziantep Maydan Ikbiz Kilis

Adana Yumurtalik

Mersin

Gulf of Iskenderun

Karatas Ulucinar

Kirikhan

Qal'At Sim'An

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Al Bab

Halab

Antakya 36°

AL LADHIQUIAH

Sabkat al Jabbul

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Ma'arrat an Nu'man Khan Shaykhun

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MEDITERRANEAN TARTUS

As Sa'an

Hamah

Salahiyah

Ar Rastan

Tartus

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Buhayra al Asad

HALAB

IDLIB Idlib

35°

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Manbij

Reyhanli

CYPRUS

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Iskenderun

Barak

Hims Buhayrat Qattinah

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Tiyas

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Al Qusayr Bsharri

Tad Al Qaryatayn

Jubayl Ba'labakk

34°

Bayru- t

- (Tyre Sur )

Zahlah

LEBANON

Sidon

An Nabk Deir Mar Musa Maaloula al-Habbashi

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- Az Zabadani - Dumah

Buhayrat al 'Utaybah

An Nabatiyah

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Sur

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DIMASHQ

Al Qunaytirah AL DAR'A QUANAYTIRAH

33°

Haifa

AS SUWAYDA'

As Suwayda' Dar'a

Lake Tiberias

ISRAEL Nazareth Irbid 35°

Jarash

Map No. 4204 Rev. 2 UNITED NATIONS May 2008

JORD

Busra- ash Sham 36°

Al Mafraq

37°

ANDATA RITORNO CAMMINO NEL DESERTO

Mahat 38°


39°

40°

Urfa

Nusaybin

Viransehir

T U R K E Y

Al Qamishli

Ceylanpinar

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Ra's al 'Ayn Tall Na Tamir

Akcakale Tall al Abyad

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al K hab ur

Tall Kujik

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37°

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Al Hasakah

Tall'Afar

AL HASAKAH

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Cizre

42°

41°

Mardin

Sinjar

Ash Shaddadah

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36°

Ar Raqqah Madinat ath Thawrah As Suwar

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SYRIAN ARAB REP.

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Rawdah

Busayrah 35°

Al'Asharah Eup hr a

As Sukhnah

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Al Qa'im Hadithah 34°

National capital Provincial capital Town, village Airport International boundary

Tanf

Provincial boundary Expressway Ar Rutbah

Main road Secondary road

Trebil

Railroad

DAN

Oil pipeline The boundaries and names shown and the designations used on this map do not imply official endorsement or acceptance by the United Nations.

ttat al Jufur 39°

40°

0 0

25

50 25

75 50

100 km 75 mi

Department of Field Support Cartographic Section


da “Il Sole 24 Ore – 30 dicembre 2010”

Va in onda un Islam che non c’è

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Siria, aeroporto Damascus International, poco prima del ritorno in Italia. “La Siria è un Paese canaglia”, “Non hai paura di essere rapito?”, “E se ci fosse un attentato terroristico proprio dove vai tu?” Ma è un’altra la domanda che si agita nella mia testa poco prima di salire sull’aereo per tornare in Italia: dov’è la Siria dei telegiornali e dell’informazione allarmistica del nostro Paese? Per smentire i luoghi comuni che troppo spesso accompagnano l’espressione “Medio Oriente” sono bastati pochi giorni di viaggio a Damasco e Aleppo, le due principali città siriane dalle origini molto antiche. Seduto in sala d’attesa, penso che io e i miei compagni di viaggio abbiamo avuto una grande opportunità di conoscenza. Guardo e riguardo gli scatti fotografici che hanno ritmato un’esperienza dal sapore intenso; evidenziano i tratti delle persone solari e ospitali che abbiamo incontrato, le donne curiose e cordiali, i bambini con occhi grandi e sgranati che hanno accompagnato il nostro cammino. D’ora in poi, per me, andrà in onda un Islam diverso… in Paesi, forse ancora immaginari, in cui convivono pacificamente diverse religioni e culture, dove musulmani e cristiani pregano, se non proprio insieme, vicini; dove nei caffè delle vie del centro alcuni ragazzi fumano i narghilè e bevono tè, mentre altri possono ordinare una birra; dove le ragazze occidentali in jeans e maglietta si mescolano armoniosamente a quelle velate.

Andreas

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da “Corriere del Mezzogiorno – 11 ottobre 2010”

Cinquecento immigrati a scuola d’italiano

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Siamo in chiesa a Mar Musa e si celebra la Messa in lingua araba secondo rito cristiano siriaco. I pensieri corrono lontani, distratti dalle parole che ogni tanto riconosco… jihad, al-jamaa, bismillah… Sono parole che associamo a tristi eventi di cronaca, facili strumentalizzazioni, inaccettabili anatemi; non ci rendiamo conto che sono invece soltanto le traduzioni di “slancio verso il divino”, “comunità umana”, un’“invocazione nel nome di Dio”. E come tali, qui nella cappella del monastero, non sembrano suscitare alcun disagio. Prendersi il tempo per fermarsi a riflettere sulle parole che riempiono i giornali, le televisioni, le teste, prendersi il tempo per approfondire il loro autentico e più profondo significato è una sfida che non possiamo non raccogliere. Siamo noi i primi responsabili del peso delle parole che usiamo, del loro significato, delle loro conseguenze. La lingua per un popolo è spesso aggrovigliata alle sue radici, alla sua spiritualità, alle sue tradizioni e alla sua cultura ed è follia cieca immaginare che venga accantonata a favore dell’uso esclusivo di un’altra. Si tratterebbe soltanto di un tentativo maldestro di ammutolire le identità. La lingua è però anche veicolo necessario e fondamentale di comunicazione, strumento ed esito del rapporto interpersonale: orientarsi al dialogo e alla con-vivenza significa creare le basi perché tutte le persone siano e si sentano cittadini. Riflettere sulle sfumature e sul corretto uso delle parole apre le porte dell’incontro con l’altro e della comprensione reciproca.

Anna

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da “Il Giornale – 18 maggio 2010”

L’Islam non è una religione per donne

“Ma le donne arabe possono uscire di casa? Vanno a scuola? Se non mettono il velo vengono lapidate? Lavorano?”… spesso mi sono state fatte queste domande, spesso le persone che conosco mi interrogano sullo stile di vita delle donne arabe, mi chiedono se io stessa, soggiornando in un paese arabo, mi debba mettere il “burqa” per uscire di casa. Credo ci sia innanzitutto da fare una precisazione: c’è un’abissale differenza tra un paese arabo e l’altro! Da noi capita spesso che vengano tutti accomunati, perdendo le loro specificità e peculiarità, prendendo per prototipo arabo l’immagine dell’Arabia Saudita o addirittura dell’Afghanistan. Le differenze sono enormi e si trovano soprattutto nella società e nella condizione della donna. Parlare di paesi arabi come tutt’uno, sarebbe come accomunare tutta l’Europa, senza considerare la differenza cul-

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turale che potrebbe passare tra un cittadino svizzero ed uno greco, o, restando nel piccolo della nostra penisola, tra un abitante della Sicilia e uno della Val di Cembra, pur avendo entrambi la stessa lingua e la stessa religione. Con la differenza culturale, cambia anche la posizione che occupa la donna all’interno della società. Lo stereotipo che le vuole rinchiuse in casa, circondate da bambini, sottomesse ad un marito brutale e coperte da un velo nero dalla testa ai piedi, viene smentito da un viaggio in Siria, anche solo ad un primo sguardo. Camminando per le strade della capitale siriana si può vedere una gran varietà di situazioni, dalla donna con il niqab, il velo nero che lascia scoperti solo gli occhi, alla ragazza vestita all’ultima moda e truccatissima, donne che lavorano in televisione, nelle farmacie e nei negozi. Non è raro vedere una donna al volante e l’università di Damasco, presso cui sto frequentando da diversi mesi i corsi di arabo per stranieri, è piena di ragazze siriane che studiano lingue o medicina: non fosse che per qualche velo in più sembrerebbe di essere in una qualsiasi università in Europa. La maggior parte delle mie insegnanti sono donne e, ho notato con piacere, di religioni diverse. Un mese ho avuto come insegnante una donna alawita, il mese dopo una cristiana e poi una musulmana sunnita, a sottolineare una convivenza religiosa che davvero si può toccare con mano. Mi chiedo se nelle nostre scuole vedremo mai una maestra con il velo, senza che nessuno gridi allo scandalo. La società araba femminile sta acquisendo consapevolezza, si sta muovendo. Non si può infatti nascondere l’esistenza di alcuni problemi. Sicuramente la società esercita ancora una pressione piuttosto forte sulle donne e sulle ragazze, ma si sta evolvendo in fretta, anche grazie ai nuovi mezzi di comunicazione ed ad una globalizzazione che porta anche qui un vento di libertà ed emancipazione, con consumismo e culto dell’immagine che sta piano piano conquistando anche questo paese arabo. Stiamo vivendo nell’era in cui tutto parte da internet, le rivoluzioni per sovvertire regimi dittatoriali e anche le rivoluzioni di genere. Amina

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da “L’Adige – 8 febbraio 2011”

Per musulmani e buddisti niente preghiere nelle chiese Quella degli Omayyadi, in mezzo al cuore della vecchia Damasco, è stata la prima moschea che ho avuto la fortuna di visitare in vita mia. Ricordo che ero un po’ imbarazzato. Stupidamente, se ci penso adesso. Tale imbarazzo misto a diffidenza mi avrebbe fatto sembrare goffo, se qualcuno si fosse curato di seguirmi con lo sguardo. In effetti il mio pensiero era quello: io, occidentale, con jeans e zainetto, sarei sicuramente stato notato in mezzo a quel nutrito brulicare di fedeli con la tunica fino ai piedi ed il Tasbeeh tra le dita. Avrei avuto tutti gli occhi addosso e con scambi di parole bisbigliate da un orecchio all’altro si sarebbero senz’altro chiesti cosa mai ci facesse un cristiano nei loro luoghi sacri. Non accadde. Davvero non ce la facevo, nonostante i pregiudizi, a sentirmi ospite indesiderato. Sarà stato per l’impressionante bellezza delle decorazioni interne oppure per il fatto che ognuno era occupato nelle proprie faccende (chi a pregare, chi a visitare, chi a leggere i testi sacri, chi, semplicemente, a rilassarsi un po’) che mi sentivo proprio a mio agio. “Bella forza” si potrebbe obiettare. La mosche degli Omayyadi è tra le primissime per importanza in tutto il mondo musulmano, attira ogni anno migliaia di turisti da ogni dove, essendo la moschea della capitale siriana: naturale che siano abituati a gente come me! Non sono né il primo ne l’ultimo “non credente” che vi ci mette piede. Sarebbe come visitare il Duomo di Milano: vi si trova gente di ogni

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tipo e da ogni dove, mica solo fedeli inginocchiati in adorazione. Bene, proviamo allora a cambiare aria, visitiamo le periferie, vediamo se è vero che il Padre Eterno voglia luoghi dove solo alcuni siano i benvenuti: cristiani da una parte, musulmani dall’altra, a fare poi la stessa cosa, ma rigorosamente ognuno per conto suo. Anzi - mi venne da pensare camminando in direzione opposta al centro – e se fosse proprio questo il motivo? Se fosse che pregare fianco a fianco non si voglia proprio perché poi, non sia mai, ci si renderebbe conto di non essere, anche nell’intimo, così differenti? Raggiungo assieme ad un altro gruppetto di amici la piccola moschea, costruita in un quartiere popolare, che già di giorno avevamo apprezzato come brulicante di vita, di mercati, senza turisti che venissero a vedere la vita comune della popolazione. Come sarebbe stata qua l’accoglienza che ci sarebbe stata riservata? È il cuore della notte, qui pregano e cantano anche a quest’ora. Ci uniamo alla meditazione, noi, cristiani lì di passaggio, accompagnati da un padre gesuita che ci fa da traduttore. Nonostante l’ora, i musulmani sono tanti, alcuni ci salutano con un cenno del capo, altri non si curano di noi, passano oltre e si accomodano in cerchio. Inizia la preghiera che dura più di un’ora. Naturalmente non capisco nulla, anche se mi lascio cullare a quell’ora improponibile (sono le 3 di mattina) dal suono della recita di brani dal corano e dalle preghiere. A volte, però, mi sembra di intuire qualche parola. Capisco presto il perché, sono i nomi di alcuni profeti. Nomi a me comuni. Ci penso un attimo, sono gli stessi in cui credo io. Ne approfitto, socchiudo gli occhi e dedico un pensiero, una preghiera a ciò in cui credo. Soprattutto, mi trovo a ringraziare di aver potuto vivere tutto questo. Bisbiglio tra me e me, nessuno mi riprende e non mi sento di mancare di rispetto a nessuno. Se conoscessi un po’ l’arabo pregherei in fin dei conti anche io Allah, che altro non è che Dio pronunciato in un’altra lingua. Uscendo dalla moschea è già quasi l’alba. Una delle persone del nostro gruppetto che conosce l’arabo mi rivela: “ non ve ne siete accorti, ma ad un certo punto hanno pregato per noi cristiani”. Qui, nel cuore dell’Islam. Andrea e Davide

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da “Corriere della Sera – 30 novembre 2009”

No ai minareti in Svizzera

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...ancora prima di partire per la Siria, la cosa che mi aveva incuriosito di più dal racconto di chi aveva già partecipato al viaggio era la descrizione della città di Damasco. Mi immaginavo l’intersecarsi confuso, di vicoli e vicoletti, suq, bancarelle, venditori ambulanti, donne velate e non, moschee e…chiese. Sì, anche chiese…Cosa pensate? Che solo perché la Siria è un Paese arabo a maggioranza musulmana non ci siano chiese? Anche se i cristiani sono il 10% della popolazione e suddivisi in Chiesa ortodossa, Chiesa cattolica (a sua volta suddivisa in varie comunità), Chiesa ortodossa siriaca, Chiesa apostolica armena, Chiesa assira o nestoriana, oltre a piccolissime minoranze protestanti, le chiese sono parte integrante del tessuto urbano e non solo. Vedendo poi il panorama notturno dall’alto, dalla collina che si affaccia su Damasco, le luci azzurre che indicano le chiese e quelle verdi che evidenziano le moschee si fondono nel dedalo di strade, case, uffici, negozi, traffico, bandiere, immagini del presidente e persone. Durante il viaggio, e non solo nelle grandi città come Damasco o Aleppo, vedere un campanile vicino a un minareto non mi sembrava una cosa strana...anzi...sembrava la più normale del mondo…poi mi sono fermata a riflettere e...a Trento, vicino al campanile del Duomo, c’è un minareto!? Ed ecco che mentre tornavo dall’emozionante viaggio siriano nella mia mente si affollavano domande su domande, per cercare un confronto tra la realtà siriana e la nostra...italiana, europea, occidentale. E allora, com’era possibile che la Svizzera, nazione da sempre neutrale, sede di molte organizzazioni internazionali (non ultime la Croce Rossa e la sede europea dell’ONU), plurilingue, multiculturale, dove il 5% della popolazione è musulmana, negasse il diritto ad avere moschee con i minareti? Ed ecco che allora la “normalità siriana”, che non è solo architettonica ma si riflette anche nella libertà di culto, non sembra essere la nostra normalità. Ma scusate, quale vorreste fosse la vostra “normalità”? Claudia

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da “Corriere della Sera – 11 gennaio 2011”

Dialogo con l’Islam, un circolo vizioso

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Questo pomeriggio siamo stati invitati dal mufti di Al Quaryatayn in una delle innumerevoli moschee della città. Ormai abituati alla moschea di Damasco ci siamo preparati; sappiamo che ci si deve levare le scarpe e le donne devono coprirsi e indossare un copricapo. Una volta entrati ci siamo seduti in cerchio per terra su grandi tappeti e il mufti accanto all’amico sacerdote, che ci era stato da guida fin quel momento, ci ha illustrato la sua visione delle religioni. Non esiste una sola e vera religione, esiste un’unica fede, sia i musulmani che i cristiani credono allo stesso Dio. Perchè attraverso le religioni dobbiamo erigere muri per combattere l’uno contro l’altro? Un messaggio diretto e a favore del dialogo e della pace che in effetti mi ha spiazzato un po’. L’incontro è proseguito con la preghiera, una delle cinque della giornata per la fede musulmana. Noi siamo stati invitati a partecipare e mentre i fedeli entravano in moschea ho notato che non c’era nessun imbarazzo o atteggiamento di scherno nei nostri confronti, anzi, saluti di accoglienza. Dopo la preghiera molto coreografica e sentita, mentre aspettavamo le ragazze che erano state accompagnate in un’altra area della moschea, ci siamo intrattenuti con alcune persone venute lì per pregare e abbiamo scambiato alcune battute che mi hanno fatto apprezzare quanto siamo vicini dal punto di vista umano pur essendo lontani geograficamente, culturalmente e sul piano religioso. In fondo, a dirla in modo semplice, funzioniamo alla stessa maniera, pur avendo dei natali così differenti. La visita si è conclusa con la benedizione personale da parte del mufti come potrebbe fare un buon padre al figlio prima di partire per un importante viaggio. Daniele

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da “Trentino – 2 gennaio 2001”

Libertà religiosa, la via per la pace

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Che posto magnifico, ricco di storia e di bellezza! Mar Musa è una terrazza sul deserto, deserto che da sempre rappresenta il luogo del peregrinare umano alla ricerca di risposte primarie, essenziali. Ed è proprio così che mi sento: in ricerca delle mie risposte. Su questa terrazza, se da un lato sai di essere lontano da tutto e da tutti (non si possono usare telefonini, mancano televisione e giornali pronti a dare le ultime notizie), hai però la grande opportunità di avvicinarti a te stesso, uscire dalla vita frenetica di tutti i giorni per concederti del tempo di riflessione, meditazione. Ed è proprio nella piccola e accogliente chiesetta di Mar Musa, durante i momenti di raccoglimento e preghiera con altri compagni di viaggio provenienti da diverse parti del mondo, che condivido qui e ora questa forte esperienza e mi rendo conto che, anche se ci sono parole, riti e modalità diverse, il fine ultimo per ognuno di noi è quello di trovare le proprie risposte. Elena

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da “Corriere della Sera – 5 gennaio 2011”

L’inviato islamico: “Cristiani essenziali in Oriente”

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L’influenza mediatica ci invita a esaltare le differenze come barriere, come frontiere invalicabili e come fonte di incomprensione. Per fortuna c’è anche una minoranza che riconosce le differenze, ma che non si limita ad esse; cerca nel dialogo e nel confronto di dar valore alla parte che gli si pone di fronte. Un confronto a due voci, quella del segretario del muftì del Libano e quella del patriarca ortodosso dei copti di Alessandria. Questo per svincolare le menti dall’idea che per i cristiani la vita in terra araba è solamente proibitiva e rischiosa. Entrambe le fedi si uniscono nella creazione di una società che tuteli le radici di ognuno e che assicuri la prosecuzione di una storia più ampia, già di per sé lunghissima e ricchissima. Noi abbiamo la fortuna di avere alle spalle secoli di tradizioni che si mantengono forti e consapevoli della propria importanza, anche una di fronte all’altra. La nostra storia è “recente” e non può che nutrirsi di fronte all’esperienza secolare e ben assestata di popolazioni che sono memorie di umanità, e forse di speranza, pur nella loro attuale scarsa significanza a livello mediatico. Anche per me, dopo essere stati accolti calorosamente dal muftì di Homs, accompagnati da uno straordinario padre Jack, e dopo aver assistito alla preghiera della sera emerge la consapevolezza che in Siria religione cristiana e musulmana s’intrecciano nel dar forma a questo Paese. Non potremo non riconoscere la bellezza e il gusto che ci deriva da questa esperienza senza l’incontro di questi due mondi, che dopo secoli di scontri e quindi incontri, ci regalano la prospettiva di una convivenza pacifica e bella da vivere. Giorgio

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da “Corriere della Sera – 3 gennaio 2011”

A casa Fahim, famiglia copta borghese. “Ogni giorno sentiamo l’odio che cresce”

Oggi si riparte, si torna a casa, ma la mia ultima giornata in Siria è cominciata in un modo unico e dolcissimo, colmo d’amore. Alle tre della scorsa notte, accompagnati da Padre Jens, abbiamo avuto la speciale opportunità di partecipare a una preghiera nella moschea Sufi di Damasco. Eravamo in pochi. All’inizio gli uomini sono entrati in moschea dove, seduti su grandi tappeti rossi, hanno formato un cerchio ripetendo, suppongo, i vari nomi di Allah e diverse preghiere (fra le quali, scoprirò poi, una per noi ospiti di quella notte). Poco dopo un signore ci ha accompagnate in un’altra area della

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moschea da cui si sentiva la preghiera degli uomini: tante voci che sembravano diventare una sola nel pronunciare il nome di Dio. Poi ci ha raggiunte una signora completamente velata di nero che ha cominciato a pregare in modo più silenzioso e all’apparenza più intimo della preghiera del gruppo maschile. Ci ha molto colpiti lo spirito di accoglienza e la voglia di farci partecipare ad una preghiera sconosciuta per noi. La vera inaspettata esperienza di accoglienza ed amore, tuttavia, per me doveva ancora venire. Verso le quattro e mezza del mattino sono arrivate altre donne nella nostra parte di moschea; una si è seduta accanto a me e io, immaginandomi la preghiera cui sono abituata, me ne sono stata buona e zitta. La moschea invece è una piazza, un vero luogo di socializzazione e infatti la signora accanto a me non ha fatto passare un minuto prima di farmi tante domande, in arabo naturalmente, ma la voglia di comunicazione era tale che riuscivamo a capirci. Con uno spirito di ospitalità enorme e una grande curiosità negli occhi la signora mi ha fatto subito sentire sua amica e quando stavo per andare via ha cercato in borsa qualcosa. Ha trovato un fermacapelli con delle perline colorate. Io immaginavo appartenesse a sua figlia. Me lo ha regalato, facendomi capire che era l’unica cosa che aveva e che me la donava perché io mi ricordassi di lei. Sono uscita dalla moschea con l’anima colma di gioia e piena di riflessioni da fare. Prima di questo giorno non so come mi sarei comportata se avessi incontrato in chiesa una persona visibilmente di un’altra religione, ma ora la mia nuova amica mi ha insegnato come si fa: si apre il cuore e si dona amore senza preconcetti e senza pregiudizi. Luisa

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da “Corriere della Sera – 10 novembre 2010

L’Italia che respinge le moschee

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I tempi cambiano e le paure cambiano. Come a mia nonna qualche anno fa facevano paura i ragazzi con il chiodo, i capelli lunghi e l’orecchino, ora sono le silenziose vicine di casa velate. Al chiodo, al tatuaggio e all’orecchino ormai si è abituata, complice anche la sua serie televisiva preferita: Walker Texas Ranger… Ma la paura è una brutta bestia, ti prende allo stomaco ed è difficile da affrontare perché affonda nell’intricato mondo delle emozioni. E la paura dell’altro, del diverso è sempre nascosta dentro di noi, più o meno celata. Così quando le ho detto che sarei stata in Siria era preoccupata, “perché lì le donne chissà come le trattano e poi di Chiese lì non ce sono mica…”. Al ritorno le ho mostrato le foto del viaggio, delle tante chiese, delle moschee, dei bambini, dei sorrisi, delle mamme, dei banchetti, insomma tutto quello che avevo catturato con le mie modeste capacità di fotografa. Le ho raccontato dell’ospitalità della gente, le mie impressioni su un Paese dove musulmani e cristiani convivono pacificamente, della normalità e della sicurezza che ho respirato. In quelle foto si è rivista anche lei e la silenziosa signora velata della porta accanto le ha fatto meno paura e a Natale le ha portato lo zelten, “ma da assaggiare!”… un piccolo passo di Dialoghi in cammino. Marilena

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da “la Repubblica – 1 febbraio 2002”

Contro le navi dei clandestini in azione la Marina militare

Damasco. Siamo di fronte alla Grande moschea degli Ommayadi, luogo di culto principale della Siria e non solo, cuore della città vecchia. Da un lato della piazza si apre uno dei più grandi suq di Damasco. La visione di alcune colonne di quello che fu il Tempio

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di Giove mi sorprende, per la sua bellezza, nascosta e tuttavia grandiosa. Inaspettata. Delle colonne romane lì? A migliaia di chilometri da Roma, dall’Italia. Delle colonne romane identiche a quelle studiate sui libri di storia dell’arte (occidentale). Un dettaglio che aggiunge nuovi pensieri ai tanti che mi passano per la testa in questi giorni. D’un tratto la distanza, che nella mia “mappa mentale” separa la Siria dall’Italia, si accorcia. Mi ricordo che il Mediterraneo ci unisce, mi ricordo che anche via terra è possibile arrivare qui, anche da Trento volendo, con un po’ di pazienza, attraversando una decina di confini, forse meno. I confini sono posti dagli uomini ma sulla Terra le culture sfumano l’una nell’altra, sul mare le persone e le idee hanno viaggiato per millenni e continuano a farlo. I grandi eserciti, qualche commerciante avventuroso, i pastori con i loro spostamenti minimi e costanti, poco a poco si sono spinti sempre più in là. Uomini e donne, vecchi e bambini, persone hanno percorso quelle vie, di mare e di terra, nei secoli. Gli eserciti soprattutto, nei secoli passati; persone che cercano lavoro, oggi, più pacificamente. È possibile che l’emigrazione spontanea e pacifica delle persone, dettata dal bisogno concreto, sia oggi una nuova forma di movimento delle culture, delle tradizioni, dei saperi? È possibile che questa sia un’alternativa alle invasioni, quelle vere, con eserciti e guerre? Da sempre le persone si spostano sul globo terrestre. Ciò avveniva, fino al secolo scorso, forzatamente, in seguito a conquiste militari: un confine veniva violato; il conquistatore, se vinceva, imponeva la sua cultura, ridefiniva i confini. Ma le culture si spostano e si contaminano per loro natura, con o senza guerre. Meglio senza, quindi. Basta guardarsi attorno, in un mercato di Damasco, per vedere quanti elementi della nostra cultura materiale provengono dal Medio Oriente: pistacchi, zafferano, caffè, datteri, canditi. Se le merci si spostano ed entrano a far parte delle tradizioni dei popoli (cosa sarebbe il Natale senza datteri e canditi, e cosa sarebbe il risveglio al mattino senza caffè?) perché non le persone? Michele

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da “l’Adige – 14 dicembre 2010”

Santa Lucia con il burka? Polemica all’asilo

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La paura dell’altro nella nostra società negli ultimi anni viene fomentata e strumentalizzata per incrementare l’odio nei confronti dell’immigrazione. Anche in questa polemica si è voluto strumentalizzare la raffigurazione di Santa Lucia per attaccare una religione diversa da quella cattolica e far leva sulle paure popolari nei confronti di ciò che è diverso, insinuando il rischio di una perdita identitaria dell’intera comunità. Dimenticando che il velo, in realtà, sia nella religione ebraica che in quella cristiana ha significato per secoli per la donna il rispetto per se stessa e per Dio. Oggi si combattono battaglie ideologiche in nome della dignità femminile, sostenendo che il “velo” è il più grande simbolo, imposto dalla religione islamica, dell’oppressione della donna, senza ricordare che fino a qualche decennio fa, anche in Trentino, le donne avevano la testa coperta da un fazzoletto, non solo in occasione di cerimonie solenni ma anche nella vita quotidiana. Anche oggi le suore cattoliche coprono i loro capi con veli. In una società come la nostra demonizzare il velo o addirittura volerlo vietare fa decadere ogni tipo di valore democratico. Durante il viaggio in Siria, un Paese in cui convivono da secoli islam e cristianesimo, uno degli aspetti più affascinanti è stato proprio vedere per le strade donne senza velo che si accompagnavano con donne velate o donne con velo integrale. A differenza di quello che spesso si crede in occidente, infatti, in una stessa famiglia di religione islamica le donne talvolta fanno scelte diverse rispetto al velo, in base alla loro interpretazione del Corano. Non è quindi difficile vedere girare gruppi di amiche “vestite” in maniera differente, come non è strano incontrare madre e figlia l’una senza il velo e l’altra con il velo, l’una velata integralmente e l’altra solo con il capo coperto. È difficile dopo soli 10 giorni passati in un paese così ricco di storia e contraddizioni avere la pretesa di averlo compreso e conosciuto, ma di certo il solo impatto visivo sia delle città che delle persone che le vivono è bastato a dimostrare l'infondatezza di alcuni luoghi comuni presenti nella nostra società. Patrizia

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da “Corriere del Trentino – 28 dicembre 2010”

A Spini il dialogo multiculturale è realtà

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Al Qaryatayn, 8 novembre 2010, ore 18. Padre Jacques, fratello della comunità monastica cristiana di rito siriaco di Al Qaryatayn, ci accompagna alla moschea di questo piccolo villaggio in mezzo al deserto siriano. Veniamo accolti dal mufti. Seduto a fianco di padre Jacques, questo rappresentante del mondo islamico ci parla di fratellanza, di rispetto, di dialogo con il mondo cristiano. Un rapporto fraterno quello fra musulmani e cristiani, ormai consolidato in terra siriana. Ci invita poi ad assistere alla preghiera serale. Mi sembra ancora di vederli. Il mufti con il fare solenne delle grandi occasioni. E seduto accanto a lui padre Jacques, che visibilmente emozionato cerca di tradurci nel suo italiano stentato le parole dell’amico. Due figure estremamente diverse, rappresentanti di due diverse fedi religiose, seduti l’uno a fianco all’altro. Noi ragazzi invitati ad assistere alla preghiera. Faccio fatica a pensare alla possibilità della situazione inversa qui da noi: un gruppo di ragazzi musulmani e ragazze velate, accolti in una delle nostre chiese durante la Messa, con i fedeli che li salutano personalmente e stringono loro la mano in uno spirito di grande accoglienza e ospitalità. Faccio fatica sì, ma voglio pensare che ciò un giorno sarà possibile. Che dal semplice e mero buon vicinato si riesca presto, anche nelle nostre piccole realtà di provincia, a passare al dialogo e al confronto con l’altro, ad un’apertura incondizionata ed autentica verso la diversità. Silvia

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Massimiliano Ripenso spesso al bellissimo viaggio in Siria e ti devo dire…..mi manca molto! È stata un’esperienza molto positiva ed istruttiva, la consiglio a tutti. È un Paese speciale, un misto di culture e di religioni che convivono pacificamente da anni. Sicuramente è un bell’esempio per tutti. Dato che tu sei una ragazza di origini siriane e di religione musulmana potrai forse rispondere a delle domande che, dall’esperienza che fra poco ti racconterò, mi sono posto. Hala Racconta... Massimiliano Un giorno a Damasco mi è capitata una situazione molto particolare. Eravamo in visita ad un museo quando, nell’uscire dalla stretta porta di una stanza, mi sono quasi scontrato con una bella ragazza. Entrambi ci siamo fermati di colpo, l’uno di fronte all’altra, gli sguardi si sono incrociati e …credimi… a fatica li abbiamo distolti. Sono rimasto lì fermo qualche secondo quasi impietrito. Ti sembrerà forse un po’ sciocco ….. ma credimi, mi sono emozionato. Questa ragazza portava il velo, non integrale, lasciava libero l’intero viso…. comunque quasi certamente si trattava di una ragazza musulmana. Continuando la visita del museo mi è capitato di incontrarla e la osservavo con la coda dell’occhio, non volevo essere troppo esplicito, ma ho notato che anche lei continuava a guardarmi. Gli sguardi di entrambi non erano volgari, anzi erano sguardi che lasciavano trasparire un certo interesse …. non erano casuali o insignificanti. Hala E poi cosa è successo? Massimiliano Altre tre volte ci siamo incontrati e fermati l’uno di fronte all’altra, ci guardava-

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mo negli occhi senza dire nulla ma solo sorridendo. Alla fine, prima di allontanarsi, lei sorridendo m’ha detto qualcosa di incomprensibile, immagino sia stato in arabo. Ognuno s’è poi riaggregato al proprio gruppo, ma finchè non abbiamo girato l’angolo ci siamo continuati a guardare. Hala Ti piaceva davvero tanto quella ragazza… Massimiliano Beh, io ai famosi colpi di fulmine non c’ho mai creduto, ma quella volta….. Non m’era mai capitato una cosa del genere….ancora adesso, a quattro mesi di distanza, ci penso. Quella esperienza mi ha fatto pensare molto, mi son fatto tante domande sul futuro che avrebbe potuto avere una storia come questa e cioè fra una ragazza musulmana ed un ragazzo cristiano. Ecco perché vorrei farle a te, son sicuro che tu potrai aiutarmi a dar loro risposta. Hala Dai racconta… Massimiliano So che il matrimonio misto fra cristiani e musulmani in Siria esiste ma ho sentito dire che è solo in un senso e cioè un uomo musulmano può sposare una donna cristiana ma un uomo cristiano non può sposare una donna musulmana. Questo è vero? Hala Si, è vero. In generale ci sono pochissimi matrimoni tra uomini siriani musulmani e donne siriane cristiane mentre tra uomo cristiano e donna musulmana non esiste.

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Massimiliano Ma allora non è possibile che un uomo cristiano sposi una donna musulmana. Hala No, non è possibile. Massimiliano Ma come mai? Questo divieto è spiegato dalla religione islamica? Hala Si, la religione islamica spiega questo divieto. Vedi, per l’Islam il matrimonio oltre che sull’amore si fonda sul rispetto reciproco fra i coniugi. Il marito musulmano rispetta la religione cristiana della moglie perché lui crede nei profeti cristiani. Al contrario il marito cristiano non rispetterebbe la religione musulmana della moglie in quanto lui non crede nei profeti musulmani ad esempio non crede nel profeta Muhamad. Comunque anche nel cristianesimo il sacro matrimonio si celebra fra due battezzati. Massimiliano Beh a dire il vero non è proprio così. Il matrimonio fra un cristiano e una musulmana, e viceversa, può essere celebrato in chiesa. L’unica cosa è che il cristiano deve promettere di far il possibile per battezzare i figli ed educarli nel cristianesimo. Da quanto mi dici in pratica deduco che, in una famiglia siriana, è l’uomo a portare la religione ai figli e quindi è per questo forse che non può essere cristiano. Hala Per me si è vero. L’uomo dà ai figli sia il cognome che la religione. Ma succede che i figli sono generalmente educati secondo quanto vuole la madre. Massimiliano Ma cosa succederebbe se una musulmana sposasse un cristiano? 42


Hala Questo dipende se lei è praticante o no. Si potrebbero sposare civilmente in un altro stato, non credo succeda niente. Ma legalmente in Siria il matrimonio non sarebbe riconosciuto. Massimiliano Comunque credo che ci saranno ragazze musulmane assieme a ragazzi cristiani, magari di nascosto. Che dici? Hala Forse si, ma io non lo so. Comunque credo che non arriverebbero a fidanzarsi, fra loro finirebbe presto. Ma comunque dipende se la ragazza è praticante o meno. Massimiliano Io penso che bisognerebbe forse far qualche altro passo avanti per facilitare ancor di più l’integrazione. Vedere una coppia mista in perfetto equilibrio è bello ed è l’immagine del perfetto rispetto reciproco. Dovrebbero ufficializzare l’unione fra la coppia mista (in entrambi i sensi) anche in Siria così che possano tutti avere la libertà di costruirsi una famiglia come desiderano senza che la legge te lo vieti. Mi fa un po’ pensare. Hala Ti capisco. Si, la religione da delle regole ma è poi la persona che sceglie di seguirle o no. Nessuna persona al mondo può giudicarla. Quindi prima di tutto bisogna vedere se la persona è praticante o meno, se non lo fosse non ci sarebbero problemi di religione per sposarsi. Certo è che in tutti i casi secondo la legge siriana non si riconosce e non esistono altri tipi di matrimonio. Quello che mi chiedo è se poi l’uomo cristiano praticante può rispettare appieno la religione della donna musulmana praticante. Non è che poi è costretta a togliersi il velo o a tenere in casa bevande alcoliche o carne di maiale? E tante altre regole che un cristiano non aiuta la donna a seguire visto che non crede all’esistenza dell’ Islam e al profeta Muhamad.

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Massimiliano Certo, capisco. Io credo che comunque se l’amore fra i due c’è ed è reale non nascono problemi di rispetto. Il rispetto è compreso nell’amore. Poi dipende da individuo a individuo la reazione di rispetto e comprensione. Oltre al fatto, come dicevi anche tu, se i due sono praticanti o meno. Tu che ne dici? L’amore sincero credo che può nascere anche in una ragazza musulmana per un cristiano. O no? Hala È una domanda molto difficile. Comunque credo di si, io potrei innamorarmi di un cristiano ma forse non lo sposerei. Per me il matrimonio ha bisogno di tante altre cose oltre all’amore per funzionare. Perciò lascerei l’amore dentro di me. Massimiliano È brutto soffocare sentimenti come l’amore. Comprendo comunque il tuo timore e cioè che il marito cristiano possa non rispettare la religione musulmana della moglie. Ma, come ti dicevo, è soggettivo. Se in Siria il matrimonio non è concesso fra un cristiano e una musulmana, in Italia invece la percentuale dei matrimoni misti che si sciolgono è molto elevata, le statistiche parlano chiaro. Peccato. Ma vedrai, io sono positivo, un po’ alla volta con un po’ di impegno anche queste incomprensioni verranno risolte. Grazie Hala, sei stata molto preziosa, ho capito molte cose. Però mi hai fatto sorgere molti altri dubbi……

Massimiliano e Hala

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Relatori

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Nell’ambito del progetto “Dialoghi in cammino” i ragazzi hanno seguito una serie di incontri formativi, organizzati dal Centro per la Formazione alla Solidarietà Internazionale, con autorevoli esperti.



I musulmani: Appunti per il dialogo Adel Jabbar Sociologo dei processi migratori e comunicazione interculturale

Premessa Le migrazioni di popolazioni che per secoli hanno attraversato il mondo e la sua storia sono anche state migrazioni di culture, le quali hanno dato luogo a processi di reciproca contaminazione. I musulmani, in quanto componente della popolazione delle aree meridionali e orientali del Mediterraneo, per lungo tempo hanno assunto il “viaggio” come concezione dello spazio e modello di vita. Discendenti di Ismaele figlio di Abramo1, egli stesso un pellegrino, abitatori di una grande terra ma poco generosa di acqua, per molti secoli hanno vissuto e creato uno spazio in cui si incrociavano uomini e merci, saperi e culture di Asia, Africa e Europa, in una sorta di “piattaforma girevole”. La cultura arabo-islamica è riuscita a produrre una concezione umanista e universalista, grazie proprio a questo ruolo di mediazione e di collegamento fra realtà diverse, quello che oggi viene definito come ruolo di mediazione interculturale. È proprio in questo contesto - nella città di La Mecca, città natale del profeta Mohammed (570-632 d.C.), centro commerciale, culturale e spirituale di primo piano, crocevia di carovane provenienti dai porti posti sul Mare Arabico e Oceano Indiano da una parte e dai porti del Mediterraneo dall’altra, cui confluivano viaggiatori da India, Persia, Etiopia, Cina, Impero Romano, le grandi civiltà della storia - che è avvenuta la rivelazione delle religione islamica. Essa dà nuovo vigore e impulso a questa dimensione pluralista attraverso la costituzione nel 622 d.C. della prima comunità islamica di Medina, città oasi a Nord-Est di La Mecca, che afferma e sancisce una nuova appartenenza fondata sul riconoscimento dell’individuo quale creatura di Dio (...)2 e non più sui rapporti di sangue come avveniva nelle tribù pre-islamiche. Musulmani, 1

“Lode ad Allah che, nonostante la vecchiaia, mi ha dato Ismaele e Isacco. In verità il mio Signore ascolta l’invocazione” - Corano, Sura 14, 39

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O gente, in verità noi vi abbiam creato da un maschio e una femmina e abbiamo fatto di voi popoli vari e tribù a che vi conosceste a vicenda, ma il più nobile fra di voi è colui che più teme Iddio. In verità Dio è sapiente e onniscente. Corano, XLIX - 13- La sura delle stanze intime

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fuggiti dalla Mecca a seguito delle persecuzioni, e altre popolazioni di varia provenienza vengono a concordarsi su regole civili di convivenza all’interno della nuova comunità. Questo modello di convivenza, con il diffondersi dell’Islam si propaga in diverse realtà, dando luogo a città cosmopolite come Bassora, Baghdad, il Cairo, Kairouan, Rabat, Fez, Granada, Cordoba, consolidando città come Damasco, Gerusalemme e altre, e che in parte si mantiene ancora oggi, nonostante l’attraversamento di eventi che l’hanno messo a dura prova. Con le scoperte marittime sostenute dalle potenze europee, le quali hanno potuto collegarsi direttamente con Africa e Asia, sottraendo così al mondo arabomusulmano opportunità di commercio e di scambi culturali, il ruolo di primo piano di questa realtà riceve un duro colpo, e la sua natura universale e cosmopolita viene a perdere vera e propria linfa. Il successivo svilupparsi di una politica coloniale, a partire dalla calata napoleonica in Egitto nel 1798, quindi con la penetrazione francese nel 1830 in Algeria, e via di seguito, viene a incrinare profondamente la coesione su cui poggia la comunità islamica e quindi a minarne le basi. Lo stato di dipendenza e di sottomissione che ne deriva, infatti, fa di questi luoghi non più aree di mediazione culturale ma realtà periferiche, le cui genti non riescono più a guardare da oriente a occidente, come accadeva prima, ma solo verso occidente. Di questo rincorrono i modelli di vita, mitizzando, nel contempo, il proprio passato e non è facile ricomporre questo dualismo in una sintesi. Chi è dunque il musulmano di oggi, quello che vediamo arrivare, e la cui identità non può non riassumere in sé queste due fasi, brevemente tracciate, profondamente antitetiche e ugualmente significative, che hanno segnato la sua impronta culturale e la sua stessa esistenza. Questa persona viene sì da altrove, ma di fatto l’altrove è doppiamente intrecciato con questa realtà, in ragione di un’ibridazione culturale, prima, e di un assoggettamento pressoché totale poi. Ma, mentre nell’ibridazione generatasi un tempo egli era soggetto attivo, l’assoggettamento odierno lo ha catapultato qui “dal basso”. Guardando alla terra lontana come a una terra promessa, partito alla ricerca di emancipazione, di un progresso per sé, egli capisce che la subalternità che gli è stata assegnata nel contesto di appartenenza viene mantenuta e amplificata nel nuovo mondo, che la terra promessa è la terra degli altri, e le regole del gioco sono stabilite sempre e comunque dagli altri. Non solo: la marginalità lo esclude, ma nello stesso tempo lo legittima e, a dispetto dei pericoli sociali creati intorno alla figura dell’emarginato, tale condizione si pone paradossalmente quale elemento di accettazione, meno problematica, nelle sue implicazioni, della partecipazione. 48


In particolare, l’emarginazione protegge il musulmano, e protegge la società stessa che lo ha eletto pericolo per antonomasia, e che fatica, nonostante i principi universali fondanti il pensiero occidentale, e il pluralismo che esso vanta, a riconoscere e ad accogliere questa diversità culturale, forse più presunta che reale, senza temerla e senza demonizzarla. Il musulmano che ritroviamo qui, in realtà, come andremo ora a vedere, è lo straniero immigrato che lavora, e che chiede di poter soddisfare dei bisogni come ogni altro individuo. Per tracciare questa figura, si può cercare di percorrere due momenti di riflessione. Il primo vuole inquadrare l’identità migrante nel suo processo di de-costruzione e ri-costruzione, per cogliere e interpretare il nucleo dei processi attuali. Il secondo propone una rilettura delle diverse sfaccettature della realtà di provenienza, spesso dipinta in termini monocromatici e uniformi, per cercare di storicizzarla e collocarla in una giusta dimensione Confine e identità migranti L’immigrazione rappresenta in un certo senso la punta emergente e forse maggiormente visibile di quell’ampio processo che caratterizza sempre più l’intero pianeta, noto con il termine di globalizzazione. Così come la globalizzazione produce una sempre più accelerata espansione del mercato e delle comunicazioni, con tutte le implicazioni sul piano economico, sociale, culturale, così si introduce un’accelerazione anche nell’ambito degli spostamenti umani. Di fatto, i veri attori dell’annullamento dei confini sono le persone che attraversano i diversi contesti geografici e culturali, ed è stata in primo luogo proprio questa naturale tendenza umana a definire il pianeta così come oggi lo conosciamo. “La condizione normale dell’atmosfera è la turbolenza. Lo stesso vale per gli insediamenti degli uomini sulla terra. (...). La sedentarietà non fa parte della caratteristica della nostra specie, fissata per via genetica; si è sviluppata solo assai tardi, presumibilmente in concomitanza con l’invenzione dell’agricoltura. Il nostro originario modo di vivere è quello dei cacciatori, dei raccoglitori e dei pastori”3. I processi migratori, più che un fenomeno, dunque, rappresentano una costante storica, seppure con connotazioni differenti, che odiernamente ritroviamo in tutti i paesi e in particolare i paesi a sviluppo avanzato. Già qualche anno fa Pasolini, di fatto né storico, né sociologo o antropologo, ma con la sensibilità 3

Hans Magnus Enzensberger, La grande migrazione, Einaudi, Torino, 1993, p, 3-4.

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del letterato e del poeta, presagiva l’arrivo dell’altro nella realtà italiana con questa poesia scritta nel ‘62 e pubblicata nel ‘64 nella raccolta “Poesia in forma di rosa”, dal titolo: “Profezia: Alì dagli occhi azzurri” “Alì dagli occhi azzurri uno dei tanti figli di figli, scenderà da Algeri, su navi a vela e a remi. Saranno con lui migliaia di uomini ..... sbarcheranno a Crotone o a Palmi, a milioni, vestiti di stracci asiatici, e di camice americane. ..... Da Crotone o Palmi saliranno a Napoli, e di lì a Barcellona, a Salonicco e a Marsiglia......4 Non molti anni dopo, sull’altra sponda del Mediterraneo, il premio Nobel egiziano della letteratura Naghib Mahfuz prevedeva invece l’emigrazione quale possibile sbocco alla crisi della società araba in generale e egiziana in particolare. Così in “Amore sotto la pioggia” il dottor Alì Zahran afferma “Sto pensando di emigrare (...). Per la verità sono già oltre la fase del “pensare”, ne sono convinto. (..) La patria non è più terra e confini geografici, la patria è ragione e anima. (..). Dobbiamo emigrare, emigreremo alla prima occasione”5. Gli stranieri rappresentano oggi una componente radicata e un fattore indicativo di questo radicamento è dato dalla presenza straniera di donne e nuclei familiari a seguito di quel processo definito come catena migratoria. Ricongiungimenti, aumento dei nuclei familiari, presenza di bambini, significano maggiori vincoli e rapporti con il territorio, e sicuramente questo nuovo aspetto dell’immigrazione è riconducibile in prima istanza alle opportunità di lavoro e all’inserimento effettivo nella sfera dei rapporti produttivi. Ma chi sono veramente gli stranieri, gli altri, gli immigrati o migranti, persone che spesso vengono considerate in maniera univoca, come una massa inter-

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Pier Paolo Pasolini, “Profezia: Alì dagli occhi azzurri”, tratta dalla raccolta Poesie in forma di rosa, Garzanti, Milano1964

5

Naghib Mahfuz, Al-hub taht al-matter, ed. Mettbuàat mektebt messer, Cairo, 1973, pp.52-54.

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namente omogenea, anziché quali soggetti distinti, individui con una identità specifica, che si trovano a vivere in una condizione di estrema complessità. Il mondo di questi soggetti è innanzitutto un mondo “scosso”, poiché la loro identità rimane, almeno inizialmente, come incompiuta, sospesa fra il paese di origine e il luogo ospitante. Schutz definisce questa figura come “un ibrido culturale in bilico fra due diversi modelli di vita di gruppo, senza sapere a quale dei due appartiene”6. Si tratta dunque di identità costrette ad attraversare un processo di trasformazione. Come afferma Bauman “Si pensa all’identità ogni qualvolta non si ha certezza di una appartenenza: quando non si è sicuri su come collocarsi nella varietà apparente degli stili e dei modelli di comportamento, e su come assicurarsi che gli altri accettino tale sistemazione, ritenendola giusta e appropriata, in maniera tale che entrambe le parti sappiano come comportarsi in presenza di altri. Il termine identità è scaturito dalla ricerca di una scappatoia da quella incertezza.”7 Lo straniero, questo “adulto del nostro tempo e della nostra civiltà che cerca di essere accettato permanentemente o per lo meno tollerato dal gruppo in cui entra”8, intraprende in effetti un percorso di ricomposizione della propria identità. I nuovi arrivati “applicano strategie miste per un utilizzo ottimale delle opportunità offerte dal sistema sociale, politico, culturale che li circonda. Ma adottando nuovi stili di consumo, di comportamento, intraprendendo un complicato processo di aggiustamento identitario.9” Durante questo percorso gli universi simbolici originari si rielaborano alla luce delle nuove condizioni materiali, sociali e culturali, dando luogo ad una identità soggettiva che necessariamente va oltre il passato e il presente. “È pertanto uno pseudo-problema chiedersi se l’identità dell’immigrato sia determinata dal suo status di dipendenza e precarietà socio-economica, oppure dal persistere dei tratti culturali, etnici, religiosi della sua provenienza. La risposta sta nella combinazione di tutti questi fattori in un originale innesto tra nuovi stimoli e vecchi riflessi. Questa combinazione muta a seconda delle variabili di sesso, età, scolarità, legami con la propria parentela e con l’ambiente di provenienza ecc.”10 Dal punto di vista sociale, è evidente che la permanenza nella realtà ospitante richiede allo straniero di percorrere un secondo processo di socializzazione, o forse, meglio, di cittadinizzazione, ovvero di progressiva acquisizione e interio6

A. Schutz, Saggi sociologici, a cura di Alberto Izzo, UTET, Torino, 1979, p. 388.

7

Zygmund Bauman, “La ricerca dell’identità” in Prometeo. Rivista trimestrale di scienza e storia, Anno 13, n. 49, marzo 1995, p. 8.

8

A. Schutz, cit., p. 375.

9

Gian Enrico Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione, Il mulino, Bologna, 1993, p.174

10 Ivi p. 173.

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rizzazione degli elementi socio-culturali, relazionali, economici e istituzionali che caratterizzano la società di arrivo. Riprendendo e in parte ampliando quello che Bastenier e Dassetto definiscono come “processo sociale d’ingresso nella città”11, si può delineare il percorso di inserimento dello straniero secondo le seguenti fasi: 1. stabilizzazione, o “territorializzazione”, o “residenzializzazione”, che rappresenta il primo impatto con la società d’arrivo e la ricerca dei mezzi necessari a garantire la sopravvivenza ; 2. urbanizzazione, ovvero la fase in cui lo straniero comincia ad esplorare il territorio, ad avere i primi contatti, istituzionali e non, a formarsi delle mappe mentali che lo orientano nella rete dei servizi, dei referenti e delle opportunità; 3. contrattualità, ossia l’instaurarsi di un insieme di relazioni e mediazioni sociali e giuridiche all’interno della comunità; 4. nativizzazione, ovvero il processo di naturalizzazione sociale (non giuridica) derivabile dalla permanenza nel tempo sul territorio, o dalla percezione di un qualche legame simbolico fra lo straniero e il nativo. 5. cittadinanza de facto, l’ingresso vero e proprio, l’appartenenza acquisita attraverso le quotidiane inter-relazioni che rendono lo straniero un membro effettivo della comunità. Pur non volendo in alcun modo fissare automatismi nel processo di inserimento, che è certamente condizionato da numerose variabili che qui non stiamo a considerare, possiamo comunque osservare in questa società la compresenza di diversi stadi di cittadinizzazione degli stranieri. Se gli ultimi arrivati si trovano nella condizione di rispondere in primo luogo ai propri bisogni fondamentali, altri hanno già superato questo momento e, soprattutto coloro che si sono oramai inseriti nella sfera socio-economica e produttiva, sono spesso entrati in una fase di mediazione con il territorio e le sue istituzioni. A prescindere dal periodo di permanenza, è comunque inevitabile per lo straniero prendere quanto prima contatto con la nuova dimensione, sia per poter soddisfare i propri bisogni fondamentali, sia per rispondere ad altre esigenze, meno pressanti e immediate ma che ogni individuo porta dentro di sé, come la ricerca di comunicazione, di relazioni e di scambio, di riconoscimento, di opportunità economiche e sociali. In particolare, l’ambito delle istituzioni territoriali rappresenta, quanto meno in riferimento ad alcuni settori, una tappa quasi obbligata per i 11 Albert Bastenier, Felice Dassetto, “Nodi conflittuali conseguenti all’insediamento definitivo delle popolazioni immigrate nei paesi europei”, in AA.VV., Italia, Europa e nuove immigrazioni, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 1990.

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cittadini immigrati, così come fondamentale è l’ambiente informale delle relazioni sociali. I contatti a diversi livelli con la società di arrivo rispondono dunque ai diversi bisogni dei cittadini immigrati, i quali, a loro volta, rispondono comunque a determinati bisogni della società che li accoglie, primo fra tutti il fabbisogno di manodopera per coprire specifiche mansioni lavorative. D’altro canto, il processo di cittadinizzazione, processo che inevitabilmente si innesca e progredisce (eccezioni a parte), non è certo privo di ripercussioni proprio sulla società di arrivo, che è a sua volta portata a ridefinire i propri meccanismi, e quindi a porre in atto dei cambiamenti. Non solo cambiamenti strutturali e materiali, ma anche trasformazioni socio-culturali, ridefinizioni concettuali, revisioni della realtà e dei suoi confini, in senso lato. Con la sua sola presenza, infatti, lo straniero, attraversando i confini statuali avvicina i confini culturali, come ha ben espresso Cassano: “Con-fine vuol dire infatti anche contatto, punto in comune, e le guardie di frontiera condividono il paesaggio anche se lo tengono diviso. Insomma, ci può essere un lato debole del confine, un confine che unifica e non contrappone, un confine in cui la prima parte della parola (con) vince sulla seconda (fine), una separazione che si contraddice perché per gestire la separazione si ricorre ad uomini, e questi, si sa, possono anche tradire, parlare con il nemico. In tutte le zone di frontiera quando la tensione non è esplosiva, possono nascere complicità e connivenza, indebolimento consensuale del confine. C’è un’economia illecita che spesso collega la popolazione di frontiera e indebolisce la sacralità dei confini rendendoli impermeabili. “12 La figura del migrante probabilmente inquieta, proprio perché carica di simboli destabilizzanti. Egli rappresenta un’entità inisieme soggettiva e collettiva, che mette in discussione i confini, rendendoli permeabili alle “contaminazioni”. E se i confini terrestri si possono facilmente annullare, figuriamoci i confini di quella “pianura fluida” che è il Mediterraneo, che con Fernand Braudel possiamo definire, “mille cose allo stesso tempo (...) non un mare, ma una successione di mari, non una civiltà, ma civiltà ammassate l’una sull’altra”. Le realtà dell’Islam La tematizzazione odierna dell’Islam è condizionata dagli eventi attuali, quali guerre,scontri di potere e terrorismo, e dalla lettura che ne viene data dai mezzi di informazione. Attualità che, anziché fungere da stimolo per l’approfondimento della conoscenza e dell’analisi, viene spesso strumentalmente utilizza12 F. Cassano, “Pensare la frontiera”, in Rassegna Italiana di Sociologia, a. XXXVI, n. 1, gennaio-marzo 1995.

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ta per confermare sbrigativamente alcuni luoghi comuni diffusi, quando non venga addirittura impiegata come strumento di propaganda politica di parte nei confronti di una realtà spesso descritta e concepita come omogenea e monolitica, ma di fatto geograficamente vasta, culturalmente varia, sottoposta ai più diversi influssi. Per comprendere la complessa realtà islamica (la complessità non è prerogativa solo di alcune società), e di quanto sta oggi accadendo in essa, o meglio in alcune sue frange. È necessario quindi innanzitutto individuare e definire il soggetto di cui si parla. Con il termine Islam si può fare in primo luogo riferimento alla dimensione propriamente religiosa. In questo senso, ci si occupa di un messaggio divino che rientra nel filone monoteista, e va quindi affrontato e esaminato dal punto di vista dei suoi principi, precetti e insegnamenti. Un secondo livello di analisi può tendere invece a collocare storicamente l’Islam, a vederne la concretizzazione in una civiltà, considerando l’evoluzione della sue caratteristiche demografiche, territoriali, socio-economiche e delle sue espressioni istituzionali e politiche. La realtà dei popoli islamici va dunque vista come una parte di questo pianeta oggi attraversato e scosso da forti trasformazioni, tensioni e contraddizioni economiche, sociali, politiche. In questo scenario, non possiamo ignorare come tale realtà si collochi in una posizione svantaggiata e emarginata. Migranti e musulmani Gli immigrati musulmani provengono, come gli immigrati non musulmani, da realtà che presentano caratteristiche comuni a tanti paesi delle periferie del mondo, alle prese con gravi problemi occupazionali, con enormi difficoltà nello sviluppo, con forti contraddizioni politiche, e non ultimo costrette a subire imposizioni e influenze esterne. D’altra parte i musulmani presenti in Italia hanno origini in realtà fra loro diverse ed eterogenee, a differenza di quelli presenti in altri paesi come la Germania, dove prevale la componente turca, o la Francia dove c’è una forte maggioranza araba dal Maghreb, o ancora l’Inghilterra dove è consistente la comunità del subcontinente indiano. Qui sono diverse le connotazioni culturali, le caratteristiche territoriali da cui provengono, nonché le relative entità geografiche e statuali, in gran parte delineatesi, del resto, a seguito del colonialismo europeo. In effetti anche in questi paesi la prassi sociale e la vita quotidiana non si ispirano soltanto alla religione, così come vorrebbe leggerle un certo filone di pensiero 54


che si rifà all’homo islamicus, bensì anche alla tradizione, alle consuetudini, nonché a mode intrecciate con stili di vita e di consumo anche importati dall’esterno. Pertanto, nel leggere la realtà odierna degli immigrati musulmani, va tenuto presente che questi provengono da aree diverse di un pianeta che è oggi interamente attraversato e scosso da forti trasformazioni, tensioni e contraddizioni, sul piano socio-economico come su quello politico. Se vogliamo leggere l’appartenenza religiosa alla luce del fenomeno migratorio, dobbiamo dunque prima soffermarci sulla figura dell’immigrato. La condizione del migrante è stata definita in termini di pluri-appartenenza. L’identità soggettiva e culturale nell’esperienza migratoria deve affrontare un processo di trasformazione profonda. Possiamo leggere l’appartenenza religiosa dell’immigrato secondo tre dimensioni significative. Religione come dimensione spirituale e morale, sistema valoriale capace di interpretare e valutare ciò che accade e di motivare le scelte e il fine ultimo della vita; Religione come dimensione tradizionale e istituzionale, riassunta negli aspetti rituali, che si delinea come componente integrante della vita di ogni giorno, riferimento e aiuto quotidiano tanto per i singoli individui quanto per la comunità; Religione come dimensione e appartenenza culturale, che rappresenta una fonte di identificazione con le proprie origini, una sorta di riconoscimento e un elemento di unione fra individui sulla base di un credo comune e condiviso. Queste dimensioni rappresentano delle sfere di significato dai contorni sfumati che possono anche intersecarsi, dando luogo a vissuti religiosi che nella realtà si presentano compositi. Nel difficile passaggio di condizione, nella faticosa affermazione dei propri diritti e delle proprie consuetudini, nel processo di conoscenza e di acquisizione di una nuova cittadinanza, ma anche nel confronto con nuovi universi culturali e religiosi, la propria appartenenza originaria, in questo caso religiosa, può fungere da sostegno spirituale e morale, da criterio guida nella vita quotidiana, da ponte fra passato e presente, da elemento di riconoscimento e di comunanza con la propria gente, ma anche come risorsa di riserva, da utilizzare per uscire dall’esclusione in cui spesso l’immigrato si trova per affermare una centralità. Ma tutto questo richiede una ricerca e una mediazione continua, sia nell’impatto con la diversità delle condizioni materiali e sociali, sia con differenti definizioni e interpretazioni della realtà, che non solo possono riferirsi a religioni diverse, ma che spesso, nella società secolarizzata, sono anche del tutto estranee, indifferenti e talvolta persino ostili, a concezioni religiose. 55


Considerazioni Finali È oggi necessario creare degli spazi di confronto e dialogo con i musulmani arrivati qui, tessere con loro delle relazioni in una dimensione in primo luogo intersoggettiva, spogliando il nostro giudizio da quelle categorie preconfezionate che ci portano a credere nell’homo islamicus, come entità univoca e indistinguibile. Molti sono gli spazi ancora da esplorare in questo ambito. Non dobbiamo fare l’errore di dare ormai per acquisiti e immodificabili né i concetti né i metodi del dialogo interculturale e interreligioso. È indispensabile essere sempre disposti a sollevare nuovi dubbi e nuove questioni, è importante essere consapevoli che questi sono percorsi faticosi, in quanto sottopongono continuamente le nostre certezze all’incertezza. “Vi è qui un’età in cui si insegna ciò che si sa, ma poi ne viene un’altra in cui si insegna ciò che non si sa: questo si chiama cercare. Ora è forse l’età di un’altra esperienza: quella di disimparare, di lasciare lavorare l’imprevedibile (...).13”. I musulmani presenti oggi sul territorio italiano, circa un milione e trecento mila, escludendo gli italiani che hanno scelto questa religione, sono di fatto cittadini immigrati, dunque con un preciso status sociale e giuridico. Alla stregua di tutti gli altri immigrati, essi sono per la quasi totalità manodopera che risponde alla domanda di lavoro, e soprattutto di lavoro flessibile, del mercato locale. Il tema della presenza musulmana andrebbe affrontato su due piani fondamentali. Il primo si inserisce nel dibattito sulle politiche dell’immigrazione e modelli di inserimento, il secondo nel quadro del riconoscimento delle minoranze linguistiche e religiose. Su questi due livelli si andranno a misurare i concetti di cittadinanza e di democrazia. Pertanto i temi relativi alla presenza islamica vanno inseriti dentro un ragionamento complessivo: non tanto sul dualismo “loro” e “noi”, ma soprattutto intorno a interrogativi riguardanti la democrazia di domani, il futuro sistema di welfare, i diritti di cittadinanza, i modelli di sviluppo.

13 R. Barthes, La lesson, Seuil, Paris, 1976, pag. 33.

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Tra fede e cultura, spiritualità e tradizioni Alessandro Martinelli Direttore Ufficio per il Dialogo Interreligioso – Arcidiocesi di Trento

Introduzione Ci si può ben chiedere qual è il senso e il significato di un discorso sul tema del dialogo interreligioso nell’ambito del progetto “Dialoghi in cammino”. In fondo, la risposta potrebbe essere molto semplice: anche le religioni “camminano”! Ovvero anche le religioni “vivono” e “s’incontrano” attraverso uomini, donne, comunità, società che si incrociano; perché quando parliamo di religioni noi non parliamo solo di principi ma anche di vissuti umani, di relazioni, di dimensioni concrete, di ciò che gli occhi possono vedere. Oggi proprio questo modo di incontrare le religioni diventa anche il modo di conoscerle, in bene e in male. Certo, occorre tener presente che non ha lo stesso significato parlare di “cristianesimo” e di “cristiani”, com’anche di “islam” e “musulmani”, ovvero non ha lo stesso significato parlare dei fondamenti di una religione e di come questi fondamenti vengono messi in pratica dai fedeli; parlare dei principi non sempre significa parlare dei vissuti. Proviamo allora a confrontarci su alcune parole chiave: prima fra tutte la “spiritualità” - la dimensione spirituale costituisce un elemento importante, talvolta davvero di vitale significato, per una persona… - la dimensione spirituale va colta come una sorta di continua ricerca verso il Bene attraverso l’Assoluto e insieme all’Altro… - la dimensione spirituale può trasformare una storia, completare una cultura, ma anche interrompere un cammino, imporre una linea… - la dimensione spirituale contribuisce alla formazione di un’identità, personale e comunitaria… Nel nostro contesto attuale s’incrociano con la dimensione spirituale due fattori a cui occorre guardare con attenzione: frammentazione e lacerazione - «significa prendere atto che la vita è presente a frammenti, ovvero spezzettata tra le urgenze, le necessità, le esigenze, le difficoltà, i ritmi di un’esistenza quotidiana segnata da fretta e da mediocrità. Si tratta di una frammentazione 57


non violenta, per alcuni casi, tant’è che noi la viviamo in modo del tutto, o quasi, normale. È normale correre al mattino, vivere di fretta i ritmi tra lavoro, famiglia, scuola, sport, affetti, cultura; è normale interrompere e chiudere; è normale non farcela; è normale non scegliere… Sembra di vivere in un puzzle. Ci si abitua facilmente, pur imprecando contro tutti e contro tutto». - «dobbiamo prendere atto che viviamo una vita profondamente lacerata; dobbiamo prendere atto di una lacerazione violenta che coinvolge la nostra umanità: la difficoltà di relazione, a tanti livelli; la difficoltà di comprensione e di ascolto; la difficoltà di pensare le nuove frontiere che squarciano e provocano duramente noi tutti, come la malattia, il senso della vita, l’etica, ma anche la sofferenza, che amplia sempre più la solitudine, il senso di disagio…». In questo contesto la spiritualità trova una sola chance nel dare senso alla vita: Non cercare ora le risposte che non possono esserti date poiché non saresti capace di convivere con esse. Vivi le domande. Forse ti sarà dato, senza che tu te ne accorga, di vivere fino al lontano giorno in cui avrai la risposta… Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite. (Etty Hillesum, 1914-1943) Mettersi in cammino richiede alcune piccole attenzioni: - fede e religione non costituiscono il medesimo orizzonte: se la religione può costituire un visibile legame composto di atti di culto, di preghiere e di norme comportamentali, la fede può rimanere un costante interrogativo che accompagna e sostiene le domande sulla vita - conoscere una persona o un gruppo di fede non significa conoscere “la” fede; un’esperienza va colta nella sua interezza e non nell’episodico, nel singolare, nell’eccezionale - soprattutto in alcune culture, la religiosità ha provveduto a “separare” il maschile dal femminile: questo potrebbe costituisce un “segno di complicità”, di parità tra i sessi, ma anche di difesa - in alcune realtà l’uso della voce, contraddistinto talvolta da toni irruenti e focosi, risulta essere tipico della “contrattazione”, anche spirituale: “questa” voce, per esempio, distingue spesso le relazioni famigliari da quelle extrafamigliari - bestemmiare il Nome di Dio, ovvero pronunciarlo superficialmente, in modo 58


banale, oltre a dare una cattiva immagine di un’appartenenza religiosa, può diventare motivo di disagio - grande attenzione va posta nel non favorire facili assiomi: i ricchi, al di qua del mare, e i poveri, al di là dell’oceano, ovvero la contrapposizione tra blocco “cristiano/occidentale/nord” e blocco “musulmano/orientale/sud” - dal punto di vista della fede “ogni relazione parla di Dio e della sua storia tra di noi”; ogni banalizzazione può venir letta come un approfittarsi di una fede confusa, stanca, superficiale. Alcune questiones, infine, dovrebbero provocarci continuamente, indipendentemente dal vissuto e dalle scelte di carattere religioso: • è necessario prendere atto di una mancanza di contemporaneità: noi non siamo mai stati contemporanei; il tempo non è trascorso ovunque e uguale allo stesso modo; il pensiero e la storia ci differenziano; l’Occidente, l’Europa, Noi non siamo al centro dell’evoluzione, per questo è necessaria pazienza, comprensione, ascolto, curiosità, ricerca. • occorre ripartire dalla pratica dell’ascolto: ascoltare significa cogliere nell’altro-da-me un vero e proprio altro, come anch’io sono un altro per l’altro, con storie, limiti, potenzialità, alterità; è sempre necessario partire tralasciando il “si è sempre fatto così” e il pregiudizio. • oggi c’è bisogno di un nuovo linguaggio: si rende sempre più urgente passare dal volgarese (negro, marocchino, terrone, talebano…), dall’urlato (dove forte significa vincente…) e dal banale (così appaio più adulto…) alla com-passione, ovvero al con-dividere, al conpartecipare, al con-esserci. • l’incontro va sempre colto come Mistero: l’incontro vero, non più nell’esteriorità, diventa autentico perché avviene “nel Mistero”, nel “Senso”, ovvero nell’amicizia, nella sofferenza, nella libertà, nella bellezza. • quando si vive il dialogo? 59


quando l’incontro diventa scambio e arricchimento, non omologazione; quando diventa valorizzazione dell’alterità, a partire dal mio vissuto e dalla mia storia; per questo il dialogo interreligioso costituisce una sfida per gli altri a partire da se stessi. • la diversità va colta come normalità: in campo interreligioso - ma non solo - la diversità va colta come normalità: è normale che le religioni siano diverse; è normale che vi siano tanti pensieri spirituali, così com’è normale la differenza nella creazione e nella vita. • il dialogo possibile rimane solo quello autentico: che parte dalla lettura della realtà e non dall’ipotesi; che prende atto di una frammentazione e di una lacerazione sociale e spirituale, ma che proprio su questa s’innesta come ricerca.

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Dialoghi in cammino Aluisi Tosolini Filosofo e pedagogista

Dell’andare e del tornare Un viaggio è sempre percorso, tappe, luoghi da attraversare, abbandonare, ricercare. Luoghi a cui tornare, anche. Un dato essenziale, legato al viaggio, è il concetto di crisi. L’etimologia della parola deriva dal verbo greco krino che significa separare, cernere e, in senso più lato, discernere, giudicare, valutare. Nell’uso comune ha assunto un’accezione negativa in quanto vuole significare un peggioramento di una situazione. In realtà la parola crisi presenta anche una dimensione positiva, in quanto un momento di crisi cioè di riflessione, di valutazione, di discernimento, può trasformarsi nel presupposto necessario per un miglioramento, per una rinascita, per uno sguardo nuovo (decentrato) sulla realtà e quindi sulla possibilità di leggere, interpretare e costruire in modo differente il mondo ed in contesto in cui siamo. È di grande interesse, al riguardo, l’analisi effettuata da Antony Giddens sul concetto di rischio. Come è noto un altro studioso tedesco, Ulrich Beck, ha utilizzato il concetto di rischio come elemento cruciale per la interpretazione della società globale contemporanea (si veda il volume La società del rischio). Nella lettura di Beck, e più in generale nel senso comune odierno, il rischio è legato in particolare alla dimensione temporale, al domani, all’incertezza nei confornti del futuro. In realtà, dice Giddens (cfr Il mondo che cambia, il mulino 2000), la parola rischio aveva originariamente a che fare, nel XVI-XVII secolo, con la dimensione spaziale. Si riferiva a ala situazione dei viaggiatori, dei navigatori che si avventuravano verso i nuovi mondi e lungo mari ignoti, e che non avevano né mappe, né carte nautiche, né segnali, rotte, strade tracciate. Insomma una totale incertezza sulla direzione da prendere con le nostre caravelle. In questo caso la società non vivrebbe solo di incertezza sul futuro ma può essere raffigurata come una società senza mappe. Una società piena di Tom Tom e di navigatori ma che in realtà gira a vuoto perché non sa bene identificare il passaggio verso il nuovo mondo. Chi ha compiuto il viaggio di dialoghi in cammino avrà certamente avuto modo di percepire questo spaesamento: il trovarsi in terre ignote senza avere a di61


sposizione mappe interpretative, navigatori che indichino il passaggio verso il nuovo. Il nuovo da costruire In questo senso il tornare dall’esperienza di dialoghi in cammino non può essere vissuto solo nella dimensione privatissima della bella esperienza individuale (o di piccolo gruppo) che ha arricchito il proprio bagagli di esperienze più o meno interessanti ed adrenaliniche. Il tornare si porta dietro l’estraniamento e la crisi temporale e spaziale che è stata sperimentata nel viaggio stesso. Quando i navigatori del ‘500/600 sono tornati in europa hanno avviato la costruzione/narrazione di un nuovo mondo. Hanno dato vita a nuovi carte geografiche, ai planisferi (si veda Mercatore) ed a conseguenti modalità di interazione tra i soggetti e le popolazioni del mondo. Quesi viaggi hanno messo in crisi il mondo di allora: il mediterraneo ha iniziato il proprio declino come centro del mondo lasciando il passo all’atlantico. Oggi viviamo una situazione simile. Non sappiamo bene dove siamo, a che punto siamo del processo di glocalizzione e men che meno sappiamo verso dove andare. Verso quale società plurale. E neppure sappiamo come essa debba essere costruita, quali gli atteggiamenti, le modalità di interazione, le strutture del dialogo, dell’integrazione, delle relazione con l’alterità debbano essere messe in campo. Da qui la necessità, per chi ha viaggiato ed ha incontrato altre persone in altri mondi, di frasi interprete e ponte, nella realtà in cui vive, delle domande di senso, delle richieste urgenti di nuove mappe per il futuro. Un compito complesso perché giocato spesso alla cieca. Quasi sperimentalmente. Che richiede di decostruire l’esistente e nel contempo di rassicurare ed accompagnare quanti saranno costretti (perché tutti saremo costretti) ad intraprendere un viaggio “rischioso” al termine del quale un nuovo mondo nascerà. Ma non sappiamo quale. Come non lo sapeva Colombo o Amerigo Vespucci o Mercatore. Questo il nostro affascinante dilemma.

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Dialogo interreligioso e vita quotidiana Per un’anima plurale delle città Brunetto Salvarani docente di Missiologia e Dialogo presso la Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna di Bologna

Tra i sette saperi fondamentali per un’educazione futura, Edgar Morin situa al quarto posto l’insegnamento dell’identità terrestre1. A suo parere – ed è davvero difficile dargli torto! - il destino ormai planetario del genere umano è una realtà incontestabile ma spesso ancora sottovaluta nel senso comune. La conoscenza degli sviluppi dell’era planetaria che si dipaneranno lungo il XXI secolo e la coscienza dell’identità terrestre, che sarà sempre più indispensabile a tutti, dovrebbero infatti diventare obiettivi fondamentali dell’insegnamento, come di ogni educazione. A tal fine, spiega lo studioso francese, bisogna lavorare sulla storia dell’era planetaria, che ha inizio con la comunicazione fra tutti i continenti nel XVI secolo, e mostrare come ogni porzione del mondo sia diventata interdipendente, senza occultare le oppressioni e le dominazioni che hanno devastato l’umanità e non sono affatto scomparse oggigiorno. Il fatto è che tutti gli uomini, ormai spinti dagli stessi problemi di vita e di morte, vivono uno stesso comune destino, anche se, sulla scorta dell’immaginario favorito dai tragici eventi dell’11 settembre 2001, siamo comunemente portati ad enfatizzare le loro differenze (che ci sono, naturalmente): fino a dichiarare le culture - e le religioni -, non di rado, irriducibili e incapaci persino di dialogare reciprocamente. Un panorama complesso Qualche tempo fa, durante un viaggio in autostrada nell’Italia centrale, ho incrociato su un cartellone una di quelle scritte che, anni addietro, avevano prodotto persino una lunga serie di leggende metropolitane sulle oscure motivazioni che le avrebbero provocate: “Dio c’è!”. Un’affermazione perentoria, lapidaria, di innegabile suggestione soprattutto se collocata sullo sfondo di una stagione - pochi decenni addietro – contrassegnata piuttosto dal sostanziale 1

E.MORIN, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina, Milano 2001.

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e generalizzato disinteresse sulle cose religiose. Soprattutto sul loro impatto pubblico, ritenuto di regola pressoché nullo, e scarsamente intrigante per la cultura dominante. I cui slogan andavano dai seriosi “L’eclissi del sacro”, “La fine della religione”, “Per un cristianesimo non religioso” (titoli di veri e propri bestseller nei dintorni della metà degli anni sessanta) a quello, scanzonato ma per nulla banale, di un monologo di Woody Allen che recitava “Dio è morto, Marx è morto, e neanch’io mi sento troppo bene…”. Qualche chilometro più tardi, però, la certezza di una secolarizzazione ormai consolidata era messa a dura prova da un successivo cartello, in cui una mano altrettanto ignota aveva aggiunto in basso, al canonico “Dio c’è!”, un interrogativo quanto mai sintomatico, degno figlio di un altro tempo, fatto di religioni tornate in prima pagina e di un sacro selvaggio e coniugato rigorosamente al plurale: “Ma quale?”. La domanda, ovviamente, non è per nulla secondaria. Prima ancora di riflettere sulla qualità dell’accoglienza nelle nostre città oggi, essa, anzi, si rivela - superato l’iniziale sbigottimento - come la domanda delle domande: quale Dio c’è oggi? Quello ambiguamente invocato dal cristiano rinato Bush junior per giustificare al mondo benestante la sua guerra preventiva e infinita; o quello del meticcio Barack Obama che nel discorso d’insediamento alla Casa Bianca sostiene “che il nostro retaggio a patchwork degli Usa è una forza e non una debolezza”, rivolgendosi a “cristiani e musulmani, ebrei e hinduisti e non credenti”; o dal musulmano risvegliato Bin Laden per chiamare le nuove plebi del pianeta a un jihad terroristico e blasfemo? Quello pubblicizzato e venduto a basso prezzo dai mercanti del supermarket del sacro che sfruttano l’ansia postmoderna e il successo della Next Age come un’occasione insperata per produrre ricchezza e intercettare angosce, bisogni e speranze diffusi? Quello certosinamente fotografato dalla sociologia attuale, che parla di una risorta voglia di comunità e di intimità di gruppo, di sorprendenti protagonisti del religioso quali pellegrini e convertiti2, constatando in parallelo la crisi sempre meno reversibile di chiese e comunità tradizionali? O quello, infine, in nome del quale Giovanni Paolo II e i leader religiosi mondiali hanno pregato a più riprese a partire dal 27 ottobre 1986, divisi ma assieme, ospiti del Poverello d’Assisi, invocando la pace su un pianeta dilaniato e sbigottito? Difficile, forse impossibile, rispondere. Il quadro accidentato che vi è sotteso rimanda, del resto, ad un ulteriore interrogativo, forse ancor più pressante: che spazio c’è per il dialogo, per un rapporto positivo con l’alterità, nel tempo del ritorno della religione sulla scena del villaggio globale e del pluralismo religioso come esperienza diffusa? Se il primo aspetto 2

D.HERVIEU-LEGER, Il pellegrino e il convertito. La religione in movimento, Il Mulino, Bologna 2003.

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presenta la sfida a rendere le religioni un fattore di pace e di convivenza positiva nel contesto di una coscienza sempre più planetaria del nostro vivere sulla terra, il secondo rinvia all’esigenza del riconoscimento rispettoso e accogliente della diversità di fedi e culti. “Dio di ritorno: nel meglio e nel peggio” è il titolo di un bel dossier curato da Henri Tincq per Le Monde qualche anno fa, in cui ci s’interrogava sulle complesse modalità del citato, sorprendente revival3. Diaspora del sacro è un’altra locuzione utilizzata, per indicarne la sovraesposizione vistosa persino in ambiti generalmente distanti dal religioso classico: gli scenari del dopo-11 settembre l’hanno ulteriormente posto in luce, con esiti sovente drammatici. Facendocene toccare con mano – esemplarmente, direi - ambiguità e contraddizioni. Si pensi, per fare un esempio, alla discussione apertasi nel 2004 anche dalle nostre parti, in seguito alla Legge del governo francese contro l’esibizione dei simboli religiosi nelle aule scolastiche: veli musulmani ma anche kippot ebraiche, croci di grossa taglia (!) e turbanti sikh4. Potremmo proseguire, ma il panorama è evidente: il sacro oggi buca lo schermo, c’è lo Scilla di chi vuole cavalcarlo alla maniera teo-con e il Cariddi di chi ne prova una laicista e palese insofferenza, mentre non è facile per nessuno distinguere fra messaggi corretti, provocazioni o penose strumentalizzazioni. E guardare alla storia, o ai testi sacri, ci aiuta fino ad un certo punto: vi abbondano le contraddizioni, e a ogni frammento di narrazione incentrata sul messaggio della pace se ne potrebbe contrapporre un altro, votato alla violenza. Al Dio della mitezza si può accostare, in un impressionante corto circuito, il Dio degli eserciti e della guerra santa, dell’antifemminista caccia alle streghe e dell’antigiudaismo; alla tregua di Dio, le guerre infracristiane che hanno insanguinato fino a una manciata di secoli fa quell’Europa che oggi – forse per una comprensibile cattiva coscienza – ha scelto di non riconoscere le proprie radici a partire da quell’orizzonte di pensiero. Si può senz’altro concordare col cardinal Carlo Maria Martini, per il quale “il pluralismo religioso è oggi una sfida per tutte le grandi religioni, soprattutto per quelle che si definiscono come vie universali e definitive di salvezza: se non si vuole giungere a nuovi scontri, occorrerà promuovere con forza un serio e corretto dialogo interreligioso”. Dialogo contro violenza, dunque, il messaggio sembrerebbe ovvio. Il fatto è che, però, come vettore di pacificazione dialogo è uno di quei termini indispensabili che però oggi rischiano, purtroppo, di non

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H.TINCQ, “Dieu de retour, pour le meilleur et le pire”, in Le Monde Dossier et Documents n.29 (2002).

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COMMISSIONE STASI, Rapporto sulla laicità. Velo islamico e simboli religiosi nella società europea, Scheiwiller, Milano 2004.

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comunicare più nulla per l’estenuazione del loro uso. Per la facilità eccessiva con cui vi si ricorre, senza elaborarlo appieno, fino a erigerlo a inservibile parola-talismano. Certo, paradossalmente: perché al dialogo, in realtà – come insegnano il Concilio e Paolo VI, la pedagogia dei gesti di Giovanni Paolo II e la Charta Oecumenica, fino a Benedetto XVI e al suo viaggio in Turchia di fine 2006 - non esiste alternativa. La questione, semmai, riguarda le modalità operative dei cammini da scegliere per educare a dialogare, in chiave sia ecclesiale sia civile, verso incontri interreligiosi che andrebbero visti come segnali di speranza per il futuro. Sarebbe del resto ingeneroso se il pesante clima politicoculturale odierno e l’intransigenza generalizzata quanto pervasiva ci facessero trascurare che tra donne e uomini diversamente credenti non si danno solo diffidenze o conflitti aperti e irrisolti, ma altresì esperienze d’apertura e fiducia reciproca… Le buone pratiche in tal senso, fortunatamente, non mancano! E se ambienti avvertiti hanno colto da tempo come sia vitale passare dal dialogo delle buone maniere e dei salamelecchi al dialogo nella verità e nella franchezza, i loro esiti risultano purtroppo spesso poco notiziabili, per cui non varcano la soglia d’attenzione del grande pubblico. È importante raccontare il positivo che si dà, ma resta annegato nell’informazione allarmistica e tutta urlata cui siamo ormai rassegnati: anche perché il dialogo fornisce ai credenti un’opportunità per esaminare e decostruire assieme l’universale tendenza umana all’esclusivismo, allo sciovinismo, all’odio e alla violenza che possono infettare – e nei fatti stanno infettando - il comportamento e l’identità religiosi. Tre modelli Soffermandomi schematicamente sui rapporti di accoglienza (presupposto inevitabile della giustizia) fra i cristiani e le religioni altre, e in particolare l’islam, mi pare siano oggi in campo tre distinti modelli. Il primo, più arduo da smascherare e più noto all’opinione pubblica poiché già penetrato nel senso comune su entrambi i versanti, è il cosiddetto scontro di civiltà. Secondo una linea di pensiero i cui numi tutelari vanno dal politologo Samuel Huntington alla scrittrice Oriana Fallaci, entrambi scomparsi, sarebbe in atto un clamoroso conflitto dal sapore apocalittico, che consisterebbe in realtà in una vera e propria guerra finale dichiarata dall’islam (tout-court) contro l’occidente, di cui l’11 settembre sarebbe la dichiarazione ufficiale e insieme la manifestazione più spettacolare. Corollari di tale perentoria tesi, la scommessa sull’incompatibilità assoluta fra i due mondi, quasi a leggere le culture come monadi chiuse in se stesse, nonché un’impietosa cultura del sospetto su 66


qualsiasi cedimento al nemico, come l’idea di aprirsi almeno ad una porzione dell’islam da parte del cristianesimo. Il secondo modello è rappresentato da una posizione definibile genericamente indifferentista-relativista, frutto malato dell’odierna stagione di vorticosi rimescolamenti sul versante religioso di cui abbiamo detto. A lungo, persino in ambiti sensibili al dialogo ecumenico/interreligioso, si è ritenuto che esso sarebbe stato favorito dalla rinuncia (quanto meno tattica e momentanea) alla propria peculiare identità da parte delle religioni coinvolte. L’incontro si sarebbe svolto più agevolmente, in tale ottica, a partire dalla scelta del cristiano che, posto di fronte ad un musulmano, ad esempio, avesse optato per trascurare, o almeno porre fra parentesi, le verità più scomode agli occhi dell’interlocutore. Ritengo occorra, ora, capovolgere una simile prospettiva. Nessun dialogo autentico potrà avvenire sulla base di una rinuncia alla propria identità (che non è un idolo né un moloch, ma un cammino di ricerca), un generico volemose bene, o un indifferentismo che banalizzi a basso prezzo le differenze. Che ci sono, resteranno, e non vanno minimizzate: semmai, opportunamente contestualizzate, e mai drammatizzate. Un dialogo serio implica interlocutori consci e innamorati della loro identità! “Avere convincimenti fermi – scrive Gustavo Gutierrez - non è di ostacolo al dialogo, né è piuttosto la condizione necessaria. Accogliere, non per merito proprio ma per grazia di Dio, la verità di Gesù Cristo nelle proprie vite è qualcosa che non solo non invalida il nostro modo di fare nei riguardi di persone che hanno assunto prospettive diverse dalla nostra, ma conferisce al nostro atteggiamento il suo genuino significato”5. Ricorrendo a un solo apparente paradosso, credo davvero che la capacità di ascoltare gli altri sia tanto maggiore quanto più fermo è il nostro convincimento e più trasparente la nostra identità cristiana. Il terzo modello è infine quello del dialogo accogliente, colto come caso serio e kairòs (lemma chiave dei vangeli), occasione propizia per aprirsi al novum, e filo rosso del cristianesimo postconciliare dopo la lunga stagione dell’extra ecclesiam nulla salus. Andrà evidenziato, in ogni caso, come il dialogo si riveli sovente più aspirazione che realtà: un intraprendere l’impossibile e accettare il provvisorio. Risulta perciò più onesto, per ora, limitarsi a parlare di incontri interreligiosi, o più in generale di rapporti interreligiosi o ancora, come fa la teologia più avvertita, di scambi o conversazioni tra persone che vivono esperienze religiose. In più di un documento vaticano - fra cui la dichiarazione concilia-

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G.GUTIERREZ, “Un nuovo tempo della teologia della liberazione”, in Il Regno – Attualità n.10 (1997), pp.298-315.

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re Nostra Aetate e l’enciclica Ecclesiam Suam di Paolo VI - il termine dialogo rende in effetti il latino colloquium, ad evocarne una versione maggiormente dimessa e quotidiana: e quotidiana è la dimensione dialogica che si manifesta nelle relazioni sociali tra credenti di differente appartenenza. Infatti accade spesso, oggi, che la fondante dimensione dialogica sia quella personale, privata, concreta, come quella di fatto sperimentata da quanti hanno a che fare, direttamente e non superficialmente, con immigrati di religioni altre6. Più che il dialogo teologico, e quello diplomatico tra istituzioni religiose, pur necessari e senz’altro da potenziare, sembra questa la dimensione più interessante e ricca di conseguenze: ed è dialogo su questioni pratiche, dubbi e speranze, a partire dal vissuto quotidiano, non da problematiche astratte. Su cui anche il mondo delle agenzie educative, evidentemente, avranno molto da dire (e da fare): perché, come sostiene Andrea Canevaro, “l’educazione interculturale non può non fare i conti con le religioni”7. L’inatteso pluralismo che ci sta attraversando è destinato, prevedibilmente, a porre a dura prova la nostra tradizionale ignoranza in campo biblico e religioso, invitando il mondo della scuola e del Terzo Settore, quello della formazione permanente e quello dell’informazione mediatica ad un impegno più serio e approfondito. Sarà impossibile, in ogni caso, continuare a considerare il fatto religioso come un elemento puramente individualistico o folkloristico, privo di influssi culturali, economici e sociali. Come ogni novità, una situazione del genere potrà provocare paure non gestite e indurre a chiusure intellettuali, come sta facendo, ma anche stimolare a un autentico salto di qualità pure sul piano etico, se sarà vissuta con la necessaria laicità (poiché la laicità aperta è il presupposto di ogni sano pluralismo8). Il pluralismo che stiamo vivendo ormai coinvolge direttamente qualche milione di persone nella penisola; indirettamente è una realtà che, arrivando nelle province e nelle periferie, tocca una quota importante della società. Eppure riconoscere il pluralismo, parlare di pluralismo, educare al pluralismo è tutt’altro che ovvio e semplice. Anche perché il sistema politico che dovrebbe garantire un aggiornato quadro di riconoscimento e di governance di simili fenomeni resta al palo di pregiudizi e sottovalutazioni: ad esempio, l’Italia politica - dell’uno e dell’altro polo - sembrerebbe fisiologicamente incapace di produrre una moderna una legge che ci porti oltre il retaggio della legislazione sui culti am6

Mi permetto di rinviare, a tale proposito, al mio Vocabolario minimo del dialogo interreligioso, EDB, Bologna 2008 (2° edizione aggiornata ed ampliata).

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Cfr. il mio Educare al pluralismo religioso. Bradford chiama Italia, EMI, Bologna 2006.

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Cfr.P.NASO, Laicità, EMI, Bologna 2005.

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messi per avvicinarci a una moderna ed europea cultura del diritto alla libertà religiosa. Sì: l’Italia si trova come di fronte ad un muro di vetro9! Sta vedendo il pluralismo, ne coglie gli aspetti esteriori - il ramadan, la spiritualità pentecostale, il rigore dei testimoni di Geova, le mizvot ebraiche, la meditazione orientale… - ma non è in grado di interagire consapevolmente con questa realtà: due mondi prossimi l’uno all’altro, l’uno dentro l’altro ma separati da muri di vetro costruiti su perimetri irregolari che creano intersezioni e persino familiarità, ma mai contatto e relazione. Certo, le eccezioni esistono e tale muro, come tutti i muri che l’umanità ha provato ad alzare, ha delle fratture e dei pertugi che consentono qualche salutare scambio; persino qualche contaminazione. Ma mi pare di poter dire che, ancora attualmente, le culture, le politiche, persino le teologie prevalenti tendono a consolidarlo, questo muro di vetro, che ci mostra gli uni agli altri ma non consente l’interazione, che ci avvicina ma non ci consente di conoscerci. Ne deriva una criticità per la funzionalità di una compiuta democrazia, persino un’arretratezza nel confronto con la realtà di gran parte dell’Unione Europea. Per una formazione all’accoglienza e al dialogo Personalmente, ritengo che sulla scelta strategica dell’accoglienza, del dialogo e del confronto (ecumenico, interreligioso, interculturale) s’investa ancora troppo poco, sul piano civile ma anche su quello ecclesiale. Lo si relega spesso, di fatto, e al di là delle dichiarazioni di principio, tra gli aspetti meno rilevanti della pastorale ordinaria, confinandolo malinconicamente alla celebrazione di giornate specifiche nel corso dell’anno liturgico (dalla Giornata del dialogo ebraicocristiano il 17 gennaio alla Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, fino alla più recente Giornata ecumenica del dialogo cristianoislamico, l’ultimo venerdì di Ramadan10). Di più: talora si giunge a metterlo in discussione, e a porne in discussione l’efficacia, senza neppure averlo sperimentato concretamente, e senza avervi impegnato energie, tempo, reale interesse… Siamo così ad una retorica del dialogo, che non fa i conti col fatto che il dialogare - quando è autentico - costa inevitabilmente un prezzo alto, perché ci mette in gioco nell’intimo, e ci può spingere a scelte controcorrente, portandoci a ridiscutere

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Cfr. P. NASO – B. SALVARANI, a cura, Il muro di vetro. Primo rapporto sull’Italia delle religioni, EMI, Bologna 2009.

10 Info:

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alcune delle nostre abituali sicurezze (il riferimento, in particolare, è a ciò che Raimon Panikkar chiama opportunamente dialogo intrareligioso)11. “L’educazione e la formazione al dialogo interreligioso, o a una vita di amicizia e di simpatia con persone di altre religioni - scrive padre Sottocornola, fondatore del Centro interreligioso Shinmeizan, in Giappone - deve anzitutto cercare di creare questo atteggiamento generale col quale noi sottolineiamo quello che è positivo, buono, bello nell’altra religione piuttosto che i suoi aspetti negativi, e poniamo l’accento su tutto quello che unisce o favorisce la collaborazione e l’amicizia, piuttosto che su ciò che divide”12. Si tratta, in vista di tale acquisizione, evidentemente, di avviare un cammino che potrà rivelarsi anche lungo, complesso e accidentato, Ratisbona docet13: è inutile farsi troppe illusioni (ma anche fasciarsi la testa prima di averci provato seriamente, beninteso!). Ecco dunque alcune indicazioni di metodo che favorirebbero questo incontro e lo renderebbero meno teso e drammatizzato. Prima di tutto, il dialogo interreligioso dovrà maturare nel quadro di un riconoscimento che chi dialoga non sono le religioni (entità astratte) bensì delle donne e degli uomini in carne ed ossa, con storie, vissuti, sofferenze, speranze, peculiari e irripetibili. Non appaia una considerazione banale, o scontata: quanti errori sono stati compiuti, e continuano a farsi, a causa di una lettura tutta ideologica e metafisica dell’altro14! Gli esempi si sprecherebbero. In primis, creare e favorire occasioni di incontro, dunque, in ambienti che favoriscano il contatto effettivo. Occorrerà poi una buona conoscenza reciproca degli interlocutori coinvolti: conoscenza intellettuale, dei testi e dei documenti ufficiali delle chiese e delle religioni (imparare le religioni), certo, ma anche umana, a partire da un atteggiamento sincero di ascolto delle narrazioni altrui (imparare dalle religioni). Lavorare assieme in qualche settore specifico, ad esempio, affrontando problemi di giustizia sociale o discriminazioni inaccettabili, potrebbe rendere più denso e convincente un rapporto interreligioso. Valorizzare esperienze e testimonianze vissute in un dialogo fecondo, quindi, soprattutto agli occhi dei più giovani – bisognosi di modelli e refrattari alle eccessive teorizzazioni – aiuterà senz’altro il percorso: con l’incontro diretto, quando sia possibile, la

11 R.PANIKKAR, Il dialogo intrareligioso, Cittadella, Assisi 1988. 12 F. SOTTOCORNOLA, “Alcune osservazioni sulla formazione al dialogo interreligioso”, in Concilium n.4 (2002), p.144. 13 Il riferimento, ovvio, è al discorso di papa Benedetto XVI a Ratisbona del 12/9/2006, che ha suscitato molte polemiche soprattutto in certo mondo islamico. 14 Potrà aiutarci a decostruire il mito pericoloso dell’identità unica, in questa direzione, la lettura del bel testo del premio Nobel per l’economia Amartya SEN, Identità e violenza, Laterza, Roma-Bari 2006.

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visita ai diversi luoghi delle comunità, o almeno il ricorso ai canali audiovisivi (Internet, ad esempio, è uno degli ambiti in cui la dimensione interreligiosa è maggiormente visibile). In caso di interlocutori già maturi, un momento rilevante di formazione alla pratica del dialogo può essere, quindi, l’esperienza o la preparazione ad una condivisione nella preghiera, cioè l’espressione esterna della propria fede personale alla presenza di altri provenienti da differenti contesti religiosi, o insieme ad essi. Un’ultima considerazione riguarda la necessità di investire maggiormente nella preparazione e formazione dei giovani (sacerdoti ma anche laici) che si accingano a svolgere un ruolo di guida e di stimolatori sul tema del dialogo nelle diverse comunità. La generazione che ha vissuto in pieno il Concilio sta infatti per concludere la sua vicenda terrena, e il rischio di non passare il testimone a quelle di oggi appare palpabile. Ecco allora l’importanza di ricentrare i curricula degli studi teologici facendo attenzione al dialogo interreligioso e alla conoscenza delle religioni altre, ma anche la pastorale delle parrocchie, i programmi dei movimenti, e così via. L’obiettivo è quello di uscire dal falso presupposto secondo cui il dialogo interreligioso sarebbe un’attività riservata agli specialisti, e assumere come caso serio l’invito dell’enciclica di Giovanni Paolo II Redemptoris Missio, per cui “tutti i fedeli e le comunità cristiane sono chiamati a praticare il dialogo interreligioso, anche se non nello stesso grado e forma” (n.57)15 (ma anche, beninteso, tutti gli uomini e le donne di buona volontà, di qualsiasi schieramento). Il che significa, da una parte, che la formazione all’accoglienza dialogica dovrà diventare azione normale della formazione cristiana in quanto tale; e dall’altra, che l’investimento nella preparazione di esperti nel ramo avrà bisogno di una specifica attenzione. Anche perché oggi non possiamo più negare che “senza dialogo, le religioni si aggrovigliano in se stesse oppure dormono agli ormeggi… o si aprono l’una all’altra, o degenerano”16. E che, come ama ripetere lo stesso Morin, “chi non si rigenera degenera”. Per chiudere… la città futura “Un giorno Yehuda Amichai, il grande poeta della città moderna di Gerusalemme, stava seduto con due panieri di frutta sui gradini accanto alla porta della Cittadella. A un certo punto sentì una guida turistica che diceva: ‘Lo vedete quell’uomo con i panieri? Proprio a destra della sua testa c’è un arco dell’e15 EV 12, EDB, Bologna 1992, 559. 16 R. PANIKKAR, L’incontro indispensabile: dialogo delle religioni, Jaca Book, Milano 2001, p.25.

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poca romana. Proprio a destra della sua testa’. Scrive Amichai: Io mi dissi: la redenzione verrà soltanto se la loro guida dice: ‘Vedete quell’arco dell’epoca romana? Non è importante; ma lì vicino, più in basso, a sinistra, sta seduto un uomo che ha comprato la frutta e la verdura per la sua famiglia’”17.

17 Cit. in A. ELON, Gerusalemme città di specchi, Rizzoli, Milano 1990, p.289.

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Il diritto dell’immigrazione e il diritto di asilo nell’ordinamento europeo e negli ordinamenti degli stati membri Claudia Pretto dottoranda in Istituzioni e Politiche Comparate, Università degli Studi di Bari, Aldo Moro, Facoltà di Giurisprudenza.

La condizione giuridica del non cittadino, del cittadino straniero, appartenente a paesi terzi, se si considera lo spazio corrispondente all’Unione europea, è disciplinata da un sistema di norme che costituiscono il diritto dell’immigrazione e il diritto di asilo1. Il diritto dell’immigrazione e il diritto di asilo sono diritti multilivello in quanto sono disciplinati da livelli diversi che comportano l’interazione ed il dialogo fra sistemi di norme di diversi livelli: internazionali, europeo e nazionale2. Il fenomeno migratorio è un fenomeno per sua stessa natura inarrestabile, in quanto l’uomo è in movimento fin dalla sua presenza sulla terra e si è sempre attivato per cercare condizioni di vita migliori spostandosi verso luoghi dove crede di poter trovare tali condizioni. Il fenomeno migratorio è come la pioggia, tanto è utile a fronte della decrescita della popolazione nello Spazio corrispondete all’Unione europea, noto come Spazio Schengen, tanto, se non ci si rap-

1

D’AURIA., Immigrazione (dir. amm.), in Dizionario di Diritto Pubblico, a cura di S. CASSESE, Giuffrè, Milano, 2006. Per quanto concerne il fenomeno migratorio globale si riportano i dati dell’organizzazione internazionale delle migrazioni OIM, che nell’ultimo rapporto del 2010 evidenzia come il fenomeno migratorio sia uno degli eventi ai quali gli stati sembrano non riuscire a fare fronte e sul quale invece essi si devono contare stante che la migrazione muove nel mondo circa 192 milioni di persone, per lo più dal sud al nord del mondo. L’OIM prende proprio lÈesempio dell’Italia sottolineando come in Italia la popolazione sia di circa 57.000 di abitanti e come l’immigrazione debba essere percepita anche come risorsa in quanto nel 2050 è previsto che la popolazione italiana scenda a 41.000 milioni di abitanti. Si rimanda a www.iom.it, rapporto del 2010, World Migration Report 2010 - The Future of Migration: Building Capacities for Change, data ultima visione dicembre 2010.

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A. D’ATENA – P. GROSSI, Tutela dei diritti fondamentali e costituzionalismo multilivello : tra Europa e Stati nazionali, Milano, 2004. Un sistema multilivello nasce dal combinato disposto non soltanto tra fonti che derivano da diversi livelli di governo, nazionale e sovranazionale, ma anche tra dal dialogo che scaturisce dalla giurisprudenza prodotta dalle diverse Corti, sul punto in particolare si rimanda a A. BARBERA , Le tre Corti e la tutela multilivello dei diritti, in P. BILANCIA, E. DE MARCO, La tutela multilivello dei diritti. Punti di crisi, problemi aperti, momenti di stabilizzazione, Milano, 2004, 89-98.

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porta ad esso con attenzione e con una capacità di visione nel lungo termine, può rischiare di condurre a condizioni insostenibili: sia per l’aspetto della tutela effettiva dei diritti umani, sia per la tutela della sovranità e dell’ordine pubblico degli Stati3. La condizione giuridica dello straniero in quanto essere umano titolare di dignità e delle libertà fondamentali si oppone all’esercizio della sovranità statale, in quanto lo straniero è il non cittadino, colui che, apparentemente, non appartiene alla popolazione che, con il territorio, lo Stato, attraverso le proprie istituzioni, è chiamato a proteggere. Lo Stato può limitare l’ingresso e il soggiorno dei cittadini stranieri per l’esercizio del proprio potere rispetto al controllo del territorio, alla tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico, tuttavia tale limitazione deve essere commisurata agli obblighi del rispetto dei diritti umani fondamentali, che discendono da disposizioni internazionali, europee e costituzionali4. Il non cittadino dunque può essere limitato nel pieno esercizio di alcuni diritti e nel riconoscimento di alcuni interessi per la prevalente tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza dello stato, ma non in tutti i diritti discrezionalmente. Infatti ogni limitazione deve essere proporzionata e ragionevole, poiché lo straniero, in quanto persona, gode del diritto di vedersi tutelato nell’insieme di quei diritti che attengono all’essere umano in quanto tale, i così detti diritti umani fondamentali5. La condizione giuridica dello straniero è disciplinata da norme che discendono dai diversi livelli, pertanto nell’attuazione di politiche migratorie a livello locale, nazionale ed europeo, il legislatore è chiamato al pieno rispetto delle disposizioni sovraordinate6. A seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbo3

S COLLINSON., Le migrazioni internazionali e l’Europa, un profilo comparato, il Mulino, 1993, Traduzione di Giuliana Cuberli. Edizione originale: COLLINSON S. Europe and International Migration, London, Pinter 1993, 1-50.

4

K. Wouters, European Migration Law, Intersentia, Leiden Institute of Immigration Law,2010, 35 – 47.

5

In particolare si rimanda a P. COLE, Philosophies of Exclusion, Liberal Political Theory and Immigration, University of Edinburg Press, 2000. G. WOUTER AND H JAAP. DE WILDE.. The Endurance of Sovereignty, in European Journal of International Relations 7 (3)2001: 283-313. A. ROSAS, State Sovereignty and Human Rights: Towards a Global Constitutional Project, Political Studies 43 (4), 1995, 61-78. Per quanto concerne invece la migrazione forzata ed economica si rimada in particolare a S. LINDA BOSNIAK, Part II Interpretino the Convention, Human Rights, State Sovereignty and the Protection of Undocumented Migrants Under the International Migrants Workers Convention, in International Migration Review Vol. 25 n 4, 1991, 740.

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Numerose sono le convenzioni e i trattati internazionali che trattano della tutela dei diritti fondamentali dello straniero, si ricordano in particolare la Convenzione di Ginevra sullo Status dei rifugiati, la Convenzione OIL, il Patto sui diritti civili e politici, il Patto sui diritti economici e sociali, la CEDAW. Riguardano la tutela dei diritti fondamentali e pertanto anche la tutela dei diritti dello straniero anche la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la Carta Interamericana.

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na, il 1 dicembre 2009, il diritto dell’immigrazione è prevalentemente comunitarizzato, nel senso che la materia oggi è caratterizzata da un crescente intervento delle norme europee rispetto alle norme dei singoli Stati membri. Ogni Stato membro nel legiferare in ambiti che riguardano la condizione giuridica dello straniero, deve necessariamente rispettare le norme europee, sia i Trattati dell’Unione europea che le altre norme: decisioni, direttive e regolamenti. Le politiche dell’Unione europea e quelle dei singoli Stati mettono in luce, sempre di più, a fronte della crescente crisi economica, la tensione fra tutela dei diritti umani, come sancito dall’articolo 6 del Trattato Unione europea, versione consolidata a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, e la tutela dell’ordine pubblico della sicurezza. Il legislatore italiano, in particolare, in concomitanza con i fatti dell’11 settembre 2001 e della crisi economica, ha avviato un inarrestabile processo di penalizzazione della condizione giuridica dello straniero che si esplica nella parabola del proibizionismo e nella penalizzazione, non tanto delle condotte quanto degli status, andando a enucleare, anche nell’ordinamento italiano: il diritto penale del nemico7. Aumenta pertanto la tensione fra tutela dei diritti umani del singolo e la tutela dell’ordine pubblico, questo ultimo si dilata e si estende a discapito della tutela dei diritti fondamentali del singolo essere umano, diritti che dovrebbero essere tutelati indipendentemente dallo status. Nell’ordinamento europeo e negli ordinamenti dei diversi Stati membri, a seconda dei motivi di ingresso e delle diverse condizioni di permanenza, i cittadini appartenenti a paesi terzi e i cittadini europei si vedono riconoscere diversi status dai quali discende una gradualità differenziata di accesso all’esercizio dei diritti: un accesso sulla base dello status. Tuttavia i diritti fondamentali non possono dipendere dallo status, ma devono essere riconosciuti alla persona in quanto tale. Un esempio in tal senso è dato dal caso dell’accesso alle cure urgenti, indifferibili e necessarie nell’ordinamento italiano, dove, anche in as-

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Le nuove normative adottate nell’ordinamento italiano concernenti la condizione giuridica dello straniero spostano nuovamente i diversi aspetti dell’ingresso e del soggiorno del cittadino straniero in Italia nell’area della così detta sicurezza pubblica, nell’alveo dell’ordine pubblico, tutto quanto concerne il cittadino straniero rientro in materia attinente all’ordine pubblica. Come osservano A. Ceretti e R. Cornelli in modo lucido la legislazione italiana in materia di sicurezza colpisce lo status dello “straniero” considerato quale male assoluto, un male da combattere in una guerra dove diritto penale ed amministrativo si confondono, e si confondono anche le competenze fra Stato en Enti locali con le drammatiche conseguenze di una assenza di sicurezza. A. CERETTI, R. CORNELLI, Quando la sicurezza cortocircuita la democrazia, in Il pacchetto sicurezza 2009, O. MAZZA, F. VIGANÒ, G. Giappichelli, Torino, 2009, 3-24. Ancora sul punto sullo stesso manuale L. Masera, “Terra brucia” attorno al clandestino: tra misure penali simboliche e negazione reale dei diritti, 28-82.

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senza di titolo di soggiorno, qualora la persona straniera sia priva di qualsiasi requisito per il soggiorno, ma verta in condizioni di salute grave, essa non può vedersi rifiutare le cure urgenti, essenziali ed indifferibili, come sancito, in particolare dall’articolo 32 della Costituzione italiana, articolo che riassume disposizioni internazionali diverse così come interpretato dalla Corte costituzionale italiana8. Nel tentativo di limitare l’ingresso e controllare il soggiorno degli stranieri, ad ogni costo, lo Stato può rischiare di scivolare nella violazione discriminatoria di alcuni diritti fondamentali, qualora la limitazione non sia proporzionale e ragionevole, come nel caso dell’imposizione del divieto di contrarre matrimonio fra il cittadino europeo e il cittadino straniero, perché questo ultimo è privo di titolo di soggiorno9. La comunitarizzazione del diritto dell’immigrazione e del diritto di asilo , a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, i programmi dell’Aja e il nuovo programma di Stoccolma hanno comportato la creazione di un sistema europeo di asilo e di immigrazione che dovrebbe ormai essere comune, nel senso che, ogni Stato membro, nell’attuare politiche e legislazioni in queste

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Il diritto a ricevere prestazioni sanitarie è un diritto fondamentale dell’individuo (art. 32 Cost.), esso può essere condizionato dai limiti oggettivi che il legislatore incontra in relazione alle risorse organizzative e finanziarie di cui dispone. La giurisprudenza della Corte costituzionale italiana individua il limite oltre il quale, nell’ambito della propria discrezionalità e delle risorse di cui dispone, il legislatore italiano non può porsi, rischiando altrimenti di violare la stessa Costituzione, tale limite è rappresentatati da: “il nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l’attuazione di quel diritto”, si rimanda sul punto a Corte Cost italiana sentenza n. 509 del 2000.

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La Corte europea dei diritti dell’Uomo, con la sentenza dd. 14 dicembre 2010 , Corte EDU, O. e altri c. Regno Unito, causa n. 34848/07, ha dichiarato che la normativa del Regno Unito in materia di capacità matrimoniale dei cittadini stranieri sottoposti alla normativa sull’immigrazione (cittadini non facenti parte di Paesi dell’Unione europea o dell’Area Economica Europea) viola l’art. 12 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo concernente rispettivamente la libertà matrimoniale e il principio di non discriminazione. Nel 2005 il Ministero dell’Interno del Regno Unito aveva infatti introdotto una limitazione della capacità matrimoniale dei cittadini stranieri, al fine di contrastare i matrimoni di cittadini stranieri irregolari strumentali all’acquisizione dei documenti . In base a tali disposizioni, il cittadino straniero per contrarre matrimonio nel Regno Unito doveva richiedere al Ministero dell’Interno un’apposita autorizzazione, versando una tassa pari a 295 sterline ed, in ogni caso, doveva aver fatto ingresso regolare nel Regno Unito e avere ottenuto un autorizzazione di soggiorno della durata di almeno sei mesi, nonché al momento della richiesta, tale autorizzazione di soggiorno non doveva venire in scadenza entro i tre mesi successivi. La Corte di Strasburgo, nel bocciare tale normativa britannica, ha affermato innanzitutto che il diritto fondamentale di ogni uomo e di ogni donna a sposarsi e fondare una famiglia, previsto dall’art. 12 della CEDU, può essere sottoposto da parte degli Stati a limitazioni e restrizioni che rispondano a finalità legittime, tra le quali quella della regolamentazione ordinata dei flussi migratori che implica anche il contrasto dei “matrimoni di comodo”, quelli cioè intesi ad aggirare le normative sull’ingresso ed il soggiorno degli stranieri. Tuttavia, tali limitazioni e restrizioni debbono rispondere a criteri di proporzionalità e non possono spingersi sino a svuotare l’essenza stessa del diritto a contrarre matrimonio. Di conseguenza, la finalità del contrasto all’immigrazione irregolare non può legittimare la privazione di una persona o di un’intera categoria di persone della piena capacità di contrarre matrimonio con un partner di sua scelta.

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materie dovrebbe attenersi alle disposizioni europee dettate in queste materie10. Tuttavia, poiché gli strumenti utilizzati, a livello europeo hanno lasciato un ampio margine di discrezionalità agli Stati membri, risulta pertanto ancora di difficile attuazione un sistema europeo comune; sia in materia di immigrazione che di asilo. Ogni Stato membro attua alcuni aspetti della normativa europea in modo diverso, a seconda del sistema giuridico e delle prassi, così da creare discrasie e asimmetrie nell’accesso alla tutela dei diritti umani dei cittadini stranieri. Si assiste inoltre, nel panorama europeo, attraverso accordi bilaterali tra Stati membri e paesi terzi, ai così detti processi di riammissione da Stato membro a Stato terzo, processi che si risolvono spesso in pratiche di respingimento, con la conseguente violazione da parte dello Stato membro dell’Unione europea del divieto di respingimento che discende dall’articolo 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 sullo Status di rifugiato11. Allo stesso modo, nel disciplinare lo status di cittadini di paesi terzi, gli Stati membri hanno escluso dalla tutela di alcuni diritti fondamentali i cittadini europei stessi, limitando, ad esempio, l’esercizio del diritto di asilo ai soli cittadini apolidi o di paesi terzi, e non riuscendo a disciplinare pienamente la tutela dei cittadini europei in status irregolarità, privi cioè dei requisiti per accedere al rilascio dell’attestato di cittadino comunitario residente in altro Stato membro12. L’esercizio dei diritti umani fondamentali, alla luce della consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, dovrebbe prescindere dallo status, si rende necessaria dunque, sia dal punto di vista giuridico che dal punto di vista politico, una attenta riflessione sulle attuali politiche migratorie e sulle norme individuate dai legislatori degli Stati membri e dal legislatore europeo:

10 C. FAVILLI, Il Trattato di Lisbona e la politica dell’Unione europea in materia di visti, asilo e immigrazione, in Diritto Immigrazione e Cittadinanza, 2/2010, Franco Angeli Editore, Milano, 24 11 I meccanismi di esternalizzazione che si basano sul rinvio verso il paese terzo di arrivo sulla base di accordi bilaterali comporta di fatto, per quanto concerne i richiedenti asilo, un possibile diniego di tutela in quanto i paesi terzi non sempre hanno ratificato la Convenzione di Ginevra e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Si deve osservare inoltre che le prassi e le procedure, nonché il grado di riconoscimento non è sempre lo stesso da Stato membro a Stato membro, si rimanda a A BALDACCINI , The external dimension of the EU’s Asylum and Immigration Policies: Old Concerns and New Approaches, E. Guild and H. Toner (eds), Whose Freedom, Security and Justice? EU Immigration and Asylum Law and Policy, Hart Publishing, 2007, 276-298. 12 In particolare i cittadini europei privi di titolo di soggiorno in altro Stato membro spesso si vedono privati dell’accesso alle cure urgenti, necessarie ed indifferibili per la mancata attuazione di un sistema di tutela di accesso alle cure mediche anche per loro, oltre che per i cittadini di paesi terzi in status irregolare. La stessa Corte costituzionale italiana con la sentenza n 299/2010 ha dichiarato la legittimità costituzionale della Legge della Regione Puglia n. 32/2009, che ha istituito un codice di accesso alle prestazioni sanitarie per i cittadini europei privi di titolo di soggiorno ribadendo il principio della universalità dell’accesso alle cure sanitarie e alla difesa della salute della persona, indipendentemente dallo status.

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una limitazione nell’accesso all’esercizio dei diritti umani fondamentali basata sullo status potrebbe rappresentare forse un possibile punto di non ritorno nella storia dell’Unione europea per quanto concerne la tutela dei diritti umani della persona nel caso in cui a dover chiedere protezione dovessero essere cittadini dell’Unione europea stessa13.

13 In dottrina recentemente ci si è infatti occupati di analizzare il rispetto del diritto di asilo da parte dell’ordinamento europeo considerando le possibili violazioni poste in essere dall’Unione europea rispetto agli articoli 3 della CEDU e 2 del protocollo 4 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo; degli articoli 31 e 33 della Convenzione di Ginevra. Si rimanda fra tutti da ultimo a V. MORENO LAX, Must EU Borders have Doors for Refugees? On the Compatibility of Schengen Visas and Carriers’ Sanctions with EU Member States’ Obligations to Provide International Protection to Refugees, in European Journal of Migration and Law, Vo. 10, Number 3, 2008 , pp. 315-364. Si rimanda sull’eslcusione dalla protezione internazionale dei cittadini comunitari al Protocollo n. 29 sull’asilo per i cittadini degli Stati membri dell’Unione europea del 1997, articolo unico: “Gli Stati membri dell’Unione europea, dato il livello di tutela dei diritti e delle libertà fondamentali da essi garantito, si considerano reciprocamente paesi d’origine sicuri a tutti i fini giuridici e pratici connessi a questioni inerenti l’asilo. Pertanto, la domanda d’asilo presentata da un cittadino di uno Stato membro può essere presa in esame o dichiarata ammissibile all’esame in un altro Stato membro unicamente nei seguenti casi: a) se lo Stato membro di cui il richiedente è cittadino procede, dopo l’entrata in vigore del trattato di Amsterdam, avvalendosi dell’articolo 15 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, all’adozione di misure che derogano, nel suo territorio, agli obblighi previsti da detta Convenzione; b) se è stata avviata la procedura di cui all’articolo 7, paragrafo 1, del trattato sull’Unione europea e finché il Consiglio non prende una decisione in merito; c) se il Consiglio, deliberando a norma dell’articolo 7, paragrafo 1, del trattato sull’Unione europea, ha constatato riguardo allo Stato membro di cui il richiedente è cittadino una violazione grave e persistente, ad opera di detto Stato, dei principi menzionati all’articolo 6, paragrafo 1; d) se uno Stato membro così decide unilateralmente per la domanda di un cittadino di un altro Stato membro; in tal caso il Consiglio ne è immediatamente informato; la domanda è esaminata partendo dal presupposto che sia manifestamente infondata senza che ciò pregiudichi, in alcun caso, il potere decisionale dello Stato membro.”. la limitazione dell’esercizio del diritto di asilo al cittadino europeo che si sposti per esercitarlo in latro stato membro, costituisce un campanello d’allarme rispetto alle possibili persecuzioni e alle possibili tragedie, soprattutto ambientali, che potrebbero riguardare anche i cittadini di un qualsiasi Stato membro, che non potrebbero trovare protezione piena, perché europei, in altro Stato membro alla luce del protocollo del 1997.

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Razzismo, nuove disuguaglianze, nuove solidarietà Fabio Perocco Ricercatore di sociologia generale presso il Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali dell'Università Ca' Foscari Venezia.

Dopo quelle di classe, di genere e di generazione, in Italia si è formata una disuguaglianza di nazionalità (che si intreccia alle prime tre). Essa è il risultato del sistema discriminatorio che investe strutturalmente tutti gli aspetti della vita sociale degli immigrati e del sistema dei rapporti sociali esistente tra società italiana e popolazioni immigrate. In particolare, questa nuova disuguaglianza è il risultato dell’azione combinata di almeno tre strutture di stratificazione sociale – l’ordinamento giuridico, il mercato del lavoro, i mass-media – che hanno seguito logiche sfociate nell’inferiorizzazione e nella segregazione. Essa interessa le popolazioni immigrate in modo diversificato e ha visto in funzione specifici meccanismi generativi come la selezione dei movimenti migratori, la precarizzazione totale dell’immigrato, lo sfruttamento differenziale del lavoro immigrato, la segmentazione razziale del mercato del lavoro, la creazione di un diritto speciale, la stigmatizzazione sistematica dell’immigrazione, il ritorno dell’assimilazionismo. La formazione di questa nuova disuguaglianza è stata agevolata, materialmente e ideologicamente, dal “razzismo ordinario” presente nella società italiana, ma in particolar modo dall’intensificazione del razzismo e dalla razzializzazione delle relazioni sociali avvenute negli ultimi anni. Il balzo di qualità e di quantità del razzismo avvenuto negli anni Duemila ha visto protagonista e ha avuto come forza propulsiva il razzismo istituzionale, che ha combinato politiche sicuritarie e politiche identitarie, e che ha sollecitato la mobilitazione popolare contro gli immigrati. L’ascesa del razzismo è avvenuta mediante l’attivazione di diversi elementi, tra cui il sistema dei mass-media, che ha sostenuto un modello di asservimento degli immigrati attraverso la costruzione di un sistema simbolico di stigmatizzazione e la creazione di una vera e propria industria mediatica del disprezzo. Sulla base dell’orientamento sempre più ostile manifestato dai mass-media, dagli anni novanta l’immagine pubblica degli immigrati è diventata sempre più 79


negativa e allo stesso tempo diversificata. Da una raffigurazione relativamente generica e indifferenziata, che identificava gli immigrati come poveri emarginati, i mass-media sono stati i protagonisti del processo di formazione di un insieme di categorie e sotto-categorie costantemente denigrate (“la seconda generazione”, “la donna musulmana”, “i minori soli”, “l’alunno straniero”, etc.) distinte a seconda delle nazionalità, della cultura di origine, del genere, della collocazione lavorativa, della condizione sociale e giuridica. Così, dalla categoria generica di “marocchino”, di “vu cumprà”, hanno diffuso e socializzato diversi stereotipi negativi (l’invasore, l’approfittatore, lo scansafatiche), ancorati a specifici elementi di pregiudizio, confluiti in figure e routine discorsive, all’interno di un processo di differenziazione delle rappresentazioni pubbliche organico allo sfruttamento differenziale della manodopera d’origine straniera. Hanno considerato e reso le popolazioni immigrate “oggetto” di categorizzazioni permanentemente rivisitate in base alle circostanze (internazionali, nazionali e locali) o all’organizzazione delle diverse nazionalità, e metodicamente disposte in una gerarchia di vicinanza/distanza sociale. Al fondo di questa gerarchia, costruita sulle retoriche dell’allarme sociale, e sulle coppie oppositive compatibilità/incompatibilità, affidabilità/inaffidabilità, sono stati collocati “i clandestini”, “i rom”, “ i musulmani”. Nel contribuire alla formazione di un regime di rappresentazione razzializzato delle popolazioni immigrate, funzionale ad un regime di inserimento subalterno, i mass-media hanno sostenuto e legittimato lo spostamento delle politiche e delle istituzioni verso una posizione di criminalizzazione e inferiorizzazione degli immigrati. Una miriade di campagne d’opinione, caratterizzate dalla denigrazione, hanno attribuito agli immigrati la responsabilità della questione sociale presente da anni in Italia, portando diverse componenti della società alla convinzione che il fenomeno migratorio debba essere affrontato come una cosa a sé, come fosse una realtà speciale, in una sorta di apartheid sociale e culturale, e che rispetto agli immigrati si debbano realizzare politiche speciali. Possibile risultato di questa impostazione è la creazione di una società divisa in gruppi, uno dei quali composto dagli immigrati – divisi eternamente in “etnie”, “comunità”, “culture” – destinatari essenzialmente di politiche di controllo e di sicurezza; un altrettanto possibile risultato è la formazione di due società separate, e la creazione di una casta di intoccabili all’interno della società italiana. I processi di precarizzazione e segregazione di cui sono stati destinatari gli immigrati non sono avvenuti tuttavia in modo lineare perché costoro, sostenuti da numerose associazioni laiche e cattoliche o da diverse parti della società civile, 80


hanno contestato questi orientamenti reclamando i propri diritti e ribadendo che non è loro intenzione essere i paria d’Italia. Non hanno costituito quindi un mero bersaglio di politiche discriminatorie e di discorsi xenofobi, e molti sono stati dei soggetti attivi che in un certo qual modo hanno cercato di influenzare il dipanarsi dei processi sociali. Da soli o insieme alle associazioni “italiane”, in forma organizzata o informale nella quotidianità, attraverso la creazione di nuove forme di solidarietà di carattere non tradizionale forgiate sui luoghi di lavoro, contribuendo alla creazione di nuove forme di legame sociale che hanno trasceso le provenienze e fatto stringere nuove relazioni sociali, intorno ai luoghi della socialità (chiese, gurudwara, sale di preghiera, associazioni) o alle reti familiari, hanno reagito all’idea di essere ridotti a manodopera servile da tenere in disparte. Lottando per il diritto al permesso di soggiorno, alla casa, all’unità familiare, alla libertà religiosa, hanno affermato che non sono venuti in Italia per farsi trattare da schiavi, ma a starci con la schiena dritta. Orgogliosi del colore della propria pelle, delle proprie origini, hanno avversato gli stereotipi inferiorizzanti loro affibbiati, intraprendendo una battaglia per le immagini pubbliche e le rappresentazioni, per il riconoscimento della propria dignità di lavoratori, di cittadini, di uomini. Ma l’ascesa del razzismo anti-immigrati interroga anche gli autoctoni (resi insicuri dal taglio alle sicurezze sociali avvenuto dall’alto) e lancia loro una sfida, rispetto alla quale non ci sono molte scelte. Gli autoctoni si trovano di fronte a due sole possibilità, non ce n’è una terza. O si incamminano sulla strada dell’odio e della concorrenza tra popoli, pensando di farla franca e di guadagnarci qualcosa, ma saranno dolori anche per loro poiché prima o poi si imbatteranno nelle stesse misure indirizzate contro gli immigrati. O intraprendono una strada caratterizzata da uno scambio reciproco, pienamente paritario, che può portare ad una società diversa, in cui non cresce la pianta velenosa del razzismo. Percorrere questa seconda strada non è facile, anzi. È un percorso difficile, complicato. Ma non impossibile, per la semplice ragione che il razzismo non è un fenomeno naturale che fa parte della natura umana, ma è un elemento socialmente appreso. È la strada più difficile, ma anche quella più sana poiché per gli autoctoni essere contro gli immigrati significa, in fondo, essere contro se stessi.

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Dall’interculturalità al dialogo interreligioso: il principio ospitalità Marco Dal Corso Insegnante di religione Liceo Fracastoro di Verona, docente Istituto di Studi Ecumenici S. Bernardino di Venezia, giornalista pubblicista

A partire dalla “paura globale” Ci avvertono gli analisti sociali che due sembrano essere le patologie della modernità: da un parte l’ossessione dell’Io che porta ad un individualismo illimitato, dall’altra l’ossessione del Noi che, invece, porta ad un comunitarismo chiuso a chi non fa parte di quel “noi”1. La traduzione storica di tali patologie, allora, sembra darsi sotto la veste di fondamentalismi nuovi ed antichi insieme: accanto a quello tribale ed etnico, quando non religioso, anche quello omologante e consumistico del “villaggio globale”. Con un’efficace e felice formula: Mc World contro Jihad. Ad un io “atomizzato” spesso indifferente e solipstico corrisponde una comunità che mentre assolutizza le differenze, chiede l’obbligo di appartenenza: o con noi o contro di noi. Il risultato è, per dirla con i filosofi, la “perdita del mondo”: insieme alla crisi ecologica, anche quella sociale. Stiamo perdendo, questa la denuncia, il mondo come spazio di bene comune. La traduzione per la vita emotiva è, allora, il generalizzato sentimento di paura che gli analisti definiscono “paura globale”. Essa porta a delle risposte irrazionali che possono essere implosive, come è l’assenza di paura dello spettatore individuale per cui la realtà è un film che scorre, oppure esplosive come l’eccesso di paura di tante comunità impaurite dalla presenza dell’altro, del diverso. Le patologie ereditate dalla modernità e sempre più davanti a noi in quest’epoca globale sono risposte “sbagliate” a problemi veri. Se l’individualismo postmoderno è una reazione alla erosione del legame sociale e alla perdita di sovranità, il comunitarismo “tribale” sembra rispondere, invece, all’erosione

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Queste e le considerazioni che seguono circa l’interpretazione della realtà attuale sono ricavate dalla lettura dell’approfondito saggio filosofico proposta da Pulcini, Elena. La cura del mondo, Bollati-Boringhieri, Torino, 2009.

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identitaria e alle dinamiche di esclusione sociale. Resta che le risposte a queste legittime domande portano più problemi di quelli che vogliono risolvere e che, ad esempio, le “politiche dell’identità”, come vengono definite, moltiplicano ancora di più le differenze. Mentre l’individuo del villaggio globale sperimenta la perdita dei confini insieme con la perdita del limite, per cui tanta illimitatezza porta alla persona insicura, impaurita e allo stesso tempo narcisista, cifre entrambe per interpretare l’epoca che stiamo vivendo, la comunità di questo stesso villaggio è tentata dal “mito della comunità” dove la tribalizzazione e l’assolutizzazione delle differenze finisce con la sconfessione dell’altro. Insomma, sia che si tratti di individualismo che di comunitarismo, quello che si perde, come detto, è il “mondo”. Per ritornare ad una metafora spesso usata, il “villaggio globale” sembra essere “privo di mondo”. Incapace, cioè, come dimostrano le patologie descritte, di vivere il bene comune che è il mondo o anche solo di condividere un senso comune dentro questo mondo. Quello che è nuovo, insomma, non è la presenza dell’altro, del diverso, dello straniero da noi. Questo, infatti, “da che mondo è mondo” esiste. La novità, piuttosto, è che si sono esauriti i meccanismi tradizionali di risposta dei problemi posti dalla presenza dell’altro. L’espulsione “coloniale” oppure l’omologazione “moderna” non funzionano più: oggi l’altro non si può espellere all’esterno perché è in mezzo a noi e non si può neppure assimilare totalmente a noi dal momento che la sua alterità rimane irriducibile. Come allora costruire una comunità che abbia il senso del bene comune senza cadere nella risposta individualistica che al posto del “noi” mette l’io, ma neppure in quella comunitaristica che pensa il noi in contrapposizione a “loro”? La stessa realtà, se indagata in profondità, offre delle “piste” per uscire dalla crisi e dalla “perdita di mondo”. Davanti, infatti, all’assenza di paura dell’individuo senza limiti postmoderno, la vita ricorda, prima o dopo, che la sua illimitatezza, invece, è vulnerabile. La sua e quella dell’altro da sé. Ma anche davanti all’eccesso di paura sperimentato dalla comunità “tribale”, chiusa su se stessa, la vita insegna che l’altro è già entrato, ha già da tempo e spesso in modo virtuoso, quando non solidale, “contaminato” la vita associativa. Vulnerabilità e contaminazione, insomma, sono le “scoperte” che dobbiamo fare. Che la stessa realtà ci pone davanti. Esse, se tradotte in responsabilità e solidarietà, possono essere le strategie per riguadagnare il mondo. Per declinare, senza fughe retoriche e senza rischi ereticali, il bene comune nei tempi attuali. Ma qui, appunto, occorre l’etica. Occorre ripensare l’umanità, rifondare l’idea di umanità.

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Per un’etica oltre la paura e il rifiuto Solo riconoscendo la paura che accompagna la vulnerabilità della persona e la contaminazione della comunità possiamo tornare a pensare e a praticare un politica diversa da quella del rifiuto. Possiamo tornare a prenderci cura del mondo. Esso, infatti, prima che un “globo” come mercato in cui le persone si danno al commercio è uno spazio di senso per le persone che lo abitano. È questo mondo, dice l’etica della cura, che dobbiamo conservare. Il mondo come “spazio del con”, dove appare evidente che il senso dell’esistenza è sempre nella co-esistenza (le religioni, vedremo, direbbero nella pro-esistenza). Oltre a ripensare l’identità a partire dalla convivenza con l’altro, l’etica del futuro è quella che ripensa la comunità senza sacrificare la molteplicità e le differenze. Davanti all’assolutizzazione delle differenze prodotta dall’ossessione identitaria, ma anche superando l’indifferenza omologante del mercato-globo, la comunità del futuro sarà quella che valorizza le differenze non confondendole con disuguaglianze e tiene la molteplicità delle presenze senza volerle fare tutte uguali. Ma un’etica oltre la paura e il rifiuto è anche quella che ripensa la sfera pubblica come spazio dove agire insieme e non solo per necessità o per utilità come le antropologie tradizionali hanno proposto. La nuova umanità è quella dove l’agire comune è per la cura del mondo e per la convivenza con gli altri. Infine, l’etica di cui abbiamo bisogno è quella disponibile a ripensare il tema dell’altro e delle differenza anche a partire dal pathos del contatto e non solo dal pensiero dell’incontro e del dialogo. Molto futuro davanti. A cui possono, se vogliono, contribuire anche le religioni. L’emergenza diventa un’opportunità, il kronos diventa kairòs. Il contributo delle religioni: il principio ospitalità Di fronte alle paure e soprattutto alle pratiche di rifiuto del diverso, dell’altro le chiese e le religioni in generale fanno ancora fatica a prendere la parola. Per motivi diversi, con visibilità diversa, esse si mostrano silenti, afone. Eppure avrebbero molto da dire e da dare. Nel ripensare il futuro oltre le paure, le visioni religiose di umanità avrebbero molto di che contribuire. Se non altro perché l’identità vulnerabile da cui nascono le paure, strumentalizzate dalla politica, così come la comunità contaminata quale spazio da purificare secondo la vulgata mediatica sono entrambe conosciute dalle religioni e dalla storia ecclesiale delle comunità. Esse, infatti, quando interpretano l’essere uma84


no come “essere di bisogno” gli riconoscono la vulnerabilità fondante, mentre quando ripensano alla storia della formazione della propria comunità religiosa non possono non riconoscere il sincretismo e la contaminazione derivante dall’incontro con l’altro, gli altri. Insomma, circa l’identità e la visione di comunità le religioni, in particolare la religione cristiana, ma non solo, sono chiamate a dire la loro nella costruzione di un nuovo paradigma di umanità. Circa l’identità, ad esempio, esse suggeriscono un primo passaggio: quello che dal paradigma identitario offerto dal famoso “cogito ergo sum” matura nel paradigma dell’ospitalità riassunto nella frase “sono accolto, dunque sono”. Prima di pensare, l’essere umano è stato pensato, accolto. Questo il fondamento dell’essere. Che non esime le persone dalle loro responsabilità: esse possono non accogliere, ma la vocazione umana principale è, invece, proprio quella dell’accoglienza. Questo le religioni lo sanno. Come sanno, di conseguenza, che la condizione umana fondamentale, quella dell’affidamento, si espone alla vulnerabilità. Niente di più vulnerabile che essere affidati e fidarsi. Eppure questo dice la verità dell’io e aiuta a descrive la narrazione sull’identità: essa non sta nell’autonomia, ma nell’eteronomia. Occorre maturare la rivendicazione dell’autonomia del soggetto che ha attraversato tutta la storia occidentale moderna nel riconoscimento della fondazione eteronoma dell’essere umano come le sensibilità orientali dicono da tempo. Per questo le religioni, come e soprattutto quello ebraico-cristiana, possono pensare all’amore per i nemici senza che questo suoni come un pensiero disumano. Esse indicano non l’amore di identità, ma quello di alterità, non la reciprocità, ma l’ospitalità, non la simmetria, ma l’asimmetria. C’è quindi, dentro la costruzione di una nuova narrativa sull’identità un superamento della legge dell’essere che risponde solo e principalmente all’io, nella legge del disinteresse che invece risponde a partire dall’altro e dal suo bisogno. E, come ci dice la sensibilità islamica, la vocazione “religiosa” dell’io non è quella di essere un soggetto sovrano, quanto un soggetto “sottoposto all’altro”. Ne deriva, infine, che il rapporto con il mondo chiede un superamento logico quanto non ontologico rispetto al canone identitario moderno: oltre il principio dell’autoaffermazione e del possesso a quello della recettività e dell’accoglienza. Anche circa l’idea di comunità le religioni chiedono un cambio di paradigma. Da quello “comunitario escludente” , quando non tribale, che abbiamo descritto, a quello della co-ospitalità che dice: accolgo perché sono stato accolto. Di questo le comunità religiose sono capaci, nonostante la fatica delle pratiche, perché, come insegna mirabilmente la parabola del buon samaritano, l’altro non si sceglie, l’altro ci accade. Ne sono capaci anche perché sanno che se tut85


to è dono e se il bene, quindi, non può essere che comune l’etica ha sempre il primato sulla religione, la giustizia sulla liturgia; sanno che se tutto è dono, anche il mondo che abitiamo, giustizia non può essere che rinunciare al possesso delle cose, liberarle dalla ipoteca individuale. Esse sono date per darle. Se, ancora, credere è diverso da appartenere, le religioni affermano che la comunità è dei credenti e non degli appartenenti, nonostante l’attuale appello al “serrate le file” proclamato da molti megafoni. Infine, le comunità religiose sanno, perché ne hanno fatto diretta esperienza, che la fede è sincretica, patrimonio di molte storie ed incontri personali e comunitari. A loro la contaminazione non fa paura. Anzi, la comunità diventa ricca se si apre e non rifiuta l’altro, gli altri.

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Siria 4-13 novembre 2010

Impaginazione grafica: Tecnolito grafica - Trento Finito di stampare nel mese di aprile 2011



Dialoghi in cammino

PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO


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