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Celebrates

15& ANNI di MODA 1997-2012

interviste

i designer, i personaggi e i manager che hanno scritto la storia del fashion system internazionale



15& ANNI di MODA 1997-2012

interviste

i designer, i personaggi e i manager che hanno scritto la storia del fashion system internazionale


4 I quindici anni di moda & interviste


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Nella foto, abiti Gucci

Openview

15 anni di Moda & Interviste Quindici anni epocali, che hanno cambiato radicalmente il fashion system mondiale. A testimoniarlo sono i numeri del mercato del lusso (il fatturato è più che raddoppiato, ndr) ma anche l’ossatura stessa di un sistema che si è trasformato in fenomeno globale, partendo da un manipolo di sfilate concentrate in quattro capitali worldwide, New York, Londra, Milano e Parigi, che oggi faticano a difendere il loro primato sotto i colpi delle passerelle che stanno fiorendo nei mercati emergenti. Ma non solo, perché quello che si presenta sotto gli occhi di tutti è uno scenario nuovo. Fatto di grandi gruppi diventati colossi. Fatto di sofisticate maison planetarie o di piccole e speciali griffe di nicchia. Uno scenario dove sono scomparse le mezze misure, ma dove a trionfare è solo ed esclusivamente un lusso cementato da alcuni concetti chiave: artigianalità, tradizione, esclusività. A raccontare questo percorso è MF Fashion, l’unico quotidiano europeo dedicato alla moda e al lusso edito da Class Editori. Che ha scelto di festeggiare i suoi primi 15 anni spiegando come è cambiato questo universo attraverso un’iniziativa speciale: un libro con le 300 copertine cult (acquistabile in edicola) e un progetto multimediale che continua con questo nuovo volume: la creazione di un’enciclopedia digitale dedicata al settore attraverso differenti album dedicati a temi specifici, dagli shooting alla cronologia degli eventi, dalla moda delle sfilate ai protagonisti passando per gli scenari futuri. Tutti consultabili sul nuovo sito www.mffashion.com e pubblicati a scadenze precise. Il tutto perché MF Fashion ha scelto di celebrare questo anniversario ricordando il passato ma con un occhio speciale rivolto al domani worldwide dei luxury goods. GIAMPIETRO BAUDO - direttore MF Fashion


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sommario

15 anni di moda & interviste 5 Openview

La voce dei protagonisti

2003

64 Alessandro Dell'Acqua

2008

22 Gianni Guaglianone

66 Lazaro Hernandez e Jack

102 Alessandra Facchinetti @ Valentino

24 Renzo Rosso @ Diesel/Otb

McCollough @ Proenza Schouler

104 Riccardo Tisci @ Givenchy

26 Carlo Rivetti @ C.P. Company

68 Christopher Bailey @ Burberry

28 Karl Lagerfeld @ Chanel 30 Azzedine AlaÏa 32 Vivienne Westwood 2004 34 Bernard Arnault @ Lvmh 36 Hedi Slimane @ Dior 40 Roberto Menichetti 41 Jil Sander 42 Frida Giannini @ Gucci 44 Stefano Pilati @ Yves Saint Laurent 46 Zac Posen 48 Miuccia Prada @ Prada 2005 52 Domenico De Sole @ Tom Ford 2006 54 Rick Owens

70 Martin Margiela 72 Alexander McQueen 74 Roberto Cavalli 76 Dean e Dan Caten @ Dsquared2

106 Pietro Beccari @ Louis Vuitton 108 Valentino Garavani 110 Alber Elbaz @ Lanvin 112 Gareth Pugh 114 Laura e Kate Mulleavy @ Rodarte 116 Gabriele Colangelo

78 Italo Zucchelli @ Calvin Klein

2009

80 Tommaso Aquilano

118 Adrian Joffe @ Comme des garçons

e Roberto Rimondi @ 6267

120 Christopher Kane @ Versus

82 Angela Missoni @ Missoni

122 Dries Van Noten

2007

124 Patrizio Di Marco @ Gucci

84 Sophia Kokosalaki 86 Tom Ford 88 Delfina Delletrez 90 John Richmond 92 Viktor Horsting e Rolf Snoeren @ Viktor & Rolf

126 Christophe Decarnin @ Balmain 128 Matthew Williamson 130 Angelos Frentzos 132 Matteo Marzotto e Gianni Castiglioni @ Vionnet 134 Franco Pené @ Gibò 136 Fabrizio Malverdi @ Givenchy

56 Tomas Maier @ Bottega Veneta

94 Giambattista Valli

138 Stefano Sassi @ Valentino

58 Raf Simons @ Jil Sander

96 Diane von Furstenberg

2010

60 Donatella Versace @ Versace

98 Mark Lee @ Gucci

140 Gildo Zegna @ Ermenegildo Zegna

62 Giles Deacon

100 Francesco Scognamiglio

142 Remo Ruffini @ Moncler


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22 I quindici anni di moda & interviste

sommario

15 anni di moda & interviste 144 John Galliano

192 Andrea Incontri

236 Bruno Pavlovsky @ Chanel

146 Paul Smith

194 Andrea Pompilio

238 Carlo Rivetti @ C.P. Company/

147 Miuccia Prada @ Prada

196 Haider Ackermann

152 Rossella Jardini @ Moschino

198 Laura Lusuardi @ Max Mara

156 Thom Browne

200 Mary Katrantzou

158 Ennio Capasa @ Costume National

202 Francisco Costa @ Clavin Klein

160 Domenico Dolce e Stefano

204 Alberta Ferretti

Gabbana @ Dolce & Gabbana 164 Antonio Marras @ Kenzo 166 Massimiliano Giornetti @ Salvatore Ferragamo 168 Peter Dundas @ Emilio Pucci 2011 170 Alessandro Cremonesi @ Jil Sander 174 Ottavio Missoni @ Missoni 176 Chris Van Assche @ Dior Homme 178 Alessandro Sartori @ Z Zegna 180 John Varvatos 182 Kean Etro @ Etro

206 Tory Burch 208 Frida Giannini @ Gucci

Stone Island 240 Grazia Chiuri e Pierpaolo Piccioli @ Valentino 242 Renzo Rosso @ Diesel/Otb - Only the brave 244 Umit Benan @ Trussardi

212 Alessandro Sartori @ Berluti

246 Italo Zucchelli @ Calvin Klein

214 Michele Norsa

248 Patrick Thomas @ Hermès

@ Salvatore Ferragamo

250 Michael Burke @ Bulgari

2012

252 Patrizio Bertelli @ Prada

216 Tommy Hilfiger

256 Stefano Sassi @ Valentino

218 Silvia Fendi @ Fendi

258 Giancarlo Giammetti

220 Stefano Pilati @ Yves Saint Laurent 222 Giorgio Armani 224 Dries Van Noten 226 Peter Pilotto e Christopher De Vos @ Peter Pilotto

260 Alexander Wang 262 Tomas Maier @ Bottega Veneta 264 Erdem Moralioglu @ Erdem 266 Anna Molinari @ Blumarine 268 Isabel Marant

184 Michael Kors

228 Stella McCartney

186 Ermanno Scervino

230 Christophe Lemaire @ Hermès

270 Jonny Johansson @ Acne

188 Tommaso Aquilano e Roberto

232 Fausto Puglisi

272 Diego Della Valle @ Tod's

234 Federico Piaggi e Stefano Citron @

274 Yves Carcelle @ Louis Vuitton

Rimondi @ Aquilano.Rimondi 190 Roland Mouret

Gianfranco Ferré

278 Brunello Cucinelli


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Gianni Guaglianone @ G. Guaglianone italiano ma londinese d'adozione. dopo aver fatto i soliti lavori che fanno gli italiani all'estero arriva il salto nella moda. e dopo un inizio lento a causa dei tempi di consegna il patto con bvm lo ha spinto nell'industria del made in italy. Nicoletta Ferrari

G

ianni Guaglianone. Classe 1960. Italiano a Londra da più di 25 anni. Sono arrivato a Londra a 16 anni, per una vacanza estiva. Ho fatto i lavori soliti che fanno gli italiani all’estero poi, per quasi dieci anni, sono stato il commesso di un negozio d’abbigliamento, dove vendevo capi italiani. Volevo lasciare quell’impiego ma, d’accordo con il proprietario, ho iniziato a lavorare part-time e ho cominciato a produrre capi di abbigliamento in Inghilterra. Non riuscivamo a sfondare perché avevamo vari problemi di consegne. Il problema della consegna è la nota dolente di molti marchi. Come lo avete risolto? Avete trovato una mediazione? Siamo cresciuti lentamente come marchio proprio per questo motivo. Non siamo mai riusciti a consegnare i nostri prodotti come pacchetto complessivo. Ti sei legato a BVM di Bologna per questo? Per un fatto organizzativo e per consolidare la qualità alta che ha sempre distinto il nostro prodotti. Prima non volevo costrizioni industriali perché limitavano la mia libertà. Ma ora è un’esigenza non più rimandabile. Ci sono cambiamenti che senti rispetto al tuo passato o credi che ci sia continuità? Ho sempre creduto nella continuità. Forse ho preso l’abitudine inglese di continuare a fare cose simili che si evolvono piano, piano, col tempo. Ci sono scelte però che si impongono nella crescita, pur mantenendo il proprio ambito personale. È una questione di organizzazione. Devi arrivare a una concretezza per misurarti e vale per tutti i giovani stilisti. L’industria italiana ha dato, e continua a dare, dei segnali interessanti anche contro la massificazione del prodotto. È il momento storico giusto per cominciare ad affermare un’evoluzione. Sono passaggi essenziali. Hai ambizione di ingrandire il tuo marchio mantenendo questo ruolo di nicchia? Non sono sicuro che si possa parlare di nicchia nel nostro caso, anche perché c’è stata un’evoluzione. Possiamo comunque aprire il nostro mercato. Adesso facciamo puramente un prodotto per l’uomo giusto. Non è più un prodotto di nicchia. I clienti comprano gli stessi prodotti dell’anno precedente, li ripropongo, vuol dire che ne hanno bisogno. Com’è composta la collezione? Quest’anno ci sono 140 pezzi. L’uomo è rigoroso. Sono contrario a far sfilare pezzi improponibili al mercato. Non ha senso disegnare collezioni per la sfilata e avere in show room una discrepanza. Tutta la situazione della sfilata era molto piacevole ma formale. Il tuo cuore più sportivo è venuto a mancare? Assolutamente no. Semplicemente non volevo mischiare classico e sportswear. Mettere anche solo due giacconi avrebbe rovinato l’armonia. Ho lavorato su una

silhouette molto asciutta. Sono tornato indietro agli anni 40 per vedere come erano vestiti gli uomini. La spalla non era larga e assomigliava molto alla nostra, forse era più accentuato il punto vita, che abbiamo curvato per ottenere un certo effetto anche sui fianchi. È affascinante questa forma, ha una sua sensualità, l’ho ripresa anche nel cappotto. Ritornando allo sportswear: quali sono i tuoi canoni? Il giubbotto in pelle è essenziale, come poteva esserlo il piumino, che era comodo ma non attribuiva una bella silhouette alla figura. Lo sportswear è il giubbotto di pelle portato con il pantalone classico, con una maglietta, un cardigan, la cravatta. Come negli anni 40 e 50. La pelle richiama la lavorazione a mano e i miei clienti apprezzano moltissimo le cuciture a mano, invecchiano bene. Quanto invecchiano bene i tuoi capi? La giacca, invecchiando, diventa più bella. Faccio tutto su una base classica. Non faccio cose nuove ogni volta. Parto come se tutto fosse un jeans. Vedo la giacca classica che evolve come un jeans e che posso guardare in un modo di volta in volta diverso. L’uomo di oggi ha bisogno di quattro pezzi essenziali nel guardaroba: la giacca classica, il jeans, il pantalone classico, il giubbotto di pelle. Non deve per forza andare a comprare la moda. Sarai sempre italiano a Londra? È ormai la mia città. A Spezzano, vicino a Sibari, in Calabria, abbiamo un’azienda, in società con mio fratello, che si chiama Guaglianone Inc. che produce solo per me. La manifattura italiana nell’abbigliamento è di grande pregio. E vista da Londra è ancora più interessante.

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Renzo Rosso @ Diesel/Otb - Only the Brave HA INIZIATO A FARE JEANS PERCHÈ ERA UN FIGLIO DEI FIORI. POI LI HA VENDUTI ANCHE AGLI AMERICANI. MA RENZO ROSSO NON SI È FERMATO QUI. HA CONQUISTATO STAFF INTERNATIONAL, ARRUOLATO I DSQUARED2 E SI È COMPRATO ANCHE MARTIN MARGIELA. Stefano Roncato

D

i Renzo Rosso si sa già molto. A partire dal fatto che alla guida del gruppo Diesel è riuscito a vendere il ghiaccio agli eschimesi, ovvero il jeans agli americani. E non solo. Ha fatto della sua impresa un successo internazionale senza usare come ariete l'etichetta made in Italy. Era premiato dal mercato quando il denim non era ancora entrato nei trend del fashion system. E quando questo è avvenuto, ha di nuovo cambiato rotta, iniziando a dare maggiore enfasi alle nicchie: negozi personalizzati, marchi emergenti e produzioni a tiratura limitata. Si aggiudica la Staff international, arruola i Dsquared, entra a livello personale nella maison Martin Margiela. Aprendo le porte a una nuova puntata della sua case history. Il motto di oggi? Piccolo è cool. Jeans made in Molvena: dal Nord Italia avete trasformato il denim, un prodotto conosciuto per essere casual, in un cavallo di battaglia della ricerca. Da dove parte l'idea di Diesel? In realtà ho fatto il jeans perché sono un figlio dei fiori. Vengo dal ’68 e per me è sinonimo di comfort, di spazi aperti, di venerdì. Il jeans rappresenta la libertà. Come siete diventati un fenomeno fashion? Era un piano studiato a tavolino? Siete voi che avete scoperto la moda o la moda ha scoperto voi? Nell’arco dei primi dieci anni abbiamo lavorato solo sul prodotto, per costruire il nostro know how. Solo in seguito è arrivato l'advertising (le prime campagne pubblicitarie sono datate ’91, ndr). Il mondo ci ha scoperto con il jeans, la reputazione del marchio è arrivata in questo modo e la pubblicità ha fatto da cassa di risonanza. Quest’anno Diesel compie 25 anni e l’attaccamento più grande è sempre per il prodotto, come dimostrano le quote più fedeli. Il segreto del successo? È una miscela che io chiamo CPOM: concept, product, organization e marketing. Una volta potevi essere forte su una sola di queste leve. Adesso devi controllarle tutte, portarle a un buon livello, perché è più difficile dire al cliente cosa comprare. Oggi devi vendere emozioni. E solo un’organizzazione perfetta ti permette di cogliere l’attimo fuggente.

Questa formula in quattro punti da dove esce? Se ho studiato sui libri di qualche master della Bocconi? Io una laurea honoris causa ce l’avrei, all’Mba al Cuoa, di Alta Villa Vicentina nel 2000. In realtà questo concetto mi è venuto in mente stamattina. Ma forse l’avevo detto dieci anni fa. Ma voi siete antimoda? Pensiamo di essere un brand di moda. Ma nel jeans siamo molto specializzati, siamo jeans oriented. Abbiamo sempre investito nell’area denim. E se oggi arriva la crisi ben venga: toglierà dal mercato gli improvvisati. Siamo affidabili come un’ Audi o una Mercedes. (E lui in effetti guida una Mercedes, oltre a una Porsche d’epoca e a una Dodge americana). Ultimamente non siete molto propensi a parlare della vostra crescita, delle dimensioni importanti che sta raggiungendo il gruppo. Un po’ come dire small-is-more. Diesel è diventato vittima di Diesel? Sono contro questa modalità di aziende arroganti di parlare di numeri e di continuo aumento dei volumi. A un ragazzo può dar fastidio. Deve pensare di essere quasi il solo che compra. Il mondo del lusso impone grandi dimensioni, diversamente da quello dei giovani. Ecco perché stiamo iniziando a realizzare dei negozi diversi, con prodotti diversi. Come i jeans di Lagerfeld, Martin Margiela, Dsquared. Sono nicchie per interpretare la propria realtà in modo personale. Come va il gruppo? Fin troppo bene, sono quasi preoccupato. I brand stanno tutti esplodendo e per il 2002 l’incremento è a due cifre. Ma non vogliamo scendere troppo nei numeri, non vogliamo entrare in un vortice di crescita. Nuovi progetti? Veramente non ho neanche il tempo di vedere i miei sei figli. Si parla da tante parti del quarto sesso. Quanta energia traete dalla strada, dagli adolescenti e quanto date loro, quanto li influenzate? La strada è fondamentale, siamo in giro tutto il giorno, ci viviamo, la respiriamo. Siamo sempre stati abituati a creare per noi stessi prima che per il mercato. E alla Diesel ci sono 100 ragazzi che provengono da tante realtà diverse, che hanno caratteristiche, esigenze, attitudini diverse. Si può dire che la strada l’abbiamo dentro, che lavora da noi.

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Carlo Rivetti @ C.P. Company/Stone Island PER IL NUMERO UNO Della sportswear company IL SEGRETO STA NELL'ESSERE LIBERI DI CREARE E FARE RICERCA. PERCHÈ ESSERE UNA GRANDE AZIENDA TI CONDANNA A CORRERE INVECE CHE DEDICARTI AL CONCEPT STANDO, LONTANO DAGLI ARCHIVI. Nicoletta Ferrari

C

redo che uno non faccia apposta a essere contro corrente. Prendi le decisioni con la testa del buon padre di famiglia senza regole sofisticatissime e a un certo punto ti ritrovoi fuori dal coro. Carlo Rivetti, presidente di Sportswear Company, spiega così il suo essere antimoda. Vedo meccanismi molto vecchi, molto conosciuti, ripetitivi, praticati. Per scappare dalle regole del gioco devi conoscere le regole. Negli ultimi otto anni sembrava che le dimensioni fossero tutto, che forzatamente bisognasse crescere, spesso dimenticandosi che le crescite sane sono quelle per vie interne, cioè le crescite naturali dell'azienda. La crescita per acquisizione non è una crescita vera perché poi, per tanti motivi, si ingolfano i sistemi. Quindi bisogna essere all'interno del sistema per conoscerlo e per poi riuscire a starne fuori? Fondamentale è anche il contrario di quello che ho detto: negli ultimi otto anni se non eri grande non eri nessuno. Il problema è che essere grandi vuol anche dire innescare un meccanismo autoperpetuante di fame aziendale. Se invece tu incominci a definire delle dimensioni stabili puoi permetterti di fare delle scelte. Se invece sei chiuso, forzato dai meccanismi della crescita, non puoi scegliere e sei condannato a correre. Noi investiamo sul prodotto ed è chiaro che siamo molto meno aggressivi per quanto concerne il marketing. Vengo dalla scuola di un vecchio signore ebreo-veneziano che si chiamava Sergio Levi, braccio destro di Armando Testa per tanti anni, che diceva sempre che la pubblicità quando non è inutile è dannosa. Anche a me la pubblicità non piace. I capi vanno toccati, indossati. Preferisco essere presente nella sala di un museo d’arte contemporanea che mettere un vestito a un testimonial. La nicchia è l'unico luogo deputato a quelli che fanno ricerca? Gli intenditori non accettano più il prodotto moda anche se d’alto livello. Credo che ci sia un cambiamento in corso. Cambiano le occasioni d'uso. Ci sono nicchie in tutto il mondo. C'è il problema di gestione della nicchia? Che l'azienda sia di nicchia ma mentalmente di nicchia. Invece ho l'impressione che molti miei colleghi conquistata la nicchia cercano di espanderla. Il punto invece è stringere la nicchia. La ricerca è sempre conditio-sine qua-non? Va fatta senza paletti mentali. All'inizio della ricerca non sai dove andrai a finire. Poi devi cercare di industrializzarla. Tutto sommato noi facciamo numeri che non sono giganteschi: a) non ne abbiamo bisogno; b) non siamo quel tipo di prodotto; c) non siamo in grado di gestire numeri giganteschi e lo dico con grande tranquillità. Il grande numero ti porta a fare delle mediazioni. Quindi si procede per piccoli passi. Quanto si guarda avanti e quanto al proprio passato? Non attingere dall'archivio storico di un'azienda è una questione di filosofia, più che di etica aziendale. È la filosofia di rifiutare un’operazione semplice come fare la riedi-

zione di cose già fatte. Quando mi riferisco alla mia azienda non parlo di me ma dei miei collaboratori che per primi si offenderebbero. In fabbrica esiste un imbarazzante orgoglio di appartenenza, ci si sente l'università dello sportswear. Questo è stare fuori delle regole del gioco? Penso che bisogna cercare di essere assolutamente consistenti, nel modo in cui realizziamo e vendiamo il prodotto o facciamo comunicazione. Non so se questo sta fuori o dentro le regole; sicuramente è qualcosa di armonico e funzionante. Non è ridondante, così come non lo sono i nostri capi. Piuttosto è un meccanismo che gira ed è autoselettivo Non si può spiegare. Lo puoi capire per sensibilità o accettare da un punto di vista estetico. Ho discusso con la nostra responsabile di marketing di quanto interessa al consumatore la nostra ricerca di nobilitazione tessile. Suona male, è vero. La domanda non è quanto gli arriva. So già in partenza che è pochissimo. Ma quanto gli interessa. Credo poco. A questo proposito riporto l'esempio della mano: entri in un negozio, tocchi i capi e i vestiti ti rimangono attaccati. Quanto è importante avere un prodotto made in Italy? È un punto d'onore per me. Per una piccola-media azienda è difficile controllare le fabbricazioni lontane. I miei colleghi parlano spesso di delocalizzazione e sbagliano sostenendo che dobbiamo difendere i posti di lavoro. Al contrario, è necessario incrementarli. Se ci si accontenta di dimensioni da gestire, la produzione può essere realizzata interamente in Italia. Una realtà che si sta sempre più delineando è la preoccupazione del ricambio generazionale all’interno delle azienze. Come vi state muovendo? Conoscendo una via al successo è inevitabile riproporne la formula. Con le grandi operazioni di marketing è pure inevitabile che i pezzi vengano standardizzati per opera di imprenditori che cercano di replicare la via al successo conosciuta. Sono giunto alla conclusione che per le aziende del made in Italy ci vuole un titolare, qualcuno in grado di prendere decisioni di lungo periodo e quindi investire sul bene aziendale. Contrariamente il management, che è remunerato, è portato principalmente a privilegiare gli obiettivi e, di conseguenza, a spremere i campi a disposizione. Parlavi di ricambio generazionale all'interno delle aziende. Secondo me è l'unico fattore molto critico di tanti gioielli. Le generazioni successive, scollate dal «pane e abbigliamento», sono state fatte crescere con gli studi internazionali e rientrano in azienda come management tante volte senza il rispetto per l'esperienza esistente. Non è facile. Il giovane tende a tagliare le curve, ha poca pazienza. Bisogna non avere paura di sporcarsi le mani, o di farle sporcare ai più giovani, e avere la pazienza di formarli. Da qualche anno insegno nelle scuole, anche legate al fashion. Le cose che mancano di più sono i fondamentali, per esempio riconoscere le trama dei tessuti. È imbarazzante constatare quanta conoscenza manca a molti di quelli che lavorano intorno al prodotto. Comunque il cambio generazionale non è una cosa da poco.

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quindici anni di moda & interviste I 29

Quali sono i nodi nevralgici per consolidare la propria posizione nel mercato? Sono convinto che nei prossimi due anni questa azienda possa crescere in modo importante se miglioriamo le consegne a parità di prodotto. Perché la performance delle consegne scricchiola. A cosa è dovuto? A un ritardo dei tempi, alla ricerca e al fatto che la fase tessile ha avuto degli appesantimenti legati all’ottimizzazione di alcuni fattori produttivi. Se miglioriamo la performance nelle consegne riusciremo per esempio a penetrare mercati nuovi. L'operazione del retailer sul tuo marchio è di fare il suo business e di conseguenza aiuta a fare il tuo. Come mi diceva mio padre il primo che entra in negozio è il primo che esce ed è sempre più vero. Certamente i consumatori più attenti sono quelli che entrano per primi e una volta che li hai persi, li hai persi. Quanto si può fare per rendere più fluido il rapporto retail/mercato?

Nel mercato ci sarà ancora una scrematura sia nell'offerta sia a valle nel retail. In questo paese in tre anni il GFT è sparito ed è stato sostituito da Vintage 55. Da una parte c'erano 1.500 miliardi di fatturato e, dall'altra, meno di 15. Per molti anni, seguendo una certa teoria, abbiamo ritenuto che per competere in Europa dovessimo avere grosse strutture aziendali. Invece competiamo benissimo con le piccole e medie imprese perché sono la forza di questo paese. A livello imprenditoriale è giusto che scompaia un gruppo come GFT e nascano mille piccole imprese? Sì, anche se non facciamo molto per fare emergere il prodotto nuovo. Banalmente dico ai miei studenti di imparare il lessico aziendale. Cerco di fargli capire la mia esperienza ultradecennale e il pensiero laterale. La cultura del cambiamento è molto importante. Proprio perché abbiamo fatto sempre così, vediamo se possiamo fare in un’altra maniera.


30 I quindici anni di moda & interviste

Karl Lagerfeld @ Chanel A vENT'ANNI DAL DEBUTTO DELLA SUA PRIMA COLLEZIONE FIRMATA CHANEL, KAISER KARL CONTINUA A FAR RESPIRARE IL CONCETTO DI CONTEMPORANEITÀ CHE MADEMOISELLE gabrielle coco chanel HA SEMPRE VOLUTO PER LA SUA GRIFFE. CHE SIGNIFICA ANCHE FARE QUELLO CHE LEI NON HA MAI NEMMENO PENSATO DI FARE NEL SEGNO DELLA MODERNITÀ. Giampietro Baudo

«L

a moda è un’idea divertente da godersi subito». Parola di Gabrielle Coco Chanel, la più grande designer-rivoluzionaria del 19° secolo scorso, profetessa di una femminilità moderna e seducente con inflessioni di androgina. A più di trent’anni dalla morte, l’anima di Mademoiselle continua ad aleggiare in passerella. Grazie all’estro geniale di Karl Lagerfeld, eclettico e carismatico gran sacerdote della maison da 20 anni interprete di un universo lezioso dove si affollano simboli evocativi. Per tutti è il fantasma di Coco, la sua reincarnazione contemporanea, il suo volto moderno. Tedesco, classe ’38 secondo le biografie ufficiali, Kaiser Karl arriva al timone della maison di rue Camion nell’82, inizialmente come responsabile della haute couture. In dote porta un bagaglio creativo di primo piano (ha lavorato da Balmain, Patou, Krizia e Chloé oltre che da Fendi, dove è tutt’ora designer del prêt-à-porter). La famiglia Wertheimer lo chiama per risollevare una griffe dal nome magico ma impolverata dagli anni. E l’incantesimo sembra riuscire. La prima timida haute couture dal gennaio ’83 colpisce al cuore le clienti di Mademoiselle. E il designer, personaggio di spicco della Parigi mondana d’inizio eighties, diventa responsabile anche del prêt-à-porter dove lavora insieme a Gilles Dufour. Il resto è fashion history. Dalle ceneri della doppia C rinascono tutti gli elementi del mondo Chanel, che negli anni 80 edonisti diventa l’alter-ego di una femminilità sfacciata, esibita, divertente e ad alto tasso di humor. In un turbinio di simboli, lo spirito sottilmente dissacratorio di Kaiser Karl distilla frammenti di Chanel’s verbo. La camelia feticcio. Il matelassé rigoroso. Le catene hard-opulente, Il tweed ingentilito. I bijoux sfacciati. I fiocchi romantico-leziosi. La petite robe noire. I bottoni décor. O le decolletè b/w, simbolo ascetico di un’eleganza pura. Accusato, in passato, di essere stato irrispettoso nei confronti dell’eredità di Mademoiselle, oggi Lagerfeld celebra in sordina 20 anni di «matrimonio». Niente festeggiamenti Nessuna autocelebrazione, Perché del sodalizio lungo due decenni non ama parlare. Forse ricordando quello che scriveva Coco: «Ho molto pudore. Credo che il pudore sia la più bella virtù della Francia». Che cos’è oggi Chanel mr Lagerfeld? Semplicemente un’idea di modernità. Mademoiselle ha sempre immaginato e disegnato delle donne contemporanee, che respiravano l’air du temps. Ha sempre pensato a una femminilità veloce, svelta. Con un’attenzione maniacale per ogni singolo, minuzioso dettaglio. Era in assoluto una grande perfezionista. E lei nel corso degli anni ha seguito il verbo di Chanel, dando alla griffe un’allure sempre più giovane… Abbiamo cercato di rispettare una storia importante aggiungendo poco per volta

un’idea di divertimento, di allegria,. Non amo le cose troppo serie. Le donne devono poter indossare delle cose che amano, con cui piacciono e si piacciono. Quanto è importante l’eredità della maison nel disegnare le collezionI? Nella maggior parte dei casi Chanel non ha mai fatto quello che vedete in passerella. Non ci ha magari mai nemmeno pensato. Ma il mio compito è proprio quello: rileggere, trasformare e disegnare una collezione capace di esprimere il suo spirito, come se l’avesse disegnata davvero lei. In modo che ogni elemento, anche nuovo, sia riconducibile al suo pensiero. Quando ho iniziato a lavorare alla maison era tutto diverso, bisognava ricreare un’immagine, dando allure a una storia importante. Chanel doveva tornare ad attirare interesse. Ora è diverso. Posso giocare con la tradizione dandogli un appeal più fashion o con i simboli di Mademoiselle che ormai sono diventati immediatamente riconoscibili. Devo fare tutto quanto in modo da mantenere un forte interesse intorno al classico. Che è un po’ lo stesso percorso visivo-creativo di questa stagione, dove la nuova musa è Blondie… Debbie Harry è sempre stata una delle mie ragazze preferite. Ci sono citazioni a lei nel maquillage o negli accessori (in primis charms da cui tintinnano micro lp di vinile a musicassette ma anche borsine come il cubo di Rubik, come un porta-compact disk o circolare con un 45 giri deluxe, ndr). Ma lo stile d’insieme è comunque sempre Chanel, Una mademoiselle in tweed raffinata e dolce ma non troppo signora. E che sceglie proporzioni sempre più piccole… Anche in questa stagione abbiamo lavorato sulla struttura. È un cammino che mi affascina molto. Già nell’alta moda l’idea di femminilità era smilza, con le braccia lunghe, il collo alto e una testina piccola. Qui abbiamo rispettato un profilo minuto, con il busto, le spalle e i fianchi sottili. Un omaggio alla stessa Coco (era solita ripetere «Non si è mai troppo magre e non si è mai troppo ricche»). Ma soprattutto un rimando alla sua silhouette invidiabile… Oggi non sono più a dieta. È vero, sono in forma. Ma forse è solo perché lavoro davvero tanto. Oltre alla moda la sua grande passione resta la fotografia… Non faccio fotografie e non pubblico libri perché mi sono annoiato della moda. Semplicemente lo faccio perché tutto ciò rappresenta uno step creativo successivo. Mi permette di trasformare l’immagine che ho nella mia testa. Ma si diverte ancora nel fare il suo lavoro di designer? Sì, e credo molto più oggi di quando ho iniziato. Quando si è giovani ci sono altre priorità. Oggi sono diventate un po’ meno importanti. Mi diverto, ma quando vado a letto non penso alla moda. Penso a dormire.

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32 I quindici anni di moda & interviste

Azzedine AlaÏa

Folletto tunisino dallo sguardo furbo. Profeta geniale di una femminilità seducente. Scultore del corpo e della forma. È Azzedine Alaïa, misterioso eremita dello stile. Fantasma di sensualità, venerato e citato come un couturier maestro. Oggi il suo vocabolario aleggia sulle passerelle. E lui riservato e schivo, continua a lavorare sulle sue creazioni rinchiuso nell’eremo parigino nel cuore del Marais. Che è casaboutique-headquarter, dove vive e lavora circondato da vestiti perché dice: «credo sia molto importante vivere con gli abiti». Giampietro Baudo

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ato a Tunisi negli anni 40 (la sua età è segreta, protetta da una coltre di mistero), Alaïa studia scultura all’Accademia di belle arti. Impara a cucire grazie alle lezioni della sorella. E alla fine degli anni 50 si trasferisce a Parigi dove lavora da Christian Dior e da Guy La roche. Nel ’65 inizia la sua carriera en solitaire. Ma sono gli eighties a consacrarlo, quando colpisce al cuore con le sue costruzioni ad alta seduzione, sagomate dalla silhouette femminile («Ho sempre bisogno di provare gli abiti su un corpo vivente, perché le mie creazioni rispettano il corpo»). Guaine e tagli ergonomici che scolpiscono. Silhouette anatomiche e corsetti che modellano la figura. Il codice del creativo tunisino è costruito su un’eleganza ad alto charme. Che sopravvive negli anni e si consacra come un sigillo di stile. Poi la scelta. Uscire dal rito dei défilé stagionale ed entrare nella tranquillità del mistero. Quasi a diventare un fantasma. Fino al 2000 quando sigla, a sorpresa, un accordo con il gruppo Prada (nei piani c’è la costituzione di una fondazione-museo dedicata al suo lavoro). In gennaio di quest’anno ha fatto un’apparizione fugace, svelta. È arrivato in punta di piedi portando in pedana, dopo 11 anni di silenzio, una collezione di vera haute couture. E ora è tornato nell’ombra. A lavorare su un nuovo abito. A fissare le pieghi di una nuova creazione. Perché ha scelto di vivere «ai bordi» del mondo della modo, di ribellarsi alla scansione canonica di show e al ritmo delle sfilate preferendo apparizioni fugaci, collezioni che spuntano a sorpresa e una presenza avvolta dal mistero? Sono sempre stato considerato un personaggio strano: fuori dagli schemi, E ancora oggi continuo a essere fedele alla mia fama e al mio pensiero. Non credo alla presentazione fine a se stessa, soprattutto quando non si ha nulla da dire. Posso restare a lavorare su uno stesso modello anche per un anno intero. Faccio e rifaccio fino a quando avverto che qualcosa che non funziona. Ma amo esprimere un pensiero preciso quando mostro uno dei miei abiti. La cosa strana è che oggi lavoro più di prima. Ma come? E allora cosa dovrebbero dire i suoi colleghi che presentano due collezioni all’anno… Detesto quando tutto accade in modo troppo sistematico. Credo che nessuno riesca a essere innovativo quattro volte all’anno. È un circolo davvero vizioso… uno stilista non può e non deve essere una macchina a ciclo continuo. Penso che la libertà di essere creativi sia davvero una cosa molto importante. Dopo così tanti anni di lavoro e di successo si diverte ancora nel

disegnare un abito? È strano ma ogni volta è un’avventura intensa. Ogni giorno penso: oggi voglio davvero creare qualcosa. E ho la stessa difficoltà quando inizio a lavorare su un nuovo abito. Questo significa che dopo tanti anni di lavoro ho ancora qualcosa da imparare. Nelle ultime stagioni è stato citato ampiamente da molti dei suoi colleghi. Che cosa prova? Tutto ciò la lusinga? Non è assolutamente un problema. Mi copiano? La moda è fatta così. E che cosa pensa dei designer contemporanei? C’è qualcuno che ama in particolare? Seguo soltanto alcune realtà, che sono quelle più vicine al mio modo di essere e di pensare. E che soprattutto hanno il mio stesso ésprit nel disegnare un abito e nel creare una silhouette. Stimo molto Rei Kawukubo e il lavoro che sta facendo per Comme des garçcons. E mi piace anche il mondo delineato da Junya Watanabe. Lei è stato il profeta della sensualità e della femminilità… Tutto quello che so l’ho imparato dalle donne. Non ho mai frequentato una scuola di modo ma sono stato davvero fortunato. Perché, fin dall’inizio del mio lavoro sono stato circondato da donne affascinanti. Io ho soltanto cercato di renderle più belle. Il mio ruolo è quello di creare un’illusione. Tutte le donne hanno voglia di piacere. E mentono quelle che dicono che non amano essere corteggiate. … e cosa pensa di questa ondata di seduzione sfacciata che ha contagiato le collezioni di questi ulti anni? È davvero troppa. È importante riuscire a mantenere un certo equilibrio, a conservare un certo rigore anche nel delineare una sensualità incisiva. Come è la sua relazione con il gruppo Prada? Ho un ottimo rapporto con Miuccia, credo sia una delle persone che ha meglio compreso le mie idee e il mio modo di essere. C’è stato un feeling immediato. In realtà sia lei che Patrizio (Bertelli, ndr) hanno capito il mio modo di creare. È stato formidabile. Rispettano il mio lavoro e la mia indipendenza. Non hanno comprato il mio nome, hanno voluto essere parte di un progetto, sono diventati dei miei partner. Quando abbiamo iniziato a parlare di questa intesa avevo numerose offerte anche di altri gruppi, in particolare quattro candidati tutti stranieri Ma in assoluto ho scelto loro perché mi sembravano i compagni migliori per affrontare questa nuova avventura. Ha un sogno nel cassetto? Molto, forse troppi. Ho ancora talmente tante cose da fare.

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Vivienne Westwood

NON AMA ESSERE DEFINITA LA REGINA DEL PUNK PERCHÈ SIGNIFICA METTERE ENFASI SUL PASSATO SENZA RIFLETTERE CIÒ CHE FA OGGI. PERCHÈ VIVIENNE WESTWOOD QUANDO GUARDA AL PASSATO LO FA PER LE IDEE E PER NON INGOIARE LA PROPAGANDA CONTEMPORANEA. Stefano Roncato

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i augura che la gente finalmente si dimentichi del periodo Sex Pistols. E guardi maggiormente al lavoro di oggi. Ma in mezzo ci sono più di tre decadi dove Vivienne Westwood si è imposta come la grande British icono-clast: spesso non compresa al primo colpo ma alla fine molto citata da altri designer, una vera leggenda tanto da essere stata inserita tra i sei stilisti più influenti del ventesimo secolo. Ha appena siglato il suo ingresso ufficiale in Italia con l’apertura di un quartier generale e store annesso in corso Venezia a Milano. E adesso il Victoria & Albert Museum di Londra sta organizzando una retrospettiva, che andrà in cartello da aprile del 2004. Sarà profeta in patria, anzi «pophetess», come l’ha definita Christian Lacroix, «l’interprete tra dei e umanità. Non è giusto che il fashion world abbia una memoria così corta, dal momento che ha iniziato tutto quello che in tempi recenti abbiamo visto sulle passerelle». Il sentiero della moda è disseminato di tracce VW. Ha giocato ironicamente con minierini, bustier e faux cul. Pirati e streghe, cortigiane settecentesche e inglesi eccentrici. Ha trasmigrato underwear in overwear, ha creato un nuovo tartan ufficialmente riconosciuto, il MacAndreas, da nome del marito. E ha persino costretto alla caduta in passerella Naomi Campbell, issata su platformtrampolo entrati nel mito. «Per imparare a usarli properly, ci devi anche cucinare». Parola (e humor) di Queen Viv. Non ama essere chiamata la «regina del punk». Come mai? Perché mette enfasi sul passato. E la definizione queen of punk non rifletto più quello che faccio adesso. Vorrei tanto che la gente non fosse così attaccata a quello che è stato, preferirei che si focalizzassero sulle mie creazioni più attuali. La mia collezione favorita è sempre l’ultima. Il suo percorso creativo sembra essere andato a ritroso nel tempo. Il «nuovo» viene dal passato? Osservo il passato per le idee. Al contrario si finisce solamente a ingoiare la propaganda dell’età in cui si vive. M’ispirano i dipinti, la letteratura e le arti, come i balletti di Kirov e di Bolshoi. O la tradizione di Saville Row. Quindi dobbiamo tornare a studiare la storia… È fondamentale, la storia è da dove traggo le mie idee, ma oggi provo a non citare troppo le cose, perché la gente mi accusa di essere un name dropper o una saputella. Desidero solo dare credito a chi ha avuto l’ìdea originale. Non si può avere solo il desiderio di generare qualcosa e tentare di farlo senza imparare le tecniche del passato. In che cosa credeva quando ha iniziato la sua carriera? Erano giorni intensi, con molta violenza diretta ai punk. Il nostro negozio era uno dei pochi luoghi dove stare e non sentirsi uncomfortable. Si trattava di ribellione, di shockare con idee alternative. Il movimento punk è sorto contro l’establishment

negli anni 70 da parte dei giovani delle classi operaie. Erano stufi di essere ignorati. Disegnavo abiti da una prospettiva politica, il mondo era così corrotto e mismanaged che ero arrabbiata e disgustata. Destroy era il nostro titolo a tutta pagina. Da qualche parte ho letto che volevate fare una provocazione «dadaista» per superare il muro dell’indifferenza… Non ho iniziato per influenzare qualcuno. Abbiamo provato a creare l’immagine del «modern city revolutionary», non soddisfatto della città dove ha vissuto. Sono stata la prima a indossare abiti provocatori in strada. Allora era uno shock. Ma oggi nulla sorprende più, neppure in un villaggio isolato. Come ha cambiato atteggiamento rispetto al periodo punk? Quando venni in Italia, molto tempo fa, incontrai Carlo D’Amario (divenuto poi manager della maison). Mi disse di immaginare il sistema coma una macchina che viaggia a 150 km all’ora. E tu vuoi cercar di fermarla. Puoi prenderla a sassate, puoi persino rallentarla per un secondo o due, ma poi andrà più veloce grazie alla tua energia. «Quello che devi fare è andare a 300 all’ora», mi spiegò. Fu lì che cambia atteggiamento. Cerco di vivere velocemente perché questo mi impedisce di deprimermi. Perché prima che ti possano raggiungere sei già a qualche miglio di distanza. E oggi come si vede? Subversion è un termine abusato, la vera sovversione significa scardinare gli standard dello status quo. Ma se sono buoni, non si fa che peggiorare le cose. Non credo che si potrà mai generare lo stesso impatto che hanno avuto punk rock fashion e i vestiti S&M, bisogna essere molto più sottili. Mi vedo più anti-establishment di allora, sono fedele agli stessi motivi politici. Desidero ancora dare alla gente una scelta nei vestiti che indossano, qualcosa di diverso dagli abiti pensati per una maggioranza indifferente. Una scelta in un’età di conformità. Quanto conta l’archivio della Westwood per la Westwood? L’archivio è molto importante. Mantiene una memoria, una prova fisica di qualcosa che vivrebbe al contrario soltanto nei ricordi di coloro che l’hanno testimoniato. La scritta SEX, i pirati, il simbolo del teschio e ovviamente il punk. Le citazioni al suo mondo sono frequenti, soprattutto ultimamente. Che cosa prova? Si sente lusingata o derubata? Sono conscia di aver avuto una grande influenza: a volte mi chiamano designer’s designer. In generale con bado così tanto al fatto che gli stilisti più giovani siano ispirati dal mio primo lavoro. Tendo a non guardare proprio il loro lavoro. Meglio avere le idee o diventare ricchi con quelle degli altri? Sono sempre stata guidata da una mental stimulation. Le idee danno coraggio, sono la ragione per andare avanti. Possiedo la mia azienda e siamo interamente indipendenti. Mi considero fortunata.

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Bernard Arnault @ Lvmh «Per creare un brand di successo ci vuole tempo: con Christian Dior sono stati necessari sei anni. Ora stiamo valutando il modo migliore per promuovere la linea di Marc Jacobs in cui crediamo particolarmente». Francesca Delogu

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l potenziale non basta. Bisogna vedere le situazioni progressivamente: per creare un brand di successo ci vuole tempo'. Con un sorriso ´frozen' come queste giornate a Manhattan, Bernard Arnault ha commentato così ieri a New York le voci sulle tensioni con Marc Jacobs, designer del prêt-à-poter di Louis Vuitton, nel giorno dell'opening dello store del marchio più grande al mondo, una cattedrale del lusso di 1.200 mq su quattro piani sulla Quinta strada all'incrocio con la 57». ´La rinegoziazione con il designer va benissimo', ha proseguito l'uomo seduto a capo del più importante conglomerato mondiale del lusso, ´il contratto scadrà nel 2008 e i rapporti con lui sono ottimi. Siamo molto interessati a capire come costruire il brand Marc Jacobs. Per sviluppare il progetto Dior mi ci sono voluti 5-6 anni, per trovare il designer giusto, mettere insieme un management team e una strategia globale: non si può investire in un marchio se prima non è stato messo a punto ogni dettaglio per farlo decollare, altrimenti non si ottengono risultati. Sono convinto che la griffe di Jacobs potrà diventare la nuova Donna Karan o Ralph Lauren'. Arnault è arrivato a New York insieme a Yves Carcelle, presidente e ceo di Louis Vuitton malletier, per l'inaugurazione dell'imponente global store del brand e per il via ufficiale alle celebrazioni per i 150 anni della maison. Che ieri sera, dopo l'inaugurazione ufficiale dello store, ha dato un party per mille invitati nella location a sorpresa del Lincoln center, tenuta segreta fino all'ultimo istante. ´Quando ho comprato Vuitton 15 anni fa era ”very good but japanese”. Tutti mi dicevano: cosa puoi fare di più? È un marchio estesissimo. Oggi siamo arrivati a questo punto: abbiamo dovuto aprire questo store a New York perché quello esistente era troppo piccolo. Mediamente, un anno fa, ci entravano più di cento persone al minuto'. L'evento ha catalizzato l'attenzione mondiale, mobilitando giornalisti e vip dall'Europa alla Corea e al Brasile, con una copertura massiccia su stampa e media che si prevede si stenderà lungo tutto l'arco

mf fashion - 11 febbraio 2004

dell'anno. Almeno fino all'inaugurazione del gigantesco monomarca parigino sugli Champs Élysées, che riaprirà a dicembre in versione allargata (diventando così il primo store del brand al mondo), per concludere in bellezza il Vuitton year. Il progetto del negozio di New York, un'architettura luminosa ed enigmatica, sorge nell'ex regno dei cartoon, il building Warner bros, completamente sventrato e rifatto su misura per la griffe da Peter Marino (che ha concepito gli interni) e dall'architetto Jun Aoki, lo stesso che ha concepito l'avanguardistico megastore di Roppongi hill a Tokyo. Il palazzetto, che ora ha vetri damier e un muro luminoso interno che cambia colore durante il giorno, è stato acquisito dal gruppo, ma non è stato rivelato l'investimento. ´Non potevamo mica prenderlo in affitto', ha scherzato Arnault, ´ci sarebbe costato troppo!'. L'interno è un'elegante full immersion nel mondo Vuitton. Dal piano terra generalista, con calzature, oggetti esposti nelle vetrine e bauli antichi alle pareti, per arrivare all'intrigante quarto livello, quello delle salette vip. Un corridoio con tante porte chiuse, che conducono a enormi appartamenti di prova, quasi dei monolocali: ´Bé, se viene Gwyneth Paltrow a fare shopping ha bisogno della sua privacy', ha commentato un'addetta stampa della griffe, ´non può mescolarsi ad altri vip che magari stanno comprando nello stesso momento'. Così sandali con la zeppa da 820 dollari, borse estive da 4 mila dollari o gonnelle da 1.800 verranno serviti direttamente nella riservata sala prova, dove in grandi vetrine compaiono i pezzi più preziosi, come il nuovo orologio Tourbillon creato appositamente per i 150 anni della maison o i gioielli (vedere box a lato). E per il 2004? Arnault si dimostra ottimista: ´Siamo stati penalizzati dall'effetto dollaro, ma siamo riusciti ad aggiustare i prezzi per il mercato Usa. E per l'anno prossimo visto il boom delle nostre vendite statunitensi lavoriamo con molto ottimismo. Il mio vero punto di domanda è per il 2005: sono preoccupato per come gli Stati Uniti affronteranno il loro problema del deficit'.


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Hedi Slimane @ Dior l'anima maschile della maison di lvmh debutta nel segmento beauty. Al via tre eau de cologne in maxi-formato distribuite soltanto in 16 punti vendita al mondo. e Da dicembre arriveranno anche le candele. Gian Marco Ansaloni

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i chiamano Eau noire, Cologne blanche e Bois d'argent. Sono le tre eau de cologne che debuttano oggi solamente nei negozi monomarca di Dior homme (Milano, New York, Tokyo, Parigi) prima di un roll out che sarà allargato a 16 punti vendita nel mondo. Sicuramente un progetto di nicchia, lontano dai grandi numeri cui ci ha abituato la profumeria, dove per distribuzione selettiva s'intendono mille door in Italia. Bassi numeri ma alta immagine per Dior che vuole tornare alle origini della profumeria con fragranze non più usa e getta ma evergreen. Come testimoniano anche i formati scelti, decisamente maxi: 125, 250 e 500 ml. Disponibili solo in versione splash e con vapo a parte in una bustina di suede nera. L'idea di un ritorno al passato e di una diversa concezione del profumo è di Hedi Slimane, il designer che, prima da Saint Laurent e ora da Dior homme, ha rivoluzionato il menswear maschile quando ormai sembrava che fosse già stato fatto tutto in fatto di abbigliamento formale. A MFF ha raccontato in esclusiva questo suo nuovo progetto. Il suo primo intervento nel profumo è stato con Higher. In che cosa si differenzia questo progetto? Higher non è stato il mio primo progetto. Ho solo collaborato al visual con Richard Avedon, e corretto alcuni elementi d'immagine, ma non ho deciso nulla sul progetto. In quel periodo ero solo un consulente e da un anno sono direttore creativo delle fragranze uomo. Quando sono arrivato da Dior tre anni fa ho pensato di realizzare le mie eau de cologne, ma non ho avuto il tempo di svilupparle. È un progetto molto coerente con la filosofia di Dior homme. Molto couture, molto francese, molto privato. Sono veramente ben fatte, stranamente classiche, in senso settecentesco, molto istituzionali e senza tempo. Non sono design, né fashion, è un progetto di profumeria tradizionale di lusso. Ho sempre ritenuto che da Dior dovevamo ritornare a una certa idea di fragranza.

mf fashion - 1 Luglio 2004

In un mercato affollato come quello dei profumi, perché avete deciso di realizzare un progetto così di nicchia? Perché ritengo che l'industria cosmetica sia ossessionata da una sorta di ripetizione continua degli stessi noiosi concetti, parlando in maniera molto ordinaria a un uomo che magari vorrebbe sperimentare qualcosa d'altro, qualcosa che abbia un'anima, qualità e personalità. Abbiamo realizzato la colonia senz'alcun preconcetto, nessun studio o dati di vendita, semplicemente ci siamo concentrati sull'autenticità del progetto, lavorando nel modo più tradizionale. È uno dei progetti più personali che abbia mai fatto per Dior homme, il mio primo, vero, iniziatico progetto di fragranze. E certamente sarà il vocabolario di sviluppi futuri. Sono già in programma extension della linea o nuovi profumi? Sì, ho già disegnato alcuni accessori molto esclusivi per le colonie, come confezioni di lusso o tappi in ebano o argento e stiamo sviluppando nuovi profumi e candele. È un progetto a lungo termine, che parte da avenue Montaigne e dalle origini della maison. Stranamente non è stata più realizzata una colonia Dior dal 1947. Qual è il target di pubblico, visto che si tratta di fragranze unisex? R. Non c'è target. Sono solo colonie che chiunque può usare, uomini e donne. Ma possono soltanto attrarre un tipo particolare di persone, che non stanno cercando la fragranza del momento, ma un approccio più classico al profumo. È proprio come farsi fare un abito su misura. C'è un'enorme differenza per te stesso e certamente per gli altri. Che profumi usa Lei? Quali sono i suoi preferiti? Ho realizzato l'Eau noire per me inizialmente. Ed è così che è diventata una delle tre colonie. Quindi, come ho detto, è molto personale. È stato molto interessante averla prodotta prodotta su misura per te. Ma generalmente mi piacciono i profumi della fine degli anni 20 e degli anni 30.


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Roberto Menichetti vs Jil Sander due creativi a confronto e con un punto in comune: il ritorno. roberto menichetti lo fa con una sua griffe, mentre jil sander torna in quella che porta il suo nome. Giampietro Baudo

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ciamano della moda con radici a Buffalo, in quell’America dalle Montagne Rocciose ritenuta un luogo sacro per i Sioux. Sacerdote di un’estetica purista, trapiantato tra le montagne ascetiche di una Gubbio medieval-mistica. Roberto Menichetti ha un cuore ribelle che batte tra l’Umbria e gli States. Classe ’66, con un passato forgiato negli atelier di Claude Montana e di Cerruti. Ma soprattutto di Burberry, per cui ha curato il rilancio internazionale grazie alla linea Prorsum. E di Jil Sander, con cui ha pensato-sviluppato-accudito il progetto menswear. Quest’anno, dopo un periodo di eremitaggio durato un biennio, è tornato sotto i riflettori partendo da New York («Non è stato un momento sabbatico ma un periodo di ricerca, creativa e finanziaria. E di progettazione legata al debutto del mio brand», spiega). Con una trasferta fiorentina per battezzare il suo uomo. Svelato negli spazi razionalisti della Manifattura Tabacchi inondata di luce asettica. «Adoro la Toscana... come l’Umbria è parte del mio sangue ». Come sono gli uomini d’oggi? Fanno parte di una nuova generazione dei sensi… Prima era tutto troppo razionale. In passato tutto quanto veniva filtrato attraverso la ragione. Ora siamo in un’era differente. Oggi, e domani, saranno gli Indaco boys a crescere e imporsi. Con le loro scelte basate sulla parte più animica, con i pensieri guidati rigorosamente dai sensi. E come immagina quelli di domani? Penso a una generazione di ragazzi con un equilibrio estetico differente… influenzato dall’anima. Con un’eleganza che deriva dall’anima e che ne riflette le caratteristiche. È un messaggio molto empatico, particolare. Ma me ne sono accorto anche facendo il casting dei ragazzi per lo show. Hanno un’attitude differente… Hanno la capacità di valorizzare la propria persona con rispetto compassionevole di quello che hanno davanti a loro. Definisca il suo uomo. Elegante. Gioioso. Italiano. Come lavora quando crea una collezione? Parto sempre dal passato, facendo tesoro degli errori che sono stati compiuti nelle collezioni precedenti. Da qui si inizia a creare il nuovo… e ogni stagione è come se aggiungessi una tessera a un mosaico più grande che stai costruendo poco per volta… Quando studio qualcosa di nuovo parto sempre dall’idea di evoluzione… e quando porti in scena una collezione è come se stessi scrivendo un capitolo nuovo di una storia che hai già iniziato. Ma qual è il suo punto di partenza… l’idea, il tessuto o la forma? Ragiono impostando un percorso su tre assi differenti, che tento di sviluppare in modo autonomo. Mischio tecnico, basico e sartoria. Su ognuno di questi elementi compio una ricerca importante, anche perché sono i tre capitoli costanti che compongono ogni mia storia. E poi inizio a creare. Perché, come mi ripeteva mio padre: «Tutto quello che è uomo è realizzabile ».

Come lavora per preparare la sfilata? Prima di tutto cerco di capire la realtà che mi sta intorno… e poi lavoro per proporre qualcosa che le persone possano amare e indossare davvero. E qual è stato il suo messaggio di stagione? Ho abbinato due concetti, l’idea di una moda elegante e gioiosa… ma non in modo letterario. Ho attinto a due elementi forti dello charme italiano, come il principe Totò o Alberto Sordi. Il primo con i suoi tight che aveva fatto tagliare e che portava con uno chic assolutamente innato. Il secondo quando interpretava i suoi personaggi dell’Italia del boom, tra gli anni 50 e gli anni 60. E ho lavorato anche sullo sport, cercando di educarlo e trasportarlo verso una frontiera di eleganza forte. Che ha tradotto in quale silhouette? Ho recuperato un codice di eleganza molto vicino alla sartoria napoletana tradizionale. Ma ci sono anche elementi del razionalismo italiano… che in un certo senso è stato il punto di partenza di tanti movimenti minimalisti che si sono sviluppati in seguito in Europa. Mi piaceva questa idea esasperata di pulizia formale e di linearità delle forme. C’è un capo feticcio di questa nuova vague sartorial-delicata? In assoluto la giacca. Ne ho creati 15 modelli differenti con sette modelli di spalla, cercando di riassumere un’enciclopedia del buon vestire maschile. C’è qualche designer del passato che considera il suo maestro? È un feeling forte con la sartoria napoletana e con un’eleganza innata e raffinata come può essere quella di Totò, aristocratico, nobile ma con un’attitude particolare. Molto moderna. E poi credo che Napoli sia davvero la prima metropoli al mondo, antesignana nel mischiare e far convivere culture agli opposti. E capace di infondere uno spirito gioioso a tutte le cose. E che cosa pensa del lavoro che stanno facendo i suoi colleghi Sul menswear moderno? Non credo molto nell’edonismo esasperato… e non penso nemmeno che la mascolinità moderna debba essere tradotta attraverso muscoli esibiti o grazie a una virilità sfacciata. Penso piuttosto che un uomo veramente maschile lo sia quando ha una forte libertà di pensiero, di espressione e di emozione.

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Jil Sander vs Roberto Menichetti

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n’anima discreta, riservata, intimista. Che lo scorso anno ha messo a segno l’unico colpo di testa di una vita intera: tornare alla guida della fashion house che porta il suo nome dopo una vacanza durata tre anni. Jil Sander, all’anagrafe Heidimarie Jiline Sander (ma a 24 anni la designer ha scelto di cambiare nome perché così era «tutto più semplice»), continua a predicare il suo verbo purista che oggi assume una sfumatura più delicata che in passato, soprattutto nel menswear. Perfezionista esagerata e lavoratrice maniacale dal suo rientro in azienda, nel maggio dello scorso anno si è concessa solo qualche weekend di vacanza. Oggi racconta un neopurismo young e joyful perché «gli uomini stanno cambiando». E alle voci che la vogliono di nuovo in uscita dalla sua maison a causa delle tensioni con Patrizio Bertelli di Prada, a cui fa capo la brand, risponde: «E perché mai? Ho disegnato una collezione così brutta da dovermene già andare? No… non c’è davvero nulla di fondato in queste voci». Signora Sander, come sono gli uomini d’oggi? Quello che è certo è che stanno cambiando… Credo che oggi un designer debba guardare e trattare un uomo nello stesso modo in cui pensa a una donna… I ragazzi di oggi sono molto diversi da quelli della mia generazione. Non hanno più paura di esibire o di mostrare la loro parte più delicata. Sono più interessati al proprio corpo. Prestano più attenzione a profumi e cosmetici... e questo non perché siano gay. Semplicemente è un’estetica differente. Più easy nell’affrontare tutte le cose, anche se stessi. E come immagina quelli di domani? Oggi i ragazzi vogliono soltanto essere cool… e credo continueranno a richiedere questo. Definisca il suo uomo. Amo gli uomini che hanno una personalità forte e la rispettano. Amo gli uomini self condifent, capaci di decidere da soli. E non amo quelli che sono soltanto delle marionette nelle mani dei designer. Come lavora quando crea una collezione? Lavoro sull’evoluzione… Parto sempre dalla collezione precedente per capire che cosa c’è stato di giusto e che cosa non andava bene. E poi sviluppo le idee che mi arrivano da qualsiasi cosa che mi circonda… L’input deriva sempre da qualcosa che

non ci si aspetta. Ma qual è il suo punto di partenza… l’idea, il tessuto o la forma? In assoluto il tessuto, è la cosa più importante. Anche la scelta della silhouette di stagione è fondamentale ma non riesco a pensarla senza avere in mano un pezzo di stoffa. Immagino come si modella sul corpo. Cerco di capire come potrebbe cambiare in funzione del colore e come una sfumatura può modificarsi a seconda della materia. E poi a me è sempre piaciuto lavorare con tessuti animati in tre dimensioni, capaci di scolpirsi addosso alla figura e non soltanto di cadere sul corpo. Credo che il fascino e la bellezza dell’abbigliamento maschile derivino proprio dalla forte energia dei tessuti che vengono utilizzati. Come lavora per preparare la sfilata? È sempre difficile quando bisogna fare l’editing di una collezione da portare in passerella… Cerco sempre di scegliere in base al mio feeling personale e al messaggio che voglio comunicare in quella stagione. Per la prossima estate volevo che tutto il guardaroba avesse una semplicità quasi esasperata, nelle proporzioni, nei colori e nei materiali… Tutto il lavoro che è stato fatto ne è derivato di conseguenza. E qual è stato il suo messaggio di stagione? Lightness e understatement… Ho voluto che questa collezione fosse moderna e molto fresh. In una parola cool, non troppo fitted e allo stesso nemmeno troppo ricca. Il messaggio era uno solo: young & quality. Che ha tradotto in quale silhouette? Anche soltanto in un cinquetasche ma con utilizzo differente del denim, una forma vicina al pantalone formale con un tocco fun nei bolli decorativi sulle tasche posteriori. Ho cercato di inserire sempre un tocco funky, un elemento fantasy che potesse dare un flash di allegria a tutta la silhouette… ecco il perché delle camicie dipinte a mano con motivi ispirati all’arte o le cinture neon… Non volevo che l’insieme apparisse troppo vecchio e conservative. C’è un capo feticcio di questa nuova vague sartorial-delicata? Ho immaginato delle giacche più fragili, dall’architettura piccola, realizzate in tessuti da camiceria e portate con una camicia tagliata come una giacca… esattamente nello stesso modo. Avevo voglia di ridurre le proporzioni del corpo maschile, rendendole più piccole. È stato un lavoro molto complesso, anche per creare un nuovo codice sartorial-formale ma dall’imprinting giovane. In alcuni casi ci siamo resi conto di aver creato una silhouette troppo sporty e allora abbiamo continuato la ricerca fino a quando non abbiamo trovato una serie di texture più eleganti. C’è qualche designer del passato che considera il suo maestro? No, non c’è un solo maestro se penso al mio menswear… Però ho un grande rispetto per la cultura della sartoria maschile del passato, per tutta la tradizione dell’abbigliamento uomo, in particolare quella british che è stata costruita in bilico tra rigore ed eccentricità. D’altronde, nell’abbigliamento maschile i codici sono sempre molto più definiti. È come in natura: gli uomini si vestono per conquistare, anche se in passato non lo dicevano così chiaramente. Che cosa pensa del lavoro che stanno facendo i suoi colleghi sul menswear moderno? Non bisogna mai mentire a se stessi, non credo sia giusto creare collezioni con uno styling esagerato, eccentrico… Io ho sempre cercato di pensare agli uomini che poi indossano queste cose nel quotidiano. È un lavoro difficile, nel bilanciare quello che si vuole dire, quello che si vuole fare e, soprattutto, perché si deve creare sempre qualcosa che sia nuovo. Ma d’altronde non si può accontentare tutti quanti.


42 I quindici anni di moda & interviste

Frida Giannini @ Gucci siede sul trono degli accessori firmati gucci, radice forte del mito-business della casa fiorentina satellite del gruppo ppr di franÇois henri pinault. LA STILISTA si racconta e svela la passione per gioielli, vintage e vinili. Giampietro Baudo

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guardo incantatore. Volto malizioso. E una passione per accessori opulenti, che rivendicano il loro quarto d’ora di celebrità. È Frida Giannini. Siede sul trono degli accessori firmati Gucci, radice forte del mito-business della brand fiorentina. Romana classe ’72, forgia la sua anima all’Accademia di costume della capitale. Un passaggio negli atelier della maison Fendi. E poi, nel settembre 2002, l’approdo da Gucci dove diventa responsabile stilistico di tutto il côté pelletteria. Fino allo scorso marzo quando viene nominata direttore creativo degli accessori della G Label sostituendo l’uscente Tom Ford. Cinefila incallita (tra i suoi cult le pellicole di Michelangelo Antonioni e di Roberto Rossellini) e collezionista di vintage-sound (possiede oltre 7mila dischi in vinile), vive tra Roma e Firenze. A lei spetta la paternità della Horsebit, cult bag morsettocentrica. Mentre la sua prima sfida in singolo è la collezione Flora. Punto di partenza, il motivo feticcio inventato dagli atelier di Firenze per la principessa Grace nell’estate del ’66. Punto d’arrivo, una micro-collezione di borse, shoes, sandali e accessori che approderà nei negozi in novembre. E ora la sfida della haute joaillerie. Con un porte-bonnheur familiare che profuma di tradizione. È un anello chevalier degli anni 40 che mi ha regalato mia nonna, da cui non mi separo mai. Spiega l’accessory’s maestro della doppia G. Le piacciono i gioielli? Li indossa? Ho una vera passione per i gioielli in generale, anche se prediligo quelli antichi. Che cos’è per lei il gioiello? Protagonista o solo complemento dello stile? Dipende da chi lo indossa e da come viene indossato. Può essere protagonista

se indossato su qualcosa di understated. Potrebbe invece diventare un semplice accessorio se abbinato a un look importante. Quando li disegna, da dove inizia? Ha in mente una grande storia di joaillerie del passato o predilige il nuovo? Mi piace farmi ispirare dalle pietre, dalle forme che dona loro la natura e sviluppare attorno a esse i volumi del gioiello. Trovo affascinante anche la storia della gioielleria, in particolare il periodo degli anni 40 e 50 in cui i più famosi gioiellieri e designer di preziosi cominciarono ad affiancare i loro nomi ai divi di Hollywood. E il gioiello smise di essere una prerogativa esclusiva delle casate nobiliari e dell’alta borghesia. Emblema di questo nuovo binomio è Colazione da Tiffany. È uno dei mei film preferiti. Colleziona gioielli? E quali preferisce? Penso che collezionare sia un termine che non possa essere usato per i gioielli. Ciascun monile è unico nel suo genere e racconta una storia. Non riesco davvero a vederlo come un qualcosa che può essere raccolto e catalogato in serie. In generale, il vintage è importante nel suo percorso creativo? E gli archivi di Gucci quanto contano quando disegna i nuovi accessori? Il vintage è sicuramente importante nel mio percorso. Ci sono molti aspetti interessanti da considerare nella storia della gioielleria. Innanzitutto l’estrema raffinatezza delle tecniche di lavorazione usate nel passato e che oggi sono riproducibili solo in parte. La tradizione costituisce un’inesauribile fonte di ispirazione: ogni singolo dettaglio può essere uno spunto per sviluppare un tema o un modello nuovo. Inoltre ci sono gioielli che ricorrono in diverse epoche storiche, come le croci, il corno o gli chevalier. Anche gli archivi Gucci presentano temi ricorrenti... un esempio fra tutti il morsetto, che mi diverte rielaborare e riproporre come un feticcio.

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Stefano Pilati @ Yves Saint Laurent Un delfino italiano alla corte di Francia. Domenica 10 ottobre 2004 la prima passerella ufficiale. A suggellare il debutto, Pierre Bergé, alter ego di Saint Laurent, che ha confidato a Betty Catroux, musa storica dello stilista algerino, seduta alla sua destra: «È una visione fresca, giovane e con un’allure Saint Laurent... Per me era essenziale!». Stefano Pilati racconta cosa è cambiato chez YSL. Giampietro Baudo

Yves Saint Laurent è una parte importante della storia della moda... Che cosa hai provato quando ti hanno scelto come interprete del suo prêt-àporter? Un grande senso di responsabilità. Non solo per la speranza di conquistare gli obiettivi che il marchio deve ancora raggiungere ma anche per le persone che investono su di me e per il mio team. E anche la responsabilità di confrontarmi con un pubblico più vasto e con le redini di un marchio storico, forse «il» marchio storico della moda. Come pensi di trasformare Yves Saint Laurent Rive Gauche? In realtà parto dal presupposto di non trasformare. Approccio il mio lavoro cercando di seguire quello che, razionalmente e creativamente, mi sembra intelligente trasmettere con la moda Yves Saint Laurent oggi. Con questa prima collezione ho pensato a donne più giovani. Credo che la moda sia fatta per loro: hanno tempo di cambiarsi anche più di una volta al giorno, hanno voglia di giocare con la moda. Una quarantenne, mia coetanea, potrebbe insegnarmi le regole dell’eleganza. Così ho cercato di parlare a una generazione diversa dalla mia. D’altronde anche Saint Laurent quando ha iniziato pensava i suoi capi per le giovanissime... Catherine Deneuve aveva soltanto 23 anni. Cosa hai provato visitando gli archivi della maison? Molta ammirazione. Si respira un universo di creatività senza limiti e un senso profondo di eleganza e femminilità, al di là dei canoni stilistici classici. Il messaggio che mi colpisce di più è l’elogio alla femminilità. Riesci a definire lo stile Saint Laurent in tre parole? Eleganza, creatività, femminilità. E quello di Stefano Pilati? Lo stile di Stefano Pilati è al servizio del marchio per cui lavora. Con questa prima

collezione ho portato avanti un processo di ricerca anche personale che sicuramente avrà un’evoluzione e che nutrirò costantemente rimanendo a stretto contatto con l’industria della moda. Quanto c’è di Stefano Pilati in questa collezione e quanto c’è di Yves Saint Laurent? Ho cercato di dare tutto me stesso a Yves Saint Laurent. Spero che la contemporaneità fosse evidente, per sottilineare l’oggi ma anche il futuro del marchio. Mi piaceva un’idea un po’ proustiana della silhouette, che già monsieur Yves aveva sperimentato in una sua collezione. Ho lavorato su una sorta di pouf con cui trasformare le proporzioni del corpo. Un codice nuovo di erotismo. Un misto di fifties e inizio eighties, che sono gli anni della mia cultura. Un classicismo purista, una raffinatezza estrema. Un’eleganza pulita, squadrata nelle proporzioni, in definitiva tradizionale. Pierre Bergé ama molto il tuo lavoro... Tu hai mai incontrato monsieur Saint Laurent? Solo due volte, di sfuggita. Posso solo dire che ho un grande rispetto per lui e per il lavoro che ha fatto in tutta la sua carriera. È un’icona della moda. Fin da bambino mi hanno insegnato che bisogna avere rispetto per le persone. E credo che nei suoi confronti questo sia assolutamente doveroso. Con questa prima collezione hai dovuto confrontarti con due fantasmi, quello di monsieur Yves e quello di Tom Ford. Che cosa hai provato? Tom non è assolutamente un fantasma... piuttosto un amico. Ha creduto in me, per questo nutro nei suoi confronti una profonda gratitudine. Oggi hai ancora un sogno da realizzare? Tanti e sempre. Cercare di realizzare i sogni è alla base del mio lavoro e della mia vita.

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Zac Posen

Due occhi maliziosi, boccoli da fauno, portamento aristocratico. Zachary Posen ha 24 anni ed è il designer prodigio del made in America. Nasce a New York da una ricca famiglia ebraica che vive a Soho. Studia alla Saint Martin di Londra. Le amicizie nel mondo dell’arte, grazie al papà pittore. L’approdo sulle pedane di New York. «La mia vita è una favola!», ripete scherzando. E sceglie la mamma Susan, ceo della sua fashion house, come Fata Turchina. Giampietro Baudo

Zac, quando hai deciso che saresti diventato designer? Credo di averlo sempre voluto. Mio padre è un artista, mi divertivo a entrare nel suo studio e rubare i materiali che usava per le sue opere… mi piaceva creare delle fancy dolls che poi mi hanno accompagnato in tutta la vita. A questa scelta hanno contribuito tanto anche le donne di famiglia… sono cresciuto in un ambiente di donne, circondato da mia madre e dalle mie sorelle. Anche oggi nel mio studio la maggioranza è composta da donne… sono loro che hanno le redini della mia maison (sorride!). I primi abiti li ho realizzati per uno spettacolo messo in scena da mia sorella. è stato incredibile, magico. E un po’ di quell’amore per la drammaticità scenografica del teatro mi è rimasto dentro. Il teatro. Gli studi alla St Martin di Londra. E poi l’approdo sui rotocalchi di New York e l’inizio di una favola… è stato uno choc. Quando ho visto il primo articolo sulle pagine mondane del New York Times magazine e la foto di un’amica con l’abito che avevo disegnato per lei è stato pazzesco. Sono stato investito da una cascata di emozioni. Era come gridare al mondo che ero capace di fare qualcosa. è stato come svegliarsi all’improvviso. Il sogno era diventato realtà ma non ero ancora sicuro di volermi svegliare. Non avevo ancora deciso che cosa avrei voluto essere. Come definiresti oggi il tuo stile? Anatomico e architettonico, in una parola «metrocratic», un ibrido tra metropolitano e aristocratico. Che è un po’ il percorso sviluppato per la primavera 2005, dove ho cercato di dipingere donne sensuali, sexy, intelligenti e decisamente powerfull… L’idea era quella di una ricca signora per le strade di New York mentre

sta andando a prendere il suo elicottero privato. E per le forme ho citato il lavoro della scultrice dei sixties Lee Bontecou, che aveva un gusto anatomico molto accentuato e seducente. Facciamo un gioco. Ti dico alcuni nomi e tu provi ad associare a ognuno una parola o un aggettivo che riesca a raccontarlo. P. Diddy (il rapper-stilista è entrato nel capitale della griffe Zac Posen creando una newco e stanziando investimenti importanti, ndr) Brilliant. Amazing. è un partner incredibile. è entusiasta di ogni cosa. è adrenalinico, curioso e amante della vita. è una continua fonte di ispirazione. Riesce a stupirmi ogni volta. … Anna Wintour (il direttore di Vogue America è stata tra i primi sostenitori del designer americano, ndr) è l’intelligenza. Mi ha aiutato molto soprattutto all’inizio della mia carriera. …John Galliano (il primo designer che ha incontrato durante gli anni della Saint Martin, ndr) Esuberante. Naïf. Un grande risk taker. Puro e senza filtri nell’esprimere la sua creatività. Mi ha insegnato a buttarmi anche senza paracadute. …tua madre Susan La bellezza. Ha reso tutto possibile. La mia vita assomiglia molto a una fiaba… credo di essere stato davvero fortunato. Tutto perfetto. Ma in ogni fiaba c’è sempre una strega cattiva… Non ho rimpianti ed è strano, ma in questi anni non ho avuto mostri contro cui combattere. In famiglia mi hanno sempre insegnato a prendere tutto di petto, ad affrontare i rischi senza paura. Poi le favole non hanno sempre un lieto fine?

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Miuccia Prada @ Prada la designer racconta l'importanza dell'unicitÀ. disegna una collezione pensando a ogni singolo capo per volta. e spedendo i singoli prototipi negli epicenter ha sconfitto la recessione. IL TUTTO CON LO SGUARDO FISSO SUL MONDO DELL'ARTE. Tommaso Palazzi

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ra cinquant’anni, della moda anni ’90 e 2000 non resterà che qualche nome, e così come gli anni ‘20/’30 sono per noi quelli di Chanel e Schiaparelli, questi ultimi 15 anni saranno quelli di Prada e di Gucci. Eppure, nonostante la stessa Miuccia Prada lo sappia benissimo, lascia sorpresi del suo carattere una certa apparente timidezza. Non è una timidezza paralizzante, ma piuttosto una forma di cortesia, e anche di paura di dire qualcosa di ovvio. Durante la nostra conversazione ho la sensazione che abbia una formazione scientifica, quasi matematica, per un certo modo che ha di usare la parola «più», per l’appunto come nelle funzioni algebriche. La incontro nel suo ufficio di via Bergamo, all’ultimo piano del quartier generale di Milano. È una mattinata di sole, nonostante siamo alla fine di novembre. La sala è grande e spaziosa, spoglia con una grande vetrata che si affaccia su un lungo e stretto terrazzo ricoperto di erba verdissima, tagliata all’inglese. Aspetto per qualche minuto, e nell’attesa guardo e tocco i pezzi dell’ultima collezione appoggiati nella stanza a fianco. Due manichini indossano rispettivamente l’abito di piume di pavone che è comparso sulle copertine di mezzo mondo e la grande gonna con piume di pappagallo stampate. La stilista arriva. Indossa con naturalezza un abito dell’ultima collezione, con un grande pappagallo applicato. Dopo i saluti, e ancor prima di iniziare l’intervista, succede un piccolo episodio che credo rivelatore. Per caso le parlo del piacere che ho provato a toccare e vedere da vicino i pezzi della collezione, in particolare i cappelli di piume, e lei mi chiede: «Scusi, posso andare a vedere anch’io?». Sembra una forma di insicurezza, ma il carattere della stilista è invece molto determinato. Come scopro fin dalle prime domande della nostra conversazione. Come nasce una sua collezione? A me interessano i singoli pezzi. Ho sempre lavorato sul singolo capo. Che sia una scarpa, una borsa o una gonna, per me esiste solo in quanto pezzo, saranno poi gli altri a decidere come abbinarlo. Sono costretta ad abbinare i pezzi per le sfilate. E per me è un compito faticoso. Ma anche di grande utilità. E quindi preferirebbe rinunciare alle sfilate?

No, tutt’altro. È un momento di verifica e di crescita per la collezione. Anche se non è del tutto corretto, si potrebbe dire che i pezzi che fai prima della sfilata sono più conservativi. Poi, quando ti avvicini al momento della passerella rivedi tutta la collezione ,alla luce di alcune idee più forti. Cosa pensa di chi manda in passerella capi stravaganti o immettibili solo per avere una foto in copertina? Noi abbiamo il problema opposto. Vendiamo il 70% del nostro prodotto prima della sfilata, ma poi tutti vogliono quello che hanno visto in passerella. Così, praticamente, ogni collezione la facciamo tre volte. Quanto conta la riconoscibilità del marchio a livello globale? È importante, ma da sola non basta. Io ho la fortuna di essere proprietaria, designer o stilista del mio marchio per cui non ho paura della riconoscibilità del mio marchio. Perché viene da me, da mio marito, dalla mia azienda. Così, posso anche tentare strade opposte l’una all’altra, cosa che mi si riconosce come vantaggio. La mia identità è la mia, e non ho paura di perderla. Gli accessori delle ultime collezioni, rientrano nella logica di «fare per il mercato»? Attenzione, vorrei essere molto precisa. Che io sia attenta al mercato non vuol dire che non faccia niente per il mercato. Faccio perché il mio lavoro è vendere, ma contesto assolutamente le scelte a tavolino. Prima, devi fare qualcosa in cui tu credi e pensi sia bella e valida; poi, eventualmente, la venderai. Penso sia impossibile fare qualunque cosa di successo che non venga dall’istinto. Certo, il tuo istinto è anche la somma di informazioni pratiche. Però quando mi chiedono, a tavolino, un vestito o una borsa di successo rispondo: «Fatela voi!»(sorride). Sta funzionando l’esperienza degli Epicenter, i grandi negozi che avete aperto a Tokyo, Los Angeles e New York? Sì, mi piace usare questi spazi come se fossero la mia unica, piccola boutique. Grazie agli Epicenter, ora ci sono due canali distributivi all’interno dell’azienda: uno più tradizionale e uniforme; e l’altro più veloce. Così, ad esempio, se penso di aver

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fatto dei prototipi interessanti che non vanno né in collezione, né in sfilata ma che comunque sono belli, li faccio produrre e li invio agli Epicenter e in pochi altri negozi. È già successo? Sì, sta succedendo da due anni, e sta funzionando. Il problema è che tutti vogliono quella cosa lì. I clienti vogliono la collezione speciale, il negozio in Galleria vorrebbe cose diverse dagli altri.. Adesso dobbiamo mettere un freno, perché, oltre certi limiti, questo fenomeno è ingestibile. Però funziona? E’ stato il modo per crescere durante la recessione. Pensi che a Forte dei Marmi, cambiando gli acquisti, abbiamo raddoppiato le vendite da una stagione all’altra. Dunque, con questa differenziazione di prodotto, è come se si tornasse ad un alto artigianato? Sì.Tornare a specificità, a differenze. In qualche modo è un lavoro più vero. Infatti, sarebbe l’unico vero lavoro che andrebbe fatto. Mi fa venire in mente uno slogan dei no global: think globally, act locally Sì, è così (ride). Assolutamente. Jean Paul Gaultier sostiene che non si fanno pezzi diversi a seconda del mercato in cui si vendono, ma che la moda è unica e universale. Cosa ne pensa? È una questione delicata. E’ vero che fai un abito, e poi qualcuno lo metterà. Però, ci sono due aspetti di cui tenere conto. Il primo, è che quando realizzi dei pezzi che hanno dietro una forte ricerca e un gusto definito, ti rivolgi di fatto a un genere di persone comunque molto selezionato, anche a livello internazionale. Per cui si potrebbe dire che i ricchi si somigliano in tutto il mondo. Secondo, se sei curioso del mondo, comunque quello che fai ha già senso per la gente. Ha in programma nuove aperture di Epicenter? Sì. Io ne vorrei uno in Cina e uno forse a Londra, o comunque in Europa. Direi che in questo momento la gente vuole particolarmente essere stimolata e incuriosita. E in Italia? No, a Milano aprire un Epicenter sarebbe stato impossibile. Semplicemente non esiste la cultura perché sia accolto. Come è nata la Fondazione Prada? Avevamo degli amici artisti e uno scultore, che poi ha fatto la prima mostra da noi, è venuto a vedere i nostri spazi e ha detto che sarebbero stato perfetti per delle mostre di scultura. Io ho detto «Che bello!» e mio marito, sempre ha detto «Facciamolo!». Come sempre succede, lui è molto più attivo e in qualche modo rischia più di me. Così abbiamo cominciato, e per anni abbiamo fatto una full immersion per conoscere gli artisti. Le grandi istituzioni d’arte, penso alla Fondazione Guggenheim, stanno seguendo la strada della globalizzazione e vogliono essere presenti sui cinque continenti. C’è l’idea di espandersi anche per la Fondazione Prada? No. L’idea della Fondazione è di cercare di approfondire la realtà di oggi. Di fatto la cultura e l’arte ti aiutano solo a capire meglio il presente, il momento in cui vivi. Direi che l’attività di base della Fondazione è quella di capire sempre di più, di essere sempre più dentro ai momenti creativi. L’estensione al Cinema col Tribeca Film Festival portato a Milano, va

letta in questo senso? Sì, è uno strumento attuale e che interessa i giovani. Di nuovo, per capire veramente le cose bisogna lavorarci. Ora abbiamo cominciato alcune collaborazioni sul restauro di alcuni film. Il ruolo delle vostre attività culturali ha anche una funzione di ricerca? È una crescita personale. Dico sempre che per vendere le borsette, per fortuna, non ho bisogno della Fondazione. Quelle si vendono da sole. Ma visto che per anni abbiamo tenuto le cose severamente distinte, in modo quasi ossessivo, ora vanno incontrandosi, ma non in senso strettamente commerciale. Per esempio? Per esempio, con l’occasione del Tribeca Film Festival (portato a Milano a metà ottobre, ndr) ho conosciuto questo eccezionale regista di Hong Kong, Wong Kar Wai (il suo film «2046», presentato al Festival di Cannes, è attualmente nelle sale, ed è stato mostrato in anteprima italiana proprio al Tribeca Film Festival, ndr). Quando andrò a Pechino, dovrei incontrarlo, mi farà vedere sicuramente dei posti interessanti. Tramite gli architetti che lavorano con noi e che stanno costruendo in Cina, abbiamo accesso a luoghi che magari non sono normalmente accessibili a tutti. Sa che molti, anche nel mondo della moda, hanno considerato queste attività quasi un atto di superbia, e di insensatezza economica? Persino dal punto di vista economico si sta scoprendo che queste attività che sembravano un po’ stravaganti a osservatori più direttamente finanziari, danno accesso a soluzioni o a luoghi che altrimenti non avresti e vengono valutate diversamente. Molti altri stanno seguendo il nostro esempio della Fondazione, dell’arte. Ma è importante l’onestà. Non sono comunque cose che si possono inventare, perché la gente capisce se lo fai sul serio. Prada porterà presto la sua fondazione in Cina. Perché questa scelta? Quando mi interessa capire le cose ci lavoro. Così è stato con l’arte. Quando mio marito ed io abbiamo iniziato ad appassionarci, abbiamo costituito la Fondazione Prada (nel 1993, ndr). Così è ora per la Cina, un Paese che intriga tutti in questo momento. Cos’è non si sa, però importa lavorarci. Avete già scelto il luogo? Sicuramente Pechino. È la città migliore per questo genere di iniziative. Nei prossimi giorni, quando saranno finite le riprese dello spot, andrò a visitare i due o tre posti, secondo me, più adatti. Qual è stato il suo primo impatto con la Cina? Ci sono stata la prima volta tantissimi anni fa, da ragazza. C’è qualcosa che ama del carattere della persone che ha incontrato? Mi interessa la possibilità di crescita alternativa di questi Paesicontinente, come Cina e India. Spero che sia più intelligente della nostra. Sono paesi che stanno tentando strade di sviluppo diverse da quelle tradizionali, e che non siano soltanto una copia dell’Occidente. Per essere presente su quei mercati, è importante entrare prima con qualcosa di diverso, come una mostra di abiti per esempio? Non ci sono cose importanti o meno importanti, ci sono dei percorsi di lavoro. La nostra attività è così frazionata su tanti livelli che portarne avanti uno aiuta l’altra. È un processo di lavoro, non ci sono strategie, la strategia è di capire di far bene. Le strategie sono molto semplici, il problema è poi come portare avanti le cose, come farle.

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Domenico De Sole @ Tom Ford Marcolin e Lauder i licenziatari. Creata una newco presieduta da De Sole. Determinante il ruolo di Diego Della Valle per l'eyewear. Gian Marco Ansaloni

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utto pronto per il brand Tom Ford. Come anticipato da MFF di ieri, alle ore 10 di New York è stato presentato il nuovo progetto che vede di nuovo in scena Domenico De Sole e Tom Ford, il dream team che in dieci anni ha fatto di Gucci un gruppo multibrand da 2,5 miliardi di euro contro i 264 milioni di dollari di turnover del '94. All'incontro di Manhattan hanno preso parte anche John Demsey, global brand president di Estée Lauder, Aerin Lauder, vicepresidente del global advertising di Estée Lauder, partner dell'operazione di lancio del marchio Tom Ford. L'altra azienda coinvolta è l'italiana Marcolin di Longarone (Belluno) società nella quale sono entrati anche Diego e Andrea Della Valle, rilevando il 24% del capitale. ´Sono molto contento dell'accordo raggiunto da Marcolin con Tom Ford', ha detto Diego Della Valle, presidente di Tod's group (che ora dagli addetti ai lavori è dato in pole position per la produzione della pelletteria del designer Usa), ´da tutti riconosciuto come uno dei protagonisti della moda mondiale. Il fatto che Ford abbia deciso di affidare a Marcolin il business dei propri occhiali conferma la mia convinzione che questa azienda ha delle enormi potenzialità di sviluppo, focalizzandosi sulla grande qualità del prodotto. La forte stima personale che ho per Tom Ford e la grande amicizia che mi lega a Domenico De Sole hanno aiutato a portare a termine l'accordo in tempi brevi'. Ieri mattina all'apertura delle contrattazioni le azioni Estée Lauder perdevano 0,14 cent e viaggiavano a quota 45 dollari. La scorsa settimana invece il titolo era stato oggetto di upgrading da parte di più d'una banca d'affari. Il giudizio di JP Morgan era passato da neutral a overweight, ovvero sovrappesare rispetto all'intero listino. E la raccomandazione di Smith Barney è ora buy (comprare, contro il precedente giudizio di hold, mantenere) con un target price a 52 dollari contro il precedente prezzo obiettivo di 48. La Tom Ford company è una società privata presieduta da De Sole, mentre Ford ne è il ceo. L'ex presidente e amministratore delegato di Gucci group ha raccontato a MFF i progetti e gli obiettivi di questa nuova avventura. A chi fa capo il brand Tom Ford? Abbiamo creato una newco, una società privata nella quale io sono chairman e Tom è amministratore delegato. Abbiamo due uffici, uno a Los Angeles e un altro che sarà aperto a Londra. Avete dei backer finanziari? No, siamo solo io e Tom. Non ci sono investitori o azionisti esterni. Quali prodotti saranno marchiati Tom Ford? Oggi annunciamo due importanti licenze. Quella con Estée Lauder per i profumi e quella con Marcolin per gli occhiali. Con Estée Lauder l'intesa è articolata su due fasi distinte. Per quest'anno lanceremo alcuni prodotti che saranno etichettati ´Tom Ford for Estée Lauder'. Non abbiamo ancora deciso se si tratterà di prodotti di skincare o di makeup ma saranno comunque rivisti e riaggiornati da Tom Ford. Questo per non perdere l'importante stagione natalizia e anche per far circolare il nome. Nella primavera 2006 la linea sarà estesa a un numero maggiore di prodotti. Per realizzare

mf fashion - 13 Aprile 2005

un profumo invece occorrono circa 18 mesi, quindi solo nell'autunno 2006 debutterà la prima fragranza a marchio Tom Ford. Il primo prodotto sarà un profumo femminile e poi sarà seguito da un'estensione della linea. Quando debutterà invece l'eyewear prodotto da Marcolin? La prima collezione di occhiali da sole e montature da vista firmata Tom Ford sarà presentata al trade nel prossimo mese di ottobre 2005 al Silmo di Parigi. Mentre l'eyewear arriverà nei negozi all'inizio del 2006 (i tempi di sviluppo di una linea di occhiali da zero, secondo quanto riferito dalla Marcolin, andrebbero dagli otto ai 12 mesi, ndr). Abbiamo scelto Marcolin per l'elevato livello qualitativo e l'attenzione prioritaria che l'azienda intende destinare al brand Tom Ford. Poi perché riescono a interpretare con coerenza il prodotto e il brand Tom Ford e inoltre perché creeranno un prodotto customizzato e molto sofisticato, con una distribuzione selettiva. L'ingresso nel portafoglio di Marcolin potrebbe compensare o sostituire a regime l'uscita di Dolce & Gabbana, che passeranno alla Luxottica di Leonardo Del Vecchio? Sicuramente posso dire che l'azienda ha una grandissima fiducia nel brand. E che Tom Ford è un tassello molto importante nella strategia di rilancio della Marcolin. Che ruolo ha giocato Diego Della Valle in questo accordo, all'indomani dell'ingresso nel capitale di Marcolin con il fratello Andrea? Diciamo che Diego ha svolto un ruolo determinante. Che durata hanno i contratti? Sono entrambi contratti di licenza di lungo periodo. Quello con Marcolin scadrà nel dicembre 2010. Dopo profumi e occhiali ci si aspetta anche l'abbigliamento, specialità di Tom Ford. Quando debutterà nel prêt-à-porter? Abbiamo in mente un progetto di diversificazione del brand Tom Ford e abbiamo molte idee in ballo al momento. Questo è un progetto a lungo termine. Che cosa può dire delle indiscrezioni che da tempo vedono Zegna come vostro partner produttivo per il prêt-à-porter Tom Ford? Sono tutte bufale. Non c'è alcun accordo con Zegna. E non mi compro Agnona (società controllata da Ermenegildo Zegna, ndr). Ma Zegna, che produce Gucci e Saint Laurent di Gucci group, potrebbe produrre anche una linea concorrente come Tom Ford? La nuova gestione guidata da Robert Polet non potrebbe porre un veto? Non mi risulta che al momento ci sia alcun veto. Legalmente non credo lo possano fare. Zegna produce anche per Armani e Versace. Come saranno posizionati i prodotti Tom Ford? Attualmente non posso fornire cifre comunque sarà un posizionamento ´prestige' ovvero di altissimo livello come brand del calibro di Chanel, Hermès e Louis Vuitton. Tom Ford proseguirà anche la sua avventura cinematografica? Sì, ha fondato la sua società di produzione, ma questo è un business a parte che non riguarda la newco.


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Rick Owens

Il teatro Kabuki. Le follie dell’Extreme sport channel. L’anima pragmatica di Los Angeles e quella flamboyant di Parigi. Rick Owens, egocentrico profeta del grotesque, racconta il suo esperimento maschile. Giocato fra amore e morte. Michele Bagi

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il profeta vanitoso del glunge, sintesi tra glamour e grunge. E l’esteta notturno di una sensualità made in Los Angeles. Rick Owens è l’ultima new entry del menswear. Clone di Iggy Pop, ha iniziato la sua carriera negli anni 90 dopo aver concluso gli studi d’arte. Oggi, oltre alla sua linea di abbigliamento e a una collezione di arredamento, collabora con lo storico marchio Revillon. E il prossimo mese inaugurerà la sua prima boutique monomarca a Parigi, nel Palays Royal. Per raccontarsi sceglie un colore, il Dust, un grigio «sporco e delicato». Ma come si definiribbe? «Di base sono un egocentrico… lavoro da solo e mi piace essere solo. Ho molta difficoltà nel far entrare qualcuno nel mio mondo. Sono una persona indipendente, impulsivo. E mi piace che la mia creatività scaturisca in questo modo, senza controllo». Domanda. Come definirebbe il suo mondo? Pragmatic flamboyant… il pragmatismo deriva dalle mie origini americane, dalla semplicità che tutto ciò comporta, dall’essere un po’ naif e soprattutto dall’ossessione per l’opulenza, il decorativismo eccessivo dell’Europa. Il contraltare è la follia, l’eccesso, il superfluo. L’amore per gli anni 70, per la couture non solo come abiti da indossare in un’occasione speciale ma come daywear elegantemente folle. Dal sogno che evoca una T-shirt. Dall’eleganza surreale di una drag queen… regina cheap di ogni giorno. Ed è da questo ballo di opposti che è nata l’installazione presentata a Pitti (una statua a grandezza naturale raffigurante il designer mentre sta urinando, ndr)? Credo di sì… quella statua era stata creata per la mia casa di Parigi e lì verrà collocata. Ho solo voluto raffigurarmi nel modo che mi è più congeniale, un misto melodrammatico di euforia e di tragedia. Diciamo che è stata una raffigurazione mitologica di me stesso. Nei suoi lavori è sempre presente un elemento folle, grottesco. Perché? Perché detesto la perfezione, non mi piace l’idea che il mio lavoro appaia troppo smart, troppo preciso. Ho sempre amato il caos, fare qualcosa di assurdo. In un certo senso quello che mi rappresenta meglio è il teatro Kabuki… il primo spettacolo che ho visto è stato un’iniziazione. A un mondo in cui tutto è esagerato, artificiale. In cui la silhouette degli attori viene modificata e distorta.

Ma lei come vede il menswear oggi? R. So una cosa, che ogni uomo vuole essere sensuale ma si farebbe uccidere prima di ammetterlo… personalmente ho un’idea cartoon dell’abbigliamento maschile, un frullato di archetipi differenti. Di stilemi che sono sopiti nella mente di ogni essere umano. Di figure serie. Il prete. Il militare. Il cowboy o il giudice. Il maestro di scuola. Sono frammenti di figure istituzionali. Tutti ritratti maschili che l’hanno ispirata nella collezione di debutto… R. In un certo senso sì, ma il cuore di questa collezione è stato legato allo sport. Per un certo periodo di tempo a Parigi e in giro per il mondo mi incantavo a vedere in tv le immagini di Extreme sport channel e dello snowboard. È incredibile vedere i ragazzini fare cose assurde, semplicemente perché si sentono invincibili e hanno voglia di fare qualsiasi cosa. Un po’ come accade ai ragazzi di Jackass (reality-cult trasmesso da Mtv, ndr). Per loro lo sport non è competizione contro qualcuno, è solo sfida contro se stessi. Ed è prima di tutto un’espressione di gioia. Come la danza. Come tutte le forme di espressione primitiva. E io sono molto primitivo nelle mie emozioni. In che senso? Sono sempre stato affascinato dal gioco quotidiano tra amore e morte. In tutto il mio lavoro ho sempre giocato tra questi due estremi, tra questi opposti che raccontano le emozioni più strong. Per esempio la sessualità è fondamentale quando si disegna un abito per una donna… vesto signore di 40 anni che vogliono essere sexy, seducenti, attraenti. Forse come non lo erano nemmeno a 25 anni. Eros e Thanatos sono sempre stati due cardini del mio lavoro creativo. Hanno sempre permeato tutta la cultura dell’uomo, dalla mitologia alla religione, dall’opera al teatro. L’opera in particolare è un po’ il suo feticcio. Perché? È la summa del piacere… l’ascolto fin da quando ero un bambino introspettivo, timido. Sono cresciuto ascoltando arie liriche. La sua preferita? La Salomé di Strauss. È una storia estrema come sono io. Di sesso e di morte. Di tenerezza e ridicolo. Bella e grottesca. In fin dei conti è la storia di una ragazza che distrugge qualcosa che ama e che non può avere. È una fiaba egocentrica e vanitosa come sono io. È un racconto primitivo, stupido. Perché cosa c’è di più stupido della vita?

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Tomas Maier @ Bottega Veneta Ha fatto diventare la maison del gruppo Ppr-Gucci un vero fenomeno. Grazie a fatturati in costante crescita e raffinati accessori must-have. Dopo il debutto nel menswear, Tomas Maier pensa già a un’altra sfida: il furniture. Michele Bagi

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imido e riservato. Pragmatico, algido, dall’anima essenziale. Tomas Maier è la voce deluxe di Bottega Veneta. Con un passato da Hermès e Revillon, è salito sul trono della maison nel giugno del 2001. Prima ha raccontato il verbo della griffe del gruppo Ppr-Gucci sussurrando un lusso estremo, discreto. E i fatturati gli hanno dato ragione. Tanto che il marchio dell’intrecciato ha archiviato il 2005 con un fatturato di 160 milioni di euro (+60%) e l’obiettivo è quello di traghettare la maison verso i 200 milioni di euro. Oggi Maier continua a salvaguardare l’anima nobile, aristocratica della brand vicentina. E per questa prima vera collezione maschile è partito da un solo assunto: «Non mi piacciono gli uomini ridicoli… con il womenswear c’è la possibilità di osare molto di più. Con una collezione uomo è diverso. Hai più regole da seguire. È una sfida più stimolante. Quando penso a un look maschile penso a qualcosa che renda bello un uomo». Ma quale è stato il punto di partenza? Di base quando disegno penso al mio guardaroba e cerco di capire cosa mi manca, quale pezzo vorrei in quel momento. Diciamo che l’uomo di Bottega nasce da un percorso autobiografico. Sì. Magari mi trovo a riproporre singoli abiti, anche vecchi di anni, ma che in quel momento ho voglia di tornare a indossare. Come lavora nel progettare una collezione? Di base seguo tre step… la scelta dei colori in primis, è fondamentale. Poi la ricerca sui materiali e, per ultima, la costruzione della silhouette. Ma su tutto c’è un rispetto estremo, un' ossessione per far sì che tutto evochi la tradizione italiana di questo marchio. Io non sono italiano ma lavoro con una maison che affonda la sua storia nell’artigianato e in ogni collezione cerco di inserire un richiamo, un accento discreto, un codice segreto. Per esempio? Beh, questa stagione per decorare le borse ho pensato ai portoni di Firenze, ai fregi che incorniciano le case del centro storico. Ho sempre amato l’architettura e le arti decorative. Amo il décor solo se sposato con la funzionalità, se un motivo non ha senso è meglio cancellarlo… amo l’opulenza ma solo se ha una ragione d’essere. E quale è il suo legame con l’intrecciato, simbolo della griffe ed emblema, per eccellenza, dell’effimero?

Lo adoro, è geniale, permette di realizzare bag e accessori di una morbidezza che non si potrebbe ottenere con nessun altro pellame. Se non avesse senso non l'avrei scelto come sigillo di questo progetto. Cosa non può mancare nel guardaroba dell’uomo Bottega? Una giacca, sartoriale, corta, con le spalle piccole. E poi un paio di scarpe, magari con un'allure molto tradizionale, storica. Quanto è importante l’archivio nel suo lavoro sugli accessori? Se devo essere sincero, pochissimo… quando sono arrivato l’archivio era quasi inesistente. Negli anni abbiamo acquistato modelli storici recuperati in giro per il mondo e oggi abbiamo circa 200 modelli e molti disegni e bozzetti. Quante persone lavorano con lei? Nell’area creativa sono circa 20, e in comune abbiamo una stessa visione… legata all’handmade, all’esclusività, agli special order. Adoro questo concetto. Mi piace l’idea di avere una cosa che è stata studiata, disegnata, creata soltanto ed esclusivamente per me. Credo nelle cose speciali, individuali. Amo i piccoli pezzi frivoli a cui non si può dire di no. Nella vita reale il total look non esiste più, né come idea né come realtà. Oggi però il progetto di Bottega Veneta ha un linguaggio trasversale, che spazia tra moda e piccoli oggetti di design… Certo e al prossimo Salone del mobile di Milano lanceremo una collezione di accessory house, di pezzi di arredamento da spargere in giro per la casa. Un nostro cliente vuole semplicemente comprare begli oggetti. Una borsa favolosa. Una giacca perfetta. O un pezzo d’arredamento esteticamente giusto. Non voglio certo creare la casa di Bottega… si immagini cosa potrebbe essere. Chi vorrebbe viverci? Quali sono i suoi maestri di stile? Ho lavorato per tanti e da tutti ho imparato qualcosa… non ne ho uno in particolare ma penso al lavoro di Balenciaga, a quello di Saint Laurent che ha fatto cose stupende tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli 80, a madame Grès. E se dovesse scegliere un film, una canzone o un libro per raccontare il suo lavoro da Bottega Veneta, cosa sceglierebbe? Forse The best is yet to come di Frank Sinatra. L’ho sempre amato, con questo suo charme sofisticato, con questa sua eleganza incredibile. Ho letto più di una volta la sua biografia ed è stato davvero un grande personaggio. E poi in fondo io sono un persona molto ottimista.

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Raf Simos @ Jil Sander A gennaio ha portato in scena la prima collezione uomo. E in questi giorni manderà in pedana il womenswear. Raf Simons, profeta belga delle forme ascetiche, è la nuova anima della maison tedesca. Per sei mesi ha studiato la storia della griffe, «per mettere a punto un progetto rispettoso e coerente, in grado di raccontare la purezza e la fragilità di questo mondo». E oggi sta lavorando per far capire alle nuove generazioni che «Jil Sander era ossessionata dalla purezza… non era una designer minimalista, soltanto rifiutava ogni décor senza ragione». Giampietro Baudo

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iflessivo. Introverso. Discreto. La nuova anima creativa di Jil Sander ha lo stesso sguardo algido della sua fondatrice. Raf Simons, 37enne belga con un passato di architettura e interior design, è la nuova voce della regina dell’essenzialismo. Scelto personalmente da Patrizio Bertelli, numero uno del gruppo Prada a cui fa capo la brand, si è seduto sul trono della griffe a metà 2005. Ma per sei mesi ha riflettuto, ha studiato la storia della maison tedesca dal passato burrascoso. Prima il divorzio, non amichevole, tra madame Jil Sander e mister Bertelli (2000). L’interregno di Milan Vukmirovich e il ritorno della stilista al timone creativo della sua fashion house (2003). Nel 2004 la rottura definitiva e la nuova uscita di scena, ancora più clamorosa di quella precedente. Perché dopo 36 anni Heidimarie Jiline Sander abbandonava definitivamente la sua creatura. Il resto della storia è fatto di tagli del personale e spostamenti della produzione in Italia, di collezioni ibride assemblate dallo storico staff creativo fedele alla visione della stilista. Il tutto fino al 26 maggio dello scorso anno. Quando Simons, pronto a festeggiare il decimo compleanno del suo marchio, ha ricevuto un regalo inatteso. È diventato direttore creativo della griffe. Lo scorso gennaio ha svelato il menswear e in questi giorni porterà in scena la prima collezione donna della sua new era. «È stata una sfida che non potevo rifiutare… quando mi hanno proposto questo progetto non potevo che essere onorato di lavorare per un marchio così puro, lineare, essenziale. Anche perché credo ci siano molti punti in comune tra la mia visione e i valori di questa maison, che ha scritto la storia della moda moderna». Qual è il suo primo ricordo legato a Jil Sander? Ero davvero molto, molto giovane… avrò avuto 12, 13 anni ed è incredibile, ancora oggi mi ricordo che sfogliando uno di questi trashy magazine adolescenziali del Belgio mi sono soffermato su un questionario affettivo. A corredo del testo c’era una fotografia gigante, di una coppia di ragazzini in una stanza e sullo sfondo, appeso alla parete, troneggiava un poster gigante con un’immagine pubblicitaria del profumo Jil Sander… credo l’avessero rubato da qualche parte! Come è stato accolto quando è arrivato in maison? Benissimo. Sono rimasto sotto choc venendo a contatto con questa realtà… ci sono persone che lavorano in azienda fin dall’inizio e che ancora oggi, nonostante Jil Sander non sia più fisicamente qui, sono più che dedicate a questo progetto. Hanno una mentalità strettamente legata alla griffe, ancorata alla sua storia. È come se fossero votati. Ed è strano vedere tutto questo phatos in una realtà dall’apparenza algida.

Quante persone lavorano con lei? In totale siamo circa 15, sei sullo sviluppo dell’uomo e sette per lo studio e la creazione del womenswear. È stato nominato a giugno dello scorso anno e prima di presentare la prima collezione ha aspettato più di sei mesi. Come mai? Non amo gettarmi a capofitto in qualcosa che non conosco, sono una persona molto riflessiva, amo pensare, cercare, studiare. Quando abbiamo firmato il contratto, inizialmente il debutto era previsto nella primavera-estate 2006. Ma ben presto ci siamo resi conto che non era possibile. Che era meglio aspettare una stagione in più per poter dare il via a un progetto rispettoso di una storia così importante. Ho usato questo tempo per investigare, per capire il lavoro di Jil Sander. Ho voluto iniziare questa avventura con qualcosa che fosse mio completamente e che fosse la mia voce su una musica scritta da qualcun altro. Volevo che tutto quanto fosse il più possibile rispettoso del lavoro compiuto da Jil Sander in tutti quegli anni. Il primo step è stato il menswear. Per questo debutto a che cosa ha pensato? A un triennio in particolare, tra il 1997 e il 2001, è il periodo della griffe in assoluto a cui sono più legato… il lavoro compiuto in quegli anni negli atelier della maison è stato incredibile. Moderno, contemporaneo, assolutamente attuale. Ho potuto vedere alcuni pezzi d’archivio e ho iniziato a pensare. Nella mia memoria avevo delle forme, delle silhouette che mi raccontavano questo mondo. Alcuni coat boxy, giacche oversize, dei suit classici. Volevo scrivere un dress code nuovo. E ho cercato di capire se il mio codice di lettura era quello corretto. Ha scelto un percorso sartoriale, ancorato alla tradizione maschile. Perché? Perché il mondo di Jil Sander ha sempre avuto un feeling contemporaneo senza essere troppo fashionable, senza essere schiavo delle tendenze. Questo marchio è sempre stato border line, esploratore di un nuovo linguaggio del vestire. Non volevo che questa collezione fosse gridata, urlata… preferivo un debutto sussurrato. Una collezione piccola ma con una visione molto precisa. E il womenswear? Per lei rappresenta un debutto in assoluto, visto che non ha mai disegnato una collezione donna… Ha paura? Un po’ sì, mi piace parlare a un mondo nuovo. È una sfida che mi affascina. Come racconterebbe il mondo di Jil Sander? Riduzione degli elementi. Essenzialità… Semplicemente, credo che la scelta di Jil

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Sander sia stata una sola, eliminare tutto quello che non era necessario, tutto quello che non aveva un senso. Quali pensa siano i cardini di questa maison, su cui lavorerà in modo strong? In primis, una forte ricerca sui materiali, sui tessuti. Uno studio importante nelle forme. E un bilanciamento calibrato dei colori… E se ne dovesse scegliere uno solo per raccontare questo mondo quale userebbe? In assoluto il bianco. Riassumendo la sua vision in una parola? Purezza e fragilità. Jil Sander era ossessionata dalla purezza. Credo che in più di un’occasione abbia anche dichiarato che detestava la parola «minimalismo». Era troppo concettuale come idea, come approccio… Lei, semplicemente, rifiutava tutto ciò che non aveva un senso. E io sto lavorando perché questa filosofia di stile venga capita anche dalle nuove generazioni. Perché ha accettato questa sfida?

Di base mi piacciono le sfide, e poi avevo voglia di crescere, di diventare maturo… Quando mi è stato offerto questo progetto non potevo dire di no. Avevo voglia di misurarmi con un mondo differente rispetto al mio. E poi ancora oggi ho il mio marchio in cui posso esprimermi, sperimentare senza regole. Questo è un esercizio per capire la mentalità dell’universo Jil Sander. Ha debuttato con il menswear e in questi giorni svelerà la prima collezione di womenswear. Ma il suo incarico non prevede soltanto l’abbigliamento… Diciamo che ho firmato per il pacchetto completo. E dopo aver lavorato sull’area fashion mi occuperò anche di altri segmenti. Come il restyling architettonico delle boutique monomarca. Che cosa pensa di avere in comune con questa maison? La sobrietà. La voglia di raccontare un progetto sottile, sussurrato. Discreto… ma assolutamente rigoroso. E soprattutto la ricerca intima di una modernità. Nella silhouette. Ma anche in un singolo dettaglio, minimo, che nessuno prenderebbe in considerazione.


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Donatella Versace @ Versace «Soltanto quando si è in tensione si può creare davvero... per una persona felice è difficile leggere il nuovo». Parola di Donatella Versace, che dipinge una donna strong, determinata, decisa. La Medusa rialza la testa, complice la riduzione delle perdite. E a chi la copia risponde: «Grazie, è un’ottima cura per l’ego». Giampietro Baudo

È

stata la regina del glam. L’esteta sfacciata di una femminilità esibita. Il profeta di una sensualità sfrenata. E ora cambia pelle. Delinea un portrait arrabbiato, deciso, strong. La renaissance di Donatella Versace, sacerdotessa biondo platino della Medusa, è scandita da un colore: una sfumatura intensa di blu notte. «Tutto questo nero mi fa tanto eighties & ninenties. Mi sono innamorata di un blu navy profondo, notturno, crepuscolare, dark. Diciamo che è il mio colore dell’oggi». Oggi la leonessa di via del Gesù è pronta a ruggire di nuovo, grazie anche ai conti della maison tornati in carreggiata dopo la cura messa a punto dall’a.d. Giancarlo Di Risio (nel 2005 il fatturato è stato di circa 300 milioni di euro a fronte di una perdita pari a 15 milioni di euro, contro i 95 mln del 2004, ndr). «Siamo in un momento molto importante, abbiamo lavorato tanto in questi anni, ci sono stati cambiamenti forti e intensi. Oggi credo che davvero ci sia una nuova energia nel cuore della Versace». Ma lei, per che cosa vorrebbe essere ricordata nella storia della moda. Di quale rivoluzione vorrebbe vantare la paternità? Vorrei riuscire a portare avanti un progetto, quello di creare un ibrido tra hi-tech e moda. I lavori sulle silhouette, sulle forme, sul nudo. Tutto è già stato fatto. Io vorrei riuscire a creare un guardaroba veloce, moderno... 30 abiti realizzati in tessuti leggerissimi, ingualcibili. Ma con un sex appeal forte. Ma come, la regina del glam, dello sfavillio hollywoodiano, della sensualità moderna sta cambiando rotta? (Sorride) Forse sono solo arrabbiata... soltanto le persone sempre in tensione, tormentate, possono creare davvero. Per un’anima felice è più difficile studiare qualcosa di nuovo. E lei allora come vede la donna Versace oggi? È una donna forte, determinata, una lottatrice. È una donna a cui non piace soffrire, che non è romantica e tanto meno passiva. È una donna tough, decisa. E allora l’uomo Versace come deve essere? Deve essere in grado di darle ordini, di tenerla a bada. E mi creda è molto difficile. Facciamo il giochetto di sempre... che cosa non può mancare a questa donna? Come si veste? Diciamo che è lineare, è grafica ed è soprattutto arrabbiata. Per cui indossa giacche corte, piccole, con sotto un paio di fuseaux. Porta tacchi grossi e ankle boot. Ha in mente una musa? Non una, tante... tutte quelle che si possono incontrare guardandosi intorno. D. Ma perché questa stagione ha dipinto un portrait femminile così arrabbiato, strong? Semplicemente guardo la strada, ascolto musica, vado al cinema, cerco di visitare qualche mostra, quelle più d’avanguardia. Mi piace curiosare fra tutto ciò che è giovane, ancora sconosciuto. Sono un’esploratrice, una curiosa per natura. Mi piace sperimentare. Prima ero molto più orientata sulla musica. Ma oggi questo ritorno

del neo-punk non mi stimola così tanto. Preferisco il cinema. I film indipendenti della nuova scena tedesca. Con quelle luci lineari, con una grafica minimale e purista, con un utilizzo geometrico delle ambientazioni. L’ultima collezione è arrivata da qui, sono davvero affamata di tutto ciò che è nuovo. D. Nelle ultime stagioni, però, il suo lavoro e quello della maison sono stati abbondantemente citati-saccheggiati da tanti suoi colleghi. Che effetto le fa? R. Non nascondo che mi piace... è un’ottima cura per il proprio ego. E poi vuol dire che quello che faccio e che Gianni ha fatto piace ancora. E soprattutto che è ancora molto moderno e attuale. Per il suo lavoro, quanto è importante l’archivio della griffe e il passato stilistico messo a punto da Gianni Versace? È fondamentale... ma non ho bisogno di andare a vedere gli abiti, di andare a cercare una foto, un disegno. È tutto qui, nella mia testa. Quando Gianni creava io gli ero sempre accanto. Io ero lì. E spesso mi ritrovo a dire ai miei ragazzi di recuperare anche alcuni abiti che erano stati scartati e che non erano andati nemmeno in sfilata. In fin dei conti Gianni ha fatto già tutto, sarebbe impossibile non citarlo. Quante persone lavorano con lei nello staff creativo? Siamo in pochi, come una famiglia solida e ristretta. Faccio entrare pochissime nuove persone... e quando arrivano è perché sono state scelte in modo specifico. Sono state davvero volute. Sulla prima linea sono in cinque più uno, sempre gli stessi da tanti anni. E poi ci sono tre ragazzi sul denim e due sulla Versus. Ci divertiamo ancora tanto. Come lavora con loro? Beh, è strano. Io mi siedo con loro intorno a un tavolo e inizio a parlare, a raccontare quello che ho in mente, ha spiegare una mia idea. Mentre loro disegnano. Ogni tanto mi fermo, guardo che cosa è uscito e cerco di capire se è quello che avevo in mente. Altrimenti stop e si ricomincia. Gianni mi ha insegnato a lavorare così. Guarda le sfilate dei suoi colleghi... e di chi ammira il lavoro? Mi piace quello che stanno facendo Olivier Theyskens per Rochas e Nicolas Ghesquière per Balenciaga, hanno fatto un lavoro ottimo. E poi ammiro Miuccia Prada. È una donna forte, intelligente, capace di provare emozioni forti. Da un certo punto di vista siamo molto simili. Forti, indipendenti, determinate. Anche perché, in modi differenti, la vita ci ha messo alla prova tutte e due. Come si immagina Donatella Versace tra dieci anni? Non lo so, davvero. Non programmo nulla. Sono una perfezionista ma amo il cambiamento, la mutazione continua. Altrimenti mi annoio. Oggi disegna abiti, accessori, gioielli, orologi e home collection. Si diverte ancora come all’inzio? Tanto, ho in mente un lifestyle che va oltre il singolo abito. Mi piace poter raccontare un mondo, dipingere un concetto con tutte le sue sfumature. Immaginare un abito e tutto quello che gli sta intorno... anche perché con abiti come quelli di Versace bisogna star seduti su un certo divano, bevendo da un certo tipo di bicchiere e mangian-

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do in un certo tipo di piatto in porcellana (sorride di nuovo). Seguendo il progetto di riorganizzazione aziendale avete però chiuso la haute couture. Le manca questo mondo? Mi manca la sfilata dell’alta moda, il resto no. Il business della couture, anzi, sta andando davvero a gonfie vele. Gestiamo tutto dall’atelier di Milano, in via del Gesù, dove vengono realizzati i disegni e le sarte cuciono gli abiti. Vendiamo circa 42 pezzi ogni stagione. Organizziamo piccole presentazioni in maison e le clienti sono

più contente di avere un abito ancora più esclusivo, che non viene fotografato su tutti i magazine del mondo. Che è davvero solo loro. Con questa politica abbiamo raddoppiato il giro d’affari. Invece, quanto le manca suo fratello Gianni? A me tanto... come fratello e come amico, lavoravamo ed eravamo sempre insieme. Alla moda credo manchi davvero il suo genio, la sua creatività folle. Soprattutto in questo momento.


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Giles Deacon

«Mai troppo bon ton e mai troppo estrema. È sull'equilibrio di queste due componenti che si gioca tutta la mia ricerca». Parola di Giles Deacon, 36enne interprete della cool Britannia ed esteta raffinato di una femminilità aristocratica. Biologo marino Mancato sceglie due guru dello chic francese come maestri: André Courrèges e Yves Saint Laurent. Cristina Manfredi

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enialità made in England. Estetica aristocratica, da corte. Giles Deacon, 36 anni nel 2006, non è più una promessa del fashion world londinese. Nel giro di poche stagioni è diventato il nuovo interprete della cool Britannia. Una laurea alla Saint-Martins, una tappa a Parigi da Jean-Charles de Castelbajac, il rientro in UK da Debenhams. E poi il grande salto, come designer di Bottega Veneta nell'era pre-Ppr. Un curriculum che farebbe pensare a un intento d'acciaio, a un sogno coltivato sin dall'infanzia. E invece la fashion people applaude un biologo marino mancato. Perché è stata una bocciatura a scuola a infrangere i sogni da ricercatore dello stilista nato a Darlington. Da quel momento Deacon ha sfoderato, con grande naturalezza, sensibilità estetica e brio progettuale. La brusca interruzione del rapporto con la maison vicentina, seguita dalla cessione del brand al gruppo Ppr, oltre a una serie di problemi di salute, hanno invece impresso un'ulteriore svolta alla sua carriera. Dallo stop forzato del ricovero ospedaliero, prende forma l'idea di mettersi in proprio. E due anni fa il battesimo sul catwalk della London fashion week. Da quel momento, che cosa è cambiato nel suo modo di intendere la moda? Da un certo punto di vista non molto, perché io continuo a seguire personalmente non solo l'aspetto prettamente creativo, ma anche le campagne vendita e il contatto con i clienti. Tuttavia, se mi guardo indietro mi ritengo molto soddisfatto di quanto sono riuscito a costruire in così poche stagioni. La collezione ha saputo rendersi ben definita agli occhi di stampa e compratori, nonostante il cambio di nome (da Giles Deacon al semplice Giles, ndr). E credo che i tempi siano maturi per sviluppare anche gli accessori. Quali sono i cardini del Giles style? È strano, ma mi è estremamente semplice dar vita a un universo estetico ben preciso con i miei disegni, mentre trovo terribilmente difficile trasmettere la stessa idea con le parole. Credo che tutto il mio lavoro abbia una forte componente di frontiera. Mi piace lambire i confini dello charme e di una certa vena contestatrice che in fondo mi appartiene. Le mie collezioni parlano sì di eleganza, ma di un'eleganza sovversiva. Mai troppo bon ton. È sull'equilibrio di queste due componenti che si

gioca tutta la mia ricerca. Se dovesse scegliere un volto come testimonial delle sue creazioni… Non c'è nessuna donna a cui potrei affidare quel ruolo. Il fatto è che io non ho una musa ispiratrice, ma cinque o sei amici che considero come punto di riferimento quando mi metto all'opera. Se mi viene in mente un abito, subito dopo mi domando se a loro potrebbe piacere e poi mi regolo di conseguenza. Ecco perché non ho mai cercato una testimonial ideale per il mio lavoro. Pensandoci, però, direi che potrebbe essere un'attrice di quelle che si vedono nelle produzioni low budget di certi registi indipendenti. Un personaggio stylish e strambo allo stesso tempo. Tra i fashion designer del passato c'è n'è qualcuno che lei considera il suo maestro? Credo che Courrèges e Yves Saint Laurent siano stati degli insuperati maestri di stile. Mi piace guardare il loro lavoro e lasciarmi incantare dalla bellezza di capi che abbinavano ad un'incredibile apporto di novità estetica una maestria tecnica fuori dal comune. E anche grazie al fascino della loro verve creativa che sono stato catturato dalla moda. Come giudica il womenswear in questo momento? Che direzione sta prendendo? È difficile esprimere un'opinione generica su un panorama tanto complesso e sfaccettato. Posso raccontare la direzione che sto prendendo io, dato che è l'unica che conosco a fondo… anche se non amo molto fare progetti a lungo termine. Mi sento pronto ad ampliare i miei mercati di riferimento e quello italiano rientra sicuramente tra i miei obiettivi principali, sia per quanto riguarda la distribuzione vera e propria sia per quanto concerne la confezione del prodotto. Non voglio trasformarmi in una realtà eccessivamente industriale e spersonalizzata, quanto piuttosto a trovare un buon compromesso tra la dimensione intima e raccolta da cui provengo e la consistenza di certi volumi d'affari. A mio parare questa non è solo un'esigenza dettata dal mio carattere e dal mio modo di affrontare il lavoro. Anche il cliente finale è ormai stanco di mega brand ed è sempre più alla ricerca di capi peculiari, di carattere, dall'individualità forte e dalla qualità elevata. Ed è esattamente su questo tipo di richiesta che io intendo continuare a concentrarmi.

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Alessandro Dell'Acqua

«Non chiamatemi più giovane stilista». Arrivato alla soglia dei 43 anni anagrafici e del decennale della maison che porta il suo nome Alessandro Dell'Acqua si ribella al ruolo di eterno emergente. E svela una passione folle per le costruzioni di Azzedine Alaïa, «l'unico couturier ad aver reso le donne sexy e non volgari». Marco Cortesi

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esteggia il decimo compleanno senza clamori. Più della voglia di celebrarsi, Alessandro Dell'acqua punta a crescere. Il designer napoletano, esteta di una femminilità sensuale e seducente, pittore sexy del nero+carne, in un decennio ha creato un mondo estetico tipically italian. Dove neorealismo ed eleganza artistica si mischiano con la seduzione mediterranea. In testa, un maestro: Azzedine Alaïa. E ripensando al passato, tra acuti di popolarità e travagli manageriali, c’è un solo desiderio: «Non consideratemi più giovane stilista!». Dieci anni di moda… qual è il suo bilancio? In realtà non li sento, è come se fossi all'inizio. Non è un traguardo o un arrivo. Un ricordo importante per riassumere la sua carriera? La prima sfilata. Un'emozione molto forte. Anche se ora lo è ancora di più. Lì ero anche un po' incosciente, ora c'è più tensione di prima. È stato incredibile… i look sono piaciuti molto ma non abbiamo venduto un solo capo. In questo racconto lungo un decennio, quali sono stati i tre momenti più importanti? Il profumo, con la campagna realizzata da Helmut Newton. Il debutto della linea uomo, verso la fine degli anni 90. E poi l'opening del negozio di New York, su Madison avenue. Chi o cosa le è stato più d'aiuto? Tutte le persone che lavorano e hanno lavorato con me. Grazie al loro supporto, sia nei momenti positivi che in quelli negativi. Questo è stata la mia forza. Che cosa pensa di lasciare alle persone che lavorano con lei? Credo la coerenza. Sono un po' ossessionato dall'idea che tutto sia coerente. Credo che questo sia importante, un messaggio. E poi la passione per questo lavoro. È vero ci sono problemi e difficoltà, ma dopo tanti anni il mio lavoro mi piace ancora tanto. Che cosa ha portato di nuovo nella moda rispetto agli altri? Molti mi riconoscono con l'abito a veli in color carne e nero... i miei colori feticcio.

Di cosa va più fiero nel suo lavoro? Aver portato una certa sensualità, ma senza cadere nel volgare. Pur facendo abiti sexy, ma stando sempre attento a non cadere in situazioni di volgarità. Dieci anni e… i prossimi progetti? Voglio consolidare il marchio. Voglio essere sul mercato in modo preciso. Alcuni mi parlano di una seconda linea, ma non mi sento ancora pronto. Troppo presto. Come e dove si vede tra altri dieci anni? In una casa in Grecia, in vacanza! A parte gli scherzi mi vedo ancora a lavorare. C'è una maison storica che vorrebbe disegnare? C'è n'è una ma mi vergogno un po'. Azzedine Alaïa, lui è incredibile e ho molto rispetto per lui. È un maestro. Per il suo stile preciso, sexy ma dove la volgarità non entra. Il più sensuale della storia della moda. Sempre tecnico, con lavorazioni e materiali innovativi. Quale rivoluzione della moda avrebbe voluto realizzare? Mi sarebbe piaciuto creare il nude look di Saint Laurent o gli abiti guaina di Alaïa. Chi ammira di più dei suoi colleghi italiani e perché? Ammiro molto Dolce & Gabbana. Loro fanno dei bei vestiti e li vendono. Mi piaceva molto Gianni Versace e mi piace anche Prada. È meglio fare dei bei vestiti o venderne tanti? Tutte e due. Si devono fare bei vestiti che si vendono bene. Quanto c'è nel suo lavoro della recente tradizione artistica italiana? Molto cinema. Soprattutto cinema italiano. Dal neorealismo fino agli anni 70. Tanto, li guardo e li riguardo. Sono fonte di ispirazione. Cosa avrebbe voluto fare e che invece non le è riuscito? L'attore. Mi piacerebbe fare un film, un piccolo ruolo. Sono amico di Pappi Corsicato, glielo chiedo sempre e lui mi dice che mi farà fare una parte. Ma non fa mai un film. Cosa vorrebbe aggiungere? Non voglio più esser considerato un giovane emergente. Ho vent'anni di lavoro alle spalle. Dieci anni con la mia linea. I giovani hanno 20/25 anni, io ne ho 43. Certo ho ancora tanto da fare ma non chiamatemi più giovane stilista.

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Lazaro Hernandez e Jack McCollough @ Proenza Schouler Hanno scelto i nomi delle loro madri per creare la linea Proenza Schouler. Lazaro Hernandez e Jack McCollough sono i nuovi principi della scena Usa. Grazie a un’estetica bourgeois che sconfina nel classico europeo citando icone come «Chanel, Balenciaga e Dior». E per raccontare il loro mondo scelgono uno «chic comodo, in senso letterale, figurativo ed emozionale». Marco Cortesi

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i chiamano Lazaro Hernandez e Jack McCollough. E dal 2002 sono l'anima del marchio Proenza Schouler, diventato il simbolo del nuovo american style moderno, cool e contemporaneo. I due designer si sono incontrati durante gli studi alla Parson school e da lì hanno cominciato a lavorare insieme. Prima del grande salto, hanno forgiato la loro visione estetica negli atelier di Marc Jacobs e Michael Kors. E poi il debutto in singolo sulle passerelle di New York. Tra gli applausi di buyer e stampa, famalici di un nuovo reuccio a stelle e strisce. Un forte legame con le loro origini li ha portati a scegliere i nomi delle loro mamme per creare l'etichetta («Ci sembrava un modo carino per omaggiarle. Ma non siamo più riusciti a pensare ad altri nomi quando abbiamo notato che suonavano bene assieme»). Nel 2003 hanno vinto il CFDA's Perry Ellis Award nella categoria emergenti. E hanno iniziato ad avere numerose ambasciatrici di stile, tra Hollywood e dintorni. Timidi e riservati, Lazaro confida che «da piccolo sognavo di fare il medico». Mentre Jack, nato in Giappone, giura «di essere approdato alla moda per caso… da bambino non sognavo di fare lo stilista». Ciò nonostante sono diventati le icone del cool bourgeois newyorkese. Qual è l'essenza del marchio Proenza Schouler? La nostra attenzione principale è posta nel creare vestiti che permettano a chi li indossa di poter esprimere al meglio la propria identità. Abiti che siano comodi in senso letterale, figurativo ed emozionale. Provate a definire lo stile Proenza Schouler? Lussuoso, forse un po' bourgeois… fatto di vestiti ben fatti, che donne di ogni età vorrebbero avere nel proprio guardaroba. Non ci piacciono le cose stravaganti. Lavorare in due è più facile? Dividiamo il lavoro in parti eguali. Assieme creiamo i disegni, e dopo cominciamo a lavorarci sopra, ridefinendo le idee e tutti i particolari. Ma raramente siamo in disaccordo. Quando confrontiamo gli schizzi sono decisamente simili. Abbiamo lavorato sempre insieme ed è il solo modo di lavorare che conosciamo e per noi funziona bene. Nel vostro ufficio stile si crea di più con il disegno o con la ricerca nei mercatini?

Noi disegnamo molto. Possiamo raccogliere dei pezzi o dei concetti ma per svilupparci sopra le nostre idee. Non potremmo mai rifare qualcosa che abbiamo trovato. Lavoriamo attraverso un percorso creativo, aggiungendo o sottraendo fino ad arrivare al prodotto finito, quello immaginato dalle nostre teste. È importante per un giovane designer ricevere un riconoscimento internazionale e avere il supporto della stampa? È un grande onore ricevere un premio per i propri sforzi. Ma in termini di crescita di fatturato, il supporto e il riconoscimento dalla stampa internazionale è molto importante. Il mondo è connesso… non è sufficiente avere un punto vendita in ogni paese, o avere una chiara tipologia di clienti. Noi amiamo molto la creatività e il particolare point of view europei di fashion editor, fotografi e stylist, e il loro apporto è stato fondamentale per noi. Qual è la più importante caratteristica della moda americana? Sembra che la moda americana del XXIesimo secolo sia orientata verso abiti pretty, lussuosi e portabili. Non solo sportswear, termine usato spesso come sinonimo di moda americana. La distinzione tra designer americani ed europei è poco significativa da un punto di vista creativo. Oggi con la globalizzazione e il numero elevato di mercati, è difficile immaginare un progettista che non lavori avendo come obiettivo l'intero mondo. Avete qualche designer contemporaneo che ammirate particolarmente? Siamo sempre stati ispirati dai couturies del ventesimo secolo, Chanel, Balenciaga, Dior. Non sono esattamente dei contemporanei, ma le loro invenzioni sono realmente senza tempo e sempre nuove ai nostri occhi.

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Christopher Bailey @ Burberry «il trench È in assoluto l'indumento più democratico che possa esistere… che accomuna la regina Elisabetta e Sid Vicious, un banchiere e una casalinga che va a fare la spesa». Christopher Bailey, interprete discreto di Burberry, festeggia timidamente il 150esimo anniversario della griffe. Con un desiderio: «Rispettare l'anima profondamente Brit di questa maison». Cristina Manfredi

Chissà se 150 anni fa Thomas Burberry pensava di entrare nella storia della moda inglese. Nel 1856 il suo obiettivo era semplice. Produrre capi funzionali che sapessero proteggere dalle intemperie. In realtà, però, il trench che disegnò nel 1901 si trasformò quasi subito in un cult senza tempo. La tela di gabardine con cui venivano confezionati i capi era rivoluzionaria. Ma l'intuizione geniale fu quella di unirla alla fodera check su fondo beige. Era nato un evergreen, pratico, stylish e sostanzialmente universale. Da quel momento in poi questo impermeabile strizzato in vita avrebbe fatto bella mostra di sé negli armadi nobili e non. Era nata la democrazia del trench. E nel 150esimo anniversario del marchio Christopher Bailey, direttore creativo dell'azienda londinese dal 2001, nonché artefice della sua grande rinascita, racconta che cosa significhi essere a capo del Burberry world nel 2006. Che cos'è Burberry per Christopher Bailey? È una domanda complicata! È più semplice dare una serie di parole chiave che credo sintetizzino perfettamente che cosa rappresenta quest'azienda per me. Burberry è innanzitutto British. Gli inglesi hanno un rapporto particolare con l'abbigliamento, molto personale e al tempo stesso mai troppo studiato, mai affettato. Penso alle ragazze inglesi e a quella loro eleganza un po' scarmigliata, fatta di abiti in cui scivolare dentro senza passare troppo tempo davanti allo specchio. In questo senso Burberry è absolutely Brit. Poi Burberry è il trench, capo di culto per eccellenza. È uno stile di vita, è un classico intramontabile, ma riletto in chiave del tutto moderna. E soprattutto è democratico. Come può essere democratica una luxury brand? Pensi alla storia del trenchcoat… non è forse democratico un indumento che trae ispirazione dall'abbigliamento rurale di fine Ottocento, che si trasforma in uniforme da aviatori durante la Grande guerra e che diventa parte integrante del guardaroba civile dagli anni 30 in avanti, riparando da pioggia e vento tanto la regina Elisabetta quanto Sid Vicious? È come il jeans, è per tutti. Anche oggi che il marchio è inserito tra quelli più cool del momento, Burberry riesce a vendere a chiunque, a essere accessibile. In effetti pochi marchi possono vantare un'identità tanto forte. È un vantaggio o uno svantaggio quando crea? Non mi sono mai sentito in difficoltà a causa di quest'eredità tanto significativa. Al

contrario, vivo la mia esperienza all'interno di Burberry come un momento di intenso stimolo intellettuale e creativo. È vero che il mio lavoro poggia su basi solidissime, ma allo stesso tempo c'è un grande margine di sfida con cui mi piace davvero confrontarmi. Un brand di questo livello ha un perimetro entro cui ci si deve attenere, però si tratta di confini molto ampi, che possono essere esplorati e, perché no, anche modificati. Un anniversario come quello che stiamo festeggiando quest'anno non si raggiunge se non si ha la capacità di percepire e fare propri i cambiamenti del mondo. Quanto sono importanti gli archivi nel suo lavoro? Mi piace utilizzare l'archivio della casa madre, ma lo faccio più che altro per capire il mondo in cui mi sto muovendo. Per me non ha alcun senso ripescare un bozzetto di qualche collezione passata e riproporlo tout court. E quali sono le caratteristiche principali della Bailey-era? Spero che il mio lavoro possa un giorno essere ricordato come rispettoso del grande patrimonio che mi è stato messo a disposizione e ricco di anima, di passione, di integrità morale. E soprattutto mi auguro di essere riuscito a trasmettere un'emozione senza perdere il contatto con la realtà, con la vita vera delle persone. È difficoltoso rapportarsi con il peso di un cult come il check? Sono di indole positiva, non mi spaventa affatto avere a che fare con il check. È un'icona e come tale mi fornisce la possibilità di comunicare in modo immediato con il mio pubblico. Non avrebbe quindi il minimo senso sentirsi infastidito. Si diverte a creare un lifestyle, che comprende abiti, ma non solo? Tantissimo. Amo tutto ciò che è creazione. Certo i vestiti sono la mia passione, ma provo grande soddisfazione anche nell' ideare una candela o un profumo. Tutto può essere divertente quando c'è di mezzo la componente progettuale. Come si può far evolvere l'anima della griffe senza snaturarla? Io non penso mai all'idea di crescita, di espansione, di evoluzione dell'azienda, ma mi concentro invece sulla capacità di capire che cosa è giusto per Burberry in quel momento. Credo molto nell'istinto, nella capacità di sentire, di riconoscere a fiuto la mossa vincente. Anziché pormi il problema di come fare, cerco piuttosto di cogliere quel feeling che serpeggia tra la gente e di soddisfarlo. In fondo è tutto un gioco di seduzione.

mff-magazine for fashion n° 33 - aprile 2006


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Martin Margiela

Poltrone che diventano gonne. Sedute che si trasformano in coat. Ma anche cornicibijoux o sofà trasformati in sensuali chemise. Lo spirito concettual-dissacrante di MARTIN MARGIELA colpisce l’arredo. Dando una vita differente a oggetti pre-esistenti, nati per essere parte di un ambiente domestico e quotidiano. «Ci piaceva continuare la nostra ricerca sullo studio della forma degli indumenti. È una sfida infinita modellare sul corpo elementi estranei al guardaroba». In mente un solo feticcio design: «La sedia Emmanuelle in vimini, un emblema di sensualità. Per l’apertura del nostro primo monomarca a Tokyo siamo stati molto fortunati. Ce ne siamo regalati addirittura cinque esemplari». Cristina Manfredi

R

ipensare, recuperare, rielaborare. Su questi tre cardini principali ruota il lavoro di Martin Margiela, miracolo fashion dove l’essere trionfa sull’apparire, senza rinunciare a robusti turnover di fatturato (nel 2005 la griffe belga del gruppo Diesel ha realizzato vendite per 32 milioni di euro contro i 27 dell’esercizio precedente, ndr). Dopo aver esplorato le molteplici possibilità del guardaroba uomodonna, il creativo belga ha puntato lo sguardo su arredamento e dintorni. Dando vita a un crossover in bilico tra gonne e poltrone, tra cornici e collane. Perché la Maison Martin Margiela ha scelto di muoversi tra arredamento e moda? Più che ipotizzare un vero e proprio ingresso nel mondo del furniture, ci piaceva l’idea di continuare la nostra ricerca sullo studio della forma degli indumenti. È la sfida infinita di modellare sul corpo oggetti pre-esistenti, tenendo sempre bene a mente che il risultato finale deve essere non solo portabile, ma anche bellissimo. Com è stato impostato questo progetto? R. Nel disegnare la nuova collezione abbiamo lavorato cercando di costruire i capi partendo dalle tappezzerie recuparate dalle fodere staccabili di tanti tipi di poltrone, sedili di auto e sedute da boudoir. Per i prototipi iniziali abbiamo realmente utilizzato i materiali ricavati dai mobili che avevamo a disposizione... per poi arrivare ai modelli veri e propri, confezionati con tessuti nuovi il più possibile vicini al concetto di tappezzeria. Questo link tra abbigliamento e arredo è da considerare concluso o anche nelle prossime collezioni ci saranno riferimenti di questo genere? Chi può dirlo… Ai posteri l’ardua sentenza! Per il momento siamo molto soddisfatti di quanto questo tema sia stato in grado di stimolarci e siamo in attesa di capire quale sarà la reazione del pubblico quando i capi saranno effettivamente disponibili nei negozi. I commenti post show sono stati davvero molto positivi, ma finché non abbiamo un feedback più completo è difficile dire se porteremo ancora avanti il

discorso in futuro. Quali sono state le problematiche più complesse da risolvere in questo incontro tra arredamento e abiti? Il fatto di trovarsi di fronte a linee già scolpite, come le strutture delle sedute, e doverle trasformare in un indumento adatto al corpo umano. Questa è stata probabilmente la faccenda più complessa da risolvere. Poi abbiamo dovuto andare a caccia di stoffe in grado di trasmettere appieno l’idea di tessuto per la casa. E poi si è trattato di tradurre i nostri input in modelli che non avessero riferimenti didascalici al mondo dei mobili, ma che mantenessero in sé almeno un paio di elementi dell’ispirazione iniziale. Come per esempio il cappotto blu navy dalla spalla che richiama il bracciolo di una poltrona. Avete in cantiere una home collection? No, per adesso non abbiamo pianificato nulla in questo senso. Però chissà dove ci può portare il desiderio di dar sfogo alla nostra creatività da qui a qualche anno! C’è un pezzo di arredamento o di design che può ben rappresentare lo spirito e la filosofia dell’atelier? Qui da noi c’è sempre stata una gran fascinazione per la sedia in vimini Emmanuelle, quella dallo schienale altissimo. Per l’apertura del nostro primo shop a Tokyo siamo stati così fortunati da trovarne addirittura cinque esemplari, che abbiamo poi dipinto di bianco e ricoperto con antiche lenzuola bianche che abbiamo recuperato in giro per il mondo. Beh, quelle sedie sono diventate il vero simbolo di quel negozio, anche se in realtà ci sono ovviamente anche altri pezzi speciali che potrebbero ricoprire lo stesso ruolo. La Maison Martin Margiela ha fatto del bianco una propria cifra di stile. Come può prendere forma oggi il bianco nell’arredamento? È dal 1988 che noi raccogliamo pezzi di arredamento vecchi e nuovi, di diverse epoche e dai molteplici stili, per poi ammantarli tutti di non colore. E il bianco nell’arredamento a noi continua a piacere così.

mff-magazine for fashion n° 34 - GIugno 2006


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Alexander McQueen

PER LO STILISTA BRITANNICO UN UOMO NON DOVREBBE MAI INDOSSARE ABITI MAL TAGLIATI E DOVREBBE RICORDARSI DI ALLACCIARE LE SCARPE. E INTANTO LA SUA ULTIMA COLLEZIONE GUARDA AI DANDY DI HARLEM DEI PRIMI '900. «LUSSO E SARTORIALITÀ. LE BASI DA CUI SONO PARTITO». Cristina Manfredi

Provocatore, controverso, creativo. Alexander McQueen, grazie a un apprendistato nel gotha sartoriale di Savile Row, si è garantito padronanza di tagli e di fitting. E a 37 anni è ritornato con la sua collezione uomo a un’idea di tailoring lussuoso e delicato, denso di richiami all’eleganza dei tempi che furono. Senza trascurare la sua vena audace con un nuovo progetto visuale: Mancat. Ossia una contaminazione fotografica tra uomo e animale ideata da McQueen e realizzata con Nick Knight, per la linea footwear dello stilista inglese firmata in tandem con Puma. La sua collezione uomo per la p/e 2007 sembrava un omaggio all’eleganza vecchio stile. Qual è stata la sua ispirazione? Lusso e sartorialità. Ecco le basi da cui sono partito. Avevo in mente i dandy di inizio ’900 che animavano le strade di Harlem. E nelle orecchie le note di Mahler che accompagnavano le scene di Morte a Venezia di Luchino Visconti. E poi ho puntato sulla delicatezza, con gli azzurri e con i rosa, e con i ricami fioriti appoggiati sul knitwear. Lei racchiude in sé provocazione e tradizione. Ma esiste una qualche regola d’oro per il guardaroba maschile da tenere sempre presente?

Beh, direi che un uomo non dovrebbe mai indossare abiti mal tagliati. E ricordarsi sempre di allacciarsi le scarpe! Dove ha preso spunto per la realizzazione del progetto Mancat? Dalla mia voglia di racchiudere in un’immagine il mio lavoro con Puma. Assieme a Nick Knight avevamo già esplorato il concetto di morphing, di commistione tra uomo e animale, perciò ci è venuto spontaneo ampliare il concetto. Volevamo dar vita a un qualcosa di tangibile, a una presenza che contenesse in sé istintività e psiche, perché siamo entrambi ossessionati dall’osservazione della natura. Dopo un anno di collaborazione con Puma, che giudizio può dare su questo tipo di operazioni in co-branding? La mia esperienza con Puma è stata davvero fantastica. Sono un fanatico di sneakers ed è molto stimolante per me confrontarmi con il diverso approccio alla progettualità di una sport brand. Certo non sempre partnership di questo genere funzionano, ma non è il mio caso. Oltre alle sneakers, che novità ci sono nell’universo McQueen? Sto lavorando su di una linea di valigie con il supporto di Samsonite. Ma è ancora troppo presto per rivelare i dettagli…

mff-magazine for fashion n° 35 - agosto 2006


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Roberto Cavalli

Ha scelto di cambiare rotta, partendo proprio dal luogo dove è nata la sua maison, Firenze. Dove Roberto Cavalli ha fatto sfilare sul Ponte Vecchio un menswear dai tratti meno selvaggi. «È più ricercato, più classico, attento ai dettagli. Io stesso voglio cambiare look». sogno nel cassetto? la haute couture. Stefano Roncato

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acqui il 15 novembre 1940. è vero, non sono più un bambino. Ma ho voglia di realizzare tante cose. E ce ne sono ancora da fare anche nella moda». Roberto Cavalli inizia a parlare, ironizza e da vero fiorentino doc è subito come un fiume in piena. L'acqua non può che essere quella dell'Arno. Visto che lo stilista toscano ha aperto il primo giorno di Pitti immagine uomo con uno show dalla location d'eccezione: per la prima volta è stato concesso il Ponte Vecchio per una sfilata, dove hanno partecipato circa 700 ospiti. Rimasti incantati da una pioggia di fuochi d'artificio a fine défilé. Ma a stregare gli occhi dei presenti sono state altre stelle, in carne e ossa. Nel parterre spiccava Bianca Jagger, con un caftano animalier. E proprio alla signora dello studio 54 era ispirato il primo smoking bianco indossato in passerella da Naomi Campbell. Ma per Cavalli la venere nera ha sfilato anche in abito da sposa, stretta in vita da una mise con scollo a cuore e bouquet in mano, passando quindi il testimone a un'altra mannequin vip: Afef Tronchetti Provera, in gran forma e sorridente. L'evento sul Ponte Vecchio rappresenta un nuovo ritorno a casa per il designer che era già stato due volte a sfilare a Firenze con il suo menswear. La prima per lanciare la linea Roberto Cavalli uomo, che aveva debuttato con la stagione autunno-inverno '99-00 con un défilé alla stazione Leopolda. La seconda nel gennaio del 2002, con uno show nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio. «Quando mi hanno invitato e mi hanno detto del Ponte Vecchio, devo ammettere che ho fatto un urlo di gioia». Roberto Cavalli è di nuovo profeta in patria. Come vede la moda oggi? Negli ultimi 50 anni si è verificato un momento di stallo nella moda, dovuto a una forte mancanza di idee. Mi viene da pensare che forse siamo troppo legati all'industria. Il segreto del mio successo? Dire qualcosa di diverso in una situazione di piattezza. Il paradosso è che quando ho iniziato, con le mie stampe animalier, ero quasi fuori moda in quella situazione. Ma sono stato premiato e i risultati attualmente mi danno ragione. Abbiamo appena registrato un aumento del 23% nella prima linea e un +48% per la Just cavalli. Il suo asso nella manica? Se mi danno tre metri di tessuto, realizzo un abito. Chiaro che ci sarà sempre qualcuno più bravo nel realizzare un vestito. Per quanto mi riguarda, nella moda metto sempre qualcosa di artistico. Perché io vengo dalla scuola d'arte. E in una città d'arte come Firenze qual è l'opera a cui è più legato? Non ce n'è una in particolare. Mi piacciono le gallerie. I miei luoghi preferiti sono gli Uffizi e il Museo nazionale del Bargello.

Che hanno una forte connotazione classica. Come il suo uomo nuovo? Oggi siamo di fronte a un cambiamento per Cavalli. Il mio menswear ha perso un po' del suo aspetto selvaggio, è un uomo più classico, più attento a se stesso, un artista. Ho sempre preso spunto dalle rockstar, dallo stile forte, sopra le righe. E adesso mi è capitato di vedere Lenny Kravitz con un completo elegante, ricercatissimo. Era una conferma che stavamo andando nella direzione giusta. Abbiamo lavorato molto sulle giacche, sulla loro struttura che abbiamo rivisto. Il capospalla è più avvitato, gli abiti segnano la silhouette. E lo smoking superchic si porta anche di giorno. Ma non è difficile svecchiare il formale? Il mondo dell'abbigliamento maschile classico è sicuramente più affollato, ma è proprio per questo che voglio proporre qualcosa di diverso. E poi c'è giacca e giacca, soprattutto nell'uomo. Mi piace sapere che un ragazzo qualsiasi può accompagnare la fidanzata nei miei negozi e fermarsi a provare una giacca, mentre lei è in camerino alle prese con un abito da sera. I suoi ragazzi sul Ponte Vecchio sfoggiavano uno styling con nuovi oggetti di vanità. Quali saranno i vezzi maschili? La sciarpa-cravatta portata annodata su una shirt candida, tagliata sul fondo a sbieco, declinata anche con un print a farfalle. E soprattutto abbinata alla scarpa, in vernice o in camoscio. Sono alcuni dei nuovi vezzi che si concede l'uomo. Le camicie sono più curate. Il collo si alza, serrato con un bottone-gioiello effetto rubino. I polsini sono stretti da gemelli doppi. Mentre sui revers spiccano pins portacellulare. Durante le prove facevamo una scommessa, ci divertivamo a vedere quanti ce ne stavano… Tuxedo rivisitati e camicie con dettagli-gioiello. Dove sono finiti i playboy tutto muscoli di un tempo? Si tratta di un concetto che oggi non mi piace. Dandy è la parola chiave del nuovo stile maschile. Ma di quello andato in passerella, che cosa indosserebbe? Mi piace la palette che abbiamo usato, i toni scuri, il blu copiativo e le punte di bianco. Ci sono pezzi che comprerò. Come certe camicie rosa antico. Voglio cambiare look anch'io. A proposito di cambiamenti, parlava di un debutto nell’alta moda. A che punto siamo? Ho intenzione di inserire alcuni abiti unici, fatti apposta per le celebrities che vesto, nel nuovo negozio di Parigi, il cui opening è previsto nel 2007. Possiamo parlare di un progetto haute couture Cavalli? Per ora è solamente un sogno.

mff-magazine for fashion n° 35 - agosto 2006


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Dean e Dan Caten @ Dsquared2 L'ICONOGRAFIA MASCHILE È IL LORO PUNTO DI PARTENZA STILISTICO. COWBOY, RANGER E QUANDO NON TROVANO IMMEDIATAMENTE UN TEMA IMPAZZISCONO. SONO I DSQUARED2, IL DUO CANADADESE DIVENTATO RIFERIMENTO IN SOLI DIECI ANNI DI SFILATE. Marco Cortesi

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anno iniziato in sordina. ma un decennio è bastato per fare dei dsquared un best seller a colpi di jeans e t-shirt. tre anni fa i gemelli canadesi dean e dan caten sono arrivati alla loro collezione donna. adesso annunciano nuovi progetti, come il profumo e il primo store monomarca a milano. «non abbiamo mai contrasti. se siamo in disaccordo su qualcosa, è segno che quell'idea non avrà successo». e alle domande, ovviamente, rispondono all'unisono. In poco più di dieci anni di lavoro avete creato una punto di riferimento nella moda. Che cosa pensate di avere più degli altri? Siamo in due e questo già è un elemento di forza. Ci occupiamo di tutto e non amiamo delegare troppo ad altri. Nelle vostre collezioni è sempre presente una forte figura di riferimento, il cowboy, il lord inglese... Questo è il nostro sistema di lavoro. Una delle prime cose che facciamo è quella di capire che storia vogliamo raccontare. Una volta trovato il tema è più facile avere delle idee da sviluppare. Da qui poi la sfilata e la campagna. Ci piacciono tutte le figure dell'iconografia maschile, i cowboy, i ranger. E quando non troviamo subito un tema impazziamo! Un personaggio che per voi è un modello di stile? I calciatori, molti di loro si avvicinano alla moda. Hanno soldi e un bel fisico, una combinazione perfetta e in più non hanno paura della moda. Quale è la tendenza più forte della moda maschile degli ultimi anni? L'individualità. Oggi puoi andare in discoteca sia con la giacca sia con la T-shirt, nessuno ti dice niente. Tutto può andare. Nelle vostre sfilate è sempre presente il richiamo al corpo, alla sensualità. Quanto conta per voi? Un bel corpo fa bene ai vestiti, una T-shirt su un bel corpo risalta al meglio. Il nostro lavoro è comunque fare vestiti che stiano bene a tutti. Logo sì, logo no?

A volte sì a volte no. Commercialmente tanti ce lo chiedono. Noi lo facciamo in un modo non banale. Noi non usiamo il logo, annoia e poi passa, usiamo la parola, che ogni volta viene scritta in modo differente. Quando vedete qualcuno con indosso le vostre cose, che cosa pensate? Di solito fermiamo tutti e ringraziamo. Una volta a Capri abbiamo visto una Dsquared family: mamma, papa, figlio e figlia interamente vestiti. Erano rappresentati tutti i generi, l'uomo, la donna, i giovani e gli adulti. All'inizio non ci hanno riconosciuto, poi sono impazziti. Meglio un redazionale in più o un nuovo punto vendita? Meglio un redazionale, anche perché aiuta tutti i nostri negozi, oggi ne abbiamo 450. Fate largo uso di celebrities. Come le scegliete? Abbiamo lavorato con celebrities quando è capitato. Sono importanti, ma non ne andiamo a caccia, non inviamo vagoni di vestiti per attirare la loro attenzione. Siete partiti dall'uomo e poi è arrivata la collezione donna: in futuro? Un negozio monomarca a Milano di cui abbiamo appena approvato il progetto. Non possiamo ancora dire dove ma sarà nel quadrilatero. E poi tra un anno il lancio del profumo. Cosa ha cambiato il fatto di aver firmato con il gruppo Diesel la licenza per la parte produttiva e distributiva? Ci ha dato maggiore visibilità. È stato un matrimonio positivo per entrambi. Ed erano giusti anche i tempi per farlo. Di quale stilista ammirate il lavoro e perché? Azzedine Alaïa. Ci è sempre piaciuto il suo modo di lavorare senza regole. Faceva tutto lui, partendo dal cartamodello. Non esistevano settimane della moda, chiamava la stampa solo quando era pronto.

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Italo Zucchelli @ Calvin Klein UN JEANS VERAMENTE COOL, UNA CAMICIA E UN BLAZER DAL FIT PERFETTO. ECCO I CAPISALDI DEL GUARDAROBA SECONDO ITALO ZUCCHELLI, DELFINO SCELTO DALLO STESSO CALVIN KLEIN PER DISEGNARE IL MENSWEAR DELLA MAISON A STELLE E STRISCE DI PVH. Cristina Manfredi

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l sogno americano questa volta parla italiano. Nel 2003 Italo Zucchelli, ligure ma laureato al Polimoda di Firenze, lavorava già nel team creativo di Calvin Klein. Ma forse non s’immaginava che proprio a lui lo stilista in persona avrebbe affidato la direzione creativa della collezione uomo del brand quando ha venduto l’azienda al colosso americano Phillips-Van Heusen e ha deciso di abbandonare il timone dell’ufficio stile. La svolta però è avvenuta nel 2000 quando lo stilista viene chiamato ad affiancare Mr. Klein sempre per il menswear. La sua capacità di entrare subito in sintonia con lo spirito sexy e naturale del brand lo ha messo immediatamente in luce e la collezione Calvin Klein uomo p/e 2004 ha segnato il suo debutto come direttore creativo. «Evoluzione e non rivoluzione», avevano commentato gli addetti ai lavori promuovendo a pieni voti Zucchelli. Sono passati ormai tre anni dalla sua nomina a direttore creativo, come li ha vissuti? È stato come se non avessi realizzato subito la portata di questo cambiamento e solo col passare del tempo sono riuscito a prendere effettivamente atto di quanta importanza tutto ciò potesse significare per me. In questo momento mi sento davvero soddisfatto perché sono riuscito a rendere il menswear di Calvin Klein fresco e contemporaneo. Qual è stata a suo giudizio la mossa vincente che le ha permesso di ottenere questi risultati? Innanzitutto la mia determinazione nel tenere sempre ben presente l’importanza del riscontro commerciale delle mie collezioni. Per me è totalmente inutile dare vita a dei capi troppo distanti dalle esigenze dei nostri mercati e quando mi è stato comunicato che la mia seconda prova da head designer era stata accolta dal retail con un incremento che oscillava tra il 70 e l’80%, ho avuto conferma di essermi mosso nella direzione giusta. Come definisce l’eleganza maschile? Effortless, ovvero senza sforzo. È la mia parola d’ordine che lego però al concetto di sexy. L’uomo che ho in mente deve poter avere a disposizione dei capi sofisticati e naturali, che non gli trasmettino mai nessun tipo di costrizione, che non soffochino

la sua personalità e che ne esaltino la sensualità. La moda non deve aggredire le persone, ma deve sapersi pennellare addosso. Deve essere ben disegnata, ben costruita e arricchita con pochi dettagli nitidi e precisi. Da dove parte per mettere a fuoco le linee guida di una nuova collezione? Viaggio moltissimo, è il modo più proficuo per fare ricerca. Los Angeles, Tokyo o Parigi sono solo alcune delle mie mete preferite. Una volta giunto in città mi dedico a visitare un po’ di mostre, a bazzicare nelle librerie più interessanti e a fare shopping nei templi del vintage. Alle volte mi capita anche di guardare le foto di vecchie sfilate Calvin Klein perché mi piace osservare la velocità dei cambiamenti. Però mi diverto soprattuttto a sviluppare un indumento partendo da un concetto astratto. Lei vive a New York. Che cosa la colpisce del guardaroba degli italiani quando rientra? Rimango ogni volta perplesso nel constatare come molti uomini italiani continuino a insistere con un mix letale di maxi-colli, cravattoni, capelli lunghi, mèches e gel. A parte il fatto che trovo il risultato finale francamente sgradevole e sorpassato, mi domando sempre che cosa li spinga a questa ricerca spasmodica di standardizzazione, a questo rifiuto sistematico di un proprio stile personale, vero cardine dell’eleganza. Quali sono i capi su cui però un uomo può sempre contare? Un jeans veramente cool, una camicia e un blazer dai fit perfetti e una giacca di pelle, per regalarsi un po’ di grinta extra. Un marchio importante e rinomato come Calvin Klein che cosa deve prefiggersi per il futuro? Di non perdere mai di vista la grande responsabilità di aver creato uno standard di lavoro di alto livello. Non posso che sentirmi gratificato dall’opportunità di dare libero sfogo alla mia creatività contando sul meglio che c’è sulla piazza in termini di collaboratori, materiali e produzioni. Questo però presuppone da parte mia un impegno costante affinché questo livello non venga intaccato. E in termini pratici significa soprattuto potenziare il segmento accessori e ricostruire rapporti con i grandi department stores americani.

mff-magazine for fashion n° 35 - agosto 2006


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Tommaso Aquilano e Roberto Rimondi @ 6267 Parola d’ordine: «Guai a chi molla». Con questo mantra Tommaso Aquilano e Roberto Rimondi, dopo la vittoria al concorso per i brand emergenti Who's on next?, il debutto sulle passerelle milanesi la scorsa stagione e il battesimo newyorkese di Malo di cui sono direttori creativi, hanno sbaragliato la critica in caccia di conferme. Niente esasperazioni. Il pragmatico duo di designer nostrani punta tutto sulla concretezza di qualità, vestibilità, ricerca e design. In linea però con le richieste più cool del mercato. Cristina Manfredi Dopo la terza sfilata con il vostro marchio ve la sentite di fare un primo bilancio di questo progetto? Non è semplice dare una risposta, visto che non abbiamo ancora i dati definitivi di questa campagna vendita, ma abbiamo ipotizzato un incremento del volume d’affari del 50%. E poi è soprattutto aumentato l'interesse da parte della stampa, il che è ottimo per la riconoscibilità del prodotto. D. Come funziona il vostro tandem creativo? Avete ruoli distinti e ben precisi o di solito portate avanti la collezione all'unisono? R. Ci confrontiamo continuamente in modo molto schietto e la collezione è il risultato di un lavoro che facciamo crescere insieme sotto ogni punto di vista. Ognuno di noi apporta alla ricerca il proprio bagaglio personale di esperienze: insomma, è un po’ come un cervello che lavora al quadrato. D. Che cosa di 6267 convince veramente stampa e compratori, da vostro punto di vista? R. Probabilmente la gente ha riconosciuto la validità e la serietà del nostro lavoro, che ruota attorno all’idea di offrire al mercato un prodotto in linea con le esigenze del momento. Non disdegniamo affatto la creatività, ma cerchiamo di metterla a frutto specialmente nella costruzione dei capi, tenendo sempre bene a mente la storia del costume in tutta la sua complessità e ricchezza. D. E perché, invece, le vostre clienti finali s’innamorano di un vostro capo? R. Perché hanno capito che la nostra collezione è sinonimo di qualità, vestibilità, ricerca e design e questo le fa sentire sicure. D. Qual è stato l'ostacolo più difficile da superare all'inizio? E qual è, invece, il vostro punto di forza? R. Abbiamo affrontato situazioni molto complesse, dove ci veniva richiesto di convalidare continuamente il nostro lavoro, il che non è proprio semplice. E poi succede che man mano che si va avanti, aumentano le aspettative di chi ti sta intorno,

l'azienda cresce e crescono le responsabilità nei confronti dello staff ed è tutto molto impegnativo. Ma è proprio quello il momento in cui bisogna essere davvero tenaci. In un’epoca come la nostra, non c’è spazio per i tentennamenti: chi si ferma è perduto. D. Quali sono i mercati più forti per il vostro brand? R. Vendiamo bene negli Stati Uniti e in Giappone e ci stiamo rafforzando in Russia, in Germania e naturalmente anche in Italia. D. Come vi immaginate 6267 tra dieci anni? Quali sono i vostri obiettivi a lungo termine? R. Per ora non abbiamo fatto programmi a lunga scadenza. Lavoriamo per crescere in maniera oculata, senza andare a caccia di inutili exploit che possano allontanare il marchio dalla sua identità. D. Quando vi è stata offerta la direzione creativa di Malo, non avete avuto paura di togliere attenzione a 6267, proprio nel momento in cui stavate decollando? R. No, al contrario, sia per noi che per il nostro team è stato molto stimolante accettare di farci carico di un altro brand come Malo. Ovviamente abbiamo dovuto accelerare i ritmi del lavoro e cercare di concentrarci ancora di più, ma siamo sempre entusiasti quando si tratta di nuove sfide.

mff-magazine for fashion n° 37 - novembre 2006


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Angela Missoni @ Missoni A OTTO ANNI DAL SUO RIENTRO IN AZIENDA, ANGELA MISSONI SPIEGA LE DIFFICOLTÀ INIZIALI NEL CONFRONTARSI CON I DUE MOSTRISACRI (MAMMA ROSITA E PAPÀ OTTAVIO) E DI COME È RIUSCITA A RIDISEGNARE IL MARCHIO RISPETTANDONE IL DNA GIOIOSO E COLORATO. Cristina Manfredi

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on è facile mettere mano all’azienda di famiglia, quando i genitori si chiamano Tai e Rosita Missoni e si sono inventati uno stile tuttora inconfondibile. Se poi a questo ci si aggiunge una voglia matta di fare bambini la faccenda si complica ancora di più. Angela Missoni però, non è tipo da lasciarsi intimidire e dopo un lungo periodo dietro le quinte in bilico tra pappe e défilé è arrivata alla guida del brand nel 1998. Oggi traccia un bilancio dei suoi primi otto anni e confessa: «Ho dovuto tirar fuori un bel coraggio per confrontarmi con due mostri sacri come mamma e papà». Il nuovo corso di Missoni si è consolidato alla grande, a riprova del suo talento per la moda. Perché allora, dopo aver affiancato sua madre da giovanissima, si è presa una pausa tanto lunga? Il fatto è che in quel momento la mia priorità erano i figli, anche se poi a ben vedere io non ho mai completamente tagliato i ponti con l’azienda. Diciamo che mi sono messa in disparte e da lì ho avuto la possibilità di osservare. Sono stati anni molto utili in cui sono maturata, ho acquisito dimestichezza con tutti i vari passaggi produttivi e mi sono messa alla prova, guadagnandomi sul campo la stima dei dipendenti. E soprattutto ho trovato il coraggio di confrontarmi con due pezzi da novanta come i miei genitori. Quando è tornata in seno all’azienda, quali erano i suoi obiettivi? Volevo innanzitutto ridisegnare l’immagine del marchio, per restituirgli autorevolezza nel panorama moda contemporaneo. Sapevo di avere ancora molte carte da giocare, così di comune accordo coi miei fratelli mi sono buttata in un restyling a 360 gradi, dal prodotto alla comunicazione. Ho lavorato molto su nuove silhouette, ho dato una bella rinfrescata alla gamma colori e ho scelto i volti di modelle iconiche per le nostre campagne che ho affidato a dei grandi della fotografia, come Testino, Sorrenti o Mert & Marcus. E ho puntato molto anche sulle sfilate, perché era tempo che tornassero a essere grandi, irrinunciabili. In che cosa la sua donna Missoni si differenzia dal Dna storico della maison? In realtà il Dna Missoni resta inalterato, perché continuiamo a fare una moda ricca di

maglieria, di grafismi e di divertissement cromatici. Mi diverte sconfinare nei tessuti, nella pelle ed esplorare liason tra materiali differenti. Il che ci riporta comunque ai miei genitori, che della sperimentazione e degli sconfinamenti, hanno sempre fatto un loro vero e proprio punto di forza. Se non fosse l’erede di Tai e Rosita Missoni, c’è qualche altra casa di moda che le piacerebbe prendere in mano? Onestamente sto bene dove sto. Per me Missoni è «casa», la mia «casa», perciò perché dovrei voler andare da un’altra parte? Qual è la cosa più importante che ha imparato dai suoi genitori? Mia madre mi ha sicuramente trasmesso la passione per la moda, mentre da mio padre credo di avere imparato a mantenere un certo distacco da questo mondo. E tutte e due mi hanno fatto capire che per quanto importante possa essere il lavoro, bisogna saperlo dosare per proteggere e coltivare gli altri aspetti della propria vita. E qual è, invece, l’opportunità più grande che le ha regalato questo lavoro? Mi diverto moltissimo a fare moda e ho il privilegio di aver trasformato in professione una mia passione. Quando penso a come sono riuscita a sollevare mia madre da tutta una serie di incombenze che in passato la preoccupavano molto, mi sento proprio soddisfatta e, anche in questo caso, è tutto merito del mio lavoro. Il mondo della moda è sempre al centro di furiose critiche. È davvero così disastroso come lo si dipinge? Per carità, no! La moda è un termometro validissimo dello spirito di ogni tempo. È una sollecitazione creativa alla portata di tutti, che ha rivoluzionato teorie, tecniche e stili della comunicazione. Realtà e sogno, meraviglia e obbrobrio, norma e trasgressione. La moda ha portato inventiva nelle strade, trasformando la vita in una miseen-scene, in una chance personale di libera espressione. Qual era il sogno nel cassetto di Angela Missoni a 18 anni? E nel 2006? A 18 anni avevo un unico e grande sogno: metter su famiglia e avere presto dei figli. E oggi che i figli ci sono, il mio desiderio è quello di vederli crescere, saperli felici, sereni e realizzati.

mff-magazine for fashion n° 37 - novembre 2006


quindici anni di moda & interviste I 83


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Sophia Kokosalaki Dal suo debutto nel ’99 Sophia Kokosalaki non ha smesso un solo istante di perfezionare il suo linguaggio estetico fatto di autonomia creativa e di plasticità dell’abito per arrivare nel 2007 all’ingresso nella scuderia di Staff international e all’incoronazione come direttore creativo dello storico marchio Vionnet, grazie a lei rilanciato in grande stile: «Non ero spaventata agli inizi della mia carriera e non lo sono nemmeno ora che le aspettative sono cresciute perché so esattamente ciò che sto facendo». Cristina Manfredi

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no splendido osso duro. Inutile girarci intorno, Sophia Kokosalaki è proprio così, schietta, selvatica e sincera, irrimediabilmente incapace di servire a chi le sta di fronte dichiarazioni di facciata e votata a una franchezza verace e volitiva. Basta vederla mal celare insofferenza di fronte all’ennesima domanda modaiola, per capire subito perché il buon Renzo Rosso abbia deciso di investire su di lei portandola all’interno di Staff international. È’ un cavallo di razza, questa designer che da Atene se n’è andata per cercar fortuna in quel di Londra, dove si è guadagnata il diploma di stilista alla St. Martins prima e la palma di talentuosa della moda poi. In otto anni di impegno intenso e concentrato, la Kokosalaki ha continuato a scegliere la strada di una coerenza profonda con i propri canoni estetici e raccoglie adesso i meritati frutti di quella determinazione tipica delle grandi donne elleniche. Com’è andato lo show di debutto sotto l’egida di Staff international? Benissimo! Sono molto felice di come è stata portata avanti questa collezione invernale 2007-08 e mi sembra che io e il mio team abbiamo fatto davvero un buon lavoro. Volevo sviluppare tecnicamente la mia idea di silhouette e lavorare sulla struttura dei capi prendendo ispirazione da quelle sculture fatte di libri dove le pagine vengono ripiegate per dare forma a un progetto. A ben pensarci, nelle interviste a bruciapelo del pre-sfilata credo di non aver fatto cenno a questo dettaglio perché temevo di non riuscire a spiegare esattamente di cosa si trattava, ma in effetti gli sculpture books sono stati il vero punto di partenza di tutta la stagione. Sono cambiate molto le cose con l’arrivo di Renzo Rosso? Beh ci sono state talmente tante novità che potremmo parlare del brand Sophia Kokosalaki «Avanti Renzo» e «Dopo Renzo». Mi piace scherzare su questa cosa, però è ovvio che l’apporto della sua azienda sia stato decisamente strategico. Ho potuto ordinare tessuti migliori, dal tocco più raffinato e permettermi degli standard produttivi più elevati, con maggiori chance di sfruttare lavorazioni sofisticate e artigianali. Mi sono data veramente molto da fare, ma con un supporto così forte alle spalle le idee si concretizzano in tutta scioltezza. E in tutto questo non le è stato suggerito nessun cambio di rotta, magari verso lidi più commerciali? No, affatto. Non ho subito nessuna forma di pressione e non mi è stata fatta alcuna imposizione. Ho mantenuto in pieno la mia integrità professionale, solo che questa volta non mi sono dovuta preoccupare di tutta una serie di problemi pratici. In realtà, questa collezione per me è stata particolarmente impegnativa a livello progettuale, perché potendomi dedicare con più calma alla sperimentazione e alla ricerca, ogni singolo pezzo aveva in sé un indice di complicanze davvero intricato. Che io sia una

pleats-addict non è una novità, ma questa volta la sfida era quella di strutturare a livello tridimensionale un capo già di per sé mosso dalle piegature, insomma un vero incubo. Grandi cambiamenti per la sua linea e la nomina a head designer per Vionnet: altri stilisti forse non dormirebbero sonni tranquilli al posto suo… Non ero spaventata agli inizi della mia carriera quando l’entusiasmo andava a braccetto con una certa dose d’incoscienza giovanile e non lo sono nemmeno ora che le aspettative sono cresciute in maniera esponenziale perché sono molto consapevole delle mie capacità e so esattamente ciò che sto facendo. Ricordo che ai tempi della St. Martins mi sono ritrovata un giorno a sfogliare un libro in cui si parlava di Vionnet. Quello è stato il momento preciso in cui non solo l’ho scoperta, ma ho anche capito che c’era affinità tra la mia visione della moda e la sua, perciò quando ho accettato l’incarico di riportare in auge il suo nome l’ho fatto con la voglia di tuffarmi nel suo universo per comprenderlo a fondo. Gli outfit che ho creato per Vionnet hanno un mood più formale e lussuoso rispetto alla mia label e mi hanno dato grande soddisfazione nell’idearli. Se tra cent’anni uno studente di moda dovesse trovare un testo che parla di Sophia Kokosalaki, come vorrebbe essere descritta? Come una designer che ha cercato di esplorare i meandri della timeless elegance alla Helmut Lang, che ha intrigato per gli aspetti tecnici dello sviluppo di un capo e che ha tirato dritto per la sua strada senza farsi influenzare dai giudizi altrui e senza cercare riferimenti nel lavoro dei colleghi. In un mercatino delle pulci trova una lampada che scopre poi essere magica. Dei fatidici tre desideri, uno però deve essere dedicato al fashion world: che cosa chiederebbe? Di cambiare il calendario e di non dover essere costretta a fare uscire una collezione ogni sei mesi. Non sarebbe fantastico essere come un musicista, che è libero di presentare un nuovo disco assecondando i ritmi della propria vena creativa? Mi rendo conto che all’atto pratico sarebbe totalmente ingestibile per le dinamiche della moda, però che meraviglia, non dover produrre secondo tempistiche rigide e prefissate. Ora che ha rotto il ghiaccio sia con Vionnet che con Staff International, che cosa ha in mente per il futuro? Voglio continuare a disegnare abiti capaci di raccontare un’evoluzione costante ma mai esasperata da cambiamenti drastici. In realtà con Rosso abbiamo già messo a fuoco una serie di progetti da sviluppare insieme, ma di questo avremo modo di parlare più avanti…

mff-magazine for fashion n° 40 - aprile 2007


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86 I quindici anni di moda & interviste

Tom Ford

100 MILIONI DI EURO? PER TOM FORD IL SUO MARCHIO VALE DI PIÚ. POI RIVELA CHE LA DONNA GLI MANCA, MA NON VUOLE GUARDARSI INDIETRO, CHE DISEGNARE UN PER UN ALTRO MARCHIO NON GLI INTERESSA, PERCHÈ LO HA GIÀ FATTO, E CHE ORA PENSA AL CINEMA. Stefano Roncato

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hi è la mia musa? Sono io». Ovvio verrebbe da dire. Perché il mondo che Tom Ford ha costruito per la sua avventura in singolo, con la brand che porta il suo nome, ha un allure particolare, personale, tagliata ad hoc come un abito sartoriale sull’immaginario rappresentato dallo stesso stilista texano. Inebriato da quel fattore «glamorous» che lo stesso Ford usa per definire il suo menswear. Il designer, ex Gucci e Ysl, è tornato in scena a Milano per presentare il suo nuovo profumo Tom Ford for men, nato come tutto il mondo beauty dall’intesa con Estée Lauder. E parla all’interno del suo nuovo showroom, aperto in via Borgonuovo 24. Sempre nel capoluogo lombardo verrà inaugurato un negozio la prossima primavera. Lo store milanese è solo uno dei 100 negozi previsti in dieci anni nel piano di sviluppo retail, che è partito con il megastore inaugurato a New York, all’ 845 di Madison avenue. Mentre negli occhi c’è ancora l’immagine di Brad Pitt vestito Tom Ford a Cannes. In fondo il cinema è ancora nel cuore del designer, che ha in cantiere progetti da regista. E che sulla moda ha rilasciato dichiarazioni lucide: «Mi diverte quando la gente mi chiede se la moda sia compatibile con gli affari. Il mio obiettivo come stilista consiste nel creare qualcosa di cui le persone sentano di non poter farne a meno. Quando devono averla, la comprano. Quando la comprano, realizziamo vendite. Con le vendite, facciamo affari». Domanda. È vero che la sua griffe ha un valore di 100 milioni di euro? Risposta. Non è abbastanza. Valgo di più. Parlate di arrivare a 100 negozi in dieci anni… Certo. E solo il prossimo anno apriremo 12 freestanding store in location prestigiose, su piazze come Londra e Los Angeles. E puntiamo molto anche al mercato asiatico. In generale, tutti i mercati emergenti sono da tenere d’occhio, sono hungry for quality. E questo è in linea con il nuovo business model che abbiamo creato. Partiamo e puntiamo al top. Non mi piacciono gli abiti cheap. E non posso concepire il mid-level. Disegnerebbe ancora un altro marchio? No. È qualcosa che ho già fatto. Pensa a una sfilata per il menswear? Non per il momento. Il classico è fashion adesso ed è difficile fare una sfilata maschile. La ricerca di una fashion news può distrarre da quello che realmente serve al

cliente finale. Non voglio disegnare solo per gli editor di un giornale. Forse un giorno lo farò. Perché ho un’idea. Quando senti di dover fare qualcosa, falla immediatamente. E la linea donna? I miss it, mi manca. Ma non voglio fare come altri, continuando a guardare indietro. Penso che per lanciare qualcosa di nuovo bisogna avere qualcosa di nuovo di dire. E poi in questo momento sono molto impegnato su tutti i progetti attuali. Se penso che un anno fa tutto questo non c’era… Volerà al cinema o il suo progetto come regista di un film è stato definitivamente archiviato? Assolutamente no. Anzi, ho comprato i diritti di un libro. Ma il cinema non è veloce come la moda. Ci vuole del tempo per prepare tutto, a partire dal copione. Comunque non parlerò di questo argomento finché il film non sarà pronto. Come ha approcciato il mondo beauty? Con una grande attenzione a ogni fase del processo. Il femminile Black orchid rappresenta l’inizio del percorso di un Dna deluxe. Adesso siamo arrivati al maschile, Tom Ford for men (che debutterà in circa 150 negozi italiani a ottobre). E a novembre verrà presentata la versione Extreme, ancora più sofisticata anche nel packaging. A fine anno presenteremo Voile de Fleure, un’evoluzione più lieve ed estiva di Black orchid, che invece è più invernale. Mentre un nuovo femminile arriverà il prossimo anno. Nell’autunno 2008 debutterà lo skincare, per uomo e per donna. In particolare per l’uomo sarà una serie di prodotti legati al grooming, non mi piace l’idea del trucco da uomo. E in fondo penso di poter essere il giusto spokeman. In progetto c’è inoltre il make up, che potrebbe arrivare anche prima. Esiste un «modello Ford» per i profumi? In generale non credo ai profumi che vanno bene per tutti e per tutti i giorni. Abbiamo lanciato ben 12 fragranze sotto il nome Private blend (a Milano sono vendute da 10 Corso Como e a La Rinascente). È il mio laboratorio privato dove creo i miei profumi. Aromi molto speciali, originali, liberi dalla costrizione di mode e consuetudini. Ognuno può scegliere quella che preferisce. Anzi, ne verranno create ad hoc per certi negozi. Bisogna sempre personalizzare una location, con un merchandising customized. Quindi con un approccio diverso da come avevo fatto in precedenza. Quale è stato il primo profumo che ha usato? Era di Yves Saint Laurent. Oggi non è più così.

mff-magazine for fashion n° 42 - luglio 2007


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Delfina Delletrez

È LA FIGLIA DI SILVIA VENTURINI FENDI ED ERA ALLA CORTE DI LAGERFELD DA CHANEL. ALLA FINE DELFINA DELLETREZ HA PRESO LA VIA DEL PADRE, FAMOSO GEMMOLOGO, E HA DATO VITA A UNA SUA LINEA DI BIJOUX DAL SAPORE ONIRICO E SURREALISTA. Cristina Manfredi

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uon sangue non mente. Specialmente in casa Fendi dove sembra inesauribile la linfa creativa delle donne di famiglia. Riflettori puntati perciò sulla figlia di Silvia Venturini Fendi, Delfina Delletrez, che sotto l’ala esperta e protettiva del padre Bernard Delletrez, famoso gemmologo, ha dato vita a una collezione di bijoux preziosi che hanno fatto la gioia di Colette, dove tra pochi giorni verrà dedicato alla 19enne designer romana un evento ad hoc Perché si è dedicata ai gioielli, anziché alla moda? È stato tutto così strano. Un anno fa vivevo a Parigi, lavoravo da Chanel con Karl Lagerfeld ed ero sicura che avrei continuato su quella strada, poi però mi sono innamorata e ho sentito che era a Roma che volevo stare. Ho iniziato a cimentarmi con la recitazione, ma quando ho scoperto di essere incinta ho capito che quella non era il mio percorso e mi sono appassionata sempre più alla gioielleria. Qual è l’appeal della collezione? Sono monili che io ho creato pensando soprattutto a me, alle mie passioni e al mio gusto. Quello che è andato in produzione è il frutto di una ricerca di stile del tutto personale, che sicuramente può fare presa sulle mie coetanee, ma che in realtà è perfetta anche per delle donne più mature, insomma tutto sta all’interpretazione della cliente.

Da dove ha tratto ispirazione per il suo debutto? Da un parte ci sono le donne della mia famiglia, da mia madre a mia nonna e dall’altra c’è questo aspetto un po’ oscuro, direi quasi macabro, dei teschi che volevo rivisitare in chiave insolita partendo dai memento mori della tradizione orafa ottocentesca. Questo progetto ha preso piede proprio nel momento in cui ho scoperto di aspettare un figlio e all’inizio ero molto colpita dal contrasto tra un’esperienza così solare e un mood tanto crepuscolare. Nei primi pezzi l’argento nero e i teschi fatti a mano sfruttando l’osso di mammouth si rincorrevano puntualmente, finché sono entrata nel pieno della gravidanza e allora l’immaginazione si è fatta più dolce, spensierata, leggiadra. Le proposte che a breve sbarcheranno da Colette hanno i colori squillanti degli smalti e degli zaffiri, gli intrecci della pelle e del camoscio, il fascino del legno e delle pietre dure e raccontano non più solo di lugubri skulls, ma anche di animaletti dolci, allegri e paffuti. Che cosa la diverte di più di questa esperienza nel mondo del gioiello? R. Mi piace osservare mio padre quando siamo insieme in laboratorio. Lui è un orafo e gemmologo di grande valore ed è bellissimo ammirare la sua manualità. Imparo molto e faccio tesoro dei suoi consigli tecnici. Sono davvero felice di avere imboccato questa strada, ma in futuro sono sicura che mi confronterò ancora con i vestiti.

mff-magazine for fashion n° 43 - settembre 2007


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John Richmond

Con Saverio Moschillo, anima commercial-strategica della griffe, ha creato una storia di stile che parte dall'underground londinese. «Ho sempre cercato di disegnare qualcosa che potesse attrarre un cliente dallo spirito indipendente, libero, a cui piace semplicemente distinguersi». E confida: «Per cosa mi piacerebbe essere ricordato? Per avere creato un mix inatteso, sorprendente di moda e musica». Angelo Flaccavento

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o spirito del rock, quello vero, non perde mai di mordente. Al contrario, si rafforza con gli anni. È un modo di vedere le cose: controcorrente e indipendente. Così, almeno, la pensa John Richmond, inventore di una moda affilata, urbana e assertiva che ha la stessa potenza di un riff di chitarra, e che convince allo stesso modo: scatenando una vibrazione. Curioso destino, quello di questo northern lad, nato a Manchester ma formatosi a Londra, che ha trovato la fortuna vera, e internazionale, in Italia, complice l'acume e l'industrioso supporto di Saverio Moschillo, imprenditore illuminato e impareggiabile stratega della distribuzione. Un matrimonio perfetto di design britannico e produzione italiana, il loro, che ha segnato l'avvio di una scalata inarrestabile. Oggi, John Richmond crea, oltre alla collezione che porta il suo nome, le linee Richmond X, Richmond denim e Richmond, fatte della stessa sostanza stilistica, ma rivolte a un uditorio differente. La rete dei flagship store John Richmond, cui si affianca quella delle boutique Richmond, dedicate alle due linee giovani, è in espansione, il che rende il messaggio, se possibile, ancora più forte e chiaro. Eppure, nonostante i successi, e dopo trent'anni quasi di carriera, John Richmond non ha perso un briciolo di entusiasmo. Semplicemente, gli piace fare quel che fa; lo appassiona il design. E continua, ogni giorno, a suonare la chitarra. Perché per lui, moda e musica sono una cosa sola. Da designer underground a star del fashion system internazionale, il suo percorso, oggi, è completo. Come è cambiata la sua visione? In realtà, non mi sono mai sentito parte della scena londinese, o dell'underground. Ho sempre aspirato ad essere un designer internazionale, a creare qualcosa che potesse attrarre un tipo di persona che non è definita dalle sue origini geografiche: un cliente dallo spirito indipendente, libero, che si trova in tutto il mondo, perché semplicemente gli piace distinguersi. In questo senso, la mia visione è rimasta identica nel corso di questi anni, pur evolvendosi. Quali sono le basi della sua estetica? Il mio immaginario affonda le sue radici nel rock. Sono nato e cresciuto a Manchester, e ho scoperto la moda, nell'adolescenza, proprio attraverso la musica. Erano gli anni del glam rock prima, e del punk dopo: David Bowie, Mark Bolan, Lou Reed sono tutte figure che mi hanno influenzato profondamente. Per me moda e musica sono parte integrante l'una dell'altra. Non posso pensare alla mia moda senza rock, e viceversa. La sua ossessione per i teschi ha la stessa origine?

mf fashion - 27 Settembre 2007

Più che di ossessione, parlerei di fascinazione. Sì, i teschi mi fanno pensare al rock. Non li trovo simboli mortiferi, però; al contrario, penso che abbiano un grande potere, anche se poi questo potere è difficile da spiegare. Trovo che i teschi racchiudano bene il significato della vita: mostrano da dove veniamo, e dove andiamo. Esiste per lei altro colore all'infuori del nero? Certo. Mi capita spesso di lavorare col colore: nella collezione che presento oggi, per esempio, ce ne è moltissimo. Eppure, in un modo o nell'altro, torno sempre al nero. Non posso farne a meno. Sarà che sono cresciuto nel nord dell'Inghilterra, dove piove sempre, e tutto è scuro e grigio in ogni momento dell'anno. Il nero è il mio colore, senza ombra di dubbio. Riuscirebbe a condensare il suo stile in una formula? No. Sono troppo coinvolto in quel che faccio per avere una prospettiva esterna e critica sul mio lavoro. Lascio che siamo gli altri a definire il mio stile. La sua estetica si è in qualche modo focalizzata e strutturata in maniera più precisa con l'apertura dei flagship store? L'apertura dei negozi monomarca mi ha fatto capire che bisogna restringere il messaggio ad uno, due punti al massimo. Devi decidere chi sei e cosa vuoi dire al tuo pubblico. Alla fine, la gente si aspetta delle cose da te, e cercare di cambiare ogni sei mesi è infruttuoso: ciascuno di noi, volente o nolente, è quello che è. Le mie diverse collezioni, oggi, rappresentano approcci diversi a una visione che è la medesima, e che è coesa. La linea principale, per esempio, si evolve in direzione della ricerca sartoriale, mentre le altre due sono indirizzate a un utilizzo più street, ma l'idea alla base di tutte rimane unica, e volutamente tale. Come è cambiata la percezione della moda da parte della gente negli ultimi anni? La moda forse emoziona meno di un tempo. Oggi, è l'acquisto tecnologico a scatenare entusiasmi, mentre vent'anni fa era quello di una nuova giacca, o di un nuovo vestito. La gente tende a comprare in maniera più intelligente, e a infischiarsene delle tendenze. Per questo, come designer, preferisco lavorare su continuità e progressione, anziché sulla novità incessante: voglio avere una voce forte e chiara, ed essere riconoscibile. Costruire un mio stile. Per cosa le piacerebbe essere ricordato? Già essere ricordato, fra trenta o quarant'anni, sarebbe un grande traguardo. Ma la mia vera aspirazione è creare un mix unico di moda e musica. Ecco, vorrei che il nome di John Richmond fosse associato per sempre a quest'idea.


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Viktor Horsting e Rolf Snoeren @ Viktor & Rolf Sono i gemelli delle passerelle, coppia capace di sovvertire le regole con un tocco di follia. Insieme Viktor Horsting e Rolf Snoeren hanno costruito un'estetica giocata sull'upside down e sulla contaminazione tra attualità e fiaba (basta pensare al profumo Flowerbomb). «Noi siamo così e la nostra moda ci rispecchia. Mescoliamo le cose perché la realtà è così: non è mai univoca. Giuliana Di Paola

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estono allo stesso modo, hanno la stessa pettinatura e persino la stessa montatura di occhiali. Quando compaiono a fine sfilata li si può prendere per gemelli, ma non sono neanche fratelli. Viktor & Rolf è un duo che punta sul doppio. E lo si nota di più quando li si ha di fronte in borghese, quando si presentano ciascuno nei propri panni, di Viktor Horsting e Rolf Snoeren. Il gioco è più sottile. Il doppio è alla base di ogni loro idea e progetto, perché il loro è davvero un lavoro a quattro mani. Ma anche perché non dimenticano mai che ogni cosa si può guardare da almeno due punti di vista. Un approccio ad alto potenziale creativo come dimostra la bottiglia upside down (si appoggia sul tappo a fungo e si stappa dal fondo) di champagne rosé-sauvage, realizzata per Piper-Heidsieck in edizione limitata e completa di cestello e flûte rivisti in chiave sottosopra per festeggiare il 2008 e brindare a un anno davvero fuori dalle regole. Ma il duo olandese è abituato a capovolgere la realtà e proporne un'interpretazione originale ed eccentrica. Basta entrare nella loro boutique milanese, in via sant'Andrea al 14, per averne conferma camminando tra lampadari che spuntano dal pavimento e sotto il parquet che tappezza il soffitto. Viktor & Rolf sono abituati a sovvertire regole e convenzioni. La loro energia eversiva ha contagiato persino un capo senza tempo come il trench di Allegri, l'azienda che si è affidata ai due stilisti per rinnovare la propria immagine con un accordo triennale partito nell'autunno-inverno 2006-7. È sempre stata questa la cifra del loro stile dai banchi dell'Academy of arts di Arnhem, dove si sono diplomati nel 1992, all'esordio nell'haute couture a Parigi e all'approdo, nel 2000, alle passerelle del prêt-à-porter fino all'ultimo progetto: la partnership con Samsonite per una linea di valigie e accessori da viaggio, lancio mondiale previsto per l'autunno 2008, nei negozi a partire dalla primavera 2009. Su quale concept state lavorando per la Samsonite Black Label by Viktor & Rolf? Siamo molto elettrizzati di poter collaborare con un brand così rinomato per il suo know how e per la sua storia. Lavoreremo su una nuova interpretazione del concetto di viaggio e delle necessità individuali di chi gira il mondo, per lavoro o per piacere. Quanta conta l'ironia nelle vostre creazioni? L'ironia è parte di noi ed è naturale che si trasmetta a tutto ciò che creiamo. È una parte molto importante del nostro stile, ma è una delle componenti. È una caratteristica del nostro stile quanto lo è la razionalità Quando crei, non fa differenza che sia un vestito o una fragranza, ci metti tutto te stesso. Quando abbiamo realizzato Flowerbomb (il profumo nato dal gemellaggio con il gruppo L'Oréal, ndr), per esempio, abbiamo cercato di mescolare componenti diverse: volevamo che fosse un profumo romantico ma, al tempo stesso, sexy. Femminile ma anche aggressivo. Nelle nostre

mf fashion - 30 Novembre 2007

creazioni, insomma, elementi diversi convivono tra loro, è proprio come nella vita. Ma non perdete neanche il contatto con l'attualità, per esempio nella collezione del 2000 avete presentato un abito con una bomba atomica implosa Noi siamo così e la nostra moda ci rispecchia. Mescoliamo le cose perché la realtà è così: non è mai univoca, ma ha mille sfaccettature. E più guardi le cose da vicino e più ti accorgi che hanno almeno due aspetti. Non vi perdete una Biennale di Venezia e siete assidui frequentatori di Art Basel, le vostre collezioni hanno uno stretto rapporto con l'arte contemporanea, siete legati a qualche artista, c'è qualcuno da cui prendete ispirazione? Nessuno in particolare. L'ispirazione non ci viene direttamente dal lavoro di qualcuno, ma guardiamo all'arte come a ogni altro aspetto della vita. Tutto può essere fonte d'ispirazione. A proposito d'ispirazione, Tilda Swinton si può definire la vostra musa? No, Tilda è un'amica. Non abbiamo una musa, ma persone, amici che ci danno stimoli, suggestioni, con cui dialoghiamo e ci scambiamo idee. Ma non ci appartiene proprio quell'aspetto un po' fetish di richiamarsi a un'icona Pensando ai punti di riferimento culturale, nei vostri esordi dicevate di essere affezionati a stilisti come Cristóbal Balenciaga, Claude Montana, Rei Kawakubo Dove siamo nati e cresciuti noi, piccoli paesi in Olanda, non c'era molto. Ma c'era un programma televisivo che mostrava la moda di allora. Per questo siamo legati a quei nomi della moda anni 80, ma non sono un punto di riferimento nostalgico. Erano le uniche cose che potevamo vedere del mondo a cui sognavamo di appartenere. Per noi rappresentavano il glam. Ora, però, siete entrati a fare parte di quel mondo E i ragazzi guardano a noi come esempio, sfortunatamente per loro (ridono, ndr). Nelle vostre prime interviste definivate la moda come un posto magico e incantato, oggi continua a esserlo? Lo era quando eravamo bambini e lo guardavamo incantati sognando di farne parte un giorno. Oggi, credo che il nostro approccio sia più realistico. Ma mai cinico. Semplicemente non è più un sogno ma è la realtà in cui lavoriamo, l'ambiente in cui viviamo. Quel mondo magico è tuttora una parte di noi con cui entriamo in contatto


quindici anni di moda & interviste I 93

quando creiamo e a cui attingiamo continuamente, ma ora il mondo della moda è diventato più reale. La linea disegnato da voi per H&M nel 2006 è stata accolta molto positivamente, soprattutto l'abito da sposa è andato subito esaurito in tutti i negozi. Avete intenzione di ripetere l'esperienza? No, è stata un'esperienza unica. Come unico è un abito da sposa, perché ci si sposa una volta sola, o almeno così dovrebbe essere... Per questo ci ha divertito moltissimo l'idea di creare un abito che si dovrebbe indossare una volta per una catena come H&M, ci divertiva il contrasto. La provocazione. Nel lanciare Flowerbomb avete detto che l'olfatto era il nuovo confine della moda, il senso che mancava all'universo del fashion Il profumo è un punto d'arrivo per gli stilisti e non solo dal punto di vista estetico: ti dà la possibilità di entrare in contatto con molte più persone, molte più di quelle che si possono permettere di comprare moda. E ti dà l'opportunità di raccontare una storia, un'idea del tuo mondo. Che differenza c'è nel creare una linea d'abbigliamento o un profumo, quale vi dà più soddisfazione e qual è più impegnativa? È molto, è vero. Ma il processo creativo è simile. Per il profumo, per esempio, siamo partiti dal nome. E abbiamo incominciato a pensare e domandarci «Come profuma

Flowerbomb?», «Qual è il suo bouquet?», «Come è il suo packaging?» Lo stesso per Antidote (la prima fragranza uomo creata sempre con il gruppo L'Oréal, ndr): prima ci è venuto in mente il nome e poi, da lì, è venuto tutto il resto. Ed è così anche per le collezioni di moda. All'inizio immaginiamo una storia, un filo conduttore, e da quello andiamo a ritroso fino agli abiti, agli accessori della collezione. Il vostro approccio è sempre spiazzante, partite dalla fine per arrivare all'inizio, come fanno alcuni giallisti, come per esempio diceva di fare Edgar Allan Poe Non ci avevo mai pensato, interessante... Nelle vostre sfilate lo show è così d'impatto che spesso rischia di prevalere sugli abiti. Ciò vi preoccupa? La moda è lo show, è la sfilata. È quello il vero lavoro, la performance in passerella. Non è che i vestiti sono meno importanti, ma sono come gli attori di uno spettacolo. Non sono in secondo piano, sono parte di un progetto più grande. Per festeggiare il vostro 10° anniversario avete pubblicato una rivista che ripercorreva la vostra storia. E, nell'editoriale del vostro giornale, sostenevate che i media sono l'ossigeno della moda Lo pensate davvero? Certo, i media sono essenziali. Rendono il nostro lavoro visibile e quindi reale. È un elemento indispensabile del nostro lavoro.


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Giambattista Valli

La letteratura è la sua droga. È ammaliato dall’India, da Marcel Proust e da Francis Bacon e va matto per Federico Fellini, Kurt Cobain, Peter Greenaway e Antonio Lopez. È Giambattista Valli, autore di una delle collezioni più hot del momento. E tra i suoi maestri di stile cita Elsa Schiaparelli, Walter Albini e monsieur Emanuel Ungaro: «Disegnare vestiti è tutto quello che so fare». Cristina Manfredi

C’

è una grande novità nell’ambiente a volte asfittico del fashion world globale. Giambattista Valli, romano di nascita e parigino per vocazione, smette una volta per tutte i panni dello stilista emergente a caccia di conferme e assume a pieno titolo il ruolo di designer di punta della womenswear di inizio millennio. E il bello è che il colpo grosso gli è riuscito senza dover ricorrere all’ombra lunga dei grandi gruppi francesi del lusso che da tempo ormai controllano, influenzano e monopolizzano le dinamiche di tanta creatività mondiale. In soli due anni di vita, il brand fondato dal designer italiano si è imposto all’attenzione di stampa e compratori grazie a un fascinoso ossimoro di opulenza rétro e silhouette up to date, e festeggia ora la sua consacrazione con la lucidità di chi è ben consapevole dei propri obiettivi e delle proprie potenzialità. E del fatto che in fondo la moda in sé non varrebbe poi un granché se non la si animasse di cultura, libri, viaggi e sentimento. Dal suo debutto nel 2005 a oggi, la sua fama è cresciuta a ritmi vertiginosi. Quali sono i cardini di questo successo? Credo che sia stata la mia indipendenza creativa a garantirmi tutto ciò. Non avere l’appoggio di nessuna delle imponenti realtà fashion-economiche che dominano il settore mi è costato moltissimo, ma mi sta ripagando perché riesco a imprimere una grande coerenza a tutto il prodotto che arriva al pubblico con la mia firma. Sono pochi i nomi davvero autonomi presenti in questo momento sulla piazza e penso che questa mia caratteristica abbia attratto l’attenzione degli addetti ai lavori, alla continua ricerca di novità. Pensa che sarebbe riuscito a ottenere altrettanta fortuna se fosse restato in Italia? Non ce l’avrei mai fatta se non mi fossi spostato a Parigi. La capitale transalpina ti dà un respiro molto più internazionale rispetto all’Italia ed è innegabile che il gusto per la scoperta di talenti ancora sconosciuti sia tipicamente francese. Il nostro paese è troppo legato alle realtà industriali già consolidate e lascia poco spazio agli emergenti. Su quali basi poggia la sua estetica? Sicuramente non su un’immagine fisica di donna, dato che il mio vero punto di partenza affonda in un pensiero, in una filosofia di femminilità, che detta i canoni del proprio stile senza essere contaminata dalle mode. I miei abiti perciò si muovono sul binario del timeless & ageless, concedendo il massimo spazio all’interpretazione delle singole acquirenti. È fantastico quando mi imbatto in una sconosciuta che indossa un mio abito a modo suo. E più fatico a riconoscerlo di primo acchito e più ci provo gusto: è il segnale che una donna speciale mi ha scelto reinventando le mie idee in base alla sua sensibilità unica, da autentica leader.

Come riesce ad attrarre l’attenzione di una clientela dalle idee così chiare? Puntando su un lusso fatto di sperimentazione, ricerca e cultura e cercando di rendermi riconoscibile grazie a questi tre aspetti. In questa prima fase di startup mi sono concentrato per esprimere l’essenza della mia moda, per costruire un fashion statement che possa durare nel tempo. E qual è il cuore del suo universo moda? La silhouette, costruita sempre mettendo insieme elementi normalmente a contrasto, spunti esuberanti come le piume e linee taglienti e precise, rubate al tailoring maschile. E poi i party dresses, che trasportano chi li indossa in un’atmosfera meravigliosa, lontana dalla quotidianità banale a cui non sono interessato. Sei Shonagon ne I racconti del cuscino descrive il piacere intenso e delicato di tirar fuori dall’armadio un kimono dove si era annidato per sbaglio dell’incenso. Ecco, io vorrei che un mio outfit riuscisse a regalare quella stessa sensazione di tuffarsi magicamente in un mondo di sogno. Lei è molto amato dalle celebrities. Ce n’è qualcuna che sente davvero affine, come accadde tra Audrey Hepburn e Hubert de Givenchy? Si è creata grande intesa tra me e le tante star che scelgono i miei outfit. Io le vivo ormai come delle amiche, ma non c’è stato ancora il modo di costruire un sodalizio così profondo. Il feeling tra la Hepburn e Givenchy è stato il frutto di molti anni di frequentazioni e di rispetto, io ho ancora bisogno di tempo. Capucci, Fendi, Krizia e Ungaro. Può riassumere con una sola parola la sua esperienza in ognuna di queste storiche realtà della moda? Capucci rappresenta la mia formazione, il primo vero incontro con questo mondo. Fendi è per me l’eclettismo di un’azienda italiana, guidata artisticamente da un tedesco e dall’offerta così diversificata. Krizia racconta la grande industria in tutte le sue sfaccettature e Ungaro la libertà. Lavorare a fianco di monsieur Emanuel mi ha fatto capire che dovevo trovare il modo di esprimermi appieno senza vincoli né limiti. Pensa mai di venire a sfilare in Italia? Non ho davvero nulla contro il mio Paese, anzi. È solo che ormai lo identifico con il mio privato, mentre a Parigi vivo la mia dimensione pubblica e professionale. Tornare a casa è un’esperienza proustiana, un fluire di volti e ricordi che ci tengo sempre più a vivere in totale intimità. Il suo segno di riconoscimento è la collana di perle che porta sempre al collo. C’è una storia particolare legata a quel collier? Simboleggia il mio amore per l’India e faceva parte di una ricca collana appartenuta a un maharaja. E poi ho scelto di mettermela tutti i giorni perché mi divertiva l’idea di indossare un classico dell’eleganza femminile. Su di una signora potrebbe simboleggiare uno stile sobrio e compassato. Ma su di me assume un twist forte e inusuale.

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Diane von Furstenberg

«Very feminine and sophisticated». La cifra stilistica della designer del jet-set resta fedele al binomio chic & glam. Rigorosamente a stelle e strisce. Marco Cortesi

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ata a Bruxelles rappresenta oggi una colonna portante del sistema moda made in Usa. Tanto che Diane von Furstenberg è diventata presidente del Council of fashion designers of America. Il suo background? Un passato da modella e una gioventù circondata dai personaggi del jet set, attori, artisti, ereditieri incontrati nella New York dello Studio 54. E una visione che non propone falsi miti. «My ispiration comes from nature». Quali sono gli elementi dello stile Diane von Furstenberg? Risposta. In primis il mio stile non è assolutamente impegnativo, è confortevole, facile da indossare, ma al contempo sempre femminile e sofisticato. Una summa del glam americano. A che tipo di donna pensa quando progetta le sue collezioni? Non lavoro pensando a uno stereotipo femminile. Disegno vestiti per tutte quelle donne che si sentono bene e che desiderano piacere principalmente a se stesse. Tutte le donne sono le mie muse. Da dove inizia a creare una nuova collezione? Comincio sempre da un’ispirazione che generalmente, in modo diretto o per un verso più complesso, è sempre collegato alla natura. Attualmente, tanti creatori impiegano molte energie nel vestire celebrities, questo è di aiuto alle vendite? Tutto quello che può portare anche un piccolo supporto alle vendite è di grandissimo aiuto. Le celebrities sono ottime testimonial di stile, danno un’intensità ulteriore al tuo mondo creativo. Quali sono le caratteristiche della moda americana? La moda americana è soprattutto invenzione ed energia, ed è oggi in un momento particolarmente vitale. Ci sono infatti molti nuovi creatori emergenti e questo assicura nuovi sviluppi creativi per la nostra industria. Essa ha anche una ricca storia, ed è per questo che il Council of fashion designers of America ha recentemente realizzato un libro dal titolo American fashion. Si tratta della prima antologia di questo tipo, e il

suo scopo è quello di celebrare oltre sette decenni di attività e il lavoro di oltre cento designer che hanno scritto piccoli capitoli della storia del vestire contemporaneo. Quali sono i suoi progetti per il futuro? Per questo autunno è in programma una serie di nuove aperture di boutique in alcune delle più grandi città del mondo, tra cui Mosca, Hong Kong, Shanghai, Bruxelles e Las Vegas. Mentre per la prossima primavera è previsto il lancio di una collezione di scarpe e borse. E infine come parte del Cfda sto lavorando per portare al Congresso americano una proposta chiamata «Design piracy prohibition act», un documento che ha lo scopo di proteggere le creazioni dei designer per almeno tre anni dalla loro ideazione.

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Mark Lee @ Gucci Il manager spiega i motivi del decollo della griffe fiorentina: visione strategica e creativa chiara e coerente, niente brand extension, qualità italiana «senza compromessi». Dopo l'apertura del più grande Gucci store a New York nel febbraio 2008, il prossimo grande progetto retail riguarderà la boutique aperta 70 anni fa a Roma. Ristrutturata in onore di Frida Giannini. Alessandro Wagner

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l made in Italy arma vincente di Gucci. Un made in Italy «senza compromessi» quale garanzia di una qualità superiore, senza paragoni. Un made in Italy nel segno di un rapporto fra la griffe e le aziende artigiane toscane che dura da generazioni, e che continuerà a essere l'arma del successo della griffe anche in futuro. Il riconoscimento alla qualità made in Italy che viene da Mark Lee, il manager che ha firmato il decollo del marchio fiorentino, non ha ovviamente niente di campanilistico: Lee è americano, la Gucci fa parte di un gruppo, il Gucci group, che ha il quartier generale a Londra e che a sua volta è posseduto da una conglomerata francese, Ppr. Quando assunse l'incarico tre anni fa, dopo l'uscita di scena di Tom Ford e Domenico De Sole, il brand Gucci veniva dato come inesorabilmente avviato sulla via del declino: invece in tre anni, in tandem con la direzione creativa di Frida Giannini, ha aumentato le vendite di poco meno del 50%, ha portato il brand Gucci a essere il più conosciuto brand italiano all'estero e il secondo del settore del lusso dopo Louis Vuitton. Lo confermano anche i dati di bilancio di primi nove mesi 2007, archiviati con un fatturato di 1,557 miliardi di euro, in crescita di poco più del 10% grazie all'ottima performance proprio del prêt-à-porter (+22,3%) e delle calzature (+17%). Oggi Mark Lee è convinto di avere ancora molta strada da fare senza cambiare la rotta che ha tracciato dal primo momento: niente seconde linee, niente brand stretching, come conferma lui stesso in questa intervista. è proprio sicuro di non cedere alle tentazioni della brand extension? È proprio convinto che sia la strada giusta? Altri marchi di primo piano sulla scena internazionale hanno scelto la strada opposta? è la scelta giusta per noi. Con questo non voglio dire che sia la scelta migliore in assoluto, sempre e comunque: ognuno ha la sua strategia, non la commento. Questa è quella giusta per noi, che abbiamo ancora molte opportunità di crescita: cresciamo a due cifre percentuali in tutti i settori in cui siamo presenti, e cresciamo non solo nei mercati emergenti ma anche nei nostri mercati storici. In questo momento l'abbigliamento donna cresce più di tutti. L'abbigliamento per Gucci è ancora una grande

mf fashion - 5 Dicembre 2007

opportunità. Intanto lo scorso anno abbiamo superato la soglia dei 2 miliardi di ricavi con un solo brand, un buon risultato non le pare? Quando, tre anni fa, le fu affidato il timone della Gucci, le fu assegnato anche un obiettivo molto ambizioso, raddoppiare le vendite in sette anni. A che punto è arrivato? Nei primi due anni siamo cresciuti del 18,4% e del 16,4%; nei primi nove mesi del 2007 siamo cresciuti del 10,3%, il ritmo ipotizzato per raggiungere l'obiettivo del raddoppio in sette anni. Vedremo esattamente come chiuderà l'anno, comunque siamo quasi a metà strada dopo tre anni. Quali sono state le leve di questo successo? Una visione strategica e creativa chiava e coerente. La creatività è il motore di tutto, e sotto questo profilo Gucci ha avuto la fortuna di beneficiare dello straordinario talento di Frida Giannini. L'esclusività e la presenza globale: Gucci è un marchio sempre sotto controllo e non vuole certo essere un marchio di nicchia. E poi la qualità, la qualità made in Italy: un impegno al quale Gucci non verrà mai meno. Non pensa proprio di cominciare a delocalizzare? è davvero importante che la qualità sia made in Italy? è importantissimo, la qualità made in Italy è davvero uno dei motivi centrali del nostro successo. La nostra produzione di pelletteria è tutta realizzata in Toscana. Ci sono aziende che lavorano con noi da tre generazioni, e credo che continueremo così. A febbraio sarà inaugurato a Manhattan il più grande Gucci store al mondo, con un party benefico di cui Madonna sarà la madrina. Il prossimo anno riserverà altre sorprese sul fronte retail? Oltre all'inaugurazione di Manhattan abbiamo un altro progetto chiave in cantiere per il 2008, che interesserà la boutique aperta nel 1938 da Guccio Gucci, la seconda boutique della storia Gucci, che compie 70 anni. È un progetto che riveste anche un significato particolare, perché Frida Giannini è di Roma. Ma per ora non posso rivelare niente di più.


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Francesco Scognamiglio

Nato a Pompei, già ai tempi della scuola di moda, IL DESIGNER aveva ben chiarA quella che sarebbe stata la sua visione fashion: unire la couture alla contemporaneità. La fortuna è dalla sua parte e il battesimo professionale avviene sotto la guida di Gianni Versace, «l’unico vero genio che abbiamo avuto in Italia negli ultimi 50 anni». La tappa successiva, nel 2001, è il lancio della sua collezione. Marco Cortesi

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el suo passato esperienze diverse tra cui Versace e Verri. Poi il lancio della sua linea, con una toccata e fuga nell’alta moda romana. L’evoluzione verso il prêt-à-porter con una sfilata-happening diventata l’appuntamento serale, imperdibile, dall’apertura domenicale della settimana milanese della moda. Ma dopo la sua ultima sfilata di settembre, Francesco Scognamiglio non è più lo stesso. Ha alle spalle un nuovo produttore e le sue creazioni sapientemente costruite, sofisticate ma portabili, raffinate e glamorous, hanno conquistato stampa e compratori. Prefigurandolo come un’altra conferma della vitalità del futuro per il made in Italy. Come sarà la donna Francesco Scognamiglio per la prossima primavera-estate? Per questa collezione ho preso ispirazione da un certo genere di persone. Le signore aristocratiche del Devonshire in Inghilterra. Donne come la modella Stella Tennant o Honor Fraser, scelte per il loro concetto di lusso discreto e riservato. La loro eleganza di nicchia, lontana dai luoghi comuni dell’apparire. I colori predominanti sono il bianco, anche se l’inizio della sfilata partiva col nero, e poi arrivava al blu notte. Come accessori ho dato molto importanza ai bottoni, bagnati nell’oro zecchino e anticati su cui sono impressi simboli araldici di quei luoghi. D. A cosa riserva maggiore attenzione nell’impostare una nuova collezione. Ai tessuti, alla silhouette? Tutta la genesi della collezione è importante. I volumi, i materiali e le proporzioni, tutto contribuisce a costruirla. Nelle sue collezioni è ricorrente un certo filone noir. Donne ingabbiate o costrette da cinture di metallo… In realtà la gabbia serviva a racchiudere la donna, a proteggerla. Come una armatura che chiudeva il mistero degli abiti. Sono stato in dubbio se metterla sino a poco prima della sfilata, perché copriva l’elaborata costruzione del capo. Ma ho pensato che fosse più interessante farle scoprire le lavorazioni. A Milano ha sempre sfilato nei primi giorni del calendario. Questo la ha aiutata o penalizzata? Credo mi sia stato d’aiuto, ma la prossima stagione non so se sarò nel calendario ufficiale. Visto l’interesse della stampa straniera, penso che mi sposterò un po’ più in avanti nella settimana. C’è spazio per i giovani creatori oggi nel sistema moda? Lo spazio c’è, pero non ci sono giovani stilisti italiani che possano emergere. Anche se un creatore non è un grande nome, ha comunque l’attenzione da parte della stampa. Io non mi sono mai lamentato della risposta alla mia moda. I miei concetti sono sempre stati raccolti da chi la moda la fa e la crea, tipo gli stylist. Se pubblicano

i capi allora sono riuscito a lanciare un messaggio. La stampa internazionale à la page richiede i suoi capi. Questo sembra essere il suo momento, tutti la cercano e tutti parlano di lei. Come mai tutta questa attenzione ora, quando è da anni che lavora? Non lo so, non so rispondere. Sento di essere molto amato dalla stampa e forse sto dando delle conferme e la gente si accorge di me. Credo forse di raccogliere i frutti di quello che ho costruito, sono i risultati di un lungo lavoro. La grande attenzione della stampa che ha ricevuto ha poi ricadute sulle vendite? Assolutamente sì. Le vendite sono andate molto bene. Sopratutto in Russia e in un modo che ci ha sorpreso. È stato un feedback positivo e contiamo in futuro di raddoppiare i risultati ottenuti. Come si trova con il nuovo produttore, la Kabi srl? Sono fortunato. È’ una delle realtà, e sono poche, di azienda seria che addirittura anticipa i tempi di produzione e consegna. Sono dei collaboratori speciali, mi aiuteranno a svilupparmi e a portare avanti il mio made in Italy. Così come è importante essere in uno showroom come Studio zeta. Che ha la sua nicchia selettiva di negozi e i suoi importanti designer, come Giambattista Valli e Albino. Pensa a qualche nuovo progetto per il futuro? Ora non ho il tempo, ma la notte penso alla collezione uomo. Alcuni me lo chiedono già da un po’. Avrei anche dei finanziatori, ma ora non ho la possibilità e voglio concentrarmi sul mio progetto donna. Arriverà come altri progetti e altre licenze che stiamo sviluppando. È un pensiero ricorrente, non ci sono ancora tempi stabiliti, ma conto in un paio di anni di uscire. Un altro progetto, anch’esso a lunga distanza, è quello di lanciare un profumo. Che è il passo che compie un marchio consolidato e diventa l’essenza del tuo lavoro. Quali sono stati i suoi maestri? Uno solo e l’unico designer che ho seguito, amato e stimato: Gianni Versace. Al quale devo tutto e che ricordo come uomo e come artista, credo sia stato l’unico genio vero che abbiamo avuto negli ultimi cinquant’anni anni. Un sogno da poter realizzare a breve? Avere dei buoni risultati di vendita, vendere e fare sempre più soldi, e magari andare a sfilare a Parigi. Lì avrebbe più senso e ci sarebbero anche più risultati, per stampa e visibilità, almeno cinque volte tanto. Parigi è più selettiva, più intelligente, Milano sta diventando un pò un mercato della frutta. Si sta caratterizzando per avere un’etichetta molto commerciale. Che è ciò che io non vorrò mai essere.

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Alessandra Facchinetti @ Valentino Ha avuto paura? «Si, tanta». In effetti il compito non era facile: disegnare la donna di un mostro sacro come Valentino. Ma il debutto a Parigi della stilista è stato superato a pieni voti. Con un appeal chic in chiave DECISAMENTE moderna. Stefano Roncato

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ra la scommessa di stagione. Che Alessandra Facchinetti ha superato a pieni voti. Perché la designer, con un passato da Gucci e da Miu Miu, è riuscita nel non facile intento di succedere a Valentino nella sua maison, dando una nuova anima creativa alla donna grazie a uno show ripettoso del passato della griffe e a una collezione che ha riletto in chiave moderna gli stilemi del marchio. Che ha avuto il benestare anche di Giancarlo Giammetti, socio storico di Valentino Garavani: «Si mi è piaciuta, è un primo passo importante, era un compito difficile. Alessandra è stata rispettosa del lavoro di Valentino, della sua qualità, della sua delicatezza». E davanti a un parterre nella sala del Palais de Chaillot in cui spiccavano anche Wynona Ryder o Marisa Berenson, la scena è per nuovi volumi nei tailleur, sottovesti con ricami rinascimentali e pantaloni con ballerine, cappe che nascondono le braccia o giacche con una lavorazione speciale, increspate come mosse come da un plissé solei a partire dal collo. Ecco pizzi per dare volume a una camicetta, per disegnare abiti da sera, petali di chiffon per disegnare un fiore intorno al collo di un top. Fino al lungo abito che chiude la sfilata con una lavorazione couture di strisce di tessuto che si muovono come pagine. Sono un po’ come l’invito della sfilata, un foglio di carta bianco, per ricordare come sia «una storia che bisogna scrivere». Come si sente dopo il successo registrato con la sua prima prova da Valentino? Ancora non ci credo. Sono molto contenta anche se veramente stanca. È un momento decisamente bello, con il mio team stiamo lavorando bene dando il massimo. In che modo è diverso questo debutto rispetto a quello da Gucci, dopo Tom Ford? Si tratta di una cosa differente. Sempre emozionante. Ma adesso ho una maturità diversa, sono più sicura su certi aspetti. E questo aiuta. Come ha organizzato il discorso creativo? Sulla parte donna lavoro con un team di circa 30 persone, di cui 5-6 sono arrivate con me. C’è stata una grande integrazione, l’unione fa la forza. Dopo la sfilata sto incominciando ad andare più spesso a Roma, finora avevo lavorato soprattutto da Milano. Non dimenticherò mai la prima volta in cui sono entrata nell’atelier, con le premieres che mi hanno accompagnato a incontrare Valentino. Un luogo da sogno.

Per sei mesi è stata lontana dai riflettori, nel momento dei celebri addii di Valentino, riapparendo alla sfilata haute couture di gennaio… Intanto ho avuto tempo per concentrarmi. Ma soprattutto era giusto, un gesto rispettoso per Valentino. Non sarebbe stato corretto ostacolarsi l’un l’altro. Come ha proceduto nel lavoro? Ho guardato l’archivio, ho visto di tutto, ho fatto molta ricerca, quindi ci sono state le mie riflessioni. Quello che mi colpisce maggiormente del lavoro di Valentino è che non si riesce a dare un’età o un’epoca alle sue cose. È timeless. E anche io avevo voglia di tornare a uno stile classico ed elegante. Come bisogna leggere la sfilata del suo debutto? Ci sono dei riferimenti agli anni 60, alle creazioni di Valentino in cui c’era un equilibrio tra romanticismo e graficismi. Ma nulla di nostalgico. Mi piacciono i contrasti, quindi ci sono citazioni agli anni 60 e al Rinascimento, per esempio, senza cadere nel didascalico. Gli archivi sono sempre fonte di ispirazione come la collezione bianca del ’68, quella dell’abito di Marisa Berenson ma prendo grande ispirazione dal mondo culturale. Ho posto una grande attenzione ai dettagli. E abbiamo lavorato molto sulle proporzioni, sui volumi, con costruzioni più soft. Con una rilettura più grafica di alcuni elementi-chiave, come il fiocco. Presentati in un allestimento color carne… È un nude cipriato, una nota cromatica di pulizia e femminilità che mi fa stare bene. Volevo sfilare al mattino presto, con un défilé e una luce che permettessero di vedere le cose da vicino. La sfilata è caratterizzata da un’eleganza estrema, la sequenza ha mescolato giorno e sera. Senza pensare a una storia particolare, sono i pezzi che devono essere guardati. Rappresenta un ritorno alla moda pura. Prima si associava Valentino a donne come Jackie Kennedy, quali sono le sue icone di riferimento? Sicuramente Uma Thurman. Ma mi piacerebbe vestire anche Angelina Jolie. La donna Valentino che ho in mente e che è emersa dalla sfilata è elegante ma più giovane. Qual è stato il momento più difficile? Quando ho dovuto disegnare il primo schizzo. Si riposerà adesso? Non proprio, sono già al lavoro su qualcosa di decisamente importante. Non dimentichiamoci che ora c’è l’alta moda.

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Riccardo Tisci @ Givenchy L'UOMO DOPO LA DONNA. RICCARDO TISCI DEBUTTA SULLE PASSERELLE MASCHILI DISEGNANDO UN BAD BOY DALL'ANIMA GENTILE, MA CON QUEL TOCCO STREET-DARK CHE È IL SUO SIGILLO. PARTENDO DALLA BANDANA E RISPETTANDO LO SPIRITO DI MONSIEUR HUBERT. Giampietro Baudo

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il profeta del nuovo uomo della maison. Il giovane esteta che sta riscrivendo i codici bourgeois e raffinati del menswear di Givenchy. Con la primavera-estate 2009 Riccardo Tisci ha iniziato a raccontare la sua fiaba goth anche per l’altra metà del cielo, dopo aver ridisegnato il profilo della donna di avenue Georges V. Tre le fondamenta su cui è stato edificato il nuovo: latinità, sofisticatezza, attitudine street. «Ho cercato di unire il mio universo con quello della maison... Di rispettare lo spirito di monsieur Hubert contaminandolo con elementi che mi appartengono». E il risultato è salito in pedana tra le statue del museo Bourdelle fra rintocchi dramatic di campane cattoliche. Che uomo aveva in mente quando ha iniziato questo progetto? Volevo disegnare l’uomo forte che è in grado di accompagnare la mia donna, un bad boy dall’anima gentile, delicata. Anche per questo ho lavorato sui pesi dei tessuti e su alcuni touch femminili. Ma il punto di partenza è stata la cultura dell’America latina, è la mia ossessione... Adoro l’attitude elegante dei ragazzini brasiliani che possono portare una camicia di pizzo e un paio di shorts con le flip flop ai piedi con lo stesso portamento altero e aristocratico di un uomo in smoking. Ha pensato a personaggi particolari? A Rodolfo Valentino, ai personaggi de Il padrino, a una certa tipologia di uomo mediterraneo moderno, a mio zio che faceva il carabiniere e che durante la settimana era sempre in camicia e bermuda. Ma la domenica, era cattolicissimo, si

vestiva perfettamente per i rituali della Madonna di Taranto. Era impeccabile, con un eleganza sofisticata e una sensualità forte. C’è un oggetto da cui e partito? La bandana, è un po’ il chiodo fisso di questa stagione. Ho scelto la stampa bandana per un look dégradé, l’ho velata nelle camicie oversize e l’ho usata come unico accessorio frivolo, ricoperta da una colata di borchie in metallo invecchiato. Quali elementi hanno in comune il suo uomo e la sua donna? In primis sono accomunati da un’aura goth profonda, crepuscolare. Ma hanno anche una carica di forte sensualità carnale. E poi c’è una serie di codici riconoscibili: il total black, gli acuti cromatici accecanti, le borchie, il dégradé. Ho voluto davvero che fossero due metà di uno stesso universo. Ma lei come si veste nella quotidianità? Non ho mai avuto un rapporto facile con la moda maschile, non mi vesto fashion, non seguo i magazine homme... Questo era il mio battesimo del fuoco, quello che è salito in pedana è un po’ una summa del mio armadio: una T-shirt e un paio di pantaloni corti. Ho voluto contaminare Givenchy con un universo di strada più vicino alla mia cultura. Anche nello styling, i leggings sotto i pantaloni al ginocchio sono il look dei ragazzi di Rio che in spiaggia giocano a volley ball. In una parola il suo uomo? Virile. L’eleganza verrà di conseguenza.

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Pietro Beccari @ Louis Vuitton Pietro Beccari, senior vice president della maison di Lvmh, racconta i piani futuri. Dalla nuova campagna pubblicitaria con i Coppola fino al varo del secondo polo produttivo di Fiesso d'Artico, da 35 mila metri quadrati, che sarà a regime da settembre. Cristina Manfredi

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roduzione e immagine sono i due asset su cui si concentrerà la crescita di Louis Vuitton. Almeno nelle intenzioni di Pietro Beccari, senior vice president e communication & marketing director della maison francese che fa capo al gruppo Lvmh. Il rafforzamento della struttura produttiva passerà, a partire dal prossimo settembre, per il battesimo di una seconda unità a Fiesso d'Artico di 35 mila metri quadrati dedicata al mondo degli accessori. In tandem, la griffe continuerà a investire sul doppio canale della comunicazione, affiancando all'advertisement più legato alla moda una sequenza di scatti istituzionali. Una strategia premiante che lo scorso anno ha portato la maison a registrare una crescita a doppia cifra. E i nuovi protagonisti ritratti da Ann Leibovitz saranno Francis Ford Coppola e sua figlia Sophia, in scena dal prossimo mese di luglio. Come ha anticipato a MFF il manager in questa intervista. A un anno dal lancio delle campagne core value potete tracciare un primo bilancio? Volevamo ampliare il nostro spettro d'azione, ritrovare un equilibrio tra l'immagine fashion, su cui avevamo spinto dal 1998 per promuovere le allora neonate linee disegnate da Marc Jacobs, e le nostre radici più profonde. C'era un'awareness fortissima del marchio, ma una certa ritrosia nell'avvicinarlo poi nei negozi. I ritratti di Michail Gorbachov, Catherine Deneuve, Steffi Graff con André Agassi e Keith Richards e i 90 secondi di spot cinematografico ci hanno molto aiutato in questo senso. Perché avete scelto personaggi tanto differenti? Ci piace sorprendere. Non vogliamo essere troppo coerenti con ciò che la gente si aspetta da noi. E come mai per la prossima campagna avete puntato su Sophia e Francis Ford Coppola? La storia di una famiglia che tramanda nel tempo il suo Dna del successo ci sembrava perfetta per richiamare i valori della griffe. Ci sono grande complicità e un legame profondo tra di loro, cosa che Ann Leibovitz, con il suo scatto che da luglio proporremo su scala mondiale, ha saputo rendere al meglio. Chi è attualmente il vostro interlocutore ideale? Cerchiamo un linguaggio universale che non parli solo ai fashionisti. E vogliamo approcciare al meglio il pubblico maschile. La comunicazione però è nulla senza il prodotto... E infatti, oltre all'immagine, ci stiamo concentrando molto anche sugli aspetti produttivi. Abbiamo acquistato 35 mila metri quadrati a Fiesso d'Artico, dove a partire da settembre entrerà a pieno regime un secondo workshop da 12 mila metri quadrati. Stiamo investendo molto in Italia e daremo il via a un robusto piano di assunzioni.

mf fashion - 6 giugno 2008


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Valentino Garavani

Il couturier torna in scena a Parigi con una grande esposizione di 230 abiti, la prima mai dedicata dal museo francese a un designer vivente. «Mi sento ancora in vacanza, come se a breve dovessi ricominciare», ha raccontato lo stilista, senza risparmiare commenti alla moda di oggi («Non mi piace, gli abiti attuali mi fanno pensare a mise per piccole fuggiasche») e alla sua erede creativa Alessandra Facchinetti («È una signorina per bene e molto carina, ma è ancora troppo presto per un giudizio»). Giampietro Baudo

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alentino is back. Mister Garavani, «The chic», torna in scena. E questa volta lo fa a Parigi, nella cornice del Louvre che per la prima volta rende omaggio a un couturier vivente. All'Union centrale des art décoratif è stata inaugurata nella giornata di ieri una grande retrospettiva di oltre 230 abiti intitolata «Valentino: themes et variations», che punta a raccontare i segreti del suo mondo d'alta moda (vedere box in pagina). A 16 mesi dall'annuncio del suo adieu alle passerelle e a quattro mesi dall'ultima sfilata, sempre a Parigi, il couturier di Voghera si racconta in questa intervista a MFF. Annunciando i progetti futuri (il film a lui dedicato che verrà svelato al prossimo Festival di Venezia) e raccontando cosa pensa della moda di oggi. Come sono stati questi quattro mesi? Mi sembra di essere in vacanza... di essere in un momento di break in cui mi sto riposando. Anche se devo dire la verità che questi mesi sono passati così velocemente che non ho ancora fatto in tempo a spacchettare tutti i libri, i disegni, i premi e le foto dopo il trasloco dall'atelier. C'è qualcosa che le manca? Sicuramente disegnare, ecco se devo scegliere una cosa mi manca la possibilità di materializzare su carta un'idea, un'immagine. Perché nonostante tutto continuo ancora a pensare agli abiti, poi si vedrà. Dopo questa mostra, quali saranno i suoi prossimi impegni? Probabilmente al Festival del cinema di Venezia di settembre presenteremo il film Valentino: the last emperor diretto da Matt Tyrnauer. Abbiamo fatto delle piccole correzioni, c'erano delle cose che non mi convincevano ma devo dire che il risultato finale mi piace proprio. E i lavori per il museo che Roma ha promesso a lei e a Giancarlo Giammetti? Stiamo lavorando anche a questo progetto, le elezioni con il cambio di sindaco ha inevitabilmente fatto ritardare un po' tutto quanto. Credo che se ne riparlerà nel 2009. Ma non le viene mai un po' di nostalgia? Devo dire mai. Gli ultimi mesi di lavoro, da luglio a gennaio scorso, sono stati indimenticabili, Le celebrazioni a Roma, l'ultima sfilata di haute couture... mi sono ritirato con una grande felicità, rendendo omaggio a tutte le città che mi hanno aiutato a costruire la mia carriera, da Roma a Parigi. E se dovesse sceglierne una? Nessuna delle due, forse Londra. Roma è la città in cui ho lavorato tutta una vita, uscivo da casa, salivo in macchina, la attraversavo e mi ritrovavo nell'atelier di piazza Mignanelli. È una città incantevole, ma l'ho sempre vissuta poco. A Parigi devo tutto il mio successo. Ma con Londra ho un feeling più forte. Ha la stessa energia di New York, ma è più europea come mentalità. Più vicina al nostro vivere.

mf fashion - 17 giugno 2008

Qual è il suo primo ricordo legato alla moda? È vivido e stampato nella mia testa, ancora oggi a tanti anni di distanza. Avevo 13 anni ed ero ammalato a letto. Ricordo che mia madre mi avvolse in una coperta per portarmi a vedere una mia cugina che si stava preparando per andare a un ballo. Avevo la febbre a 40 e mi ricordo di questa immagine di donna avvolta in un abito di tulle rosa con una cappa di cigno e una rosa fresca appuntata nei capelli. Era il 1940. È lì che ha deciso che da grande sarebbe diventato un couturier... Non credo avrei potuto fare nient'altro. Quando da ragazzino andavo al cinema con mia sorella restavo incantato davanti al grande schermo. Lana Turner, Hedy Lamarr, Rita Hayworth mi affascinavano conturbanti nelle loro mise ad alto tasso di charme. Sognavo quell'estetica, di poter scrivere anch'io un piccolo capitolo di quella storia elegante. Ma oggi esistono ancora donne eleganti? Non credo, il mondo è cambiato e soprattutto il metro di giudizio è cambiato. Non esiste più qualcosa di giusto o di sbagliato. Esiste una grande voglia di vestirsi e di osare, magari anche sbagliando. Mi capita spesso di vedere bellissime donne con indosso abiti da sera stupendi, anche ragazze molto giovani che hanno riscoperto il gusto di una certa tradizione. Che magari si presentano a una festa con i capelli in disordine o il trucco non a posto. Ecco, forse indossano ogni cosa con un gusto più easy going, senza una vera e propria regola d'etichetta. Quell'eleganza che tutti sognano è relegata agli Usa, a certe signore che si possono incontrare a New York all'apertura dell'Opera. Che icone ha in mente quando pensa all'eleganza? A Jackie Kennedy, sapeva sempre come vestirsi, in qualsiasi occasione era perfetta. E a Marella Agnelli, un simbolo dello chic low profile, discreto e con grande charme. E degli stilisti di nuova generazione, che cosa ne pensa? Hanno aiutato la moda? Non credo che l'estetica di oggi faccia per me. Gli abiti dei giovani designer sono dimessi e stropicciati, mi fanno pensare a mise per piccole fuggiasche di paesi poveri. Con quelle linee piccole e quei collettini da educanda. Credo che oggi ci sia troppa poca ricerca e troppa voglia solo di stupire. Quando la moda diventa troppo intellettuale, il meccanismo s'intoppa. Anche perché gli abiti devono vivere. E quando restano confinati soltanto a una passerella non hanno senso. Devono essere reali, quotidiani, figli del contemporaneo. Credo che oggi la moda stia vivendo un momento molto particolare. Non è più un sogno, è in un momento di empasse. Non lavora più per rendere belle le donne. E questo mi dispiace molto. Perché non ha scelto un erede creativo prima di salutare le passerelle? È difficile da spiegare... sono sempre stato un accentratore. Ho sempre voluto controllare tutto quanto. Ho lasciato uno staff dietro di me, ma non un erede. Oggi dico che è


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un peccato. Che cosa pensa oggi del suo marchio, gestito da un fondo di private equity e disegnato da un'altra designer, Alessandra Facchinetti? Osservo con attenzione chi sta gestendo il mio nome. Alessandra Facchinetti è una signorina per bene e carina. Le ho lasciato un grandissimo archivio. Spero riesca a portare il marchio Valentino ancora più in alto rispetto al punto in cui si trova oggi. Ma non posso ancora dare un giudizio. Ho visto qualche abito su internet, ma è ancora troppo presto. Sarà alla prima sfilata haute couture della Facchinetti?

Purtroppo no... sarò all'estero in vacanza. C'è qualcuno dei designer di nuova generazione che ammira? Beh credo che Stefano Pilati stia facendo un lavoro ottimo con la maison Yves Saint Laurent, rispettando il codice di un grande mito della couture internazionale. Rispettando, prima di tutto, un grande uomo che ha fatto tanto per le donne. Che ricordi ha di monsieur Saint Laurent? Di una testa incredibile, di un grandissimo pensatore, di un innovatore che ha trasformato lo stile delle donne. Con lui è finita un'epoca, un periodo che ha scritto un capitolo importante della haute couture.


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Alber Elbaz @ Lanvin IL DESIGNER OGGI È QUALCOSA DI PIÙ CHE UNO STILISTA. CON IL SUO LUSSO DESTRUTTURATO HA RIPORTATO LANVIN AL RUOLO CHE STORICAMENTE GLI COMPETE ATTRAVERSO LA CREAZIONE DI CONCETTI STILISTICI CARICHI DI PROVOCAZIONE. E OGGI ATTRAVERSO L'USO DI UN MATERIALE A LUI PRIMA 'SCONOSCIUTO': IL DENIM. Cristina Manfredi

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o chiamano profeta dello chic décontractée, guru incontestato di quella moda elegantissima e rilassata che ha conquistato e trasformato radicalmente il modo di vestirsi di uomini e donne in questo inizio di terzo millennio. Alber Elbaz, anima poetica e creativa alla guida di Lanvin dal 2001, dopo aver militato nelle fila di Guy Laroche, Yves Saint Laurent e Krizia ha saputo infondere a una maison blasonata sì, ma a lungo negletta dal fashion world mondiale, un fascino magnificamente effortless. Dove le sete fluide e cascanti accarezzano il corpo donandogli grazia e libertà. Il mix di proporzioni e di tagli crea volumi dolci e voluttuosi. E i particolari assumono con perfetta nonchalance la valenza di statement di stagione. Che per la collezione crociera 2009 prendono corpo in summer suits, gonne lunghissime, stampe ispirate a vecchie cartoline degli anni 20, immancabili pyjama look e tonalità squillanti. Con una novità, il denim firmato Lanvin in collaborazione con il brand svedese Acne. Che cosa l’ha spinta a dedicarsi alla tela di Genova? Risposta. È nato tutto in modo molto spontaneo, senza doversi preoccupare di stringere prima accordi o siglare contratti di licenza. Ho contattato io il team di Acne per far fare a loro un paio di jeans per Lanvin. Poi gliene ho chiesto un altro e alla fine ci siamo ritrovati ad aver messo a punto una e propria capsule collection, dove le forme tipiche di certi capi d’archivio della griffe sono state ricreate in denim, con tanto di scarpe, borse e bijoux rivestiti ad hoc. Il bello è che abbiamo lavorato insieme con una facilità davvero rara da trovare oggi in altri ambiti fashion e per questo motivo abbiamo deciso di trasformare il jeanswear Acne Lanvin in un appuntamento fisso che viaggerà in tandem con la collezione crosiére. Che cosa l’ha divertita di più nel mettere a punto le proposte cruise 2009? È stata una stagione all’insegna della prima volta, perché oltre al discorso legato al denim mi sono trovato a confrontarmi con certe tematiche che non mi avevano mai attratto in precedenza. Penso per esempio al rosa. Per me si è sempre tratta-

to di un colore estremamente problematico da affrontare, eppure a un certo punto mi è venuto naturale utilizzarlo. E poi ci sono le lunghezze al ginocchio e i sabot: non ho mai amato né le une né gli altri e invece ora mi intrigano. Mi domando che cosa scatti nelle nostre teste per farci cambiare gusti così improvvisamente… Ha tre parole per definire il suo mood di stagione, quali sceglie? Grand, erotic e perfect. Le mie donne in crociera sono grandiose, erotiche ma non sexy, vocabolo che proprio detesto, e perfette nel loro modo di essere e di vivere. Come le ricche signore che spedivano a parenti e amici cartoline da luoghi lontani agli inizi del Novecento? Precisamente. Mi sono ispirato alla femminilità di quell’epoca e alle vecchie postcard del tempo perché ero in cerca di una storia che avesse una forte componente emozionale. Ritrovarmi fra le mani questi souvenir postali così squisitamente rétro mi ha intenerito e mi ha fatto venire voglia di elaborare una stampa a tema, che potesse connotare l’intera collezione con una forte personalità. Quali sono i dettagli di stile che meglio rappresentano la sua attuale idea di eleganza? L’elastico, innanzitutto. Si tratta di un modo tanto semplice quanto speciale di bloccare un tessuto o di creare mescolanze di proporzioni e volumi in un capo, eppure viene utilizzato molto di rado nelle creazioni haute de gamme. Un elasticated waist ha il fantastico pregio di consentire a chi lo indossa di ordinare qualche cosa in più di una semplice tazza di tè per cena. Lei è diventato famoso per la sua idea di lusso destrutturato, ma non le sembra che proporre, come ha appena fatto, una sposa in T-shirt sia un po’ troppo? E perché? Trovo così interessante portare nelle proposte più formali o da sera quella casualness tipica dell’abbigliamento più quotidiano. E poi la stampa just married conferisce al tutto un tocco di ironia, che credo non dovrebbe mai mancare quando si tratta di scegliere quale abito mettersi addosso.

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Gareth Pugh

PIÙ CHE LEGATO ALL'UNDERGROUND LO È AL MONDO CHE LUI VIVE. GARETH PUGH SI PREPARA ALLA SUA PRIMA PARIGINA RACCONTANDO DI AVER DETTO NO A UNA MAISON ITALIANA. Gabriele Forte

R

appresenta probabilmente il designer più anarchico della nuova generazione. Sin dal primo show, Gareth Pugh ha catalizzato su di sé l’attenzione della stampa internazionale diventando il fashion darling delle testate più blasonate. Lo stilista, classe ’81, racchiude in sé il glorioso passato dell’Inghilterra più audace ricordando con la sua moda avanguardista le passioni anticonformiste di personaggi come Alexander McQueen e Leigh Bowery. E adesso sta varcando la Manica per debuttare con il suo fashion show a Parigi. È stato contattato per disegnare una maison? Sì, c’è stata una compagnia italiana che mi ha chiamato per un nuovo progetto, ma non era adatto a ciò che sto cercando. Se mai accettassi una proposta del genere dovrebbe essere qualcosa di intenso, sconvolgente. Uno step radicale nella mia vita di designer. Indossa capi firmati da altri stilisti? Uso Rick Owens, anche perché siamo entrambi prodotti dalla Olmar & Mirta. Sta sviluppando la sua collezione uomo? Non in questo momento. Nelle mie sfilate c’è sempre qualche uscita maschile, ma sarebbe prematuro buttarmi completamente sul fronte menswear. Ci sono altri progetti in via di sviluppo? Nella sfilata di Parigi mostrerò il mio primo eyewear realizzato con Linda Farrow. Rispecchierà il mio stile, «futuristic and sleek». E avrà una forte connotazione cinematografica. Lei ha sempre ricevuto un grande supporto da parte della stampa. Se lo aspettava? No, ma oramai ci sono abituato. Sento che il mondo della press comprende perfettamente la mia idea di moda per cui la comunicazione tra noi è immediata. La sua immagine è in qualche modo connessa alle realtà underground... Non mi sento così legato alla realtà underground. Posso immaginare che per chi non vive a Londra la mia idea estetica sia legata a un immaginario alternativo, ma in realtà ciò che rappresento è piuttosto comune nella realtà in cui vivo. Segue una particolare filosofia nel suo processo di design? No, non sono così pragmatico. Semplicemente non sono mai totalmente contento di ciò che faccio, dunque sempre stimolato a fare meglio. Due parole per delineare il mondo Gareth Pugh? Hard and shiny. Come il nome della società che ho creato.

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Laura e Kate Mulleavy @ Rodarte DUE SORELLE CHE PENSANO E CREANO ALL'UNISONO. ECCO IL SEGRETO DEL MARCHIO USA. Carlo Prada

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n legame indissolubile, intricato e ricco di sfumature come le ragnatele dei loro abiti, lega Laura e Kate Mulleavy. Le sorelle, che si nascondono dietro il brand statunitense Rodarte, agiscono in simbiosi per dare sartoriale tridimensionalità a un immaginario onirico, romantico e talora sinistro, che sembra scaturire dai dipinti di Leonora Carrington. Perché la femminilità da loro ritratta, seducente e imperfetta, ha il fascino di una rosa che ha le spine macchiate di sangue. Come lavorate insieme? In che modo discutete le vostre idee e raggiungete il giusto compromesso? Come fossimo una mente sola. Progettiamo, litighiamo e troviamo un accordo che non trada mai a raggiungere. Abbiamo avuto un dialogo intenso sin da bambine. Ci piaceva inventare e creare. Kate faceva le bozze, Laura scriveva il suo nome a fondo pagina cancellando quello di Kate. Un sentimento romantico con un twist da incubo è il modo in cui è stata descritta la vostra collezione. Quale tipo di donna cercate di ritrarre? Una donna cool, intelligente e che abbia una sensibilità eccentrica come Kim Gordon o Yayoi Kusama. I vestiti che disegnate sono quelli che indossate realmente o una proiezione del vostro immaginario? La ragione per cui abbiamo iniziato a lavorare sulla maglieria è perché volevamo creare pullover per noi stesse. In generale non indossiamo i nostri vestiti, ma adoriamo crearli. In un certo senso quello che forgiamo è nostro e al contempo non personalizziamo ciò che facciamo, nel senso che non disegniamo per noi stesse. Di colpo siete diventate le favorite della stampa internazionale. Come vi sentite a riguardo? È eccitante godere di un supporto su più fronti. Creiamo un universo personale ed è facile ignorare ciò che la gente potrebbe dire. Ma è fantastico riscontrare una reazione positiva al nostro lavoro. I vostri vestiti sono considerati prêt-à-porter ma per molti versi rasentano la couture. Potreste descrivere il vostro lavoro come ready to wear couture? Laura e io rispettiamo e apprezziamo la tradizione della haute couture. Sentiamo di creare dei capi che richiedono un’alta qualità di manifattura. Perché i pezzi sono pensati e sviluppati con mano e approccio leggero, vogliamo catturare un feeling di soavità quando sono trasposti nella realtà. Per farlo, dobbiamo utilizzare tecniche complicate. La fragilità e la natura delicata dei nostri capi sono una conseguenza naturale dal nostro processo di design. Quali sono le vostre ispirazioni principali? Arte, film, musica, letteratura. Abbiamo un registro visuale molto simile. Archiviamo le cose e le rielaboriamo successivamente.

Potreste menzionare alcune opere artistiche che più vi hanno ispirato? Per Kate, il libro è A voice through a cloud di Denton Welch, il film Pierrot le Fou, il disco è Suicide dei The cure e l’artista John Baldessari. Per Laura, il libro è Pale fire di Vladimir Nabokov, il film è The conformist, la band sono i Clan of Xymox e l’artista è Dan Flavin. C’è qualcuno in particolare che vorreste vedere indossare le vostre creazioni? Exene Cervenka e Patti Smith. Sono entrambe donne che hanno definito una cultura e sono sempre state individualiste nello stile e nel pensiero. Pensate che diventare commerciali affligga la creatività? Deve esserci sempre un equilibrio, perché la moda è un’industria basata sul commercio. E’ importante seguire la propria visione. Penso dipenda molto da come uno definisce la parola commerciale. Qual è il vostro modo di preservare l’originalità e la personalità in ciò che fate? Le nostre collezioni sono molto personali. I pezzi sono più di tutto un riflesso della nostra immaginazione. Penso che allestire una collezione che la rifletta sia affascinante per le donne che apprezzano la moda e che vogliono essere creative nel modo di abbigliarsi.

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Gabriele Colangelo

UNA SORTA DI MANIFESTO PER RACCONTARE LA SUA CIFRA STILISTICA. COSÌ LO STILISTA SI È PRESENTATO AL DEBUTTO SULLE PASSERELLE DI MILANO MODA DONNA . Gabriele Forte

C’

è nuova linfa per la moda italiana. Gabriele Colangelo, classe 1975, ha raggiunto un traguardo ambito da molti ma concesso a pochi: quello di sfilare con la propria collezione durante la settimana della moda milanese lo scorso settembre. Un’occasione arrivata in seguito a un iter complesso, fatto di un susseguirsi di piccoli successi che hanno portato il designer a costruirsi una reputazione grazie a curriculum in continua metamorfosi. Dagli studi in lettere antiche, passando per diverse collaborazioni con brand di fama internazionale fino alla direzione artistica della label Amuleti J, Colangelo ha costruito un percorso formativo tale da permettergli la creazione di un marchio a suo nome. Che ha ottenuto un susseguirsi di successi durante tutto il 2008. A febbraio scorso, la presentazione in punta di piedi della capsule collection durante la fashion week di Milano. A luglio, la vittoria del concorso Who’s on next. Quindi la prima passerella. Per sancire l’inizio di un nuovo, personale, vocabolario estetico. Come si sente dopo aver presentato la prima sfilata a suo nome? Sto ancora elaborando le forti emozioni che ho vissuto: presentare la collezione che reca il mio nome durante Milano moda donna ha rappresentato la realizzazione di uno dei sogni che da tanti anni coltivavo. In che modo bisogna leggere la sua collezione? La presentazione voleva essere una sorta di «manifesto» che delineasse la mia cifra stilistica e definisse i codici di un’estetica, fondata su un metodo filologico. Quali sono i diktat estetici su cui costruirà l’immagine della sua label? Linearità, fluidità, costruzione: una eleganza apparentemente semplice, sofisticata e discreta. Ha tre parole per definire la sua idea di donna, quali sceglie? Colta. Gentile. Ricercata. Perché ha deciso di partecipare al concorso Who’s on next? Dopo tanti anni di collaborazioni con diversi marchi, mi si offriva l’opportunità di presentare la mia collezione personale e il mio stile, scevro da vincoli creativi di sorta, ad una giuria di altissimo profilo. Quali sono le aspettative per un nuovo designer oggi? Sicuramente l’opportunità di creare, intesa come ricerca sperimentale di design, e di produrre al meglio, al fine di diffondere la propria etichetta. Per quale motivo si è avvicinato alla moda? Ho cercato di assecondare le mie attitudini personali, credo forgiate dall’esperienza di aver sempre vissuto nell’ambiente, poiché la mia famiglia produce pellicceria da ormai oltre trent’anni. Ha delle icone di riferimento? Tilda Swinton e Audrey Tatou. Pensa si possa parlare di una new wave della moda italiana? Risposta decisamente affermativa: credo esista una classe di giovani designer che rappresenta un significativo cambio generazionale.

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Adrian Joffe @ Comme des garçons Concettualismo e avanguardia. Così la griffe fondata da Rei Kawakubo e guidata da Adrian Joffe celebra un anniversario sui generis, il trentennale, rendendo omaggio al nero ASSOLUTO. Stefano Roncato e Cristiana Cicuto

«C

omme can’t change». Con 12 linee di abbigliamento, i profumi, le collaborazioni doc, i guerrilla store. E un fatturato che ormai supera i 180 milioni di dollari. Questa è Comme des garçons, il marchio, il laboratorio creativo, l’azienda, che Rei Kawakubo ha fondato 30 anni fa in Giappone e che ora guida con Adrian Joffe, marito oltre che presidente della griffe. Entrambi impegnati nel mettere a punto i dettagli per i festeggiamenti dell’anniversario. Che rimangono ancora top secret, mentre trapelano le prime indiscrezioni che vedrebbero in programma una serie di eventi lungo tutto il 2009, in tandem con alcuni designer emergenti. A sottolineare l’originalità del marchio, un nome che è diventato un destino, di origine francese e preso a prestito da una canzone di Françoise Hardy. Perché la Francia ha segnato il percorso di Comme, nato con uno spirito libero. Composto da pochi ingredienti azzeccati. L’originalità, l’avversità al prodotto massificato e le collaborazioni strategiche. Prima con Nike, poi con Moncler, solo per citarne alcuni. Ultimi arrivati Louis Vuitton e il guru del fast fashion H&M. E poi un colore simbolo, il nero, segno di una fedeltà che ha contribuito al successo mondiale della griffe. Come ha spiegato in quest’intervista mister Joffe. Come si spiega il successo di Comme des garçons? Con una parola: minoranza. Non ci rivolgiamo a tutti. Ma a chi vuole qualcosa di unico, di originale. Nella moda non tutti vogliono assomigliare agli altri. Dove trovate l’ispirazione delle vostre collezioni? Rei (Kawakubo, anima creativa della griffe, ndr) e io non ci ispiriamo a un libro, a un’opera d’arte, ma alla quotidianità. Al feeling, all’emozione che si prova anche davanti a ciò che con la moda non c’entra nulla. A quando risale il suo incontro con Rei Kawakubo? A 21 anni fa. Avvenne a Parigi, la mia città. Io lavoravo già da Comme come direttore commerciale. Lei era il mio capo. Anche il nome del marchio è francese… Da dove deriva? Dalla canzone Tous les garçons et les filles di Françoise Hardy. Rei la cantava di continuo. Comme è uno dei pochi marchi che non utilizza il nome della sua designer… perché? Perché Comme non è Rei, Comme è un team. E il nome straniero va a significare come il brand abbia una vocazione internazionale. Da questa squadra sono emersi nomi nuovi come Tao o Junya Watanabe. Quanto è importante coltivare i giovani talenti? Fondamentale. L’idea di Rei e mia è che quando lei smetterà di disegnare, Comme des garçons finirà di esistere. Per sempre? Sì, il marchio non esisterà più. Continuerà a esistere il gruppo. Che è sano, è forte. Ci sono Tao, Junya… e altre 650 persone che lavorano con noi. Andremo avanti con strade diverse. Per esempio con nuove collaborazioni? Siete stati i primi a enfatizzare il concetto di co-branding…

Al momento nessuna collaborazione con realtà del fashion. A maggio presenteremo un progetto con un’azienda estranea a questo mondo. Abbiamo tante cose da fare, le nostre linee, le sfilate a Parigi… Quindi le collezioni sviluppate con Louis Vuitton e H&M saranno le ultime per il momento? Forse sì. Abbiamo fatto la linea con Moncler e Nike. H&M è stato un vero successo in occasione dei nostri 30 anni di presenza a Tokyo. Per Louis Vuitton avevamo concepito uno spazio particolare nello store di Aoyama, dove ora verrà presentata Black Comme des garçons. È un ritorno al nostro Dna. Una nuova linea, sempre ispirata al nero? Un omaggio al noir absolut. Anche il concept sarà totalmente black, senza illuminazione tradizionale ma con qualche iridescenza che consentirà al pubblico di muoversi. L’arredamento rientra tra i vostri progetti? Quello che produciamo lo utilizziamo per i nostri negozi. Non abbiamo abbastanza tempo per dedicarci a questo progetto come dovremmo. Sarebbe interessante però se, dopo l’happening al Pitti di Firenze, riusciste a organizzare un evento a Milano... Ci stiamo davvero pensando, bisogna però trovare un bel palazzo, una location in cui esporre un nostro progetto. Che cosa significa per voi questa città? Il cuore di un mercato consolidato, prima di tutto. E poi gli italiani sono quelli che meglio riescono a capire le nostre collezioni, perché sanno renderle uniche, personalizzate. È questo il cliente al quale vi rivolgete? Deve volere qualcosa di particolare. È un handsome minded, ha un bel concetto di estetica. Non vuole capi stiff ma rilassati. Pure and clean. E nero. Suit is the new black… È un’attitudine. Siete preoccupati della crisi economica? Ovviamente. Anche se comunque possiamo contare su un buon numero di clienti che continuano a comprare le nostre collezioni. Il mercato russo sta praticamente scomparendo, così come sono in difficoltà i department store. E invece le vostre boutique reggono ancora bene? Devo ammettere che il negozio di Aoyama continua a funzionare. Ora stiamo progettando una nuova formula di concept, è il pocket shop che verrà aperto prossimamente a Parigi. A Milano nessun negozio? Rientra nei progetti, ma al momento non posso dire che siano in stato avanzato. Nel mondo della moda siete riconosciuti per aver dettato le regole del marketing. Che cosa significa per lei questa parola? Non so che cosa sia il marketing. Però i vostri co-branding sono a tutti gli effetti delle azioni per accelerare la notorietà del marchio, per vendere. Avete dettato le regole. Per noi sono solo qualcosa che fa naturalmente parte dell’anima del marchio. Però mi fa piacere che le persone pensino questo di noi.

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Un ritratto di Adrian Joffe


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Christopher Kane @ Versus il designer fa RINASCERE la linea giovane della medusa, dove donatella versace iniziò la sua carriera di stilista. Primo step, una capsule collection di accessori e Nel 2010 TOCCHERÀ AL RITORNO DELLA COLLEZIONE DI abbigliamento uomo e donna. Gabriele Forte

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l delfino, l’erede creativo di quel barock raffinato, sfacciato e talvolta sopra le righe che Gianni Versace scrisse durante la sua carriera. Christopher Kane è tutto questo ed è considerato il talento più promettente della brit-generation del nuovo millennio. Tanto da essere entrato nelle grazie di Donatella Versace che lo ha chiamato per far risorgere il marchio Versus, costola giovane dell’universo della Medusa. Quella stessa Versus dove Donatella, intorno alla metà degli anni 90, iniziò la sua carriera di designer accanto al fratello Gianni. Kane, nato a Newarthill, in Scozia, e figlio creativo della Central Saint Martins di Londra, è il nome di punta della fashion week inglese grazie alla sua etichetta personale, creata dopo aver collaborato con amici-designer come Russell Sage e Giles Deacon. Oggi, oltre a essere il pressdarling della stampa più cool, è anche la nuova linfa di casa Versace. Primo step, far rinascere Versus con la collezione autunno-inverno 2009/10 di accessori fedeli allo spirito rock-bondage dell’etichetta. Poi l’abbigliamento, uomo e donna, a partire dalla primavera-estate 2010, con i primi look che verranno svelati già il prossimo luglio. Come ha affrontato questo debutto con Versus? Sono molto contento ed eccitato. Collaboro con Donatella da più di due anni (dopo averlo visto tra i vincitori, nel 2005, del Lancôme awards, la stilista ha chiamato Kane a collaborare come consulente esterno per la maison, ndr) e questa è l’occasione perfetta per crescere avvicinandomi a una realtà più grande. Come’è il suo rapporto con Donatella Versace? Sono stato presentato a Donatella (Versace, ndr) da Anna Wintour di Vogue America e sono rimasto subito folgorato dalla sua personalità. Pensando a Versace, immagini questo mondo fatto esclusivamente di connotazioni glamorous e scintillanti. Ma in realtà lei è una persona semplice, affettuosa e legata alla famiglia. Quale pensa sia il punto di contatto delle vostre visioni estetiche?

La bellezza, anche se analizzata in modalità differenti. Quando ha capito di essere interessato alla moda? Vengo da un piccolo villaggio in Scozia, ma la mia famiglia ha sempre avuto una forte verve creativa. Ricordo che da piccolo guardavo tutti gli show in tv sulla moda e sentivo sempre ripetere il nome di una scuola, la Central Saint Martins. Era diventata un’ossessione, lo studiarci per me era diventato irrinunciabile. C’è qualcosa che la interessa in modo particolare in questo momento? L’economia. È un fattore fondamentale in questo periodo storico. Sto riflettendo su come sviluppare al meglio la mia linea e i miei sogni. Concretizzare le idee è più difficile in momenti come questo e capire la situazione è essenziale per affrontarla. Come pensa che un designer dovrebbe reagire a un momento così complesso? Dipende. Un creativo coinvolto in una grande struttura ha delle responsabilità che vanno ben oltre la mera creatività. Ma collezioni piccole come la mia possono permettersi di sperimentare senza troppe preoccupazioni. La creatività in questo senso diventa vettore fondamentale di speranza, come rinnovatore di idee e piattaforma in continuo mutamento. Se dovesse cambiare città per presentare le sue collezioni, dove andrebbe? Forse Parigi, o perché no Milano, dove Donatella mi ha offerto il suo supporto. Ma in realtà al momento sto bene a Londra. Sarebbe prematuro andare a competere coi grandi nomi francesi e italiani. Mi ci vorrebbero più risorse finanziare e strutture adeguate. C’è un momento per tutto. Ha altri progetti in cantiere? No, in questo momento sono soltanto Versus-focused.

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122 I quindici anni di moda & interviste

Dries Van Noten

LA SUA ESTETICA PREDICA UN MELTING POT DI CULTURE, COLORI E SUGGESTIONI. RACCOLTI IN UN VOCABOLARIO ESOTICO E RIGOROSO. «Mi interessa SOLO la bellezza, e le sue infinite possibilità», ha spiegato il POETICO designer di anversa. Angelo Flaccavento

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ochi designer dominano l’estetica nomade del melting pot, il collage spaziotemporale, il metissage panculturale, con la stessa raffinata eleganza di Dries Van Noten. Il più schivo e riservato degli Antwerp Six, i pionieri che ormai vent’anni fa misero il Belgio al centro della mappa internazionale dello stile, possiede infatti un dono raro, che sarebbe piaciuto molto a Italo Calvino: la leggerezza. Niente, in quel che fa, appare mai forzato o stridente. Non la ricchezza dei colori, il tripudio delle stampe, la poesia delle forme. Non la magia spettacolare e toccante degli show. Persino la decisione di concedersi poco in pubblico è per lui un naturale dato di fatto, più che una bellicosa dichiarazione d’intenti. Questione di indole, forse; o magari di formazione. Van Noten, classe 1958, borghese nel senso buono e solido del termine, è stato educato infatti in un collegio gesuita. Alla moda è arrivato in maniera naturale, provenendo da una famiglia di commercianti illuminati che nei tardi anni 60 aprirono Anversa, allora un piccolo borgo sperduto del Nord, ai piaceri del prêt-à-porter italiano e francese. Dopo gli studi all’Accademia Reale, dove suoi compagni di corso furono Ann Demeulemeester e Walter Van Beirendonck, Van Noten lanciò la linea a proprio nome nel 1986. Il successo fu immediato, e il resto è storia. Negli anni, è cresciuto e si è evoluto, senza mai abbandonare la propria immaginifica nicchia, e questo lo rende un personaggio alquanto speciale. Laconico, usa solo poche parole, ma tutte giuste. Dries Van Noten, lei come si descriverebbe? Sono una persona con i piedi per terra: un realista al quale piacciono le cose belle. Mi interessa la bellezza, e le sue infinite possibilità. Nel corso degli anni lei non è mai sceso a compromessi: non solo non ha mai venduto l’azienda, ma non ha nemmeno lanciato una seconda linea. È stato difficile mantenere l’indipendenza? L’indipendenza è una scelta dura, lo so, ma è anche l’unica che mi si addica. Nel bene o nel male, sono davvero responsabile di tutto: devo soppesare con estrema attenzione ogni scelta, e sobbarcarmi il peso degli eventuali errori. Essere padroni al 100% delle proprie azioni, però, è un sollievo impareggiabile. Made in Belgium, Made in Italy, Made in China o…? Dipende dal pezzo: non è mai una scelta fatta a priori. Ha ancora senso, oggi, parlare di scuola belga? Quando noi Sei di Anversa abbiamo cominciato, a metà degli anni 80, era il momento delle scuole nazionali: da un lato, infatti, c’era l’ondata degli italiani come Armani e Versace, dall’altro i francesi come Mugler e Montana, dall’altro ancora gli inglesi come Galliano e Westwood. Subito dopo, la moda è diventata un affare globale, sicché le distinzioni si sono affievolite. Oggi la moda è ovunque: è un’unica comunità transnazionale. Come descriverebbe il suo gusto, il suo stile? Nutro un grande rispetto per la tradizione, per quello che i francesi chiamano savoir faire. Non si tratta di nostalgia, ma di consapevolezza: come creatore ho sempre lo sguardo rivolto al futuro. La continuità è un tratto saliente del suo lavoro? Sì. Mi interessa l’evoluzione, non la rivoluzione. E l’eleganza?

Per me è un concetto fondamentale. Non mi piace shockare, stupire, scandalizzare. Chi o cosa la ispira? Tante cose diverse. A fare scattare il click, però, è sempre un piccolo elemento. Intorno a questo, poi, sogno. Per me non è tanto importante viaggiare fisicamente. Lo faccio tutto il tempo, coi pensieri. È difficile sposare le esigenze creative con quelle commerciali? No. Creazione e commercio non sono per me termini opposti, come troppo spesso a torto si pensa, ma complementari. È bello dar vita a una cosa che hai in mente, ma è anche bello che poi questo prodotto venga fruito. Avere dei limiti, come creatore, è solo un bene. Esiste una donna Dries Van Noten? No: per me è impossibile immaginare un tipo di donna definita. In ogni collezione faccio del mio meglio per proporre quanti più modi diversi di indossare un capo senza imporre alcuna identità specifica. Voglio che ogni donna indossi le mie cose a modo suo. Per me l’individualità dello stile è una qualità irrinunciabile. Apprezza l’etica e l’estetica dell’eleganza rilassata, anche al femminile? Tutto dovrebbe dipendere dal momento, dall’alchimia della relazione con se stessi e gli altri. La formalità può essere rilassata o ingessata, secca o divertente: tutto è dato dall’attimo. Riuscirebbe a definire la femminilità? Consapevolezza di sé mescolata a forza, sensualità e avvedutezza. Dopo tanti anni, cosa la stimola ancora quando crea una nuova collezione? All’inizio sono stampe e stoffe a stimolarmi, e poi cose in cui mi imbatto per caso: libri, musica, opere d’arte, fotografie. Tutti questi elementi fanno scattare quella scintilla dell’immaginazione che alla fine porta alla creazione della collezione. Il percorso è sempre nuovo, e mi eccita sempre. Il suo lavoro è attraversato da una vena decisa di esotismo. Vivere ad Anversa, una città commerciale con un grande porto, ha una qualche influenza sulla sua poetica? Qui sono nato e qui ho sempre vissuto, quindi non riesco a giudicare lucidamente. Senza alcun dubbio, il posto in cui si vive influenza, anche quando si decide di andare nella direzione opposta. Personalmente ho grande rispetto per la mia città: sono stato educato così. Gli abiti possono aiutare a sognare, a viaggiare senza muoversi? Io, più che altro, li vedo come mezzi di espressione assolutamente personale. Dove va la moda, a suo avviso? Lontano dalla stravaganza, verso qualcosa di personale. In questo momento di crisi, abbiamo bisogno di cose belle, perfette. Almeno, io la penso così. Riuscirebbe a riassumere il suo lavoro in una formula? No. Una formula renderebbe tutto prevedibile. Ed è, in assoluto, l’ultima cosa che voglio.

mff-magazine for fashion n° 53 - marzo 2009


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Patrizio Di Marco @ Gucci Creata una joint venture, controllata al 51% dalla griffe fiorentina, con Toscoval e Valigeria Toscana, realtà specializzate in borsetteria e valigeria deluxe. Nei piani l'apertura di uno spazio espositivo a Firenze, entro un anno, per raccontare la storia del marchio da 2 miliardi di euro che fa capo al gruppo Ppr. Fabio Gibellino

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n museo per celebrare la storia della doppia G e il potenziamento della piattaforma produttiva con l'acquisizione di due realtà doc del made in Italy pellettiero. Nonostante il momento storico difficile, la politica di Gucci è chiara, ben definita e le acquisizioni dei siti produttivi Toscoval e Valigeria Toscana, che nel 2008 hanno generato un fatturato complessivo di 10,6 milioni di euro, ne sono la prova. «Questa operazione rientra in una logica che rafforza il radicamento del territorio, sia con operazioni come quelle appena concluse, sia siglando joint venture con fornitori locali», ha spiegato a MFF Patrizio Di Marco, presidente e ceo della griffe del gruppo Ppr, «perché questi sono investimenti che significano la sopravvivenza di competenze con le quali siamo legati a doppio mandato, considerato che il talento è qualcosa che ti dà Dio, ma la professionalità te la dà il tempo». Attraverso una jv abbiamo creato la GT srl che è controllata al 51% da Gucci e per il restante 49% da Toscoval/Valigeria Toscana, due realtà della zona di Scandicci che producono borsetteria e valigeria per Gucci da oltre trent'anni. A oggi impiegano circa 35 dipendenti in totale con l'obiettivo di arrivare a circa 100 dopo la joint venture che partirà ufficialmente nel gennaio 2010. I pezzi prodotti dalla newco, sommando le due realtà produttive, sarà di 10mila pezzi alla settimana. Siamo un'azienda da oltre 2 miliardi di euro che continua a produrre tutto in Italia assicurando lavoro a 45 mila persone: questo è orgoglio e merito. Secondo noi certe scelte si possono e si debbono fare, ma sono scelte di coraggio. Nel 2004 abbiamo certificato tutta la filiera e poi lo scorso settembre, forse primi in Europa, abbiamo stretto un accordo con i sindacati (vedere MFF del 17 settembre scorso). Questo si traduce in oltre 5 mila ispezioni all'anno che comportano oneri aggiuntivi non inclusi però nei costi del prodotto. È una questione di onestà e trasparenza nei confronti del cliente.

mf fashion - 17 novembre 2008

Stiamo rivedendo il packaging, perché sia completamente riciclabile, i trasporti e le spedizioni. Abbiamo rivisto tutto il parco auto abbattendo le emissioni del 35-40% e non stampiamo più carta inutilmente. Infine, da un anno, ci stiamo organizzando perché i nostri nuovi negozi siano quanto più vicini al rispetto per l'ambiente. Innanzitutto per me il made in Italy non è un modo per raggiungere un premium price, ma un di più che rappresenta tutto ciò che si cela dietro l'etichetta. Da noi ci sono ragazzi di 42 anni già veterani, figli e nipoti di gente che lavorava da noi. Loro sintetizzano decenni di capacità che nessuna macchina può tradurre. Se intendiamo questo sì. Abbiamo già iniziato con una scuola locale e nei prossimi anni vedremo se e come farne una interna. Dico se perché noi abbiamo mantenuto i nostri fornitori nonostante i tempi difficili, altri no, per cui in giro ci sono competenze pronte per essere utilizzate. Soprattutto attraverso i negozi, che sono il principale veicolo di comunicazione, è attraverso di essi e di chi ci lavora che fai capire cosa c'è dietro l'azienda. Sì, pensiamo di aprire un museo Gucci a Firenze, in centro, perché questo è il nostro punto di partenza verso il mondo. Lo faremo entro un anno. Moda, cucina, design e turismo sono importanti nella bilancia commerciale del Paese, dunque politica, Confindustria e tutti gli enti deputati avrebbero dovuto creare sistema, aiutare, e con questo non voglio dire sussidiare. Va benissimo che Gucci abbia aiutato i propri fornitori, va benissimo che lo facciano anche altre aziende, ma questa dovrebbe essere una preoccupazione di altri. Forse oggi è più importante dire faccio lo Stretto di Messina piuttosto che dire sostengo questi distretti. Santo Versace ha fatto una proposta perché ci si possa onorare dell'etichetta, io sono d'accordo, ma ci sono resistenze, perché in molti non potrebbero fregiarsene, aspetteremo.


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Christophe Decarnin @ Balmain lo stilista francese riscrive il menswear Della STORICA griffe scegliendo lo stesso codice estetico della linea donna: rock, sexy E glamOUR. «VOGLIO CHE NEI MIEI LOOK TRASPAIA UNA FORTE SENSUALITÁ». Fabio Maria Damato

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Christophe Decarnin l’enfant prodige della moda francese che in poche stagioni ha ridato un’anima a Balmain. Grazie a un cocktail ad alta gradazione fatto di sexiness sfacciata, spirito rock’n’roll ed eccessi glam. Ora è al banco di prova con la collezione uomo, un progetto pilota ancora lontano dai riflettori della passerella. Un ritratto in divenire, che recupera ricordi 80’s decodificati in uno stile grunge e rock. Creando un mix tra pezzi formali e la rilassatezza edgy del denim, ha dato un taglio netto con il passato. Troppo didascalico e bon ton. E seguendo il motto che ha guidato il suo lavoro sulla donna («Good time clothes for party girls») oggi si cimenta nel menswear. Per vestire un’esercito di rocker anarchici. Qual è l’uomo Balmain? È il compagno ideale della donna Balmain. L’attitudine e lo spirito di ciascuna collezione sono molto simili. Disegnando un cocktail dress o una giacca da smoking, pretendo che siano comodi come un paio di jeans. Adoro l’idea di abbinare dei pezzi del guardaroba sofisticati con qualcosa di più casual, inatteso. Mantengo questa medesima visione disegnando la collezione maschile e credo che in entrambe traspaia lo stesso spirito fortemente sensuale e seducente. Il menswear Balmain le somiglia? Dove trova l’ispirazione? La mia visione è incentrata sul creare un guardaroba quotidiano più che una collezione. Disegnando una linea maschile prendo come punto di partenza i pezzi basici, indispensabili nel guardaroba di oggi. Pezzi che io stesso vorrei avere nell’armadio. Più che seguire una vera e propria ispirazione per questa stagione, ho preferito dare degli accenni al mondo militare. Lo scopo resta uno solo: creare capi unici ma interscambiabili, che permettano di mixare l’estrema eleganza formale ad una vena più casual e rilassata. Che poi è il medesimo stile che si scorge nel mio stesso guardaroba. Qual è il must have del suo guardaroba?

Il mio stile personale è abbastanza rilassato. Solitamente indosso jeans e T-shirt, che spesso amo abbinare a capi più eleganti. Quest’attitudine si riflette nella collezione uomo, che è stata costruita scegliendo i pezzi sartoriali come l’oggetto chiave di tutto l’insieme. La sua visione è molto diversa dai precedenti designer di Balmain, che prediligevano un gusto più classico. Come si lascia ispirare dal background di questa griffe? La modernità è la parola chiave delle mie creazioni, che non si rivolgono solo a ragazze giovani, ma a tutte quelle donne che hanno un’attitudine in comune con lo spirito sexy che mi contraddistingue. Credo che Pierre Balmain avesse un approccio molto moderno alla moda, immaginando l’abito perfetto per ogni occasione. Questo è un punto d’incontro imprescindibile delle nostre due visioni, che ci lega a doppio filo fin dal primo istante creativo. Pierre Balmain ha avuto un ruolo fondamentale nel cinema e nel teatro come costumista. Qual è il suo approccio con Hollywood? Quando disegno una collezione ho sempre dei forti riferimenti visivi che mi aiutano a seguire una strada coerente. È innegabile che il cinema e la musica siano due campi dai quali attingo ispirazione e contaminazione. Il lavoro di monsieur Balmain come costume designer è stato incredibile e fondamentale per la storia dello spettacolo. Dal suo arrivo in Balmain non si sono più presentate collezioni couture. Ha intenzione di disegnare in futuro una linea d’alta moda? In questo momento non credo, anche se ogni giorno convivo con la strabiliante storia della maison, uno dei pochi atelier francesi ancora in attività. Soprattutto ammiro la tradizione della couture parigina. Il processo creativo e artigianale che c’è dietro ogni singola creazione. Proprio per questo motivo il nostro atelier segue differenti tecniche trafugate alla couture, affidandosi alle mani delle nostre première.

mff-magazine for fashion n° 54 - luglio 2009


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Matthew Williamson

«Sienna miller e JOHnny dePp». Sono queste le icone che affollano l’immaginario ipervisivo del designer inglese. Che dopo il timido battesimo con H&m progetta il debutto nel segmento uomo. Cristiana cicuto

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nglese d’origine, ma statunitense d’adozione. Segni particolari? Un innato senso del colore. Questo l’identikit di Matthew Williamson, che dopo essere stato per due anni direttore creativo di Emilio Pucci, ha appena mosso i primi passi nell’universo del menswear con il lancio della collezione studiata in tandem con il colosso svedese H&M. Dopo questo timido battesimo, l’aspetta un progetto importante: la prima collezione uomo per il suo marchio, per consolidare il suo universo estetico. Rappresentato da due icone ideali, Sienna Miller e Johnny Depp. Il tutto non prima di fare ritorno nella sua Londra, dove non sfilava da diverse stagioni avendo scelto la Big apple per svelare i suoi look. Tornerà sotto il Big Ben una sola stagione, a settembre, dove sfilerà in occasione dei 25 anni del British fashion council. Dal lancio della prima collezione di accessori alla partnership con H&M, che ha rappresentato anche il suo debutto con il menswear. Quale sarà il prossimo step? Il 2009 è stato un anno parecchio importante per me. Ho collaborato con H&M, lanciando due linee femminili la scorsa primavera. E mi sono sentito estremamente eccitato ad aver avuto loro al mio fianco per il debutto con il menswear. Poi ho aperto una boutique a New York e una a Dubai e recentemente attivato l’on-line store. Quindi credo che mi prenderò un bel periodo di vacanza e poi tornerò a lavorare sulla collezione per l’estate 2010, che sfilerà a Londra, e sul prossimo opening in Kuwait. Cosa ha provato nel realizzare la prima collezione menswear? Crede che questo progetto avrà un futuro anche senza il supporto di H&M? Per me questa collezione non era altro che un’estensione del mio guardaroba e del mio stile personale. Mi è piaciuto seguire un processo di creazione che era totalmente nuovo per me. L’idea di dar vita a una collezione maschile è sempre appartenuta ai miei desideri e dopo il riscontro positivo di questo progetto credo che il vero e proprio lancio di una Matthew Williamson men’s collection avverrà nel giro di qualche stagione. Dopo l’esperienza nella maison Emilio Pucci, lei ha avuto la possibilità di focalizzarsi al 100% sulla sua linea. Ma dove vede il suo futuro? Le piacerebbe tornare a dirigere il timone creativo di un’altra fashion house? Ho avuto un’esperienza irripetibile da Pucci e la possibilità unica di lavorare in un’azienda storica nel mondo della moda. Ma per il momento, il mio unico desiderio è continuare a investire sulla mia linea. Lei è nativo di Londra ma già dagli inizi ha scelto New York per far sfilare le sue collezioni e per aprire il suo monomarca statunitense. Che tipo di

legame ha con questa città? Quanto è importante l’America per il suo ideale di estetica? Ho lanciato la mia collezione alla London fashion week nel 1997 e in questa città ho goduto di un importantissimo supporto. Nel 2002 però ho capito che New York sarebbe stato l’ideale trampolino di lancio per farmi conoscere a livello internazionale, lasciando Londra che è da sempre focalizzata sulle nuove generazioni di designer. Queste città sono entrambe una fonte di grandissima ispirazione per me, adoro poter lavorare in due ambiti così differenti. Ma Londra rimarrà per sempre la mia città. È per questo motivo che ha scelto di tornare a sfilare qui il prossimo settembre? Sì. In occasione dei festeggiamenti per il 25esimo anniversario del British fashion council, riporterò il fashion show nella mia terra d’origine. È una grande emozione poter tornare a sfilare a Londra dopo così tanto tempo. Come descrive la sua idea di moda nel womenswear e nel menswear? La mia estetica prevede che gli abiti siano in grado di ispirare chi li indossa e farlo sentire sicuro. Ci sono e ci saranno sempre delle grandi differenze tra l’uomo e la donna, ma per esempio la mia collezione per H&M ha dimostrato come l’estetica Williamson possa essere incapsulata in alcuni concetti precisi. Come i colori o le stampe ipervisive. Chi sceglierebbe come icone ideali per il suo marchio? Sienna Miller e Johnny Depp.

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Angelos Frentzos

un RINNOVATO assetto produttivo e distributivo, un trittico di co-branding di lusso. E in testa un’estetica che mixa tina turner e la venere di Milo. RINASCE LA GREEKSEXYNESS. Fabio Maria Damato

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la new wave greca, che da qualche anno a questa parte sta contagiando il mondo della moda con un’inconfondibile sexyness sfacciata. Ricetta vincente, che Angelos Frentzos, veterano della moda, conosce da sempre e che ripropone in una vesta rinnovata. Dopo il termine dell’accordo con il produttore Vulpinari di Rimini, il designer greco stringe alleanze con partner forti del fashion system. Per riproporre una via creativa tutta nuova, nel tipico stile Frentzos. Come ha re-impostato la piattaforma produttiva-distributiva del suo marchio? L’amore per la moda è l’elemento imprescindibile che mi accomuna con i miei partner. Con un occhio sempre attento all’altissima qualità del prodotto. In questo non accetto compromessi. Solo seguendo tali criteri ho siglato accordi con nomi importanti come la +39 Manifatture per tutti i capi in tessuto, il Maglificio Jupiter per il knitwear e Faenza stile per il jersey. E poi ho dato vita a tre co-branding con realtà affini alla mia visione estetica e di pensiero (Htc-Hollywood trading company per i jeans, Bruno Bordese per le calzature e Rosie noir per i gioielli, ndr). L’unico asso nella manica strategico che ho voluto mantenere è la distribuzione, che resta nelle fidate mani di Studio Zeta Milano. Qual è il suo ideale di donna? E cosa non deve mancare nel suo guardaroba? La donna Frentzos non cerca l’approvazione degli altri. È una donna indipendente, che sa quello che vuole e come ottenerlo. Indossa T-shirt dai tagli chirurgici, jeans puntellati di borchie e leather jacket con spalle importanti. Predilige la notte e si lascia contaminare dallo stile, dalla cultura e dalle persone che incontra, restando però

sempre fedele a se stessa. Sicuramente può rinunciare a tutto, ma non a una T-shirt vissuta, lacerata per enfatizzare una sensualità rock. In bilico tra Tina Turner e la Venere di Milo. Da quando ha iniziato questa professione come è cambiato l’essere un designer? Sicuramente la creatività si è andata perdendo con il tempo. Purtroppo gli stilisti sentono troppo il dovere di piacere agli altri prima di piacere a se stessi. Oggi c’è troppa pressione, da una parte la necessità di stupire la stampa e dall’altra quella di fornire un prodotto che sia appetibile sotto l’aspetto commerciale. Senza considerare che sono finiti i tempi del creativo puro. Lo stilista contemporaneo deve essere soprattutto imprenditore di se stesso per poter emergere nell’affollato mondo della moda. Sophia Kokosalaki, Panos Yapanis, Mary Katrantzou. Crede che ci sia una new wave greca che imperversa nella moda? Semplicemente credo sia arrivato il nostro momento. Nelle scorse stagioni il nostro stile ha sofferto molto, la nostra non è proprio quella che si definisce una donna educata e bon ton. Preferiamo lasciare le occasioni da red carpet ad altri. Quella greca è una sensualità più sfacciata, anticonvenzionale che va vissuta tutto il giorno per tutti i giorni, e credo che finalmente nella moda sia arrivato il nostro momento. Quali sono i suoi progetti per il futuro? Ha intenzione di continuare sulla strada dei co-branding? Per adesso voglio concentrarmi sulla mia linea uomo che presenterò a gennaio, e nella quale l’approccio stilistico, produttivo e distributivo sarà il medesimo che ho scelto per la donna. Il passo successivo sarà quello di ampliare il mondo Frentzos con ulteriori co-branding.

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Matteo Marzotto Gianni Castiglioni @ Vionnet «Fare bene nel rispetto di madame vionnet. È questa la nostra parola d’ordine». Stefano Roncato

Qual è stato il vostro approccio al marchio Vionnet? L’approccio è stato di grande umiltà e rispetto per la storia. Siamo partiti con la consapevolezza che ci fosse una storia da intenditori da rispettare. Pochi palati raffinati, che conoscono l’eredità di madame Vionnet. Come vi rapportate con la storia della maison dal punto di vista manageriale? Il grande rispetto della storia di madame Vionnet e la passione per questo mestiere sono gli elementi distintivi di quest’avventura. Un marchio rivoluzionario che ha fatto la storia del costume e che oggi rivive nell’estremo rispetto dello straordinario passato che abbiamo alle spalle. Questo è il fil rouge di tutte le nostre decisioni. Dove volete arrivare con il marchio Vionnet? Ci piacerebbe essere presenti nei 150/180 multibrand più importanti del mondo entro il prossimo anno. Con la prima stagione abbiamo già raggiunto quota 100 store. Com'è essere due manager italiani alla guida di un marchio francese? Credo che Parigi sia una città internazionale, dove persone di ogni dove arrivano per conoscere le novità della moda senza guardare al campanilismo. Una grande tradizione industriale e creativa come la nostra, unita alla storia del marchio e all’artigianalità di molte expertise francesi con le quali collaboriamo, è una miscela vincente. Quali sono le difficoltà del rilancio di un marchio storico? Attualizzare le proposte di un creatore di moda vissuto nel passato è un impresa complessa. Noi abbiamo la fortuna di poter accedere a un archivio che sembra disegnato da uno stilista contemporaneo. Rodolfo Paglialunga, timoniere creativo della maison, è rimasto sorpreso dalla modernità e dalla freschezza delle creazioni di una donna, che avrebbe potuto vivere oggi sentendosi a suo agio. Cosa conta di più tra il nome del marchio, l'immagine o il marketing? Le variabili del successo di qualsiasi azienda sono diverse. Il nostro team di business partner ha una grande eterogeneità e complementarità, che ci permette di dominare tutti gli aspetti critici di una maison come questa. Bisogna restare fedeli al Dna del marchio o cambiare? Siamo partiti reinterpretando alcuni capi saldi della storia stilistica del marchio. Tutti riadattati al gusto di una donna contemporanea. Quanto tempo ci vuole per rilanciare un marchio storico? Quali sono le difficoltà? Il nostro obiettivo è di sostanza. Vogliamo fare bene, prendendoci il tempo necessario per non sbagliare. Non vogliamo fare errori.

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Franco Penè @ Gibò «Con Rochas puntiamo a rievocare uno stile riconoscibile, senza inseguire la tendenza». Stefano Roncato Come ha approcciato Rochas? Utilizziamo da sempre una stessa filosofia con tutti i marchi con i quali lavoriamo. Per il rilancio di Rochas abbiamo ricreato un’atmosfera familiare all’immagine della maison, ma ripartendo dal prodotto. Un prodotto di lusso, che non vada ad assecondare le logiche della press, ma che abbia un forte valore qualitativo dal giusto valore simbolico ed economico. Come si rapporta con la storia della maison dal punto di vista manageriale? Per un posizionamento ottimale il primo step è capire a quale target di consumatori ci stiamo riferendo e comportarsi di conseguenza. È stato solo dopo aver individuato tale fascia di mercato che siamo stati in grado di concepire un gusto riconoscibile, ma che fugga dai sensazionalisti delle passerelle stagionali. Vogliamo inventarci uno stile riconoscibile, che non insegua le tendenze. Dove volete arrivare con il marchio Rochas? Prima di questa crisi avevamo l’obiettivo di raggiungere 200 punti vendita worldwide nel giro di tre anni. Oggi stiamo proseguendo su questa strada, cercando di correggere il tiro alla luce delle nuove dinamiche economiche. Cosa significa essere un manager italiano alla guida di un marchio francese? Quella di Gibò e di Procter & Gamble (proprietaria del marchio Rochas, ndr) è una condivisione di intenti. Il nostro team collabora per offrire un prodotto di alto di gamma dal forte savoire-faire, ispirato all’eleganza timeless di madame Hélène Rochas, moglie del couturier. Che Marco Zanini, l'anima creativa della griffe, sta interpretando alla perfezione. Quali sono le difficoltà del rilancio di un marchio storico? Le difficoltà sono le medesime che si possono incontrare anche nello start up di un'azienda neonata. Così come il giovane creativo si affaccia sul mercato con una visione precisa del mondo che vuole ricreare, lo stesso vale per le maison con una storia antica. Non si può prescindere dalla storia e dalla propria identità. Cosa conta di più tra il nome del marchio, l'immagine o il marketing? Il prodotto è il centro del nostro mondo. Eleganza, discrezione e funzionalità sono le nostre parole d’ordine. Principi che seguiremo religiosamente nel progettare le prossime stagioni. Bisogna restare fedeli al Dna del marchio o proporre storie? Bisogna restare fedeli al proprio Dna, ma con una grande attenzione alla contemporaneità dello stile. Perché riproporre una semplice reinterpretazione di capi d’archivio ha un sapore polveroso che a noi non interessa. Quanto tempo ci vuole per rilanciare un brand storico? Quali sono le difficoltà? Darsi un range temporale e quantitativo al momento credo sia difficilissimo. Nel nostro caso il punto cruciale è trasmettere al consumatore un forte attaccamento al prodotto. E questo è un processo che va perfezionato giorno per giorno.

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Fabrizio Malverdi @ Givenchy «Vogliamo che Givenchy arrivi al posto che si merita nel mondo della moda». Stefano Roncato

Come ha approcciato Givenchy? L’ingresso nella maison è stata una scoperta. Dall’esterno il cambiamento della griffe era visibile, tangibile. Ma solo quando si è calati dentro ci si rende conto di tutto quello che si è dovuto fare per arrivare a questa rivoluzione nell’immagine, nelle collezioni. Riccardo Tisci, anima creativa di Givenchy, mi ha raccontato come fosse stato difficile all’inizio, quando nessuno ci credeva. Ma alla fine il talento è stato premiato. Cosa significa essere un manager italiano alla guida di un marchio francese? In principio vieni guardato con un po’ di sospetto. Poi il pragmatismo italiano viene apprezzato e si crea complicità. Trovo che i manager italiani abbiano un modo di lavorare più semplice rispetto ai manager francesi, meno burocraticizzati soprattutto nell’affrontare i problemi. Siamo più diretti. Quali sono le difficoltà legate al rilancio di un marchio storico? Sicuramente far arrivare il messaggio al consumatore finale. All’interno la nuova visione è chiara. Come lo è anche per la stampa o i clienti. Il segreto risiede nella coerenza, seguendo lo stesso approccio sia che si parli di donna, di uomo o d’alta moda. Cosa conta di più tra il nome del marchio, l'immagine o il marketing? Non esiste una ricetta per il successo. Tutto dipende anche dal momento storico. Certamente oggi non si possono lasciare pezzi per strada, bisogna seguire ogni singolo elemento. Ogni tassello deve funzionare perfettamente nell’ingranaggio d’insieme. Dove volete arrivare con Givenchy? Vogliamo che la maison arrivi al posto che si merita nel mondo della moda. Oggi una posizione di primo piano ce l’ha già, tra press e buyer. Ma per consolidare il tutto e non essere solo un fenomeno, bisogna arrivare a una maggiore diffusione nel consumatore finale. E non si parla di creare seconde linee, non appartengono al Dna di Givenchy che va sempre rispettato. Piuttosto i nostri prossimi progetti riguardano l’espansione distributiva, con aperture dove applicare il nuovo concept store del punto vendita di Parigi, in rue Faubourg Saint Honoré. Quali sono le insidie in questo processo di rilancio? Non bisogna cambiare strategia in continuazione, la scelta più corretta è perseverare con un progetto. E la fortuna di appartenere a un gruppo come Lvmh è quella che si abbia un supporto a più livelli. Si può avere il tempo di costruire una visione a lungo termine.

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Stefano Sassi @ Valentino PER IL MANAGER DELLA GRIFFE: «Dalla couture al prÊt-à-porter tutto deve essere Valentino. in un'ottica di grande modernità». Stefano Roncato

Come ha approcciato Valentino? Ci siamo mossi scegliendo due criteri fondamentali: rispetto e continuità. In primis rispetto, per una storia di stile dalla forte personalità. Non abbiamo mai pensato che la nuova Valentino dovesse essere una copia del passato ma una evoluzione precisa di un mondo elegante e charmant. Per questo motivo crediamo nella continuità che hanno assicurato i due direttori creativi della maison, Maria Grazia Chiuri e Pier Paolo Piccioli. Non è pensabile stravolgere l'universo di questa griffe, considerando anche i volumi di fatturato che vengono generati. Dal prêt-à-porter all'haute couture, abbiamo fatto in modo che tutto fosse Valentino ma in un'ottica di grande contemporaneità. Come si rapporta con la storia della maison dal punto di vista manageriale? Abbiamo cercato di ribaltare gli schemi. La storia di questa griffe era prima di tutto di grande immagine, esclusività, red carpet e jet-set. Noi abbiamo cercato di mantenere un'aurea di nicchia. Creando prodotti appetibili per una fascia più ampia di consumatori. In un balance tra mercato e personalità di stile. Dove volete arrivare con il marchio Valentino? Il marchio è un brand aspirazionale per quanto riguarda il prêt-à-porter e l'alta moda. Vogliamo trasferire questo stesso sapore anche sulle licenze e uniformare, tutto l'universo di riferimento. Quali sono le difficoltà del rilancio di un marchio storico? Bisogna essere attaccati ai valori cementati stagione dopo stagione, senza esserne schiavi. Avendo l'accortezza di contestualizzare una storia di eleganza. Cosa conta di più tra il nome del marchio, l'immagine o il marketing? Il marchio è il punto di partenza e tutto il suo immaginario da cui non si può prescindere. E fortunatamente le basi del marchio Valentino sono molto solide. Bisogna restare fedeli al Dna del marchio o proporre storie? È impossibile cambiare Valentino oggi. Sia per una questione morale che per una questione di business legata all'investimento gigante che bisognerebbe fare per uniformare, per esempio, l'immagine di punti vendita di tutto il mondo. Valentino ha una personalità forte che deve solo essere attualizzata. Quanto tempo ci vuole per rilanciare un marchio storico? Quali sono le difficoltà? Dipende da tanti fattori molto diversi, ma per consolidare un percorso ci vuole tempo. Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti sono stati dei comunicatori geniali, che hanno trasferito al consumatore un percepito di Valentino molto forte. Ma l'hanno fatto dedicando una vita intera a questa maison.

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Gildo Zegna @ Ermenegildo Zegna Il gruppo di Trivero, che oggi sfilerà con il primo tessuto creato dal lanificio, lancerà una serie di prodotti ad hoc per celebrare l’anniversario, come l’orologio con Perregaux e la stilografica con Omas. A giugno, un libro e una mostra in Triennale. Chiara Bottoni

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ento anni di crescita e di internazionalizzazione.Il gruppo Ermenegildo Zegna taglia il nastro del secolo di attività nel settore tessile e dell’abbigliamento. Un traguardo che nel corso del 2010 sarà celebrato da una serie di iniziative ad hoc. A partire dalla sfilata odierna, dove il primo outfit avrà la peculiarità di essere realizzato con una pezza del tessuto numero 1, riedizione del primo tessuto creato dal lanificio nel 1910 (vedere la foto di copertina). Ma numerosi saranno gli appuntamenti collaterali che accompagneranno la società di Trivero nel corso dei prossimi dodici mesi per aprire le porte ad altri cento anni di innovazione e conquista di nuovi mercati, come ha spiegato in questa intervista a MFF l’ad Gildo Zegna. Come si è evoluto il gruppo in questo secolo? Nel corso di questi cento anni, la nostra società è riuscita a crescere passo dopo passo, trasformandosi da una semplice azienda tessile a un brand internazionale del lusso. Ciò è stato possibile grazie ai continui investimenti effettuati nella qualità del prodotto e delle persone, senza dimenticare le nostre scelte pionieristiche come gli investimenti sui mercati emergenti, in primo luogo la Cina, dove siamo presenti dal 1991. Oggi presentate il Tessuto numero 1, riletto in chiave moderna. Qual è il valore simbolico di questa iniziativa? Zegna nell’ultimo secolo è sempre stato all’avanguardia dell’innovazione tessile e dell’eccellenza nelle fibre naturali ed è per questo motivo che per commemorare il centenario, è stato ricreato il primo tessuto, prodotto dal Lanificio Zegna nel 1910 da mio nonno Ermenegildo, che disegnò e articolò a mano, sul suo bloc notes, ogni

mf fashion - 16 gennaio 2010

singolo capo della trama e dell’ordito. Questo primo tessuto pesava 500 grammi al metro e oggi è stata riproposto in lana super fine di soli 270 grammi al metro. Questo tessuto rappresenta la testimonianza di 100 anni di storia imprenditoriale e di quattro generazioni della nostra famiglia. Sarà disponibile in tutti i negozi del brand, per i capi su misura e sartoria. Quali saranno le prossime iniziative? Lanceremo un orologio in edizione limitata, creato da Girard-Perregaux; mentre con Omas abbiamo sviluppato una penna stilografica, anch’essa in edizione limitata. Entrambi i prodotti, insieme ad altri articoli limited edition (gemelli e tessuto Vellus Aureum), saranno venduti nei top 20 flagship store nel mondo. Il mio bisnonno Angelo Zegna iniziò con gli orologi e andò avanti con i tessuti, per questo abbiamo creduto fosse significativo creare un orologio per celebrare il centenario. A giugno, poi, lanceremo un libro con Skira e organizzeremo un grande evento alla Triennale di Milano, inserito nella settimana della moda maschile, in cui presenteremo la collezione commemorativa del centenario e una mostra che ripercorrerà i 100 anni del gruppo e che, a luglio, si sposterà a Shanghai. Come si è chiuso il 2009? Con riduzione di high single digits delle vendite, con calo nel wholesale ma un aumento nel retail (il turnover del 2008 si è attestato a 870 milioni di euro, ndr). Che cosa vede nei prossimi 100 anni? Il nostro obiettivo è quello di sviluppare Zegna come global brand nel lusso, mantenendo viva l’importante matrice tessile. E soprattutto vedo questa realtà ancora saldamente controllata dalla famiglia.


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Remo Ruffini @ Moncler un solo capo per raccontare un universo di creatività poliedrica dove si incontrano anime differenti, per trasformare il duvet in un vero cult. Chiara Bottoni

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iumino contagioso. Il sogno di Remo Ruffini, amministratore delegato di Moncler, ha un che di «epidemico»: fare diventare il duvet un capo globale. E se, numeri alla mano (il gruppo Industries di cui Moncler rappresenta la fetta più consistente di fatturato ha chiuso il 2009 a 375 milioni di euro in crescita del 25%), il traguardo non sembra troppo lontano, il merito di questo successo va attribuito alla capacità di Ruffini di leggere le esigenze di consumatori trasversali. E di saperle interpretare arruolando designer giusti al momento giusto. Dal 2003, anno in cui il manager ha rilevato il marchio, la storia e l’archivio di Moncler si sono infatti arricchiti dell’apporto creativo di numerosi talenti del fashion contemporaneo. A volte nomi impensabili, all’apparenza così lontani dall’universo del piumino che forse, proprio per questo, sono riusciti a conferirgli un inedito appeal. Insomma, Ruffini come un Andy Warhol votato alla moda. E Moncler come factory creativa da fare invidia a tanti concorrenti del lusso. Partendo da un prodotto apparentemente sempre uguale a se stesso, Ruffini è infatti riuscito a creare più linee con un’identità autonoma: la Gamme Rouge, dedicata al pubblico femminile più raffinato, affidata alla creatività prima di Alessandra Facchinetti e poi di Giambattista Valli; la Gamme Bleu, linea deluxe maschile disegnata da Thom Browne; le capsule dei giapponesi Visvim (Moncler V) e Sacai (Moncler S); e poi una serie di collaborazioni eccellenti one shot, da Balenciaga a Junya Watanabe. Fino alla diversificazione delle collezioni all’interno della main line, andando a pescare nel ricco archivio dell’etichetta, fondata nel 1952 da René Ramillon. Ultimo e inaspettato exploit, il lancio durante la fashion week newyorkese alle porte di Moncler Grenoble, una collezione all’insegna dell’heritage, marchiata non a caso con il nome della località francese dove il brand Moncler venne creato. Moncler potrebbe essere definita una factory di talenti. Quali sono state le linee guida del suo lavoro di ricerca nel panorama fashion internazionale? Da quando ho iniziato questa avventura, sono sempre stato guidato da un so-

gno: vorrei che quando una persona pensi a un piumino, pensi a Moncler. La mia ambizione è infatti quella di rendere il piumino «globale», di trasformarlo in un capo di abbigliamento che possa adattarsi a tutti e a ogni occasione d’uso. Moncler offre una gamma di prodotti che potenzialmente può essere indossata da chiunque, dal ragazzo in motorino alla signora che ha deciso di sostituirlo alla pelliccia. Che cosa l’ha guidata di volta in volta nella scelta dei designer? Scelgo creativi diversi in base alle mie necessità del momento. In Thom Browne cercavo qualcuno che potesse interpretare le esigenze di un consumatore amante di un’eleganza contemporanea. Thom è riuscito a farlo rileggendo stilemi classici attraverso volumi nuovi, facendo scoprire l’universo del duvet a persone che finora avevano privilegiato cappotti o giubbini più tradizionali. In Valli ho trovato invece il mediatore perfetto per tradurre l’universo della couture in un piumino. Del resto, un imbottito fatto ad arte non è poi così distante dall’alta moda: in entrambi i casi, l’apporto necessario in termini di manualità e artigianalità è molto alto. Un buon piumino per forza di cose deve avere numerosi passaggi ancora realizzati a mano. Come mai spesso si rivolge o si è rivolto a designer giapponesi? Credo che in questo momento, in cui il Giappone sta cercando di uscire da una situazione di stallo anche economico, le giovani generazioni di creativi siano ancor più stimolate a fare qualcosa di nuovo e di speciale. Un’energia eccezionale che designer come Chitose Abe di Sacai e Hiroki Nakamura di Visvim sanno tradurre nelle loro creazioni. In entrambi i casi, il lavoro di ricerca per le collezioni è stato effettuato su alcuni capi custoditi nel nostro archivio storico e risalenti agli anni 50 e 60. L’archivio Moncler pare infinito, anche Moncler Grenoble lavora su questo patrimonio? In realtà, è proprio per non essere troppo ripetitivi nell’attingere al nostro passato che ho deciso di chiamare in causa sempre nuovi designer. Moncler Grenoble è una storia ancora diversa: si tratterà di una collezione di abbigliamento uomo e donna, in parte tecnica in parte dedicata al tempo libero, con un forte legame con gli sport alpini e con gli anni 60. Insomma, un’altra sfumatura dell’essere Moncler.

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John Galliano

Lo stilista DI GIBILTERRA vara un nuovo progetto con Ittierre. «disegno per chi è rockstar dentro e grazie al pricing di questo prodotto potrò finalmente parlare a un pubblico più ampio». Cristina Manfredi

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edicato a tutti quelli che John Galliano lo amano alla follia, ma non sempre possono concedersi più di un suo capo per stagione. Dall’alleanza tra lo stilista britannico e l’italiana Ittierre, nasce il menswear targato Galliano, ovvero la controparte al maschile della linea donna lanciata per il mercato giovane nel 2006. Un total look di circa 250 capi e 80 accessori costituisce l’ossatura di una collezione robusta sin dal suo debutto, avvenuto sulla piazza lombarda durante le ultime sfilate di Milano moda uomo. E corroborato dalle calzature, affidate in licenza all’altrettanto nostrana Zengarini. Ma soprattutto punteggiato secondo la più pura grammatica del Galliano-style. Sottolineata da un evento ad hoc: un happening a richiamare le immagini della storica pellicola Picnic at hanging rock e le atmosfere di un party indie tipicamente londinese. Il tutto per dipingere una silhouette d’insieme fatta di stratificazioni, di silhouette oversize mutuate dallo streetwear, di jeans invecchiati e maltinti, di parka militari, pantaloni dal fit decisamente baggy e blazer con finissaggi effetto usato. «Sono pezzi plasmati sulla base di ciò che indosso o che vorrei indossare e hanno un animo rock’n’roll... mi raccontano e mi riportano ai miei giorni da studente a Londra». Qual è il tratto distintivo di questi capi di debutto? Ho messo in piedi una collezione molto strong. Volevo partire alla grande, con un inizio deciso, per trasmettere subito al pubblico l’identità forte del prodotto. Era essenziale lanciare un messaggio immediato, far arrivare subito agli operatori la mia vibrazione creativa. Non volevo lasciare spazio a nessun dubbio.

Come ha tradotto in abiti il suo pensiero? Doveva essere chiaro all’istante che l’unica vera differenza tra la Galliano e la mia prima linea stava nel prezzo. Per questo menswear giovane ho lavorato con lo stesso approccio di estro e di ricerca per l’innovazione che normalmente dedico alla collezione ammiraglia. Diciamo che questa ultima nata ha uno spirito urban molto affine ai pezzi più casual in denim o pelle della John Galliano. Con un pricing più contenuto, non teme la massificazione del suo immaginario di moda? Niente affatto. Sono anzi entusiasta all’idea di poter raggiungere un mercato più ampio e fare nuovi proseliti di stile. E comunque Ittierre, che cura la distribuzione su scala mondiale, ha già approntato una politica di espansione molto ben calibrata. Ma chi è il cliente ideale della nuova linea Galliano? Non sta a me decidere chi possa essere, è il pubblico che mi sceglie! Io disegno per gente che sa capire la moda al volo, che ha una precisa coscienza dell’immagine che vuole dare di sé. I miei vestiti sono per chi è rockstar dentro, anche se anziché essere in giro per il mondo in tour, magari se ne sta semplicemente seduto su un autobus. La mia estetica non è élitaria, è un’uniforme che definisce un vero e proprio stile di vita. Fascino alla Keith Richards quindi come ispirazione di stagione? Sì, ma non solo. Ho pensato ai vestiti che indosso abitualmente o a quelli che ben rappresentano il mio spirito. E poi in questa collezione c’è anche un riferimento preciso alla street culture dei miei giorni da studente a Londra. Insomma, ha il bollino Galliano cool.

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Paul Smith

«mi interessa divertirmi e fare cose di cui essere orgoglioso. Ogni volta che l'ho fatto ho avuto successo». parola del più eccentrico dei brit designer. Andrea Bigozzi

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na tappa a Milano e poi di corsa a Parigi. Senza dimenticare Londra, che è la sua città per antonomasia. È tutto questo Paul Smith che, nelle scorse settimane, si è concesso un piccolo regalo: ha lanciato, in tandem con Luxottica, la nuova collezione maschile di eyewear. Il nome? Spectacles. La firma è impressa in tutte le montature attraverso righe, trifogli, chitarre. Espressioni dello stile e degli interessi decisamente multitasking del fashion designer nato a Notthingham, dove ha iniziato la sua carriera in una fabbrica di abbigliamento. Era giovanissimo ed erano gli anni 70 sinomimo di moda inglese forte e alternativa. E proprio da lì è iniziata la sua storia. «Una passione, quella per gli occhiali, che ho coltivato da sempre. Sono un accessorio sexy e unico, hanno il potere di cambiare una persona. Quanti uomini famosi si sono imposti come sex symbol perché indossavano il giusto paio». Forma smagliante, completo scuro con sciarpa rosa e camicia bianca, mister Smith ha le idee chiare quando parla di fashion system e per raccontare la sua idea di moda maschile sceglie una parola su tutte: freschezza. «Le mezze misure non mi sono mai interessate», ammette. «Il mio stile? Sorprendente e fresco. Il cliente tipo? Sicuramente attento ai dettagli. Guardiamo in faccia la realtà: la separazione tra diversi tipi di uomini non è mai stata così drastica. In tanti hanno bisogno di apparire credibili e di affermarsi sul lavoro e per questo sono costretti a vestire in maniera estremamente classica e formale, altri che invece il lavoro l’hanno perso si vestono con un paio di jeans e una camicia». E il suo uomo quindi da che parte sta? In mezzo. Gli uomini che scelgono i miei capi cercano di vestirsi in maniera interessante con abiti scuri, facili da portare, ma che svelano particolari sorprendenti, magari con una fodera fuori dall’ordinario. Così possono essere più che decorosi sul lavoro, ma sorridere. Si divertono, insomma. Senza esagerare, altrimenti diventano ridicoli. Quale sarà il simbolo della moda maschile del nuovo decennio? Un uomo che nella moda come nella vita vuole recuperare spazi intellettuali per troppo lasciati da parte, che accetta le proposte di stile senza cadere preda delle mode, che segue i suggerimenti per il suo guardaroba, ma li metabolizza senza mai

dimenticare chi è, che cosa fa, quali sono i suoi gusti. E chi sceglierebbe come icona di questo nuovo maschio? Ad essere sinceri, faccio un po’ fatica a rispondere. Non ho grande familiarità con la gente famosa. Direi, per esempio, Daniel Day Lewis. È un amico, ma anche un ottimo cliente. Si fa fare da me gli abiti ma poi li personalizza alla sua maniera, magari portandoli con degli stivaloni da cow boy. Che cosa pensa dei nuovi talenti? È amico degli stilisti più giovani? In Gran Bretagna ce ne sono di interessanti. Anche se non ricordo i loro nomi perché sono complicati... sono quasi tutti di origine stranieria. Mi piace Christopher Bailey, che sta ottenendo un gran successo con il nuovo corso di Burberry. Penso che sia un buon momento per loro nella moda, riescono a farsi notare e non spariscono dopo le prime collezioni. Perché oggi i designer emergenti conoscono le strategie di business e poi esistono programmi e fondi per sostenerli. Un tempo tutto questo non esisteva. A proposito di tempi che cambiano, un tempo non c’erano neppure Zara e H&M, le grandi catene del fast fashion. Si sente minacciato dalla loro presenza? No, anzi. Realtà come quelle che ha appena citato svolgono un ruolo davvero importante per il mercato contemporaneo. Già oggi molte sfilate vengono trasmesse in diretta su internet, e tra due o tre anni questa sarà la norma per tutte le case di moda. Così i prontisti potranno vedere subito il lavoro di noi designer e arrivare sul mercato con collezioni imitate prima ancora prima degli stilisti che hanno individuato i trend. Ma questo non è un problema. L’importante per le griffe è sapere adeguare velocemente l’offerta alle nuove esigenze. Per esempio dobbiamo essere pronti a mettere nelle nostre boutique non solo semplice abbigliamento modaiolo, ma prodotti di qualità con una loro filosofia e un’immagine unica. Quindi non disegnerebbe una linea low-cost, come hanno già fatto altri suoi famosi colleghi? Mi è già stato chiesto. Per ben due volte. E ho sempre rifiutato. Non ho problemi a collaborare con grandi catene, semplicemente non mi sento di farlo. L’unica cosa che mi interessa adesso è fare qualcosa di cui essere orgoglioso e insieme divertirmi. Ogni volta che ho seguito questa strada ho avuto successo.

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Miuccia Prada @ Prada «In questo momento hai la sensazione di avere davanti il mondo intero. Non ti confronti più solo con te stesso. Da due anni o forse meno è cambiata la sensazione di vivere in compartimenti stagni come l’Europa, l’America. È stato spazzato via questa specie di privilegio. Soprattutto quando ti relazioni con realtà come la Cina, con una clientela informata, sofisticata, moderna. Personalmente, quando lavoro cerco di utilizzare la cultura con un linguaggio che sia attuale». L’imperatrice dell’estetica moderna si racconta a 360 gradi, dal rapporto con gli esponenti dell’arte fino all’estremo Oriente, da Internet alle barriere che stanno cadendo nel fashion system. E spiega come vede il suo nuovo mondo, da costruire muovendosi su tre concetti chiave. Semplificazione. Freschezza. Divertimento. Stefano Roncato

La sua sfilata menswear mostrava un desiderio almeno apparente di normalità, di realtà. Si sta entrando in un nuovo concetto fashion? Ho in mente una moda bella ma non teorica. È la voglia di moda che in questo momento mi interessa molto. La moda nel vero senso della parola, non tanto teoria ma vestiti. La scritta «To be continued» nel finale? È stato totalmente un caso. Collaboriamo con Oma e con i ragazzi di Rem Koolhas. E quando lavoriamo con esterni bravi, li lasciamo agire in modo indipendente. È curioso che quello che loro hanno proposto per l’allestimento sulla città corrispondesse a quello che avevamo in mente noi, per fare un lavoro reale, fare cose vere da mettersi. Che sembra l’unica novità. Una pulizia dopo troppi eccessi? È l’atteggiamento con cui si affrontano le cose. Poi magari alla fine il risultato è altrettando teorico. Però è l’idea di partire dal pratico, che tanto pratico poi non è, perché in sfilata tu esageri sempre, è stata un’ispirazione nuova. E sembrava tutto molto più giovane… In effetti quando si pensa a cosa mettersi realmente, la moda è giovane. La cosa vera è più giovane di quella teorica. Lo stilismo in questo momento mi sembra vecchio. Quindi anche la collezione donna sarà così? L’atteggiamento iniziale sì. La sofisticazione certe volte è decadente e vecchia. Poi dove andrà, dove porta non lo so. Lo spirito che mi interessa in questo momento è quello, poi magari tra sei mesi... In assoluto io e mio marito ora siamo un po’ fissati sulla freschezza sul rinnovamento. Certi clichè del modo di lavorare, molto anni 80 e 90, sono insopportabili anche nel processo operativo. Come si arriva a questa trasformazione? Il segreto è la freschezza nel modo di pensare. All’inizio sembra difficile rompere certi schemi, dopo tutti ci prendono gusto, si capisce che cambiando ci si divrete di più. È liberatorio. La chiave di tutto è il divertivento… ma lei si diverte? Quando ci sono dei cambiamenti in atto sì. Anzi io penso che il mio lavoro sia migliore quando mi diverto. Anche quando comincio a preparare una sfilata, finché non arriva il momento del divertimento, dell’eccitamento non si è fatto qualcosa di buono. Si è mai trovata alle porte di uno show a voler cambiare tutto perché

non le piaceva? No, ho talmente tanti dubbi prima… Usiamo un sistema a imbuto, partiamo da diverse idee che si selezioniamo strada facendo, non realizziamo tanto per poi scegliere. All’ultima sfilata di Miu Miu a Parigi sugli stendini non c’era nulla, forse tre pezzi. Avevamo fatto solo quello che ci serviva per la sfilata. Un approccio molto focalizzato che adesso c’è anche per l’uomo, rispetto a molti anni fa. È una novità anche questa. Concentrare sempre di più, arrivare a fare solo quello che serve. Un lavoro molto preciso. Non trova che si sia spinti un po’ troppo avanti con tutto il discorso di collezioni, precollezioni, main line? È il mio lavoro. Per il consumatore il prodotto non sarebbe mai abbastanza. Bisognerebbe fare una collezione al mese ed è tanto che lo diciamo. Psicologicamente, hai un’idea, la realizzi, le metti in negozio. Fine. Senza dover fare tutta una collezione gigantesca o infinita. Mio marito ha già fatto questo cambiamento nelle borse e nelle scarpe. Nell’abbigliamento tutti tremano. Ma ha il mio supporto. Rientra nel discorso di sovvertire le regole. Non è facile a causa delle resistenze personali al cambiamento. Ed è un problema manageriale, delle persone quindi? Nell’abbigliamento, dicono che diventi più difficile. Si può fare invece. E sarà in atto nel corso del prossimo anno. Anche perché porta dei risultati economici davvero interessanti. Fare le cose giuste che senti per il momento, quindi uno stop alle collezioni che alla fine non sono veramente di moda o veramente prodotto. Fare meno e meglio. Cosa pensa del meccanismo delle sfilate? Su questo non ho cambiato idea. La sfilata è un momento di presentazione pubblica che ti costringe a lavorare meglio e di più. E veramente a dare l’anima. Il défilé è sempre più spettacolo, molto impegnativo. Io dedico più attenzione di prima alla musica, all’allestimento. Le sfilate devono essere belle da vedere se no, ad esempio, i giornalisti si annoiano. E grazie a internet, sono contenta che tutti gli sforzi fatti per la collezione siano messi a disposizione di un pubblico più vasto. Per la prima volta l’uomo ha sfilato con uscite donna… continuerà questa unione? In questo caso ha funzionato perché molti capi erano ambivalenti. Non è detto che

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sia un’idea che funzioni sempre. È stato come mettere una bandierina. Tante volte si buttano via idee dopo il menswear che adesso tutti guardano con attenzione per prendere ispirazione. Magari riuseremo certi concetti nella donna. Magari no. Ma abbiamo mostrato di averli fatti per primi. Con l’intensificarsi di uscite interstagionali, dove siamo arrivati? Per la pre-collezione il tempo che dedichiamo è elevato. Con il web è diventato un lavoro quasi pubblico come la sfilata. E questo mi sta facendo riflettere. Vorrei sapere quando si fa qualcosa di normale, c’è un buco di prodotto: non quello commerciale ma quello che la gente veramente desidera. E che vorrei fare nella sfilata. Quindi un nuovo show di rottura, che incoroni il prodotto? Sarebbe innovativo. Utilizzare la sfilata vera per fare prodotto al 100%. La moda ha senso se te la metti. Ma non è rischioso? Sarebbe rivoluzionario, Solo che credo che alla fine sarebbe noioso. È la cosa più difficile di tutti. In genere c’è una protesta contro la parola commerciale, che sembra volgare. È la parola più difficile che ci sia. Le gente vuole pezzi nuovi, cool, che stiano bene addosso. Non è facile identificarli. C’è troppo poco tempo per pensare, hai troppe distrazioni. Io ormai la messa a punto dei capi la faccio su me stessa. In tutto questo meccanismo non ti poni mai la domanda chiave. Ma te lo indosseresti veramente? Se ci pensi ti vengono le risposte. È curioso che si faccia di tutto tranne la cosa che serva. Come si confronta con il cliente finale? Avere sintonia rappresenta la vera soddisfazione, altrimenti cambierei lavoro. E penso che questa sintonia con i nostri clienti ci sia. Il cliente del lusso è maniaco della moda. Quello che fai deve avere senso per la gente, per un mondo allargato. Ci devi credere, lo devi sentire, ti deve piacere. Ma capisco solo dopo, alla fine, quando ho creato una cosa giusta. Non ci sono formule da seguire, non si costruisce un successo a tavolino. In che modo state affrontando internet? Si tratta di un mezzo che stiamo studiando e valutando attentamente, viste le sue potenzialità. Penso che fare del commercio on-line non rappresenti proprio l'avanguardia. Si possono trovare altre soluzioni. Noi abbiamo già un sito, creato insieme a Oma. Abbiamo molti contenuti, dall’arte ai film. Stiamo lavorando su una nuova versione ricordando che bisogna essere più semplici, senza cadere nella trappola di ridurre al nulla. E soprattutto senza banalizzare Internet stesso. Oggi siamo arrivati a blogger-star. Ma non è too much? Anche per voi giornalisti ci sono dei potenziali concorrenti. È giusto o è sbagliato? È solo la realtà. Internet è uno strumento, lo useremo come facciamo con altri. Troveremo la nostra strada. Semplificare, la ricerca del new, divertimento. Sono termini che sembrano raccontare un mondo nuovo… In questo momento hai la sensazione di avere davanti davvero il mondo intero. Non ti confronti più solo con te stesso. Da due anni o forse meno è cambiata la sensazione di avere compartimenti stagni come l’Europa, l’America. È stato spazzato via questa specie di privilegio. Soprattutto quando ti confronti con mondi come la Cina, con una clientela informata, sofisticata, moderna. Come europei, possiamo prendere quel nuovo e dare intelligenza e cultura. Non è un discorso solo di moda ma anche di politica. Personalmente, quando lavoro cerco di mettere la cultura con un linguaggio che sia attuale. Come dice mio marito, troppa cultura può essere un danno se non la sai filtrare, alleggerire, ironizzare. Però non può mai mancare. Bisogna valorizzarla con strumenti e modi attuali. Quindi la cultura nascosta dietro un abito? Sì, di sicuro. Non lo racconto neanche. È curioso come la parola cultura suoni vecchia. Non diciamola e facciamola lo stesso. Cosa pensa di mercati nuovi come Cina e India? L’Estremo oriente mi interessa di più. Anche a livello di cultura e di estetica. In effetti non sono mai stata attratta dall’India neanche nel '68. Il fisico dei giapponesi e degli orientali corrisponde a un ideale di fisico moderno. E i cinesi danno molta soddisfazione. A loro piace vestirsi, capiscono la moda. In altri paesi vendi solo borse e accessori.

Come sta proseguendo il progetto legato alla Fondazione? Direi bene. Apriremo a Milano ma io sono sempre più interessata a fare progetti fuori Milano. Se dobbiamo fare uno spazio permanente facciamolo a Milano, è un po’ un dovere. Allo stesso tempo, l’esperienza del Double club di Londra o del Transformer a Seoul sono state interessanti. Un libro racconta quello che avete fatto in questi anni. Cosa pensa guardandolo? Mi sono riconosciuta in quel percorso. Non te ne rendi conto fino quando non vedi la sintesi. Se mi piacerebbe entrare in un museo? Molti ci chiedono abiti e pezzi e noi li diamo. Ma non è un argomento che mi interessi, mi interessa il nuovo. C’è un progetto in cui si riconosce di più? Mi piace molto l’idea di Prada classic, di queste pubblicità alternative. Ma non so se l’azienda sia ancora pronta. È un po’ l’unione tra il lavoro e l’arte, un argomento delicato per me. Da un lato ho sempre voluto mantenere le differenze. Dall’altro le differenze non ci sono più. Sono prudente, si testa, si cerca di capire. Il Transformer, Prada classic, la campagna dell’uomo con Yang Fudon. Poi se ti abitui a lavorare con persone intelligenti e brave è difficile tornare indietro. È un vizio. Ma questa ventata d’arte arriverà anche sulla donna? C’è sempre stata diatriba interna, che l’uomo non possa essere troppo moda. Quindi per le pubblicità avevamo usato personaggi. Abbiamo pensato all’idea di fare un film. E anche la campagna donna realizzata da Steven Meisel è stata filmata per diventare un mini video. Perché internet è movimento. Siamo arrivati a Yang Fudon, un artista che amo molto, l’unico di cui ho collezionato dei video. È stato facilissimo lavorare insieme, ha fatto tutto lui. Evidentemente i giovani non hanno quei criteri vecchio stile, sono più moralista io, che non voglio collaborare troppo con gli artisti sulla moda. Non vado mai sul set. Ma mi han detto che Yang Fudon per mettere insieme le tonalità di grigio è stato peggio di noi. Magari finalmente un artista che fa anche stile e styling… Sarebbe una cosa liberatoria. E perché no? Ad esempio l’abito per Lady Gaga è merito di Francesco Vezzoli. Ho in mente un progetto nuovo per la fondazione, per l’arte. Mettere insieme un gruppo di persone che siano anche amici. Scegliere un paese e improvvisare con divertimento, qualunque cosa succeda. Dalle idee fresche, dall’amicizia, non si sa cosa venga fuori. Io mi sto già confrontando con alcune persone del mondo dell'arte, c’è già fermento. Anche nell’arte ci sono degli schemi, questi mondi creativi sono conservatori. Quali barriere stanno cadendo? Ai ragazzi la sofisticazione interessa molto. Agli uomini giovani piace nel senso intelligente della parola. Hanno meno barriere. La nuova generazione è molto più pronta alla moda di quella di adesso, di una certa età. E incursioni anche nel mondo della musica? Stiamo facendo i costumi per l’Attila di Verdi che debutterà al Met di New York il prossimo 23 febbraio sotto la direzione musicale di Riccardo Muti e le scene di Herzog & de Meuron. I costumi per l'opera erano una cosa che, una volta nella vita, avrei voluto fare. In generale quello con la musica non è un rapporto che ho approfondito molto. Lavora spesso con il suo archivio? Preferisco usare la memoria. Certe volte mi ricordo cose diverse da come sono realmente. Non sono una fanatica della storia della moda, non approfondisco, preferisco ricordare l’immaginario, avere la percezione, lavorare con l’idea di una cosa. E come quando si è un po’ miopi, l’immagine da lontano è diversa da quella che è. Anche quello che fanno gli altri, lo guardo distrattamente, da lontano. Non voglio mai stare a vedere nel dettaglio. C’è qualcosa nel lavoro degli altri designer che l’ha impressionata? Certe volte sì. Come la sfilata dei pesci di Alexander McQueen. Riconosco la bravura degli altri. Non sono invidiosa di chi ha talento. Mi disturba la falsità e quelli che fingono di essere creativi e non lo sono. Cosa pensa quando le domandano cosa si provi a essere un’icona della moda? È un argomento a cui non penso tanto. Ho in mente quello che devo fare. Però, dopo, sono contenta che me lo chiedano.

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Rossella Jardini @ Moschino La passione per Yves saint laurent e Chanel. l’ironia. Le donne cigno di truman capote. E il rapporto simbiotico con franco. Tutto questo è rossella jardini, cuore e anima della griffe satellite del gruppo aeffe. Stefano Roncato

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n’esteta discreta, riservata, da scorpire. Come i palazzi di Milano, la città che l’ha adottata. Dove vive nell’appartamento che era stato regalato da Umberto di Savoia a Milly. Perché tutto deve avere una storia per entrare nel mondo di Rossella Jardini, direttore creativo di casa Moschino. Un universo affascinante che si può comprendere piano piano, che si svela con parole che accendono il sorriso, che provocano la risata, che commuovono. Che hanno un peso emotivo. Cuore e testa, sorrisi e lacrime accennate. Una passione per le giacche da uomo. Per Yves Saint Lurent e Chanel. Per le donne-cigno di Truman Capote. E poi ovviamente per Franco Moschino, l’amico, lo stilista, l’uomo. Che lei sogna spesso e con cui la sintonia era assoluta. «Sei capricorno ascendente Hermès», diceva lui, sottolineando con la sua tipica sottile ironia la passione di Rossella Jardini per collezionare abiti, borse, gioielli. Ironia e talento, come quella storia che la designer è riuscita a portare avanti con successo in un’impresa difficile sulla carta. Rivelando una mente acuta, curiosa che per raccontare una storia parte improvvisamente con una domanda: «Com’era la fashion week Parigi?». Dato che è andata lei sull’argomento, cosa succede a Milano al calendario? Qui è come se ci volesse fare del male. Non siamo stati capaci di metterci d’accordo, è un grande peccato. Trovo che sminuisca la nostra capacità produttiva. Abbiamo in mano il made in Italy, tutta la filiera, cose che Parigi non ha più. E noi dovremmo essere fieri e sponsorizzarla. Questo sistema di sfilate penalizza molto anche le campagne vendite. Perché il 50-60% della main collection è fatta in tre giorni in una situazione di puro delirio. Su 100 tavoli, gente che si ruba i vestiti, le modelle. Lo trovo assurdo. Cosa si potrebbe fare? Intanto ritornare a un calendario umano. E poi non è vero che è colpa di Anna Wintour (direttore di Vogue America, ndr). Volendo oggi hai la possibilità di vedere la sfilata mezz’ora dopo. La comunicazione è talmente più easy che è stupido che ci sia ridotti così. Abbiamo vissuto situazioni ben più pesanti con gli Usa. Quando c’è stato 11 settembre, ci sono state due stagioni in cui gli americani non venivano.

Difficile a maggior ragione per i giovani… Ragazzi come Albino, Gabriele Colangelo e Francesco Scognamiglio, come fanno? Ma per fortuna che ci sono. Sono sempre contenta di veder nascere stilisti. Li guardo con attenzione, mi piace che ci sia della gente nuova. Trovo che per loro adesso sia molto più faticoso crescere rispetto agli stilisti degli anni 80 e 90. Anche se tutti tendono a scordarsi che nomi come Giorgio Armani, Gianni Versace, Franco Moschino non sono diventati famosi a vent’anni. E prima di sfondare hanno lavorato tanto. Facevano collezioni su collezioni, consulenze, collaborazioni. Non bastava una sfilata carina. Cosa si ricorda dell’inizio della sua carriera? Il mio primo lavoro era da Trussardi e ho realizzato i guanti per il debutto della donna di Giorgio Armani. Era il 1976. Io prima compravo per me Armani da uomo dal Carlo Paveri a Pavia. Adoro mettermi le giacche maschili… Ha una predilezione per i pezzi dal menswear? Adesso ho le giacche da uomo Moschino. Del mio archivio metto almeno due volte l’anno una vecchia Ysl di velluto marrone, quella giacca lunga con cappuccio che è uno degli oggetti più belli. Credo di averla da oltre 20 anni. Quando c’era stato il primo ritorno di Pucci, a metà anni 80, avevo sguinzagliato ricercatori per trovare i leggings stampati. Li mettevo con la giacca e stivali alti di camoscio nero. Molto Peter Pan. Franco? Adorava. Com’era la vostra intesa? Lui diceva mezza frase e io la finivo. Sintonia. Era un uomo molto intelligente e simpatico. Ma soprattutto intelligente. Mi domando sempre se avesse vissuto, se avrebbe fatto ancora questo lavoro. Non lo so. Forse non gli sarebbe piaciuto, troppo business. La viziava? Sì, molto. Diceva sempre che io ero capricorno ascendente Hermès. Mi regalava tante borse di Hermès, di tutte le foggie. I gioielli sono una passione più recente, vent’anni fa giravo come una Madonna piena di catene di Chanel e 12 bracciali di smalto di Hermès. Un po’ nel tempo ho cominciato ad avere gioielli più seri. Se ap-

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profondisco un campo vado fino in fondo. Dalla A alla Z. Sono stata derubata alcuni mesi fa, sui Bastioni di Porta Venezia e per un po’ non ho messo nulla. Avevo paura. Poi ho ricominciato. Mi sentivo nuda… Dopo gioielli, borse, abiti, cosa le piacerebbe collezionare? Intanto la regola è avere tutto sempre in copia. Metti che la perdi e non la fanno più? Anche in casa mia ho tante cose in due, uguali. Mi piacerebbe collezionare maggiormente fotografie di moda e fotografie in genere. Vorrei una casa piena di vecchie foto, magari anni 50. Quella cui sono più affezionata è di Truman Capote a New Orleans. Ma ci vorrebbe una casa sei volte più grande per avere tutto. La casa è diventata il suo rifugio? Quella dove vivo, adesso che ho comprato qualche anno fa, l’ho scelta perché dal fondo del corridoio vedevo il mio primo ufficio di Moschino in via Cappuccini. Era la casa che il re d’Italia Umberto di Savoia aveva regalato a Milly. Devo sempre avere un po’ di storie in quel che faccio. La casa adesso è il mio rifugio. Ha dei begli spazi, ha una cucina grande anche se io non so cucinare. Questa casa mi ha fatto bene. È un piacere arrivarci la sera, è bello passarci anche sabato e la domenca. Se avessi più tempo, vorrei avere l’occasione di leggere tutto. E poi vorrei avere tempo per guardare Milano, come dice Gabriele Salvatores, verso l’alto. Mi piace la sua sobrietà e la sua gente che lavora. È una città discreta. Dovremmo fare di più per Milano. Magari portarci la retrospettiva «Inside Moschino» in scena al Gum, di Mosca? Il programma per ora è di un mese lì. Un corridoio lungo oltre 50 metri riproduce tutta la storia di Moschino. E tra abiti e borse vintage, ci sono ufficio stile, un parte della sartoria, delle vetrine. Dopo la mostra dei dieci anni, bisognerebbe tornare a fare un libro, un catalogo di lusso con tutte le foto delle vetrine. Intanto avete incominciato con l’albergo…. Questa casa non è un albergo, recitava il nostro slogan. Lo spirito è più da casa. Le camere sono un’esperienza da Moschino. Con Jo Ann Tan, all’inizio abbiamo disegnato due stanze, poi siamo arrivati a 16 tipologie diverse. Mi capita raramente di emozionarmi. Ma quando l’ho visto forse ho anche pianto un po’… È vero che sogna Franco Moschino? Spesso. E stiamo sempre facendo delle sfilate. Mi chiede una cosa: «Fai una conferenza stampa per dire che sono tornato». Io rispondo: «Franco scusa ma non possiamo, abbiamo fatto il funerale». Ho iniziato a lavorare con lui a fine anni 70 attraverso due ragazzi di Alvear, che poi chiuse, e Franco mi volle con lui da Cadette. Poi sono stata da Bottega veneta quattro anni dove ho imparato a fare le borse. E quando Franco ha fondato la Moschino, dopo una stagione, mi ha chiamato. Eravamo diventati molto amici. Era il 1985 e da allora sono sempre qua. Come è cambiato il modo di lavorare? Mi manca il tempo per pensare. E per fermarsi a riflettere. E devi perché è solo così che vengono delle idee. Il mestiere dopo tanti anni ti aiuta. Ma sembra anche ci si riduca a macinare, macinare, macinare. I ritmi non si sono spinti troppo oltre? È un modo vorace di consumare la moda, la comunicazione globale di oggi da un certo punto di vista ha facilitato tutto. Ma niente rimane segreto. Che era anche il bello, scoprire le cose. Ci vorrebbe il coraggio di cambiare le regole. Di dire faccio una collezione sola oppure faccio una collezione al mese ma di 10 pezzi. Perché ad esempio voglio che nei negozi a giugno ci sia il voile di cotone. Perché a luglio voglio comprare il popeline. Nel mio esser sempre stata una grande consumatrice di moda, io ad esempio non ce la faccio a comprare un cappotto ad agosto. Quale è stata la più grande follia per la sua collezione di vestiti? Il mio primo abito di Chanel. Lungo di raso nero. Con Franco andavamo a Parigi al 40esimo compleanno di Angelo Tarlazzi. Io lego tutti i miei ricordi sempre agli abiti. Ma la passione per collezionarli è iniziata prima. Mi ricordo che a 6 anni e mezzo veniva la sarta in casa. Avevo fatto dei capricci inenarrabili per un vestito scozzese con colletto di piquet e cintura bassa in vita che mia mamma voleva al ginocchio e io a minigonna. Amo i vestiti indipendentemente da chi li fa, sono una fanatica Ho comprato di tutto, Walter Albini, Issey Miyake all’inizio… Cosa manca nel suo archivio personale? Manca il tempo di risistemare i miei vecchi Yves Saint Laurent, riprendere e rimettere a posto le spalle. Riconosco un Ysl da lontano e sono stata anche fan di Alber Elbaz

quando ci lavorava. Dei giovani ho comprato questo inverno a Londra una giacca di Kinder Aggugini. Compro qualsiasi cosa. Compro pantaloni di Alberto Biani, le riedizioni di Balenciaga. Ma mi da fastidio che mi conoscano nei negozi, ero abituata all’anonimato. Adesso sembra che vada a comprare per fare ricerca. Oggi al 90% sono vestita Moschino, anche perché li faccio anche un po’ per me. Ma non era già tutto fatto su di sé? Quando è morto Franco, ho cercato di fare quello che avrebbe forse voluto fare lui. E magari sono state le stagioni meno felici. Poi a un certo momento ho capito. Non lo sapevo cosa avrebbe voluto Franco, me ne sono fatta una ragione. Però quello che abbiamo imparato io e il team, che non è cambiato negli anni, ce l’ha insegnato lui. Quindi probabilmente sapevamo di non andare poi così tanto fuori strada. Se avessi deciso 15 anni fa di realizzare una linea mia, forse avrei fatto altre cose. Franco realizzava pezzi solo per me, magari gli diedevo di disegnarmi un vecchio Ossie Clark. Era più facile che mi regalasse una giacca di Yohji Yamamoto ma io la giacca con le forchette non l’ho mai messa. Dior, Moschino e adesso la scomparsa di Alexander McQueen. Com’è proseguire in maison il cui fondatore è riuscito in pochi anni a costruire un messaggio estetico preciso? Franco è stato malato un po’ di tempo, mentalmente eravamo consci anche se fino all’ultimo giorno ho sperato che si salvasse. In quel momento avevamo un fatturato indotto di 200 miliardi di vecchie lire, non potevamo chiudere la porta della sede di via Ceradini. Le scelte fatte allora erano emozionali. Franco era amato da tutti e questo ha permesso che la Moschino andasse avanti. È stato una trasformazione di energia. La sua energia si è trasformata nel nostro lavoro. Alcuni anni sono stati pesanti, la gente non riconosceva, sembrava quasi offensivo proseguire. Ho sempre detto che dovevamo andare avanti stando chiusi nei nostri uffici, ignorando critiche facendo il meglio che potevamo fare. Diversamente da McQueen, noi eravamo indipendenti all’epoca. Mi aveva regalato una quota della società due o tre anni prima di morire. Credo che forse non avrebbe pensato che avrei lavorato così tanto. La mia vita è stata solo lavorare. Franco, che mi voleva bene, non se lo sarebbe augurato. Quanto Dna di Franco Moschino c’è nella collezione appena andata in passerella? Siamo partiti da una collezione di Cadette dell’83-84... non abbiamo altro se non il mio archivio, quei pezzi che mi regalava lui. E alcune foto di campagna. Gonnegorgiera, vestiti a balze, volant, tulle, coulisse. E poi gli orecchini trasformati in decor, in una borsa, in una stampa. Da dove nasce un abito? Dalla materia. Per me la scelta dei tessuti è uno dei momentipiù importanti e dei più interessanti. Trovo soddisfazione nel toccare la materia. Il mio tessuto icona? Sicuramente il crepe de chine, il più universale, un feticcio. Io avrò nel mio armadio 12 camicie di crepe de chine bianco. E 24 camicie di popeline giapponese bianco da uomo per l’estate. Ma la donna di oggi è cambiata? No, vuol sempre essere bella. Ed esser donna. Poi dipende dal gusto. Non posso pretendere che siano tutte Catherine Hepburn. I vestiti danno la possibilità di interpretare se stessa. Può essere elegante ma anche tacky. Da sempre, da Cleopatra, questa è storia. Quale periodo storico le piace? Sicuramente gli anni 50, ma non è un’epoca che io amo piuttosto un certo tipo di donna che oggi forse non c’è più. Tutte le amiche di Truman Capote, quelle che lui chiamava i cigni e che credo si siano estinte. Trovo che lo stile impero sia stato nei secoli molto elegante, da Paolina Bonaparte fino alle donne di strada. Magari il ‘700 era costrittivo, gli anni 20 un po’ tristi. Meglio Hollywood? Gli anni 40 erano sempre tempi che si accavallavano alle guerre, dove la tristezza era dovunque. Per questo parlo dei Fifties dove si usciva dalla guerra. A parte Dior, a parte il ritorno di Chanel che assieme a Yves Saint Laurent è l’altro mio grande mito. Franco Moschino diceva sempre una cosa al riguardo. Cosa? Prima di pronunciare il nome di Saint Laurent, dovete farvi il segno della croce.

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Thom Browne

figlio della sartoria statunitense, GIOCA CON LA CLONAZIONE di una silhouette mannish rimpicciolita, che è diventata il suo trademark. e NEL CASSETTO ha il womenswear E UN LUNGOMETRAGGIO MUTO per completare la sua crativitÀ. Francesca Manuzzi

I

protagonisti sono i suit. Così ben strutturati che sembra abbiano vissuto gli ultimi 20 giorni in lavanderia sotto una pressa stiratrice. Lui, Thom Browne, americano e laureato in business, ha come missione personale la loro salvezza. O meglio uno studio dettagliato per renderli oggetti da wish-list. Una passione quasi morbosa, come quella che ha per lo sport, che ha sempre praticato e che riversa in tutti i suoi show. Sia per la sua linea sia quando lavora per Moncler gamme bleu. Il suo guardaroba è alta sartoria, realizzata con i consigli di un vecchio modellista italiano. Fitting estremo e un segno distintivo: i centimetri che separano l’orlo dei pantaloni da terra. La sua estetica alla Zio Sam falsato è apprezzata dai buyer di tutto il mondo e sta macinando più di una novità: dal trasloco della sfilata al di qua dell’Oceano, a Parigi, dopo anni trascorsi a New York, fino al lancio di una linea donna. Contenuta e mannish oriented. Lo show studiato per trasferirsi nella Ville Lumiere cita gli anni 60 dell’Agente Lemmy di Godard, fatto rinascere nella sala riunioni del Partito comunista di Parigi. Tra astronauti e bandiere francesi/ americane. Come mai questo cambiamento di location? È una decisione maturata considerando punti di vista sia mediatici che economici. Mi piace New York come luogo di vita e di lavoro, ma è un privilegio poter sfilare a Parigi. Da maggiore visibilità, oltre a permettermi di far partire la produzione con largo anticipo. Quali sono i dettami estetici da cui non può prescindere? Il diktat iniziale è l’abito grigio, la silhouette che tutti identificano come mio tratto distintivo. Così come la indosso io. Le mie collezioni partono da qui. Sia per Moncler gamme bleu che per la mia linea. Ciò che cambia è solo l’esplorazione del

mondo Thom Browne in un Dna differente. L’intento, poi, è di creare stupore in chi guarda, provocare una riflessione, soprattutto visti i preconcetti che le persone hanno verso il menswear. Nel corso di quest’anno ci sarà anche un’altra grossa novità: verrà introdotta la collezione donna. Aveva già sperimentato con una piccola capsule nel 2007 e 2008, poi da Brooks Brothers con la Black fleece. Come sarà e qual è il raccordo con l’uomo? La mia collezione è universale, per un young minded guy. Ma non progetto con una persona specifica nella mente, l’influenza sono i viaggi, chi incontro. Questo mi permette di poter declinare la mia visione sia al maschile che al femminile. La donna Thom Browne sarà completamente in feeling con l’uomo. Sicura di sé, individualista e spontanea. La collezione sarà molto contenuta, solo uno stand di campionario che sarà in vendita il prossimo autunno da Barneys a New York, Colette e 10 Corso Como a Seoul. I suoi show sono sempre scenografici, quanto è importante questo tipo di comunicazione? Decisamente fondamentale. Dà un soffio vitale alla collezione. E mi piace includere elementi sportivi, forse per la propensione per l’attività fisica. Sin da bambino, come tutti i miei fratelli. Ho fatto nuoto durante gli anni della scuola e loro baseball, pallacanestro e calcio. È una questione genetica, inconsciamente imprescindibile. Quali sono i suoi progetti futuri? Ha un sogno nel cassetto? Dunque… uno in particolare: mi piacerebbe dirigere un lungometraggio muto (lo stilista aveva già creato un corto di 30 minuti con l’artista Anthony Goicolea per la presentazione della collezione primavera-estate 2007, ndr).

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Ennio Capasa @ Costume National Sartorialità hi-tech e ossessione decostruttivista. sono questi i cardini dell’estetica elaborata da ennio capasa. che riscrive il gusto moderno tra pulizia formale e vision sintetica, nel rispetto di un codice visivo MINIMO e dark. Fabio Maria Damato

L

a passione per il corpo e per l’abito, da indossare come una seconda pelle, da incarnare come un’opera d’avanguardia. Uno studio creativo accademico concepito secondo gli insegnamenti della scultura, ma maturato tra le proposte moda di ricerca della boutique di famiglia. È l’approccio stilistico di Ennio Capasa, deus ex machina del marchio Costume national, che concepisce una sartorialità hi-tech figlia di un’estetica clean, sintetica e puntuale. Pensata per l’uomo della contemporaneità. Cosa significa e perché ha scelto il nome Costume national? Perché l’idea degli esordi di sfilare a Parigi? Costume national è un atto d’incoscienza. Un’idea di moda di un ragazzo giovanissimo che voleva creare un’estetica diversa da quella ipergrafica e troppo costruita del tempo. Un approccio nuovo, frutto degli studi accademici di scultura che avevo portato a termine e dell’amore per la moda trasmesso dalla mia famiglia, proprietaria di una boutique sperimentale in Puglia. Avevo 23 anni e presentare una collezione con il mio nome mi sembrava troppo presuntuoso. In quello stesso periodo mio fratello Carlo mi regala un libro di costumi etnici, comprato in un mercatino e intitolato Le costume national. Quello doveva essere il nome della collezione, in controtendenza rispetto all’immaginario dello stilista di moda italiano che imponeva il suo nome. Una collezione nella quale lavorai sulla destrutturazione dei capi, tolsi le spalline e mi posi il dilemma del nuovo rapporto tra donna e abito. Un abito meno invasivo ma più in sintonia con il corpo, più reale, che non fosse rétro, nell’ossessiva ricerca di un’eleganza timeless. La mia moda però fece discutere molto la stampa italiana, che forse era ancora troppo conservativa per poter andare verso una direzione differente. Fu allora che decisi di andare a Parigi, una città pronta alla sperimentazione, dove incontrai designer come Martin Margiela, Helmut Lang e Ann Demeleumeester, con i quali condividevo il medesimo ufficio stampa e lo stesso spirito e approccio creativo. Sfilare la emoziona ancora come la prima volta? L’emozione adrenalinica della prima volta non si scorda mai. Ricordo l’instancabile energia che avevamo investito nelle 48 ore precedenti la prima sfilata. Ore durante le quali con mio fratello e un gruppo di amici avevamo messo appunto gli ultimi dettagli dello show. Quando cammini in passerella senti il cuore in gola, il battito cardiaco al

limite per il coronamento di tanto duro lavoro. E questa è un’emozione che anche dopo tanti anni di esperienza resta immutata nella sua forza. Com’è cambiata la moda in questi anni? Crede che oggi si ha voglia di una nuova pulizia stilistica? Credo che la moda sia lo specchio dei tempi che cambiano e che si adatti a quello che vuole la gente. Il mio approccio è restato il medesimo in tutti questi anni e l’ispirazione nasce come sempre da una sensazione personale del tempo e prosegue verso un’intuizione mia personalissima. Facendo un’analisi molto semplicistica dopo gli anni dei petrolieri e del Texas al potere, con Bush e l’estetica di Tom Ford per Gucci. Oggi con la forte crisi dell’economia occidentale e un presidente come Obama c’è voglia di concretezza, di sintesi, si sente la necessità di tornare alla verità. E questo si riflette anche nella moda. Una sintesi assolutamente nel mio Dna e dalla quale sono partito agli inizi di carriera e che oggi riscopro sulla scia di una nuova voglia di concretezza. Sì, sono convinto che c’è voglia di una sartorialità clean che porti all’essenza delle cose. La velocità di internet ha reso obsoleto il linguaggio delle sfilate? Internet ha rivoluzionato il mondo anche della moda. Oggi puoi vedere tutto e sapere tutto in tempo reale e ovviamente le informazioni si bruciano ad una velocità supersonica. Però credo che il momento della sfilata sia un momento importante, emozionale. Durante il quale gli addetti ai lavori possono vedere da vicino il prodotto e catturare la filosofia di una collezione. Progetti e sogni per il futuro? Il progetto è quello di rafforzare la presenza del nostro marchio nel mondo. Basti pensare che negli Stati Uniti abbiamo più che raddoppiato i nostri punti vendita. In più stiamo progettando uno shop in shop in apertura presso Saks, un bulding Costume national a Tokyo, con un caffè e un concept store e aperture a Hong Kong e Seoul (lo scorso mese di aprile una quota di minoranza pari al 17% è passata nelle mani del fondo giappo-cinese Sequedge del tycoon Kazunari Shirai che ha varato un importante piano di investimenti concentrati sul mercato orientale, ndr). Mi resta però un sogno nel cassetto. Una linea couture sperimentale, che svii dalle dinamiche di mercato e che permetta di misurarmi con la creatività e con un mondo immaginifico personalissimo.

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Domenico Dolce e Stefano Gabbana @ Dolce & Gabbana Sicilianità e Internet. Madonna e David Beckham. Fashion e voglia di una nuova, ritrovata semplicità. domenico dolce e stefano gabbana raccontano in un’intervista i vent’anni della loro etichetta menswear. Stefano Roncato

«S

tiloso. Sensuale. Mediterraneo». Ecco le tre parole scelte da Domenico Dolce e Stefano Gabbana per sintetizzare il loro uomo, che ha festeggiato 20 anni con un megaevento a Milano. Sfilata con una performance live di Annie Lennox e una retrospettiva a Palazzo Marino. E in un’intervista i due stilisti raccontano di due decenni di menswear in cui le cose sono molto cambiate. Heritage e Internet. Madonna e David Beckham. Fashion e voglia di nuova semplicità. «Anche se suona strano associare a noi questa parola che semplici non siamo». Come vi sentivate alla sfilata? Questa sfilata per noi è stata come tutte le altre. È vero c’era Annie Lennox e l’atmosfera era molto speciale. Ma il défilé era stato creato come sempre; l’anniversario l’abbiamo celebrato con i libri e l’evento a Palazzo Marino. Eravamo nervosi come succede prima della passerella, anche se sai di aver organizzato tutto, la tensione è nell’aria. Ma appena inizia la musica e vedi la prima uscita, sei totalmente assorbito dal momento che te ne dimentichi completamente. In quegli attimi è come se il nostro lavoro fosse finito e la testa fosse già nella prossima collezione. E i saluti ufficiali alla mostra con il sindaco Letizia Moratti? Per carattere non organizziamo tanti eventi di questa portata, ma era un anniversario importante e per noi un vero traguardo. Ovviamente, non essendo abituati alle manifestazioni pubbliche eravamo un po’ agitati. Siamo timidi di fronte a questi grandi eventi, anche se la gente vedendoci pensa che sia esattamente il contrario. In realtà la nostra vita è fatta dalla quotidianità e dalle cose che ci piacciono e che amiamo. Svolgiamo il nostro lavoro con impegno e passione. E il successo non ci ha cambiati, almeno interiormente. La nostra giornata è dedicata a occupazioni normali: il lavoro, i nostri cani, la palestra, i nostri amici. Un bilancio di 20 anni di uomo? Quando abbiamo iniziato era tutto molto diverso e noi avevamo un’altra età. In 20 anni sono cambiate tante cose: le proporzioni, i volumi. E noi abbiamo una visione e un approccio più maturo. Abbiamo sperimentato tante cose. Abbiamo tratto insegnamento dai nostri errori. E poi negli ultimi 10 anni c’è stata una grande rivoluzione nel menswear. Una volta gli uomini compravano insieme alle mogli o alle fidanzate. Mentre adesso non è più così. Gli uomini acquistano per se stessi e si cambiano

a seconda delle occasioni e degli impegni della giornata, come la donna, ancora, investendo molto sull’abbigliamento per il tempo libero. Una rivoluzione silenziosa? Quella dell’uomo è stata ed è una rivoluzione importante. Graduale ma significativa. Una volta la moda maschile era una piccola fetta di mercato destinata a un pubblico di nicchia. Ma negli ultimi dieci anni con l’arrivo degli sportivi e l’esempio di David Beckham l’approccio degli uomini nei confronti della moda è cambiato. Quindi grazie al mondo metrosexual? Quell’espressione è solo una creazione di alcuni giornali. Gli uomini sono uomini, le donne sono donne. David andava nel nostro negozio in Bond street a Londra, a comprare degli abiti per la moglie Victoria. Un giorno l’abbiamo incrociato e ci ha chiesto di occuparci del suo guardaroba. Un calciatore bravo, bello, ricco, sposato con figli. Ma comunque capace di osare con capelli, orecchini, croci, jeans rotti. E nella testa degli uomini è come scattata una molla. «Se lo fa lui, allora lo posso fare anche io». Quindi lo sport ha sdoganato il fashion? La moda uomo ha avuto il benestare del pubblico dei grandi sportivi. Lo sport avvicina gli uomini, è per tutti. Prendi ad esempio lo stadio: due ore dove non esistono ceti sociali, non ci sono differenze e tutti parlano la stessa lingua. Nelle nostre campagne abbiamo usato calciatori, nuotatori, rugbisti. E non ci sono solo questi... la pallavolo per esempio potrebbe essere la nuova proposta. Quali sono i primi ricordi legati al menswear? Soprattutto quell’incoscienza che uno abbandona crescendo, quando tu non hai nulla da perdere ma solo da guadagnare. Per la Dolce & Gabbana in questo momento l’uomo pesa per il 50%, una quota considerevole (il gruppo nella sua totalità fattura 1,030 miliardi di euro, ndr). Che ci ha portato a essere un po’ meno spensierati. Siete scaramantici? Spesso le cose nella vita cambiano quando ci credi fortemente. Noi siamo sempre stati convinti di voler fare questo lavoro, ci siamo impegnati tantissimo e ci abbiamo creduto con tutte le nostre forze... Possiamo chiamarlo fato, destino. Ma alcune cose accadono senza un reale perché. In fatto di scaramanzia, ci sono alcune

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tradizioni alle quali siamo legati da sempre e che hanno assunto per noi uno speciale significato: una su tutte, l’overture della Cavalleria rusticana che ci accompagna da sempre all’inizio di tutte le nostre sfilate. Siete più amati o invidiati? Siamo amati dal grande publico e dalla gente. E noi amiamo la gente. Diciamo sempre: Voce di popolo, voce di Dio. Ogni santo ha i suoi devoti. Tanto devoti che copiano le vostre espressioni di quando andate in radio, come il tormentone effetto coolness di «sei tremila»... Beh in certi casi, vale la pena dire anche: «3 mila lire». Chi sono gli stilisti che ammirate? Armani, Versace, Missoni e Prada che ci piace e stimiamo. Abbiamo ammirato moltissimo il lavoro di Yves Saint Laurent dal quale abbiamo preso molte ispirazioni. E seguiamo con grande interesse le creazioni di Nicolas Ghesquière per Balenciaga. Vi vestite solo con cose vostre? (Gabbana). Io mi diverto a comprare anche altro. Ma magari poi non lo uso. Sicuramente andiamo a comprare in negozio con lo sconto. Diamo il buon esempio, siamo imprenditori. E il connubio con Madonna? È stato un caso. Lei andò a una festa a Parigi vestita Dolce & Gabbana, tutto iniziò così. Era chiaramente un nostro sogno vestirla, ma mai avremmo pensato di fare una campagna con lei. Non abbiamo mai fatto cose a tavolino, spesso sono semplicemente accadute. È vero. Siamo promotori di noi stessi ma con una differenza. All’inizio ogni stilista doveva avere un’immagine. Ma a noi non andava di costruire una facciata dicendo che nostra madre vestiva Dior o che viveva in una villa quando non era così. Meglio dire la verità. Scelta che alla fine ci ha sempre premiato. Come la scelta di usare il web per aprire le porte di sfilata e backstage?

Si vede tutto, in diretta. Non abbiamo nulla da nascondere. Facciamo una conferenza stampa on-line, ci sono pillole di collezione durante i coordinamenti. Indubbiamente non è facile far sposare tradizione, eredità, Mediterraneo e innovazione. Ma che ci piaccia o no, Internet è la nuova comunicazione. Ma cosa sta cambiando con la nuova campagna pubblicitaria? Abbiamo voglia di semplicità, gli eccessi di prima ci hanno stancato. Siamo voluti tornare al bianco e nero, alle pellicole d’autore del cinema italiano: Madonna come la Magnani. Una vita di una donna vera con i suoi ritmi, le sue realtà di madre, figlia, nipote in una famiglia di un qualsiasi paese, nel nostro caso italiano. Immagini che restituiscono alla donna una dimensione più umana e sottolineano la naturale bellezza sotto l’occhio magistrale dell’obiettivo di Steven Klein. Si sta uscendo dalla crisi? Si vede un po’ di luce ma i clienti non spendono più come prima, hanno gli armadi pieni. In questo momento dobbiamo cercare di essere molto bravi e attenti per dare al pubblico quello che vuole. Già da quattro stagioni non anticipiamo più come una volta le consegne delle pre-collezioni nei negozi. E abbiamo capito che spingerle in modo prepotente è stato un errore. E a pagarla in termini di prodotto e di costo era stato proprio il cliente finale che non ci capiva più nulla. La pre-collezione è qualcosa per addetti ai lavori, non la mettiamo più neanche on-line. Nella gara a chi esce prima vogliamo essere ultimi. Basta minigonne di cotone d’inverno, a novembre si devono comprare i cappotti. In questo momento è come uscire da un’indigestione. Ora il Purgatorio. Poi tornerà un po’ come prima, anche se non sarà più lo stesso. Dopo le incursioni in altri settori, come musica e ristoranti, a cosa toccherà... al cinema? Il cinema lo facciamo tutti i giorni in azienda.

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Antonio Marras @ Kenzo quattro decenni di metissage e meltin’pot di culture. Per un racconto affidato da sette anni allo stilista sardo che ha celebrato l’estetica di mr takada. Fabio Maria Damato

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osmopolita prima della globalizzazione. Local prima della riscoperta delle istanze culturali regionali. Kenzo Takada e Antonio Marras. Giapponese trapiantato a Parigi con l’ossessione per il métissage tra le etnie il primo, poeta di stile e preservatore della tradizione artigianale il secondo. Marras è stato chiamato nel 2003 alla guida stilista del marchio del gruppo Lvmh. Che oggi compie 40 anni di moda e patchwork estetico. Festeggiati con un’happening a 360 gradi: una sfilata accompagnata da una retrospettiva-installazione e un party monumentale nella stessa location, il Cirque d’hiver di Parigi, in cui Kenzo Takada aveva detto il suo addio alla moda. Per raccontare un mondo che ha fatto del melting pot il suo vangelo estetico. Kenzo Takada e Antonio Marras. Il Giappone e la Sardegna. Crede che questo appartenere a una terra circondata dal mare accomuni il vostro spirito? Credo che quel che ci accomuna è la stessa insularità che fa di noi degli outsider. Crescere in un’isola muta lo sguardo che si porta alle cose, il modo di percepire i limiti e le distanze. Amo dire che il mare può essere per alcuni l’estremo limite del viaggio, la fine del percorso. Per me e per Kenzo, al contrario, il mare è stata un’altra via da percorrere, non un confine invalicabile. Sia lei che Kenzo siete stati sempre legati alla tradizione delle vostre terre di origine. Crede che in un mondo così globalizzato sia ancora importante guardare al locale? Penso che Kenzo sia stato il primo a fondere diversi locali per creare uno stile globale. Come lui, anch’io sono molto legato alla mia terra e alle sue tradizioni ma il mio lavoro è incentrato sul rendere queste ispirazioni attuali e moderne. Per capire il globale, che è fatto di diverse sfaccettature locali. E di tutti quelli che delocalizzano cosa pensa? Non crede che la fine di una civiltà passi attraverso la perdita della cultura del saper fare? Credo nella nozione e nel preservare questo saper fare unico che risulterebbe finto se realizzato altrove. Questo non significa rifiutare in blocco produzioni realizzate altrove. Altri paesi posseggono saper fare tradizionali o manifatture straordinarie e ugualmente interessanti. Per questa ragione, delocalizzare non significa per me solo andare alla ricerca di economie o sottoproduzioni ma trovare nuove soluzioni o idee creative. Non faccio mai calcoli, scelgo quel che amo e che meglio risponde alle mie ispirazioni. Quando è stato chiamato alla direzione del marchio qual è stato l’approccio creativo? Sono arrivato da Kenzo in un momento in cui il marchio era impolverato, il suo fondatore se ne era andato da cinque anni e aveva lasciato un vuoto che non si era colmato. Io ho voluto conservare e anzi accentuare quelli che sono i valori della maison. Ci sono volute stagioni di lavoro con gli archivi, libri, immagini e letture.

La lettura di quei valori è ora la mia, mia è l’interpretazione e l’attualizzazione di quello spirito originario così unico che introdusse una vera e propria rivoluzione alla sua comparsa. Per un creativo che vive e lavora nella sua terra di appartenenza com’è stato l’approccio ad un marchio come Kenzo che segue le logiche di un mercato globale? Dapprima la mia scelta parve folle, sconsiderata. Una condizione che non avrei mai dovuto provare a imporre a un grande gruppo. Quel che è straordinario però con Lvmh è la grande fiducia e il rispetto che hanno nei loro designers, un atteggiamento molto diverso dagli investitori italiani spesso ossessionati solo da ciò che è commerciale e restii a dare carta bianca alla creatività Cosa vuole il consumatore oggi? Qual è l’essenza del gusto contemporaneo? Oggi più che mai si vuole tutto. Qualità, creatività, vestibilità e prezzo. Bisogna fare una moda con un contenuto, un prodotto che rispetti e dia l’identità del marchio. Sono sempre in meno coloro che sono disposti ad acquistare solo un’etichetta incollata su un capo banale. Per tale motivo parlare di gusto non mi pare appropriato, parlerei piuttosto di un prodotto che risponda alle aspettative dei clienti, in cui ritrovare tutti i valori del brand. Come si sente a essere parte di un successo di moda che oggi compie 40 anni? Ho scritto sette annidi questa storia quarantennale che sento in parte mia. Sono fiero di Kenzo, del suo passato e del suo presente. Come designer-erede, è una grande opportunità quella di scrivere un capitolo cosi lungo nella storia di un brand. Quali sono i progetti speciali per le celebrazioni di un così importante anniversario? In primo luogo la sfilata parigina con una performance «Accumulazione d’archivio» che è stata un omaggio allo spirito originale della maison e al suo Dna (lo stilista ha riletto il dna di Kenzo creando nuovi look mixando capi d’archivio appartenenti a stagioni e periodi differenti, ndr). Poi la prima grande monografia sulla maison edita da Rizzoli. Dove una pluralità di voci, provenienti da orizzonti dissimili, sono venuti a raccontare la loro visione di Kenzo e hanno aggiunto la loro storia alle tante storie raccontate in questi 40 anni del marchio. Per finire un evento al Victoria & Albert Museum in cui gli archivi saranno al centro di una performance prevista per il prossimo 12 novembre. Si faccia un augurio per il suo futuro all’interno della maison… Niente auguri per me, è il compleanno di Kenzo. Sarò il grande cerimoniere della celebrazione del suo anniversario e spero solo che il mio biglietto d’auguri, la mia collezione, sia un messaggio forte e vivificante.

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Massimiliano Giornetti @ Salvatore Ferragamo Dopo L’UOMO, a massimiliano giornetti è stato CHIESTO di RIDIPINGERE il coté femminile della griffe. recuperando un codice ELEGANTE E CHIC. Andrea Bigozzi

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he new Salvatore Ferragamo. Le vecchie clienti, ma anche quelle nuove, adorano tutto quello che porta nelle vetrine della griffe. Risultato: oltre il 50% di vendite in più da quando ha assunto la guida del womenswear. E il suo amministratore delegato Michele Norsa avverte: «Questo ragazzo è da tenere d’occhio, è pronto per essere il fulcro dei numerosi cambiamenti nella nostra maison». Ma spiegare chi è Massimiliano Giornetti, lo stratega di tutta la moda griffata Ferragamo, non sono solo i numeri. A parlare ci sono anche gli abiti realizzati dallo stilista 39enne. A cominciare da quelli della collezione primavera-estate 2011 pensati per una donna libera e leggera. Quale è stato il punto di partenza dell’ultima collezione di ready to wear donna? L’idea generale era quella di una donna a bordo piscina o sul ponte di una barca immersa in una sorta di vacanza perenne. Per questa sfilata abbiamo voltuto che tornasse al centro della collezione la vera signora Ferragamo, che è libera e ama molto viaggiare. Certo non ci siamo fermati qui, abbiamo aggiunto anche tocchi bohemienne e poi altre piccole novità, a cominciare dall’estetica del costume da bagno che tradizionalmente non appartiene alla maison. Per il resto una grossa mano è arrivata dall’archivio, che ci ha dato molte ispirazioni. Anche per il futuro vogliamo rilanciare i classici della Ferragamo come le stampe e poi la maglieria, che era quasi scomparsa dalla nostra offerta. Così facendo non ha paura che il passato finisca per bloccare il futuro dell’estetica? Non direi proprio, almeno a giudicare dalle vendite e dai commenti generali. Tutti ci stanno chiedendo il Ferragamo delle origini, quello doc. Molti buyer che da tempo

non presenziavano ai nostri défilé sono tornati a farci visita, molti di loro hanno fatto ottimi ordini, altri lo faranno già dalla prossima collezione invernale. Il baromentro della creatività di queste sfilate che cosa segnala per il futuro? Abbiamo ottimi segnali di ripresa da molti mercati, ma questo non ci autorizza a distrarci, dobbiamo restare concentrati sul prodotto. Mi sembra che molti designer abbiano riscoperto un certo minimalismo, ma non nel senso della moda anni 90 e delle mise monastiche. Piuttosto c’è una gran voglia di presentare capi clean e molto solidi. Ora che è alla seconda prova come stilista del womensewear può rispondere: preferisce disegnare l’uomo o la donna? Certo quando si tratta di womenswear le soddisfazioni, specie a livello creativo, sono maggiori. Ma alla fine disegnare capi da uomo mi piace di più. Mi diverto a provare quello che creo. Faccio i test su di me, anche se non rappresento il consumatore tipo. Ha mai pensato di creare un marchio tutto suo? Assolutamente no. Non penso mai al mio nome su un’etichetta. Dopo quasi dieci anni di menswear mi era venuta voglia di crescere. Ed è arrivata questa occasione. Adesso devo sviluppare il lifestyle della griffe e per me si tratta di un progetto a lungo termine. Creatività, secondo lei, fa rima con business? Per chi fa il mio mestiere oggi è impossibile essere disconnesso dal mercato: la creatività da sola non basta più. Alla base del nostro lavoro ormai deve esserci l’estro, ma anche l’osservazione di quello che ci succede intorno.

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Peter Dundas @ Emilio Pucci LA RINASCITA sexy Del brand è affidatA aL TALENTO PETER DUNDAS, UN GIRAMONDO INNAMORATO di firenze CHE sta RISCRIVEndo LO STILE DELLA griffe tra GLAMour, opulenza e attitude sEVENTIES. Matteo Zampollo

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eter Dundas è una rockstar. Ha un animo forte che mette al servizio di una delle maison più storiche della moda mondiale. Da quando nel 2009 ha vestito i panni di direttore creativo di Emilio Pucci, ha dato un tocco rock’ n’ sexy all’archivio della griffe, satellite del gruppo Lvmh. Dopo le sue esperienze da Jean Paul Gaultier, Christian Lacroix, Roberto Cavalli, Emanuel Ungaro e Revillon lo stilista, nato in Norvegia ma cittadino del mondo, è stato al centro di un restyling creativo, che non ha mai perso di vista le origini ipervisive e grafiche imposte dal marchese Emilio Pucci di Barsento a metà del secolo scorso. In primis le stampe, marchio di fabbrica della maison, per le quali lo stesso designer venne soprannominato «The prince of prints» nei suoi anni d’oro negli Stati Uniti. Oggi il nuovo codice estetico della maison è scandito da un cocktail di glamour e sexyiness sfacciata, di seduzione seventies ed eleganza opulenta. Per dipingere le nuove «Pucci girls», come le definisce lo stesso Dundas. Ragazze dallo spirito charmant e sfacciatamente provocanti. Cosa ha pensato quando è stato nominato direttore creativo di Emilio Pucci? È stato un vero onore. Appena ho saputo di questa possibilità ho anche pensato che sarebbe stata un’opportunità incredibile, visto che il potenziale di Pucci è senza limite. Cosa conosceva della maison Pucci prima del suo arrivo? Ovviamente, sono tante le cose che conoscevo di Pucci. Le stampe sono certamente un elemento importante ma per me era anche interessante approfondire la parte glamorous del lifestyle del marchio. Ho sempre adorato le immagini delle attrici fotografate in aeroporto vestite Pucci. Per me questa griffe ha sempre rappresentato un mondo che deve fare sognare. Emilio Pucci era considerato il principe delle stampe. Anche lei in passato è stato applaudito per il suo talento nell’uso del colore e degli imprimé. In questi anni, come ha interpretato il passato del marchio? Ho cercato di dare un’immagine più giovane alle stampe del passato di Pucci. Adoro vedere le mie amiche indossare dei pezzi vintage della griffe che spesso

risultano sbiancati del tempo. Io stesso ho fatto soprattingere, sbiancare e trattare con tecniche batik gli imprimé per dare questo effetto autentico, reale, vissuto. E cosa ha portato di nuovo Dundas al mondo Pucci? Forse ho portato un tocco di rock and roll e un po’ di sensualità. Utilizza molto l’archivio del marchio? Per l’ispirazione, per le stampe ad esempio... Utilizzo sempre due o tre elementi riconoscibili del lavoro di Emilio Pucci. Anche quando faccio delle stampe nuove sto attendo a diversi particolari: i colori, i movimenti, il contorno nero e la firma. Nelle sue collezioni, la donna è sempre vista in modo attraente e sensuale. Com’è la donna ideale di Peter Dundas? È una donna affascinante che vive bene con se stessa, mentalmente e fisicamente. È una donna che mi sa far ridere. In un momento in cui la moda in generale ha ritrovato una certa sobrietà, le donne hanno ancora voglia di sentirsi iper-femminili? Penso che gli istinti animali saranno sempre alla moda. Emilio Pucci è un marchio che ha attraversato il secolo scorso nella jet society del Novecento. Quale personalità attuale, invece, vorrebbe vestire? Mi farebbe piacere vestire la nuova generazione nel cinema e nella musica. Forse una come Lady Gaga, ma sopratutto mi fa piacere vedere delle ragazze giovani che passeggiano per strada vestite Pucci. Sono loro le future Pucci girls! Lei ha girato per tutto il mondo, ma è innamorato di Firenze. Cosa pensa del ruolo di questa città nel panorama moda italiano? Firenze è ancora una realtà importante nella moda. Ci sono degli atelier che portano con loro una conoscenza incredibile, che non si può trovare in nessun altro posto. E come vede l’Italia nel panorama moda mondiale, invece? Tutti i marchi italiani sanno fare abbigliamento. Non si tratta solo di vendere degli accessori. Questo è un valore molto importante. Da difendere.

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Alessandro Cremonesi @ Jil Sander Un sito web e una campagna dedicati accompagnano l’ingresso negli store della collezione casual-luxury della griffe di Onward holdings. A febbraio, il primo shop in shop a Tokyo da Isetan. Chiara Bottoni

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er Jil Sander Navy scatta l’ora della prova del nove. La linea casual luxury, brand extension della griffe del gruppo Onward- Gibò disegnata da Raf Simons e creata per rispondere alle esigenze di un’attitudine di acquisto più disinvolta e metropolitana, debutta infatti in questi giorni nei negozi di tutto il mondo con la collezione donna primavera-estate 2011. Un lancio accompagnato da un’attività di comunicazione congiunta con l’apertura di un sito web dedicato, all’indirizzo jilsandernavy. com, e di una campagna pubblicitaria che ha come protagonista Valerija Kelava, ritratta da David Sims. Mentre la prossima settimana in Giappone, uno dei mercati su cui il gruppo ha voluto porre maggiore enfasi insieme agli Stati uniti, la collezione sarà celebrata con un mega-evento nel department store Isetan dove, il 9 febbraio, sarà inaugurato anche il primo shop in shop della label. Progetti che dimostrano quanto il gruppo creda in questa nuova linea, che nei piani del management, dovrebbe arrivare entro medio termine a pesare per il 35/40% sui ricavi complessivi del brand pari a circa 100 milioni di euro. Come ha spiegato a MFF Alessandro Cremonesi, ceo di Jil Sander. Come è andata la prima campagna vendita? Confermateil business plan presentato durante la scorsa primavera? Posso confermare tutto quello che era stato detto all’origine del progetto. Siamo davvero soddisfatti dei risultati raggiunti con la prima campagna vendite, dell’entusiasmo manifestato dai nostri clienti... La collezione primavera-estate 2011 sarà infatti distribuita attraverso 250 punti vendita wholesale nel mondo per il ready to wear e 145 per gli accessori oltre che attraverso 21 store della rete retail. Abbiamo raccolto interesse e apprezzamenti su tutti i fronti, perché Navy è una collezione capace di venire incontro perfettamente alle esigenze di un lifestyle moderno. Moderna è anche la vostra strategia di comunicazione... Abbiamo sviluppato una strategia di comunicazione integrata e coerente con quello che oggi richiede il consumatore. Per il nuovo sito web, abbiamo lavorato con l’artista Raphaël Rozendaal per creare una struttura grafica innovativa, in linea con l’immagine fresca, pulita e disinvolta della collezione. Inoltre, il sito è stato pensato per essere compatibile con la navigazione attraverso telefoni cellulari e tablets. L’advertising invece è stato affidato a David Sims, autore di storiche campagne Jil Sander, per dimostrare l’idea di continuità nella modernità che vogliamo dare al marchio. Importante sarà poi il piano di lancio previsto per il territorio

mf fashion - 14 gennaio 2011

giapponese. Come puntate a crescere in questo mercato? Stiamo facendo uno sforzo promozionale molto forte con Isetan. Il 19 gennaio si svolgerà uno speciale evento di lancio nel department store di Shinjuku, che dedicherà tutte le sue 16 vetrine alla collezione per due settimane. Il 9 febbraio apriremo poi uno shop in shop, il primo di una serie di altri otto che verranno inaugurati in altre location del paese in vari department store. Come si svilupperà, infine, la strategia dell’intero brand Jil Sander? Conclusa la fase di consolidamento, stiamo per affrontare quella di espansione. Lavoreremo in particolare sul retail e sulle pre-collezioni donna per dare al brand una dimensione sempre più completa.


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Perché in parte è anticiclico, quindi più stabile rispetto ad altri settori . Inoltre è un mercato che continua a crescere. E la presenza di mercati come quello cinese, che proseguono in una veloce espansione, genera positività anche tra gli operatori finanziari. Sul fronte prodotto, quali sono stati i mercati migliori per Ferragamo? Siamo cresciuti a doppia cifra in tutti i mercati del mondo, escluso il Giappone. Dire Cina è troppo facile, quindi dico Australia, che in questo mese sta crescendo di oltre il 50%, e Messico, che sta registrando ottime performance. Poi penso a New York, il cui dinamismo è superiore alle aspettative. E i peggiori? La Thailandia, che è statga fermata dalle inondazioni, e forse Taiwan, che è cresciuta in doppia cifra ma da cui ci aspettavamo di più, perché pensavamo a una maggiore integrazione con il mercato della grande Cina. L'Italia come si è comportata? È la combinazione di due mercati. Quello delle città del turismo, tra cui Milano, Roma, Firenze e Venezia hanno registrato una performance straordinaria, e quello della provincia, dove c'è meno traffico e dove si comincia a vedere un po' di sofferenza. Quali sono state le categorie di prodotto che hanno dato le risposte migliori? Sicuramente le scarpe, che sono il nostro core-business, poi la piccola pelletteria, perché è una grande categoria di regalo e perché è più facile da acquistare. In che cosa il gruppo Ferragamo avrebbe potuto fare meglio nel 2011? Faccio fatica a trovare qualcosa che si potesse migliorare nelle scelte adottate; forse potevamo rinnovare prima qualche negozio, che per noi rappresenta un aspetto fondamentale. Che cosa prevede per il 2012?

mf fashion - 14 gennaio 2011

L'impatto maggiore sul mercato italiano arrivarà dalle misure adottate sui pagamenti in contanti. Per noi, come per altri brand del lusso, è un problema, perché gli stranieri, non comprendendo il perché della limitazione, non possono comprare. Sul resto invece cerco di lavorare seguendo i nostri progetti. In passato ho visto tanti Paesi del mondo e tante crisi, dal petrolio del 1972 in poi. Posso dire che il mondo va avanti e alla fine l'importante è essere una buon azienda. Con una crisi così profonda c'è il rischio che i piccoli artigiani possano chiudere. Per voi potrebbe essere un problema? La stragrande maggioranza delle nostre aziende fornitrici lavora in esclusiva e i nostri volumi, se consideriamo gli ultimi due anni, sono cresciuti del 50%, quindi stiamo dando più lavoro, creando un volano positivo. Devo dire che nella pelletteria tutti i grandi gruppi, anche stranieri, producono in Italia e hanno volumi crescenti. Semmai noi dobbiamo affrontare la sfida di produrre di più e il settore non sacrifica la ricerca, dalle concerie ai tessuti, perché è un punto di forza del Paese e non solo del nostro gruppo. Quali sono le strategie di Ferragamo per il 2012? L'Asia è il grande motore della crescita e quindi ha bisogno di molta attenzione. Poi lavoreremo tanto sul prodotto e sul rinnovamento dei negozi. Abbiamo già iniziato con quelli di Londra, Monaco, New York e Shanghai. Su quali mercati scommette per il prosimo anno? Ancora sull'Australia, che è un mercato piccolo ma dal grande potenziale. Poi sul Canada, perché rimane al di fuori delle crisi economiche, e quindi sulla West Coast americana, che è quella più vicina all'Asia e che può essere meta di turismo e viaggiatori business. Come vede l'Italia? Sul mercato nazionale siamo sempre cresciuti e cresceremo anche l'anno prossimo. Il contesto generale è difficile da valutare, comunque il gruppo Ferragamo, così come il sottoscritto a livello personale, crede nel Paese.


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Ottavio Missoni @ Missoni lo stilista, che festeggia un traguardo importante, insieme alla moglie Rosita ha fondato uno dei marchi che hanno scritto la storia del made in Italy. E ora pubblica un'autobiografia per raccontare la sua passione per la moda. Andrea Bigozzi

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ll'età di 27 anni, nel 1948, ha preso parte alle Olimpiadi di Londra nella gara dei 400 ostacoli. Solo cinque anni dopo, a 32, ripete l'expolit ma in campo extrasportivo: si sposa con Rosita e fonda la sua azienda che, come prima location, avrà il seminterrato della sua abitazione a Gallarate. Nel 1967 Ottavio Missoni inizia a fare sul serio nella moda debuttando sulle passerelle di Palazzo Pitti a Firenze, seguiranno a ruota la prima boutique monomarca a Milano nel 1976 e i riconoscimenti internazionali come Neiman Marcus award. Oggi, per festeggiare i magici 90 anni, Ottavio Missoni, Tai per chi lo conosce bene, ha deciso di far uscire nelle librerie la sua autobiografia dal titolo Una vita sul filo di lana, scritta con il giornalista Paolo Scandaletti ed edita da Rizzoli, ma nei piani dell'atleta-stilista, che veste sempre indossando un pullover, c'è anche una festa in perfetto stile Missoni. «Ci saranno i miei familiari e gli amici di una vita», ha raccontato a MFF, «mentre dei colleghi ho invitato solo Mariuccia Mandelli, anche lei è dell'acquario come me, speriamo ci faccia il piacere di intervenire. L'anno scorso c'era». Oggi si considera ancora uno stilista? A dire il vero non mi sono considerato mai uno stilista, piuttosto un artigiano, che nella sua vita si è molto divertito a lavorare sulla materia e sui colori. Da quando poi l'organizzazione aziendale è passata ai miei tre figli (Angela, Luca e Vittorio, ndr), l'unica cosa che faccio è disegnare. Anche oggi vede sto facendo un disegno che diventerà la copertina di un libro che sta scrivendo un amico. Come è cominciata l' avventura sul filo di lana della moda?

mf fashion - 11 Febbraio 2011

Tutto è cominciato quando ancora ero impegnato nell'attività sportiva e a Trieste con un amico avevo messo su un laboratorio con tre macchine che produceva le tute sportive. Poi ho incontrato la mia sposa Rosita e insieme abbiamo dato vita alla nostra azienda che oggi è portata avanti dai nostri figli. Tra pochi giorni iniziano le sfilate femminili... negli anni 70 c'erano Missoni, Krizia, Valentino e poi iniziavano a farsi strada Armani e Ferré. Oggi in calendario ci sono quasi 100 sfilate. Che cosa è cambiato? Tutto è cambiato, ma non mi faccia dire se era meglio prima o adesso. Non credo di essere la persona indicata per farlo, non è che ne so molto di moda. Quel che è certo è che oggi c'è tantissimo spazio per tutti. Tutto è cominciato dai pullover, che sono finiti anche nei musei. Ma in questi anni l'universo Missoni si è ampliato, ci sono anche hotel con il vostro nome. Che effetto le fa? Certo mi fa piacere, sa che per il nostro hotel di Edimburgo abbiamo appena ricevuto un premio internazionale, e dire che la Rosita lo ha realizzato un po' come fosse la nostra casa di Sumirago. Ma d'altronde il nostro segreto, se di segreto si può parlare, è sempre stato quello di non abbandonare mai lo schema di casa-bottega in tutto quello che facevamo. A garantire il futuro della griffe ci sono anche nove nipoti, che cosa si aspetta da loro? Assolutamente nulla. Alcuni di loro stanno già lavorando in azienda. A loro piace e questo mi fa piacere. Ma si è trattato di una loro scelta. Non ho mai forzato neanche i miei figli a seguire le nostre orme. Anzi consigliavo loro di fare altri mestieri.


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Chris Van Assche @ Dior homme il designer sta ridisegnando i contorni del menswear attraverso la sua linea e dior homme, di cui è direttore creativo. Scegliendo un codice di minimalismo sontuoso: «IL MASSIMO SPUNTO PER ME SONO I LIBRI, IN PARTICOLARE QUELLI FOTOGRAFICI». Francesca Manuzzi

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oco più che trentenne, sta portando avanti una ri-evoluzione estetica capace di scardinare le regole del menswear contemporaneo. Kris Van Assche è solo anagraficamente young. Ha una mano decisa, sapiente. Che crea silhouette leggere, involucro dell'etere. Il designer belga vanta un curriculum di tutto rispetto tanto che oggi, oltre a disegnare il suo marchio, guida lo stile homme della maison Dior, fiore all'occhiello da 594 milioni di euro del gruppo Lvmh di Bernard Arnault. Con un'estetica clean forgiata accanto a Hedi Slimane (è stato il suo assistente negli anni di Yves Saint Laurent e in quelli da Dior homme, ndr) è uno dei designer fiamminghi di nuova generazione che stanno scrivendo il futuro del tailoring maschile. Scegliendo un vocabolario di morbidezza aerea, fatta di sagome libere dal rigore e disciplinatamente fluttuanti. Capace di dipingere un'atmosfera minimalsontuosa, con uno sguardo alle occorrenze del mercato, all'audience di una next generation di consumatori. Come ha costruito, stagione dopo stagione, la sua estetica? Il no nonsense è alla base di tutto. L’opulenza e la moda stravagante non sono nelle mie corde. Sono vicino al codice etico del design minimalista di Ludwig Mies van der Rohe. Avete presente? Che dice «Less is more». Ecco sono pienamente d’accordo, la sobrietà su tutto. E la chiave di volta è tentare di bilanciare estro e vestibilità. Un’eleganza soffice che va di pari passo con una mascolinità sontuosa. Drappi leggeri e fluidi. Ovviamente è più facile dare quest’impressione airy per la primaveraestate, ma mi piace quest’idea di comfortable classic in un’accezione semiliquida. Tutto il mio lavoro da Dior homme, per esempio, è sempre stato contraddistinto dalla necessità di rendere soft il black suit così skinny e spigoloso che Hedi Slimane aveva creato. Dovevo fare a modo mio e servivano proporzioni inedite. Ora credo che ci stiamo muovendo sulla traiettoria giusta. Com’è stata la sua prima esperienza da Dior homme, all’inizio accanto a Slimane? Ho lavorato a fianco di Hedi dal 1998 al 2003. Lo ricordo come un periodo lontano, molto formativo. Quando ho lasciato Dior era perché volevo preparare qualcosa di mio. E nel 2004 è nata la Kris Van Assche. Avevo bisogno di dar vita a un progetto che aderisse al mio punto di vista, che colmasse i vuoti presenti nella moda allora. Quando nel 2007 mi hanno proposto di tornare come creative director dell’uomo Dior mi si è figurata una mission impossible. Era un’opportunità prestigiosa, ma ardua. La Slimane maniera era riconoscibile, dovevo esplorare nuovi orizzonti. E sfumare il nero, perché il marrone è il nuovo black. Sarebbe stato più semplice stabilire un nuovo Dior se non fosse stato un universo così trionfante. Ora, dopo sette stagioni, sono a mio agio. Come cambia il processo creativo tra Dior homme e la sua label? Poco, sostanzialmente. La mia visione rimane immutata. La devo riconvertire su due etichette intimamente differenti. E ne risulta la versione belga del lusso e l’esplicitazione fiamminga della creatività. Sono gli avvicendamenti che cambiano. In genere tutto inizia con un viaggio. Via da Parigi. La creatività della nuova stagione è allacciata a ciò che è avvenuto in quella precedente. C’è sempre una sorta di frustrazione quando si ha concluso il percorso progettuale e si è presentata la collezione. Ecco

perché devo andarmene. Parigi è il lavoro. E io devo sganciarmi dai pensieri. Che sia New York, Buenos Aires, l’India, il pensiero alla base è lo stesso: clean head & fresh air. Poi, dopo tanta ricerca, torno in atelier. Parlo con il team. Faccio un wall d’ispirazione, su cui continuerò a lavorare per i cinque mesi successivi. È un periodo di lavoro costante, in cui non stacco mai. Preferisco rimanere immerso e concentrato nella progettazione. Che per me non dev’essere a spizzichi e bocconi. Poi iniziano i fitting continui. E questo avviene sia per Dior homme che per la mia label. La differenza fondamentale riguarda la creazione: quando porto i bozzetti in atelier da Dior è lo starting point, il momento in cui inizia il dibattito. Sono uno spunto. Per Kris Van Assche, invece, i disegni devono essere definitivi, sono il progetto finale. Che viene consegnato ai produttori in Italia. Come fa ricerca, come coltiva la sua creatività? Passo ore e ore in libreria. Il massimo spunto per me sono i libri, in particolare quelli fotografici. E poi tutto ciò che mi passa davanti agli occhi. Dall’estraneo che cammina per strada a un film. Anche vedere una giacca che fluttua grazie al vento. E ovviamente entrare nel tempio della couture da Dior, con tutto quel patrimonio di costume. Poco per volta con la maison Dior state testando il mondo del web... lo short movie The time I had some time alone di Willy Vanderperre che ha debuttato on-line nelle scorse settimane va proprio in questa direzione. Come volete muovervi in futuro? È sicuramente un’evoluzione. È la risposta di Dior ai cambiamenti d’abitudine e modalità d’acquisto. Oltre a una via per poter sottolineare l’importanza che il menswear ha assunto, quasi pari alla donna. Con la comunicazione bisogna continuamente aggiustare il tiro, per includere nella diffusione mediatica le generazioni più giovani che s’informano con internet, attraverso i blog. Il video ha preso piede tanto quanto l’immagine statica e ho intenzione di continuare a lavorare con Vanderperre per molto tempo e portare avanti questo nuovo corso della divulgazione Dior. Quanto è importante per lei la sfilata per raccontare una collezione? La sfilata è uno statement potente. Una dichiarazione vigorosa che sussurra «Make people dream» e adorna la vita quotidiana. Cosa pensa delle collaborazioni con il mass market? Stiamo uscendo dalla crisi e la cosa che più preferisco è la presa di coscienza. Il no nonsense che prima citavo sta entrando nella mente delle persone. Che prendono coscienza, sanno bene cosa acquistano. L’elemento fondamentale per spingere il sistema è una true luxury, dall’alta qualità intrinseca, fatta di finiture, materiali e comfort, che il mass market fa fatica a imitare. Ma è molto interessante sperimentare anche altri tipi di produzioni, rivolte a target differenti o che comunque possono allargare il range di fruitori di un marchio. Così è stato per la capsule di accessori Kris Van Assche con l’azienda di backpack statunitense Eastpak, che ha sfilato a Parigi con la mia collezione. È stato stimolante, così come credo lo sarebbe, mettersi alla prova con le grandi catene internazionali come Zara e H&M. Ma forse per un designer è un po’ scoraggiante. Ha un sogno? Anche impossibile... Serenité.

mff-magazine for fashion n° 60 - febbraio 2011


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Alessandro Sartori @ Z Zegna Con un tocco di avantgarde, alessandro sartori sta scrivendo il domani del brand, tra futurismo e tradizione, RISPETTANDO LA STORIA DEL GRUPPO DI TRIVERO. Andrea Bigozzi

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a domanda viene spontanea: cosa ha fatto della collezione di Z Zegna una delle più riuscite tra quelle viste durante la fashion week milanese? In passerella si sono viste molte soluzioni avantgarde come gli abiti tre pezzi, composti però da due giacche. Anche i capospalla sono nati con l’idea di sperimentare: velcro al posto di bottoni e cerniere, imbottiture e nessuna traccia di cuciture. Se poi si aggiunge che ogni look della sfilata poteva essere fotografato in tempo reale dai fan della griffe su Facebook, si capisce come per Alessandro Sartori, direttore creativo di Z Zegna, il fatto di percorrere strade sempre nuove sia un chiodo fisso. E lo stilista della linea moda di casa Ermenegildo Zegna, classe 1966, se la ride. «Cerchiamo sempre di inventarci qualcosa di nuovo, più moderno e portabile. Per ora il mercato ci dà ragione. Le vendite della pre-collezione crescono a doppia cifra, e anche i primi riscontri del post-sfilata sono più che incoraggianti». Forse perché l’uomo Z Zegna visto in passerella è sembrato più moderno e più portabile che in passato... In realtà non ho mai pensato che gli show debbano essere riempiti solo delle creazioni più estreme. Anche in passerella cerchiamo sempre di ammorbidire la nostra furia sperimentale e di proporre soluzioni appropriate per la vita vera. Se questa collezione è parsa più vendibile forse è perché in generale tutte le line con un grande contenuto moda, dopo stagioni di vintage e lavaggi, sono finalmente tornate a occuparsi di abbigliamento più classico, che è quello che noi sappiamo fare meglio. Finalmente sono tornate le fibre sofisticate e di lusso, che in passerella non si vedevano da un po’, e noi non ci siamo certo fatti trovare impreparati... Come bilancia arte e commercio? La bellezza non può permettersi di essere priva di funzione, ma è anche vero che la funzione deve comunque avere una forma accattivante perché la moda troppo tecnica non ha senso. L’idea commercialmente vicente oggi è forse quella di introdurre dettagli sempre nuovi, capaci di cambiare il modo di indossare un capo. I suoi abiti sono insieme precisi ed eccentrici. Ha in mente qualcuno quando crea? Penso sempre a un trentenne colto che ha molta voglia di sperimentare, che non ha paura dei grandi classici del tessile, perché li trasforma con un pizzico di eccentricità.

Mescola con nonchalance il tradizionale e il futuristico. Ha delle icone... Cerco di non pensare troppo a questo genere di cose, diciamo che non le cerco. Di sicuro, però, mi piacciono gli attori un po’ intellettuali con personalità senza tempo. Penso a un uomo come Adrien Brody, che in passato ha lavorato con noi, oppure a un attore giovane come Matthew Goode, che recitava in A single man: era in prima fila alla nostra ultima sfilata ed è venuto a trovarci anche nel backstage, ha provato alcuni capi. Una vera bomba. Il suo è un talento creativo, si sente mai limitato nel lavorare in un’azienda che è un po’ l’emblema della tradizione e del savoire faire? Assolutamente no. In realtà la mia creatività è molto aiutata dal lavorare in un’azienda come Zegna. Qui ho la possibilità di chiedere un tessuto sperimentale e averlo al più presto. In questo momento, per esempio, ci sono tre-quattro progetti molto innovativi in ballo. La mia voglia di sperimentare qui ha di che essere appagata. A proposito di novità, lei è stato fra i primi designer a lasciarsi affascinare dal mondo di internet. Perché? Noi lavoriamo molto con i nuovi media, abbiamo portato on line la prima sfilata di Z Zegna già due anni fa. Il confronto con internet mi piace molto: noi siamo una linea evoluta e contemporanea, è inevitabile che ci interessi essere in sintonia con il pubblico contemporaneo. Durante l’ultima sfilata abbiamo promosso il contest «Became fashion photographer» sul nostro sito e sulle nostre pagine Facebook. I nostri fan potevano fotografare in diretta i look delle sfilate e inviarci il loro reportage. Abbiamo ricevuto più di 3mila lavori. Abbiamo scelto di premiare il lavoro di un architetto portoghese, che a giungno verrà a trovarci per la sfilata. Passerà qualche giorno in showroom e ci vedrà all’opera. È davvero importante essere in sintonia con i nostri amici-clienti. Per questo stiamo già cercando qualche altra novità sul piano dei nuovi media da lanciare con la prossima sfilata. Lei dedica molta attenzione ai giovani, non pensa mai a realizzare una linea dedicata a loro, magari con prezzi per le loro tasche? Cercare di interpretare e soddisfare le esigenze della clientela più giovane è già uno dei nostri obiettivi, ma farlo riducendo i prezzi non è possibile. Vorrebbe dire rinunciare alla qualità.

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John Varvatos

IL SUO MARCHIO HA compiuto DIECI ANNI, MA LO STILISTA usa SI SENTE ANCORA ALL’INIZIO Di unA MISSIONE: CONQUISTARE L'EUROPA con il suo mondo rock. Matteo Zampollo

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acendo il verso a una vecchia canzone degli Alphaville, lo si potrebbe definire Big in Usa. John Varvatos è l’erede al trono dei grandi stilisti americani, quelli che in Europa hanno sempre vissuto di luce riflessa del loro successo a stelle e strisce. Ma in questo lui è diverso. Si è messo in gioco a Milano: «The place where things happen», come lo ha definito lo stesso stilista. Nonostante abbia appena festeggiato con un grande party a New York i suoi dieci anni di carriera, con in mezzo tre premi al Cfda-Council of fashion design of America come designer dell’anno, in Europa si sente ancora un novizio. Che vive il sogno di esportare nel Vecchio continente la sua moda rock’n’roll. Negli anni ha messo il turbo al suo marchio anche grazie a una fortunata collaborazione con Converse, giunta al nono capitolo creativo. E, soprattutto, legandosi a un numero illimitato di rockstar internazionali, in un patto di rispetto e ammirazione reciproca. Il suo mondo di riferimento è da sempre quello culturale underground. Come è nata questa sua passione e come la vive? Prima di tutto, il fatto di vivere a New York è fondamentale. La città è un vero melting pot con così tante culture, che portano tutte qualcosa di nuovo. Quando parli di underground, in città, parli di Soho, Bowery, parli di Brooklyn, un quartiere che adesso offre molto da quel punto di vista. Sono sempre alla ricerca dei posti nuovi, di quelli che stanno per venire a galla. Mi ritengo uno studente: studio la società, cerco di capire cosa sta per succedere, allo stesso modo in campo musicale. E i frutti di questa ricerca si vedono anche nelle sue collezioni, sempre orientate al nuovo, ma con lo stesso spirito rock... Certo. Sto attento a mantenere le mie idee fresche, le mie collezioni al passo con i tempi. Mi piace cambiare, muovermi. Alle persone spesso piace sentirsi a casa anche quando sono a divertirsi in giro. A me no. Sento il bisogno di rinnovarmi, di muovermi. E tutto questo mi serve a capire cosa succederà nel prossimo futuro. Essendo così legato al mondo americano, come spiega la scelta di portare il suo marchio a sfilare a Milano?

Penso che una parte di me, del mio lavoro e della mia collezione sia più europea che americana. Tutto quello che faccio ha un forte legame con l’Europa. Negli Stati Uniti abbiamo un business molto importante, molto forte, ma se devo guardare allo spirito vero delle mie creazioni, di sicuro il legame con il Vecchio continente è molto forte. In più, per quanto riguarda il menswear, Milano è il luogo in cui sfilare. In assoluto, è importante essere qui, nella sua fashion week, assieme ai nomi più importanti del mondo. Significa che anche tu sei parte di quella cerchia. Quali sono le differenze maggiori tra il mondo della moda americana e quello europeo? L’Europa è nettamente più personale. Ha ancora dei valori come la qualità e la specializzazione in alcuni aspetti. Negli States è puro business. Anche i marchi hanno scarsa personalità, perché è diverso l’obiettivo. Quelli europei vogliono arrivare a crearsi una storia, un’identità. Cosa che in America è difficile da trovare. Ha da poco festeggiato i dieci anni di carriera. Cosa ha in mente per i prossimi dieci? Tantissime cose. Stiamo vivendo un periodo eccitante, le cose vanno bene per noi in questo momento. In Europa mi sento come se avessi appena iniziato. Vorrei aprire degli store anche qui, e fare lo stesso nel mercato asiatico. C’è ancora molto da fare, molta ricerca, molti mondi da esplorare. Di sicuro, saranno dieci anni decisamente interessanti. Da anni ha un forte legame con Converse. Cosa pensa dei legami tra il mondo dello street fashion e quello della moda? Stiamo parlando di un fatto reale. Di pensare a come si vestono nella realtà le persone. La moda è diventata molto individuale, deve seguire i gusti personali. Per questo sono felice quando quello che faccio può essere a disposizione di molti. Ed è per questo che vivo il lavoro con Converse come una parte del mio lavoro. Sono nove anni che la collaborazione prosegue e ho appena firmato un contratto per i prossimi cinque anni. Personalmente, piuttosto che nell’alta moda dove tutto è calcolato e perfetto, preferisco essere collocato nel mondo underground, quello un po’ imperfetto. Ma almeno è reale.

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Kean Etro @ Etro fedeltà all’archivio della maison e rispetto per la natura. questo il segreto di kean etro, da 20 anni alla direzione creativa dell’uomo. Matteo Zampollo

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prire il libro di Etro, anche solo fermandosi alla prima pagina, vuol dire perdersi dentro un universo a parte. Fatto di moda ma vissuto con un approccio diverso. Un approccio che vive di sorrisi, di natura e di cuore. Quello che Kean Etro, designer della collezione maschile, ha costruito negli anni è un linguaggio che parla soltanto lui, ma che capiscono tutti. Le collezioni sono frutto del lavoro costante di ricerca e di ispirazione. Cercata tra gli scaffali dell’immenso archivio di famiglia, nei viaggi alla scoperta di culture primitive e, soprattutto, nelle ricerche sul mondo naturale. Una realtà che nella griffe è messa costantemente al primo posto. Ora che è arrivato ai vent’anni del suo ruolo come designer della parte maschile di Etro, c’è qualcosa che l’ha accompagnata attraverso tutte le sue collezioni? Proprio affrontando questa collezione ho capito che ero arrivato a un punto di cambiamento, in cui fare bilanci è naturale e giusto. Penso che in tutto quello che ho fatto ci sia una costante, che è quella della natura. Un rispetto vero che io sento nei suoi confronti. E questo mi ha portato a essere parte di un grande disegno con degli elementi che sono riconoscibili: c’è l’ironia, la risata, il colore. C’è il divertimento, ci sono dei giochi istrionici. C’è un mondo Etro che con il tempo è diventato molto riconoscibile. Da cosa è nato il legame con la natura e perchè è così importante per il suo marchio? La natura per me è un’ispirazione continua. A partire dall’ultima collezione, incentrata tutta sulla mucca. Grazie ai libri e ai viaggi posso scoprire delle costanti diverse nel mondo naturale e all’interno delle diverse culture primitive che mi servono a sviluppare certi discorsi legati al mio marchio. Guardando bene, dall’architettura alla musica, tutto è legato in qualche modo alla natura, alle nostre radici. Credo che sia fondamentale ricordarsi delle proprie origini per poter affrontare un progetto creativo. Quanto conta l’archivio di Etro nella creazione di ogni singola collezione? Tutta la nostra famiglia ha un grande rispetto verso l’archivio della griffe. Mi capita

di avere in casa anche 10mila testi sul viaggio, sulla ricerca legata al viaggio, sul folklore, sull’antropologia. In ufficio poi ne abbiamo circa 30mila, a cui aggiungere i testi che consulto all’esterno. Per ogni collezione, studio personalmente una serie di libri, anche legati ai miei studi in storia antica. E il rapporto con l’archivio, il proprio passato, è importante non solo per noi, ma anche per i legami professionali che abbiamo con chi lavora per noi. Se un fornitore, ad esempio, non ha a disposizione un archivio, è difficile che venga scelto. Vuol dire che non ha a cuore il suo passato, le sue origini. Ed è un valore difficile da riscontrare nel mondo della moda oggi. Qual è il suo rapporto con il mondo della moda? Mi sono reso conto fin da giovane cosa rappresentasse la moda per il grande pubblico. Da arte minore è diventata col tempo un fatto importante a livello mondiale. Ma ha sviluppato in parallelo degli aspetti che io non capisco. Quando la moda si prende troppo sul serio, diventa autocelebrativa e massificata. E quando diventa un fenomeno allargato vive in un paradosso. Il lusso dovrebbe essere una cosa per poche persone, ma quando raggiunge una distribuzione a livello mondiale non lo è più. Non so dove esista l’equilibrio, ma credo che alla base di tutto ci debba essere la cultura al bello. Non solo estetico, ma anche una interiore, che esiste in ognuno di noi. Quali sono i prossimi progetti per il suo marchio? Una cosa che ci ripromettiamo di fare da diversi anni ma per cui non abbiamo mai tempo è creare una fondazione per il nostro archivio. In questo modo, potremmo rendere il patrimonio che abbiamo in famiglia un patrimonio di tutti, un arricchimento che vorremmo offrire a tutti. Dal punto di vista del brand, apriremo presto a Londra un monomarca, un palazzo di cinque piani in Bond street e stiamo costruendo un altro edificio a New York, in downtown. Tutto questo è frutto del lavoro di ricerca fatto da mio padre Gibbo e mio fratello Ippolito, che si occupano della parte finanziaria (la sorella Veronica è direttore creativo della collezione donna, mentre Jacopo della collezione accessori, pelletteria, home e tessuti, ndr). Ma l’importante, per quanto mi riguarda, è che in ogni negozio Etro sparso per il mondo si respiri la stessa aria, ci sia la stessa atmosfera, da Milano fino a New York. Mi interessa che ogni boutique nel mondo abbia un cuore, identico al nostro.

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Michael Kors

il designer celebra 30 anni con in mente cinque icone: Lauren hutton, Cindy Crawford, Caroline Kennedy, Jennifer Lopez e Michelle Obama. Chiara Bottoni

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ichael da Long Island. Era la fine degli anni 70 quando Michael Kors approdò a New York con la sua valigia piena di speranze. E con un grande desiderio: quello di diventare stilista. A 19 anni arrivò il primo successo commerciale con una collezione disegnata per la boutique Lothar’s di Manhattan. Poco più tardi, nel 1981, la nascita del marchio Michael Kors. Un brand diventato quintessenza dell’American lifestyle glamourous e gioioso, sexy e affascinante. Che in questo 2011 ha festeggiato il suo 30esimo anniversario con una sfilata celebrativa a New York e con l’inaugurazione a Parigi, durante la settimana del prêt-à-porter, di una boutique di 650 metri quadrati in rue Saint Honoré. Evento corredato da un esclusivo dinner party all’ambasciata americana. Quella sera una parata di celebrities, accompagnate dalle note di Mary J. Blige, è accorsa nella città che incoronò Kors anche come direttore creativo di Celine negli anni 90 per festeggiare questo self made man. Cresciuto «having a lot of fun» e non dimenticando mai le sue origini. Un sogno diventato molto reale, come ha spiegato il designer in questa intervista, realizzata nel suo headquarter-atelier nel cuore di New York. Si sarebbe mai immaginato di festeggiare i 30 del suo marchio in questo modo? Trent’anni fa ero così felice semplicemente del fatto che la mia prima collezione fosse venduta da Bergdorf Goodman che mai mi sarei immaginato un futuro del genere. Sono nato a Long Island, dove non fioriva certo un’intensa attività culturale né artistica ma c’erano davvero tanti negozi, che amavo visitare ed esplorare, facendomi un certo tipo di cultura commerciale! Mi sono poi trasferito a New York alla fine degli anni 70. Un periodo eccezionale ed estremamente divertente. Ancora oggi, nel disegnare le mie collezioni, attingo molto al glamour di quegli anni. Per i suoi primi 30 anni si è regalato un intenso progrmma di sviluppo retail, come sarà articolato? In primis la boutique di Parigi, uno spazio di 650 metri quadrati in rue Saint Honoré, una location che ho atteso con pazienza. Volevo esattamente questo spazio perché è qui che, dai tempi in cui lavoravo per Celine, vengo per il mio shopping, perché è qui che si incorcia una popolazione chic e cosmopolita. E poi un altro store a New York, su Madison avenue, senza dimenticare Londra dove sarà aperto il secondo

flagship del brand, su Regent street. Ed entro i prossimi 12-18 mesi sbarcheremo in Europa con 25 nuovi store a Madrid, Roma, Berlino, Düsseldorf, Istanbul, Milano e poi a Dubai, Abu Dhabi e Tokyo. Com’è cambiata la moda in questi tre decenni? Sicuramente le nuove tecnologie hanno modificato l’approccio alla moda. Tutto è diventato più accessibile e le persone, in generale, sono più attente e informate, anche nelle piccole città. Oggi c’è così tanta gente che vede i nostri show su internet o in televisione. Io stesso partecipo al reality televisivo Project runway, che ha contribuito a cambiare radicalmente il linguaggio attraverso cui comunicare la moda nella contemporaneità. E come deve fare oggi uno stilista per essere parte integrante di questo mondo che cambia? Deve semplicemente guardarsi costantemente intorno e fare cose normali. Camminare per strada, essere a contatto con le persone ed evitare di chiudersi sotto una campana di vetro. Quando passeggio per la città e mi capita di vedere qualcuno che indossa un mio capo o porta un mio accessorio presto attenzione a come lo abbina. E, a volte, faccio loro dei complimenti. È divertente perché le persone non possono credere che sia proprio io a parlare! Quali donne rappresentano meglio il suo stile? Oggi ogni donna oggi può farsi interprete del mio stile e, volutamente, propongo diverse collezioni con fasce di prezzo differenti per poter accontentare un pubblico eterogeneo. Ma se dovesse identificare un’icona di bellezza per ogni decade della sua moda? Lauren Hutton per gli anni 70; Cindy Crawford per gli 80; Caroline Kennedy per i 90 e per gli anni 2000 Jennifer Lopez e Michelle Obama. Amo molto lo stile della first lady che ha veramente cambiato l’idea di moda in questi anni, vestendo per divertirsi. Jackie Kennedy non avrebbe mai indossato un abito in jersey. Mrs Obama lo fa con estrema classe e nonchalance. Com’è Michael Kors oggi e come era 30 anni fa? Non molto diverso: serio ma divertente, curioso ma sincero.

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Ermanno Scervino

Un mondo di sensualità elegante partito nel 2000 da un capo icona. È questo L’UNIVERSO di scervino, costruito pensando a Londra, a West side story e a l’ereditiera di Olivia de Havilland. Francesca Manuzzi

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l riverbero della luna sulla neve per le strade di Cortina d’Ampezzo. E le signore avvolte nei loro piumini da sera griffati Ermanno Scervino. Incrostati di cristalli e bordati di pelliccia. È così che nasce la maison nel 2000, grazie all’unione tra la creatività stilistica e l’imprenditorialità di Toni Scervino. Poi Camden town come una seconda casa. E una vita tra Parigi e l’head-quarter di Grassinanelle, sulle colline di Firenze. In soli undici anni il marchio si è trasformato in una delle bandiere del prodotto high-level Made in Italy. E oggi, oltre ad aver archiviato il 2010 con un fatturato di 90 milioni di euro, vanta 36 punti vendita tra monobrand e shop-in-shop. Per lo stilista milanese, dall’animo romantico e con una passione per la qualità e il rock-royale, un sogno a occhi aperti che s’avvera. Da cosa parte per progettare il suo ready to wear? Sono anomalo. Vengo dalle metropoli, ma vivo la mia quotidianità in azienda, con le modelliste. C’è chi ha uno studio nella Grande Mela, io sto lì in azienda. Amo la materia e mi piace lavorare in modo tangibile. I tessuti sono le fondamenta di ogni collezione. Penso che il merito di aver creato un prodotto che piace vada per il 50% proprio alla qualità dei materiali. Com’è la donna Ermanno Scervino e che rapporto ha con l’uomo? È una donna proprio come me. Si guarda allo specchio ed è vanitosa (non a caso la boutique che ha appena aperto in rue du Faubourg Saint-Honoré a Parigi è completamente specchiata, ndr), ha coscienza di sé. Potrebbe essere attenta al sociale come Angelina Jolie. È sullo stesso piano dell’uomo, che ha più pudore, mentre lei è sexy. Anche se penso che il tasso di sensualità non lo s’intenda in base ai centimetri di pelle scoperta. Hanno forte temperamento entrambi. Quali sono gli elementi del suo passato, delle sue radici che porta con sé? Sono nato a Milano. Giovanissimo mi sono trasferito per tre anni a Parigi e facevo colazione da Hermès, come Audrey Hepburn andava da Tiffany. Era un mito, un sogno, Faubourg Saint Honoré a Parigi. Da quando avevo 7 anni. Sono sempre stato attratto dal mondo dell’immagine. Non andavo a giocare per guardare i film. I miei genitori avrebbero preferito che studiassi economia, ma mi sono iscritto al liceo artistico, perché sarebbe stata una costrizione, poi ho debuttato con gli accessori. Ora non potrei fare altro che questo. Cosa la ispira? Londra. Dove ho una sede e passo molto tempo. È una città di cambiamento, giovane. Adoro Camden town, mi piace vedere la tradizione con occhi rock. Ci vado spessissimo la domenica. A osservare le giapponesine che vendono quello che hanno manipolato la sera prima. Poi i miei libri o i film. Ho sempre in mente West

side story. Ero un ragazzino, stavo a New York, prima ho visto la commedia, poi il film. Anche oggi quando arrivo a New York in taxi e riconosco quei palazzi penso subito alla musica. E al L’ereditiera con Olivia de Havilland. Lei, ingenua e miliardaria, è innamorata di uno scapestrato, ma rinuncia a lui perché capisce che è uno gigolò. Che strumenti di comunicazione pensa siano efficaci oggi nella moda? La sfilata è fondamentale. Con lo show si arriva a tutti. È una vetrina che dà un messaggio importante. Poi internet è fantastico. È un mezzo imprescindibile. Ormai anche le guerre si fanno così. Se voglio sapere tutto su un’attrice vado su internet. Ho montagne di libri, ma per sapere dov’è il negozio di Shanghai che mi potrebbe stimolare guardo lì. Cos’è entusiasmante nella moda oggi? La moda è immortale. Diana Vreeland diceva che non passa neanche con la pestilenza. Io penso che sia proprio così.

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Tommaso Aquilano e Roberto Rimondi @ Aquilano.Rimondi SONO GLI ESTETI DELLA NEO ELEGANZA ITALIANA, DIPINTA CON LA LORO LINEA E IL PROGETTO gianfranco FERRé. «L'ATTENZIONE ESTREMA AI DETTAGLI, la cura di CERTI TAGLI E il ricordo di certi VOLUMI D'ANTAN sono LA CHIAVE DEL NOSTRO STILE». Andrea Bigozzi

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ommaso Aquilano e Roberto Rimondi bisogna prenderli a scatola chiusa. Sono conosciuti per l'ingovernabilità delle loro opinioni sulla moda: acute, scomode alle volte estreme. Ai detrattori che li accusano di fare una moda non facile Tommaso (41 anni, foggiano, farmacista mancato, accademia del costume di Roma, cuoco per passione) e Roberto (40 anni, bolognese, studi alla Secoli di Milano, botanico per diletto) replicano sicuri. «Ci piace la tecnica e la sartorialità. Se un abito è bello, non ha bisogno di orpelli, che spesso servono solo a nasconderne i difetti. Mettiamo al primo posto la sostanza e l'approccio artigianale alla costruzione dei capi, se questo per qualcuno vuol dire fare moda difficile, allora per noi essere difficili è un complimento che ci fa piacere». Ed è proprio questa idea di pulizia di stile e delle forme e la complessità delle lavorazioni ad aver ispirato il duo creativo in entrambe le prove in cui era atteso all’ultima edizione di Milano moda donna: la sfilata di Gianfranco Ferré, davanti agli occhi del neoproprietario Paris group (che dovrà decidere se rinnovare loro l’incarico di direttori creativi della maison) e quella del marchio che porta il loro nome. Vi siete sempre distinti per il vostro rigore. Non vi siete ancora stancati dopo tanti anni? L’attenzione estrema ai dettagli e a certi tipi di volumi e di tagli è la chiave del nostro stile. Però sappiamo anche evolverci. Qualche volta magari sbagliamo, ma non seguiamo mai i trend globali, quelli che un tempo tutti chiamavano i diktat della moda. Diktat è una parola che non appartiene al nostro vocabolario, anche espressioni come «la mia donna» noi le lasciamo ad altri colleghi. Ma come, anche voi avrete almeno una tipologia di «cliente» di riferimento... Beh sì, certamente non quella che compra un vestito o una borsetta per dire «ce l’ho anch'io», in giro oggi si vede troppa teatralità. Di sicuro chi sceglie le creazioni di Ferré o della nostra linea ha una sua personalità a prescindere da quello che indossa e non crede nella suggestione dei marchi che puntano solo sull’immagine. Ce l’avete con qualche tipologia di donna in particolare? No, diciamo che per fortuna le nostre clienti non sono quel tipo di donne di cui si occupano in abbondanza in questo periodo i giornali e le televisioni italiane. Tutte ragazze che amano il troppo, anche se secondo noi questo non è più tempo di eccessi. Chi vorreste vestire oppure non vestire? Questa storia delle celebrità... noi non la cerchiamo. Siamo felici quando una donna, qualsiasi, sceglie i nostri abiti, sia quelli di Ferré sia quelli della nostra linea. Da una parte Aquilano.Rimondi, dall’altra l’eredità del marchio Ferré, due mondi davvero diversi, come siete riusciti a conciliarli in questi anni? Nella nostra linea ci occupiamo personalmente di tutti i rapporti con i fornitori, i pagamenti. I successi sono nostri al 100%, proprio come gli eventuali fallimenti. Per Ferré in questi tre anni la difficoltà è sempre stata quella dover reinventare, dimostra-

re di essere all'altezza. Per noi è sempre stato un dovere non guardare indietro, ma avanti. Altrimenti basterebbero dei buoni archivisti a disegnare le collezioni e non due stilisti. Vi considerate degli artisti? (Sorridono). Siamo fortunati perché facciamo un bellissimo lavoro: creativo e passionale, ma l’arte è tutta un’altra cosa. Noi facciamo vestiti e ne siamo consapevoli, l’arte al massimo ci ispira. Dove trovate ispirazione? Viaggiando, visitando musei. Ma anche la gente per strada ci influenza. L’importante è uscire, osservare, ci piace fotografare situazioni e poi tornare a lavoro e provare a tradurle in input per le nuove collezioni. E internet non è una delle vostre muse come dichiarano tanti colleghi? Certo, attraverso la rete si possono osservare molte più cose, ma è importante non perdere la curiosità e la voglia di sperimentare ogni cosa realmente sulla propria pelle. Oggi in questo settore tutti guardano a Internet con molto interesse, specie in chiave commerciale. Ma secondo noi non è giusto fermarsi a quest’aspetto. Viviamo una società a più strati, a più razze, a più lingue e Internet deve servire per comunicare più facilmente l’universo di un brand, e non essere inteso come l’ennesimo luogo dove esporre della merce da vendere. Gli appuntamenti con le sfilate costringono spesso a fare un bilancio sulla situazione del fashion system. Vi piace questa idea di Milano di aprirsi alla città e alla gente? L’idea di organizzare i défilé all’interno dei palazzi storici è sicuramente vincente, anche l’idea del realizzare un tendone in piazza Duomo e di interessare la gente comune ha di certo molti lati positivi. L’importante è che tutti capiscano che quello che stiamo facendo è un lavoro. Secondo noi non è necessario fare di ogni sfilata un reality show. In questo momento la moda ha bisogno di cose diverse. A che cosa vi siete ispirati per immaginare il new look di stagione di casa Ferré? Femminilità, personalità, lusso. La donna Ferré conosce l'importanza dei dettagli. Per questa collezione c'è l'ispirazione a Frank Lloyd Wright, il modo di mescolare i materiali e i volumi. Abbiamo fatto convivere pelle, cashmere e ricami. Tutto sottolineato da una certa essenzialità cromatica, con l'utilizzo di beige, rosa carne, blu, bianco e nero. E invece quale è stato il fil rouge per la collezione che porta il vostro nome? Questa stagione abbiamo guardato alla libertà della Beat generation, recuperando colti riferimenti all'arte di Piet Mondrian. Mescolando il tutto un'eleganza tipicamente italiana e una palette cromatica preziosa. Volevamo portare un po' di sole anche in inverno. Dopo la fine dell'avventura 6267 e la nascita della Aquilano.Rimondi voi siete

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diventati strenui sostenitori dell'indipendenza imprenditoriale. Ma non vi viene mai voglia di trovare un nuovo socio o un partner industriale? Per il momento no. Certo assumersi il rischio del confronto con il mercato non è cosa da poco e poi le fatture da pagare, i tempi da rispettare. Accade quando si lavora per la propria linea. Ma alla fine siamo molto soddisfatti, ad ogni sfilata siamo nervosissimi. Ma fin'ora con il nostro marchio è andata oltre le

nostre aspettative. Per fortuna lavoriamo in coppia, in due si affronta meglio lo stress e il superlavoro. Non avete mai pensato di prendere strade diverse? Certo che sì. Ognuno dei due ci avrà pensato milione di volte. Ma tutte le volte ci rendiamo conto della fortuna di lavorare in coppia: c'è confronto e non si diventa monotoni né protagonisti.


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Roland Mouret

Lo stilista apre il primo monomarca al mondo: uno spazio di 800 metri quadrati in Carlos place. Barbara Gallino

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iù che una boutique, un raffinato e accogliente salotto. Più che uno spazio retail, un sofisticato interno, con pareti perimetrate da file di abiti ordinati per gradazione di colore, senza vetrine, ma solo finestre. Così si presenta il nuovo flagship store di Roland Mouret. Lo stilista francese di nascita e londinese di adozione, dopo 13 anni di attività e successi, ha aperto il suo primo monomarca. E ha tutto il sapore di una casa: alti ed eleganti soffitti fregiati, camini di marmo intarsiato, boiserie di legno e un arredo che mescola pezzi di modernariato con mobili del 700. È al numero 8 di Carlos place in Mayfair, nel cuore di Londra, in una palazzina d'epoca di sei piani che racchiude tutto l'universo del designer. I primi due piani sono occupati dal negozio. Gli altri quattro piani ospitano lo showroom e l'ufficio stile del designer, alla maniera dei vecchi sarti. È un momento d'oro per Mouret, che forte della fruttuosa partnership con Simon Fueller, guru mediatico ed ex manager delle Spice Girls, e suo socio al 50%, negli ultimi mesi ha ricomperato i diritti sul suo marchio, da lui persi nel 2005, e ha realizzato il sogno di avere una boutique decisamente speciale. Anche i numeri sono dalla sua parte. Il fatturato del 2011 cammina verso i 9 milioni di euro, in attivo e il giro di affari e con una crescita di oltre il 50% ogni anno. Come ha raccontato a MFF Mouret in questa intervista. Qual'è il concept dello store? Il concetto è semplice perché l'idea di base è quella di una casa. Il mio sogno era creare uno spazio simile a quelli di avenue Montaigne a Parigi, ma poiché siamo a Londra e non a Parigi, ho dovuto modificare un pochino la visione che avevo di questa casa. L'immobile di Carlos Place è un palazzo d'interesse storico, per cui non si poteva toccare nulla. Produzione, atelier e spazio retail sono sotto lo stesso tetto e

mf fashion - 5 maggio 2011

adoro il fatto che sia una casa e in quanto tale, sia viva. Quanto all'arredo, con l'aiuto di Jerome Dodd, abbiamo mescolato pezzi incredibili. Scegliendo il mix che si crea quando i mobili vengono trasmessi di famiglia in famiglia. Sono in vista nuove aperture? Stiamo valutando le varie opzioni, ma in ogni caso ci vorrà almeno un paio di anni. New York e Parigi sono in cima alla lista. Quale sarà il suo prossimo passo? Consolidare e rafforzare ogni parte del mio business. Il mio principale quesito è: posso essere un marchio giovane nel XXI secolo? Voglio sorprendere ed emozionare la mia clientela. E-commerce e nuovi prodotti? L'e-commerce sarà la prossima mossa, ci stiamo lavorando. C'è una richiesta di accessori di pelle e la sto seriamente considerando, ma come per ogni cosa, ci vuole tempo. Stiamo cercando il giusto accordo per realizzare il progetto accessori. Dove vorrebbe essere fra 10 anni? Vorrei una casa di moda con un'eredità che posso passare a qualcun altro, perché avrò quasi sessant'anni e dovrò cominciare a pensare a sangue giovane per la prosecuzione del marchio.


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192 I quindici anni di moda & interviste

Andrea Incontri

SECONDO il giovane designer IL MONDO DELLA MODA MASCHILE È IN UN MOMENTO DI CONTINUA ASCESA, STILISTICA E COMMERCIALE. Stefano Roncato

Qual è la situazione della moda maschile in Italia? Il menswear è in una fase di importante ascesa. C’è maggiore consapevolezza in generale. Si può vedere anche dalla scelta dei buyer, che selezionano in modo più trasversale i capi. L’universo della moda maschile è più ricco e si ampia di stagione in stagione Qual è il suo approccio quando deve creare una collezione? Il mio è un approccio astratto, non parto direttamente dal prodotto. Studio più che altro un’attitudine, i gesti delle persone. Così riesco a creare un prodotto molto più forte. Cosa rappresenta la città di Milano per il menswear? Quando penso a Milano mi viene naturale paragonarla alle altre città che hanno segnato la mia carriera, Parigi, Berlino e Firenze. A Milano penso che ci sia un buon movimento. Ha ripreso il dialogo riguardante la moda, e l’ha fatto in modo positivo. Come sono cambiati i gusti maschili negli ultimi anni e come

cambieranno? L’uomo si può ormai paragonare alla donna, riguardo il suo approccio alla moda. C’è una tendenza verso l’unisex e tutti i cambiamenti che vedo stanno andando in questa direzione. Penso sia un chiaro segnale di una personalità che si sta arricchendo e sta crescendo. Quanto c’è bisogno di creatività giovane nel mondo della moda maschile? Per cambiare la moda maschile c’è bisogno di tante cose. Di certo, i giovani vivono la moda in modo più leggero, in senso positivo. La loro creatività è più libera, in senso generale. Credo, però, che per il menswear sia necessaria una dose di conoscenza sia del mestiere sia, in generale, della storia della moda. Sartoriale o avantgarde? Né l’uno né l’altro. Il mio mondo è vicino agli artigiani italiani. Hanno un know-how eccezionale, che si muove appunto tra questi due universi.

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Andrea Pompilio

«LI INDOSSO E SE MI PIACCIONO ALLORA POSSO PRODURLI», ANDREA POMPILIO È IL SEVERO GIUDICE DI SÈ STESSO E DELLA SUA MODA. Stefano Roncato

Qual è la situazione della moda maschile in Italia? Vedo il menswear in ripresa da almeno un anno, dopo un paio di stagioni di appiattimento creativo, portato anche dal momento economico non facile. Ora vedo che questo blocco generale si è finalmente sciolto. E anche i nomi nuovi sono tornati ad essere fonte di interesse molto forte da parte di tutti. Qual è il suo approccio quando deve creare una collezione? Non ho grosse ispirazioni, in realtà. Le mie collezioni non nascono da ragionamenti complessi: semplicemente punto sul mio vissuto e sulle mie esperienze passate. Sono io il primo che indossa le mie creazioni: se mi piacciono, allora posso produrle. Cosa rappresenta la città di Milano per il menswear? Per la moda maschile penso che Milano debba essere abbinata a Firenze. Insieme formano un sistema unico in tutto il mondo. Non ci sono altre città che possono vantare una forza simile per quanto riguarda il menswear.

Come sono cambiati i gusti maschili negli ultimi anni e come cambieranno? L’uomo ha vissuto grandi cambiamenti, non è più legato a schemi precisi. C’è una forte apertura mentale. Intanto, sono state rotte le barriere dell’età. E si stanno rompendo anche le differenze tra il guardaroba maschile e quello femminile. Quanto c’è bisogno di creatività giovane nel mondo della moda maschile? Credo che il futuro sia di sicuro legato ai giovani. C’è una bella ondata di creatività nuova, anche grazie a concorsi tipo Who is on next? Si sente che c’è maggiore fiducia da parte di tutti. E forse anche necessità di un cambiamento. Sartoriale o avantgarde? Sartoriale. È il mio punto di partenza. Cerco di creare un’immagine rilassata e informale per le mie proposte. E per fare questo mi muovo nel mondo della sartorialità.

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Haider Ackermann

Un viaggio, tra santa fÉ de bogotÁ e la francia, passando per africa, olanda e belgio. ora le passerelle di parigi, piÙ di cento punti vendita e un solo mantra: «KEEP DREAMING». QUESTO IL PENSIERO DEL CREATIVO COLOMBIANO, FRANCESE DI ADOZIONE. Francesca Manuzzi

U

n’amalgama di culture. Che s’incontrano sotto il tratto tuonante di un’unica matita. Quella di Haider Ackermann è poesia in movimento. Lo stilista colombiano, e francese d’adozione, a fine sfilata ha sempre una standing ovation e «Bravo» urlati. Tra i suoi ospiti immancabili anche Kris Van Assche, in veste d’amico di vecchia data e pronto ad appludirlo. Così come Karl Lagerfeld che ha affermato di vederlo come suo unico successore da Chanel. Perché Haider ha talento. E come pochi sa unire in un mix evoluto le radici-non radici. Generate dai viaggi del padre cartografo e rieditate nella sua estetica con citazioni velate alla memoria d’infanzia trascorsa in Africa. Con donne regali ammantate in chili di tessuto e pelle, per corpi che ondeggiano leggeri in un mistero sensuale. Le sue sacerdotesse cool non seguono la frenesia. Sul navigatore dell’esistenza scelgono la strada panoramica, non quella più veloce e fugace. Proprio come Ackermann. Con il suo modo pacato, tenue e delicato. Gli studi all’Academy of fine arts di Anversa, l’esperienza da John Galliano, il lancio della sua label, dal 2005 prodotta da Group 32. E ora l’ascesa. Massiccia e sognante, con i riflettori puntati sulla sua estetica, ai limiti della poesia. Qual è il suo approccio alla creatività? Sono guidato dall’emozione. Inizialmente la mia è una donna fragile, che si costruisce attorno una corazza, si trasforma in un guerriero per proteggere il suo io più delicato. Per poi, a mano a mano, aprirsi e lasciare che la si scruti; diventa più generosa, fino a trasformarsi in un’onda colorful. Svelando un’intimità più profonda. Che riflette il mio privato. È una storia infinita, che non si conclude con una stagione. È una vita che matura e va sempre più nelle viscere. È la stessa canzone, ma con una melodia differente. Ha dato prova di essere abile anche con l’uomo quando ha presentato la sua collezione speciale durante l’edizione di Pitti_W numero 8 a Firenze. Ritornerà a lavorare sul mondo homme nelle prossime stagioni o la sua creatività sarà focalizzata sulla donna? È stato emozionante e divertente misurarsi con l’uomo. Ma la donna è tutta un’altra cosa. Mi sento più libero di esplorare. E proprio ora che inizio a capire meglio di che donna io voglia parlare, mi sento in dovere di approfondire questo rapporto. In passato, era quasi un’estranea, a tratti irraggiungibile. Proveniva da un luogo non

specificato, che nemmeno io conosco. Era tormentata e difficile da comprendere. Ora, è più serena, rilassata, vuole vivere il momento. E i tessuti lo riflettono. Si sono fluidificati, cadono dalla spalla, scivolano a terra. Quando creo non ho una donna specifica in mente; Tilda Swinton è una delle prime persone ad aver creduto in me, ma sono democratico e mi piace pensare che chiunque, dall’India all’Europa, desideri indossare un mio capo. Proprio in quest’ottica di slow, cosa pensa della moda fast? Sono felicissimo se qualche grande catena del fast fashion produce repliche dei miei pezzi. È un termometro che dice quanto sia popular il tuo lavoro. E non è cosa da poco, è super positivo. Non lavorerei ora come ora per uno di quei marchi, però. La mia creatività è troppo legata alla stratificazione e studio dei tessuti. C’è un brand che sente vicino da quando era un bambino? Ero in viaggio in Africa, tra Algeria, Ethiopia e Chad. Tra 14 e 16 anni ho visto alcuni pezzi di Yves Saint Laurent e mi è sembrato qualcosa di estremamente nuovo e straordinario. Cosa tiene con sé delle sue radici e cosa le è d’ispirazione? All memory. Decisamente questo. Da cui attingere continuamente. E l’ispirazione viene da tutto ciò che mi sta intorno. Look around è la chiave per poter avere nuovi stimoli creativi. Cosa pensa della passerella? Ha ancora significato per presentare una collezione o è sostituibile da app per iPad o altri strumenti multimediali? Non ho uno smartphone, preferisco vedere di persona i miei cari. Parlare con loro dal vivo. E lo stesso vale per la sfilata. È la parte migliore di ciò che faccio. Perché tento di progettare abiti che, pur stando seduti tra la folla, con i flash e gli occhi di bue accecanti, riescano a far sentire la brezza e l’energia che solo live si può percepire. La gente può vivere ancora un momento fascinating, in cui una donna cammina lentamente su una pedana. Non guardando un’immagine su un sito o sfogliando un giornale multimediale. Ha un sogno? Continuare a vivere questo sogno magnifico. Incredibile e frastornante, ma magnifico.

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Laura Lusuardi @ Max Mara «Abbiamo seguito la stessa filosofia: Evolversi, in modo spontaneo e coErente». parola di Laura Lusuardi che FESTEGGIA L’ANNIVERSARIO DEL BRAND portando la mostra «COATS!» A MOSCA. Matteo Zampollo

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n anniversario da festeggiare, portando la mostra «Coats!» a Mosca, dove resterà aperta fino al prossimo 10 gennaio. La mostra come punta di dimante di un percorso che ha portato Max Mara ad avere un ruolo centrale all’interno della fashion week milanese. Sfornando collezioni che hanno fatto del daywear ultra chic il loro piatto forte, raccontando una nuova estetica minimale. Dietro le quinte, al lavoro da decenni ormai, c’è un’unica firma. Quella di Laura Lusuardi, fashion director del marchio. Un nome che, con gentilezza e fermezza, ha definito lo stile della griffe ammiraglia del gruppo Maramotti. E continua a crearlo, con alle spalle un archivio unico nella moda italiana. E davanti ancora tanta voglia di reinventarsi. Siete arrivati a sessant’anni di vita di Max Mara. Come siete riusciti a mantenere il vostro ruolo e la vostra posizione nella moda italiana? Arriviamo a sessant’anni e anche in forma. Siamo gli unici sopravvissuti a tutti i cambiamenti di questo panorama. Abbiamo sempre seguito la stessa filosofia, quella che hanno insegnato a me: guardare avanti. Evolversi. Ma non sto parlando di evoluzioni di rottura. Con coerenza e in modo spontaneo, mantenendo la propria identità. Di pari passo con l’evoluzione della donna. Avete avuto un ruolo privilegiato nell’osservare questi cambiamenti, parlando sia di moda ma anche di vita sociale... La donna ha esigenze in continua evoluzione. E il suo ruolo nella società cambia costantemente. Faccio spesso un esempio: negli anni 70, una quarantenne era ritenuta vecchia. Oggi una quarantenne è nel pieno della vita, può fare figli, può fare carriera. Le consumatrici cambiano e noi dobbiamo essere attenti a queste cose. Il nostro lavoro è proprio questo. C’è la creatività, c’è il vestito particolare. Ma prima di tutto è necessario conoscere lo stile di vita del proprio pubblico. Per questo cerchiamo

sempre di seguire un motto che mi è molto caro, che è quello di creatività e concretezza. I vestiti devono essere fatti per essere indossati. Lo scopo finale deve essere quello, qualsiasi cosa si stia disegnando. Come siete riusciti a seguire in modo concreto l’evoluzione della figura femminile? Inevitabilmente, seguendo quello che le consumatrici chiedono. Si è aperto il ventaglio delle donne interessate alla moda. Non è più una questione di età. La moda deve rispondere a degli stili di vita. Nessuna donna oggi ha davvero bisogno di qualcosa. Ma siamo noi a farglielo desiderare, farle crescere una necessità. Per definire meglio il suo stile personale e, di conseguenza, la sua persona. Quali sono i mercati emergenti per voi? Per noi è molto importante l’apporto dell’Est. Con la differenza che ci siamo arrivati prima degli altri: già nel 1987 eravamo ad Hong Kong. Sono loro che oggi bilanciano tutto il mondo fashion, soprattutto quello italiano. Sembra sempre difficile per i giovani che escono dalle scuole entrare nei nomi importanti della moda. Voi come reclutate nuovi talenti? Fate ricerca? Rinnovarsi è una parte fondamentale nel nostro modo di lavorare. C’è tanto bisogno di gioventù oggi, ma si fa davvero fatica. Siamo stati tra i primi a visionare gli studenti che uscivano dalle scuole inglesi, già negli anni 80. Allora non c’erano problemi, ma oggi siamo messi sempre peggio. Non come preparazione, c’è una questione di base. Hanno una visione distorta della moda, sembra si siano scordati l’umiltà. E, invece, quanto attingete al vostro archivio? Nessuna casa di moda credo possa vantare quello che abbiamo noi nella nostra sede. Una biblioteca colma di libri e più di 4.500 capi diversi. Chi inizia a lavorare per questo marchio deve partire da lì, dalla nostra storia. Per capire il vero Dna di Max Mara.

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Mary Katrantzou

«AUDACE, DIGITALE, RISOLUTO». IL MONDO ESTETICO DELLA DESIGNER GRECA è UN MIX DI SILHOUETTE IMPOSSIBILI E SCULTOREE. DIPINTE IN FANTASIE PSICHEDELICHE. Alessia Lucchese

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udace, digitale, risoluta». Una summa che ben descrive lo stile dirompente e innovativo di Mary Katrantzou. E a darla è la stessa designer, classe 1983, nuova enfante prodige della moda made in Uk. Sponsorizzata dal progetto Newgen del British fashion council e da Topshop, il colosso britannico di fast fashion, la designer nata ad Atene è riuscita in sette stagioni a far parlare di sé grazie a uno stile immediatamente riconoscibile, dove protagonisti assoluti sono i volumi scultorei, quasi architettonici, e le stampe digitali. Un’attitude fashion che l’ha portata a conquistare l’edizione 2010 del Swiss textile award. La sua ultima collezione è stata una delle più acclamate della settimana della moda inglese. Che cosa l’ha ispirata? Il tema della collezione era il contrasto tra natura e cultura. Volevo che emergesse la bellezza che si trova in natura e quella delle costruzioni industriali, cercando un equilibrio tra le due. Per questo gli abiti combinano giardini fioriti concepiti come blocchi di colore ed elementi in metallo accartocciato, una citazione delle opere di John Chamberlain. Una collezione più matura delle precedenti. Che evoluzione ci si deve aspettare per il futuro nelle sue creazioni? Ogni stagione rappresenta un passaggio della mia evoluzione creativa, definendo sempre di più il mio stile e la mia estetica. Cerco continuamente di superare i miei limiti, sia nel digital design sia nelle silhouette. In particolare quelle più definite e scultoree sono diventate un suo trademark... Mi piace sperimentare e proporre silhouette che al primo sguardo possono sembrare impossibili da indossare e poco attraenti. In realtà, basta indossarle per cambiare idea. È incredibile come, per esempio, le gonne abat-jour della collezione p/e 2011 o i fish dress dell’a/i 2011/12 abbiano avuto un così grande successo tra le celebrities. L’ultimo abito uscito in passerella, una vera scultura di metallo e cristalli,

ha destato molta curiosità. È il primo passo verso una nuova direzione nel suo stile, quasi couture? Trovo difficile separare la moda dall’arte che insieme sono una grande disciplina con infinite possibilità. Questo abito è stato realizzato in house da un team di tre persone, che hanno trascorso due mesi su questo progetto. È stata una sfida creativa e tecnica. Può essere considerato un capo couture in senso contemporaneo: è realizzato con centinaia di cristalli Swarovski, fusi con barattoli in latta cromata. Il suo è uno degli hot names della scena londinese. Quanto è importante questa città nella sua visione fashion? Il supporto del Bfc ai designer inglesi è incredibile. Io stessa non sarei riuscita, in così poco tempo, a impormi nel panorama internazionale senza il loro supporto e il loro know how. Londra è uno degli hub creativi più importanti oggi, in particolare per i giovani, ed è capace di reinventarsi di continuo. Sono orgogliosa di quanto stiamo costruendo. Il suo successo l’ha portata anche a collaborare con Longchamp. Cosa può raccontare di questo progetto? È un co-branding davvero elettrizzante. Abbiamo lanciato a Parigi questa capsule per la primavera-estate 2012, dove protagoniste saranno tre borse che saranno nei negozi da febbraio. Alla base di questa collezione, l’incontro tra Oriente e Occidente. In futuro sono previsti nuovi progetti, come per esempio il menswear, l’home design o la gioielleria? Sono interessata a qualsiasi cosa veda alla base un processo creativo. Le richieste che abbiamo per una linea maschile sono tantissime. Alcuni clienti hanno richiesto per la loro clientela maschile i completi con la stampa floreale in color block e sicuramente continueremo a lavorare verso questa direzione. L’home design è da sempre una mia grande passione. Ho avuto molte richieste di collaborazione dopo la collezione primavera-estate 2011 «C’eci n’est pas une chambre», dove le stampe digitali erano ispirate all’arredamento d’interni. Vedremo cos’ha in serbo il futuro per me.

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Francisco Costa @ Calvin Klein Francisco costa sta rileggendo l’estetica minimalista del brand. dipingendo una donna body-conscious ma delicata. ricordando l’eredità di mr calvin. Fabio Maria Damato

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rasiliano, ma con spirito cosmopolita. Sexy, nel tratto della sua moda, ma dall’anima siderale. Francisco Costa, direttore creativo della donna di Calvin Klein collection, vive un momento di grande fermento creativo, grazie a una collezione per la prossima primavera-estate accolta con entusiasmo da compratori e stampa. In un mix sapiente che rilegge quella pagina di storia della moda scritta dal fondatore della griffe, interpretata con l’occhio contemporaneo di Costa. Che si ispira proprio agli anni ruggenti trascorsi nell’ufficio stile accanto Calvin Klein. Citando i mitici ninenties per dipingere il portrait futuro della label a stelle e strisce. La donna Calvin Klein per la prossima estate cosa ha di diverso dalle altre? Ho scoperto una nuova femminilità, più romantica per certi versi, decisamente bodyconsicious, ma delicata e ultra soft. Capace di accarezzare il corpo senza costringerlo, in un personale rimando estetico vicino al pre-raffaelismo, all’Art decò e a un inizio di modernismo. Ma leggero, evanescente, ispirato ai cristalli Lalique, vera gloria di quella decade. In un certo senso identici nello spirito a una collezione disegnata da Calvin Klein, quando sono arrivato nel suo ufficio stile agli inizi degli anni 2000. Quindi sono pezzi di un guardaroba senza tempo? Credo che i vestiti, come tutti gli oggetti acquistati da una donna nella sua vita, debbano essere qualcosa di personale, capace di rispecchiare in maniera forte il proprio gusto, così da risultare senza tempo. È scontato che ci sia un elemento capace di rispecchiare il contemporaneo nel quale la collezione viene presentata, ma con l’idea di creare una borsa, una scarpa o un vestito da custodire nel proprio guardaroba per

sempre e indossare anche tra dieci anni, senza risultare obsoleti. Ha ancora senso il momento della sfilata, ormai non più élitario ma fruibile in tempo reale per milioni di persone? La sfilata rimane il principale momento di comunicazione della griffe, e credo che questo oggi non possa essere rimpiazzato da niente altro. In un linguaggio universale fatto di immagini che arrivano a tutti, a milioni di persone appunto, in tutto il mondo in tempo reale. E credo sia un bene, per amplificare il messaggio che noi vogliamo dare in quel momento. Non si rischia di rendere il tutto facilmente riproducibile dal fast fashion? Oggi tutti in tutto il mondo mixano capi di famose griffe e altri del fast fashion. Questo non si può cambiare, ma è altrettanto vero che l’ottima qualità dei materiali, il taglio, la vestibilità e le innovazioni sartoriali di un prodotto di lusso non possono essere sostituite in nessuna maniera, da nessun marchio del fast fashion. Perché il lusso è ancora nei dettagli. È arrivato oggi il momento di guardare a Est anche come gusto vestimentario? Tutto il mondo guarda a Est e alla rivoluzione demografica, economica e culturale che sta avvenendo. Ovviamente tutti siamo influenzati da un tale cambiamento, ma questo non si deve obbligatoriamente tradurre in una forte mutazione del nostro personale gusto verso uno più orientale. È certo il fatto di costruire diversamente nelle strutture dei capi il guardaroba per un mercato del Far east. Per abiti facilmente adattabili a fisicità differenti, a colori della pelle diversi, ma sicuramente sempre uguali a loro stessi, sempre fortemente caratteristici del gusto Calvin Klein.

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Alberta Ferretti «Le donne hanno La capacità enorme di poter essere una e centomila, mai essere nessuna». PAROLA DELLA SIGNORA DELLO CHIFFON, CHE NEL CORSO DEGLI ANNI HA DIPINTO UNA FEMMINILITà EVANESCENTE E STRONG. Fabio Maria Damato

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lberta Ferretti è una delle signore indiscusse della moda italiana. Capace di costruire un suo identificativo immaginario fatto di innocenza, eleganza e sensualità, intessuta e plasmata in quella straordinaria materia che è lo chiffon. Couturier ma anche donna d'affari essendo a capo, in tandem con il fratello Massimo, del gruppo Aeffe, conglomerato della moda capace di racchiudere sotto un unico cappello l'etichetta ammiraglia, Moschino e Pollini oltre alle licenze per il ready to wear di Jean Paul Gaultier e Cacharel. Una donna del contemporaneo, attenta a fuggire dagli eccessi gratuiti della passerella in nome di una moda che piace alle donne e che ne enfatizzi lo stile. Una filosofia sui generis, raccontata in un'intervista speciale tra New York, città nella quale sfila con la sua linea giovane Philosophy, e Milano dove va in scena con la linea Alberta Ferretti. «Per la prossima primaveraestate in molti mi hanno chiesto, come mai ho avvertito la necessità di ritornare alle mie origini stilistiche. In realtà non sento un vero cambiamento del mio gusto in questi anni di moda, è certa l'evoluzione di uno stile riconoscibile capace di adattarsi alle esigenze delle donne contemporanee, ma l'attitute, l'approccio e le sensazioni restano le medesime», ha spiegato, «a volte mi concedo delle divagazioni più nette, ma essendo anche lo chiffon tornato in auge nelle ultime stagioni, mi è sembrato naturale declinarlo al meglio come ho sempre fatto in tutti questi anni. Ecco, forse in questo si nota maggiormente un mio certo ritorno alle origini. Sia per la Philosophy che per la linea ammiraglia, sempre attenta ad abiti dal grande artigianato del nostro Paese». Ma come mai la sua linea giovane si chiama Philosophy? Alla base di tutto c’è stato un ragionamento su come chiamare una linea di derivazione diretta dalla Alberta Ferretti, che raccogliesse il suo spirito ma lo trasportasse, allora, in un mondo più giovane. Quindi, la nuova linea doveva raccogliere la filosofia della moda Alberta Ferretti e declinarla in un modo diverso, Da qui è poi nato Philosophy di Alberta Ferretti. Una filosofia, oggi diventata una realtà concreta e tangibile. Nell'ultimo anno lei ha realizzato diversi eventi tra moda e beneficenza, con donne dalle diverse anime. Come fanno però, tutte a essere donne Ferretti? Le donne hanno una capacità enorme, che molti uomini non hanno e che molti uomini non capiscono, di poter essere una e centomila, mai essere nessuna. Lo si vede perfino nella vita quotidiana quante cose diverse riesce a fare una donna. Una donna può avere anche molte personalità, spesso anche in contraddizione, ma essere assolutamente unica nel suo modo di guidare il proprio pensiero. È una elasticità straordinaria che a molti appare solo volubilità e invece è la capacità di essere uguali a se stesse nella diversità. Le anime femminili sono tante perché le donne sanno vedere le cose da molti aspetti diversi. Quando lavoro con donne diverse, come quelle che citava, ritrovo delle caratteristiche comuni che fanno parte di questa capacità trasformista dell’animo femminile. Cos'è la moda per lei? La moda è un sogno fantastico che produce business. La moda vuole e deve mettersi al servizio della donna per renderla più bella e per permetterle di concretizzare dei sogni. Se tutto questo produce un business è oltremodo positivo, in quanto il business dovrebbe produrre una disponibilità di spesa diffusa che dovrebbe alimentare

i consumi e, quindi, la produzione di moda sempre più bella e sempre più attuale. In un momento difficile per l'economia occidentale come questo, lei come designer e imprenditrice ha dei progetti per sbarcare nell'ex Celeste Impero? Ritengo che la Cina sia un Paese che ha un progetto di sviluppo molto diverso dalla mentalità occidentale. In pochi anni, il loro sistema ha prodotto un nuovo mondo che corre a un velocità per noi impensabile. Lo scorso anno ho letto Maonomics, il libro di Loretta Napoleoni, e mi sono fatta un’idea, sulla base delle informazione che l’economista riporta nel suo libro, su come la mancanza di pregiudizi ideologici può produrre, anche in campo economico, dei miracoli inaspettati. Oggi credo che la Cina sia oltre lo steccato che la separava dall’Occidente. I suoi movimenti giovanili a livello creativo e artistico perfino, danno il polso di quanto le opportunità in quel mondo siano enormi. Di sicuro concretizzerò in Cina dei progetti che sto valutando attentamente. In un mondo globalizzato dove si può produrre tutto ovunque, ha ancora senso parlare di Made in Italy? Non ha senso se per Made in Italy si intende chiusura, costruzione di muri, alzata di scudi verso il diverso da noi. Mi piace pensare al Made in Italy come a un progetto speciale che prende forma con il nostro modo di creare, con le caratteristiche della nostra cultura e con il nostro savoir faire. Se è inteso come limite allo sviluppo della nostra cultura e della nostra crescita, allora non credo che abbia senso parlare di Made in Italy. Come mai il sistema moda Italia fa fatica a sfornare nuovi talenti credibili? Mi dispiace dirlo, ma i giovani non sono tenuti nella giusta considerazione in tutta la cultura occidentale, non solo in Italia. In Italia, è peggio perché c’è una gerontocrazia autoalimentata da una mentalità di chiusura. Noto, anche, che nella stessa situazione dei giovani ci sono le donne. Nel senso che giovani e donne, con le dovute differenze, vengono tenuti fuori dai circuiti decisionali. Ad esempio, in Cina oltre la metà dei manager quarantenni è donna e i giovani sono entrati nelle grandi aziende a portare la loro freschezza; giovani e donne controllano il potere. Chi secondo lei potrebbe fare qualcosa per dare nuova linfa vitale al Made in Italy? Le linfe vitali non vengono mai da un solo settore. Più che negli aiuti monetari, credo negli aiuti culturali. Né i grandi gruppi del lusso, né lo stato, né l’editoria da soli riuscirebbero a dare corpo a un progetto che deve essere complessivo. Ci vorrebbe una nuova sensibilità anche da parte delle scuole, delle università e dei centri di ricerca per fare uscire il nostro Paese da una gabbia provinciale nella quale si è chiusa da un po’ di anni. Provinciale nel senso della chiusura alle nuove istanze che arrivano da una diffidenza culturale che poi si trasforma in chiusura a tutto quello che è nuovo e diverso da noi. Dobbiamo imparare a guardare avanti e a sognare E il suo sogno per il futuro invece qual è? I sogni alimentano la vita e la realtà, e quindi io ne ho tanti. Per il momento mi basterebbe vedere realizzato il sogno dell’uscita da questa situazione socio-economica mondiale che non mi piace. Ma per farlo dobbiamo continuare a rimboccarci le maniche.

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Tory Burch

prima sfilata e piano di espansione worldwide per la griffe Usa, nata come brand di accessori e diventata un vero cult. Fabio Maria Damato

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ocialite, ma sopratutto designer. Idolo della upper class a stelle e strisce, che in pochi anni ne ha fatto un successo da 222 milioni di euro di turnover nel 2010. Tory Burch, stilista di Philadelphia ma naturalizzata newyorkese, continua il suo viaggio di moda e business con la label eponima fondata nel 2004, e festeggia l’espansione worldwide strizzando l’occhio a Oriente e portando in passerella durante la New York fashion week, per la prima volta, la sua collezione di ready to wear e accessori. Per iniziare a scrivere il primo capitolo di un romanzo che profuma di american bcbg.«Nelle interviste tutti mi chiedono quale sia il segreto e l’essenza del mio stile. Da sempre ho preso le parole chiave del classico e senza tempo american sportswear, meticciandolo con l’attitude di posti geograficamente diversi e rileggendolo con il gusto nel vestire dei miei genitori. Da sempre mie icone di stile», ha raccontato in questa intervista. Cosa piace così tanto ai suoi clienti della sua moda? Credo che sia un insieme di cose. Dal taglio degli abiti, ai colori, fino ai materiali, mescolati insieme per regalare una bellezza innata, spontanea e immediata. Oggi tra i nostri best seller, oltre alla famosa ballerina dalla doppia T, c’è la borsa 797 e nell’abbigliamento la nostra giacca Sairy di tweed, pur essendo uno capo costoso rispetto al nostro range di prezzo. Come mai ha deciso di debuttare in passerella proprio questa stagione? Era un desiderio che avevo da molto e credevo fosse arrivato il momento per farlo. Alla fine ne è valsa la pena, l’emozione è stata forte e la reazione a una collezione ispirata alle atmosfere di una Deauville di altri tempi è stata positiva, sia da parte dei

buyer sia da parte dei consumatori. Entrambi desiderosi di un momento di comunicazione importante come quello della sfilata. La sfilata è stata un momento importante anche in vista dell’espansione internazionale del brand... In questo ultimo anno, con tutte le cautele del caso per il periodo economico nel quale ci troviamo, abbiamo posto in essere un piano di espansione internazionale mirato. In primo luogo l’opening del più grande nostro store del mondo situato al 797 di Madison avenue a New York, e poi le boutique di Roma e Londra, oltre ad aver siglato un accordo di partnership con Chalhoub group, per la distribuzione e l’apertura di nuovi flagship a insegna Tory Burch per gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, il Qatar, il Bahrein e il Kuwait. Grazie a questo abbiamo inaugurato la nostra prima vetrina a Dubai e siamo anche pronti per sbarcare la prossima primavera a San Paolo, Toronto e Singapore. Mentre entro l’anno lanceremo un sito dedicato all’e-commerce per poter soddisfare le richieste del mercato italiano, inglese, tedesco e francese. Come crede debba evolversi la moda per non invecchiare mai? Prendere ispirazione dal contemporaneo e dal mondo che cambia è importantissimo. Comunicare in maniera plurale e immediata oggi è l’unica soluzione possibile, per questo motivo è importante rimanere in contatto con i clienti tramite una pluralità di canali. Noi siamo presenti su Facebook, Twitter, attraverso il blog del nostro sitoweb, ovviamente sulla carta stampata e siamo pronti a lanciare la nostra prima App per iPhone e iPad entro l’inizio del 2012. Nella moda, come nella vita vale ancora la regola aurea: chi si ferma è perduto.

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Frida Giannini @ Gucci frida giannini è la regina dello stile di gucci, che ha traghettato verso il traguardo dei 90 anni, festeggiati con l’opening del museo fiorentino del brand. «il motivo per cui Gucci sarà sempre Gucci è la sua storia. Anche in futuro Le sue radici rimarranno, ma contestualizzate». tra tradizione e hi-tech costruendo l’estetica della griffe senza fantasmi. «Me li ricordano gli altri ogni due minuti. Io non li avrei». Stefano Roncato

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ianco. Nero. E oro. Troneggiano negli occhi appena usciti dalla sfilata. Con abiti dal senso grafico di pulizia e sensualità. Con quell’oro che sembra sottolineare la golden story di Gucci. Dagli esordi negli anni 20. I dirompenti anni 60 e 70. Le celebrity, le battaglie finanziarie, gli onori della cronaca, il museo a Firenze. Il novantesimo anniversario della maison fiorentina regala lo spunto per parlare di passato e futuro. Affidati alle parole, al feeling di Frida Giannini, mente creativa della fashion house. In una conversazione da leggere tra le righe. Perché mentre racconta di Gucci, racconta anche se stessa. Da un anno la sua moda sembra più «libera», più forte, più femminile. È cambiato qualcosa? Non particolarmente. Non ci sono stati eventi particolari che hanno portato a questo. Penso a una crescita naturale, a una maggiore consapevolezza nel percorrere una strada e farlo fino in fondo. Meno incertezze. E un team intorno a me più consolidato. Sicuramente è più un inizio di un processo di maggiore sicurezza personale, in questo ruolo e facendo questo lavoro. Ha influito la ricorrenza del novantesimo anniversario? Magari la voglia di lasciare una traccia personale? Se c’è stato, è avvenuto a livello inconscio. Le collezioni come le iniziative si concepiscono molto tempo prima. Mi hanno fatto pensare più gli altri su alcune coincidenze. La collezione fall-winter più infusa di un mood anni 70, la golden age di Gucci. La spring-summer 2012 appena andata in scena che ha come discorso di partenza gli anni 20, quando Gucci è nato. Ma tutto ciò non è stato fatto intenzionalmente. È sempre un lavoro di pancia. Se ti fai troppe costruzioni mentali vai fuori strada. Ci sono momenti in cui se sentiamo una cosa, è meglio spingere l’acceleratore, nel bene e nel male. Puoi ottenere più o meno consensi ma è importante essere soddisfatti del proprio lavoro. Riesce a stilare un primo bilancio personale, verso il «decennio di Frida» da Gucci?

Sono in azienda da nove anni, ma come direttore creativo dal 2005 per una parte e dal 2006 il resto. Un percorso così, per avere la sua completezza, ha bisogno di un ciclo di vita di una decina d’anni. A oggi sento che siamo sulla buona strada, riesco a essere più lucida sulle collezioni e sugli obiettivi di questo marchio. Ci sono ancora tante idee da sviluppare, argomenti inesplorati o solo appena toccati. Come il web? O nuove proposte come il su misura? Tra reparti, ufficio stile e comunicazione, di nuove iniziative ce ne sono tante. Sul prodotto, stiamo sempre più rafforzando il nostro focus sulle borse in pelle, senza mai tralasciare il tessuto. Aver sensibilizzato sull’artigianato e il made in Italy ha sicuramente aumentato la nostra legittimità con il mondo della pelletteria e del fatto a mano. Mi piacerebbe lavorare maggiormente con materie prime importanti di Gucci come la pelle declinandola anche sull’oggettistica, dove già facciamo qualcosa e dove possiamo aumentare la velocità. E domani dare più respiro a piccoli tentativi di oggetti che ho disegnato per i negozi. È quindi in vista una home collection? Perché no. Son tutti processi che a me interessano come creativa. Mi piace l’home decor ma è ovvio che bisogna trovare il partner giusto. Non puoi far realizzare i divani a chi fa i portafogli. È una questione di know how. Come la stanno influenzando le nuove tecnologie e Internet? È quasi una sfida quotidiana. Già gli interventi che facciamo sulle campagne, i video behind the scenes, sono delle foto in movimento. Ma sempre più mi piacerebbe che fossero interpretati da un occhio di regista, quasi una piccola storia, qualcosa di più interattivo e più diretto. Un interlocutore giovane vuole movimento. Quindi più concetto e meno prodotto per avere una piattaforma virale con molti veicoli dove arrivare ai famosi click. La tecnologia ti dà tanto per la comunicazione ma anche nelle materie prime. Pellami lavorati, tessuti che sembrano cotone e seta e invece sono dei nylon. I fornitori e le concerie hanno messo al nostro servizio la tecnologia. Per

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nuove sfide creative e anche per diminuire l’impatto ambientale. Come i macchinari che lavorano pellami senza cromo. Un futuro più «verde»? Green con Gucci è un parolone. Mai faremo la finta pelle, perderemmo di credibilità e di clienti. Ma ci sono modi e linguaggi per essere sensibili all’ambiente. Abbiamo limiti su certi peli di pellicceria. Abbiamo mappato il territorio mondiale ed eliminato dei fornitori. Adesso ci sono contratti severi e precisi per evitare dei subappalti non etici. Siamo sempre con gli occhi aperti, facciamo dei blitz a sorpresa. E lavorando sul territorio fiorentino, realizzare made in Italy ti permette maggiore controllo. Cosa che non ti permetterebbe la delocalizzazione. Come saranno i prossimi novant’anni di Gucci? Sicuramente la parte tecnologica trasformerà non solo gli spazi ma le esigenze. Forse un domani, una borsa potrebbe essere solo un decoro da portare perché non conterrà nulla. I telefonini verranno sostituiti da microchip. I portafogli saranno piccolissimi perché porteranno solo carte di credito. Ma anche parlando di fantascienza alla 2001 Odissea nello spazio, il motivo per cui Gucci sarà sempre Gucci è anche la sua storia nel passato. Le sue radici rimarranno sempre, ma contestualizzate con quello che ci sarà tra novant’anni. Un’attualizzazione che si è vista anche con la presentazione del progetto Ever Manifesto a Parigi … È un percorso che abbiamo iniziato da tempo, quando per esempio abbiamo iniziato a usare carta riciclata per scatole e buste. Quando mi è stato proposto il progetto Ever Manifesto, ho sposato subito la causa. È stata divertente la selezione, tutto il lavoro che i designer hanno fatto con i nostri artigiani. La vincitrice è stata brava a dosare il metallo, un processo dove è già stata fatta una certificazione per controllare i bagni galvanici. C’è una sensibilizzazione che culturalmente sta arrivando dappertutto, anche a generazioni come la nostra e che già appartiene a quella di Charlotte Casiraghi e dei suoi amici e nuovi designer. Sempre ci sarà lo spazio per rispettare l’ambiente, senza perdere il punto di partenza. Da eco friendly a Gucci friendly come Charlotte Casiraghi. Che influenza hanno oggi personaggi in vista e celebrity? Il senso delle celebrity c’è sempre. Ma ci deve essere un motivo. Con Charlotte è nato in modo naturale, casuale. Lei aveva voglia di un aiuto nell’equipaggiare la sua tenuta tecnica e i suoi cavalli e ha pensato ad alcuni marchi. Quando ci siamo incontrate, mi ha portato alcuni oggetti di sua mamma e di sua nonna di Gucci degli anni 60 e 70. Volta dopo volta conoscendoci, ci ha parlato di Ever Manifesto. Il rapporto prosegue in questo modo spontaneo, senza agreement. E in un mondo ideale mi augurerei che i legami con le celebrity fossero veri, genuini, autentici. James Franco è un altro esempio. Ci siamo conosciuti quando non aveva fatto ancora tutti quei film che lo hanno consacrato. Oggi che è una star established, è fedele al marchio ed è aperto alle iniziative su proposte che gli costruiamo intorno. Come il progetto della campagna per il Made to measure, dove è protagonista negli scatti di Nathaniel Goldberg a Cinecittà, che hanno una forte connotazione cinematografica. Un prodotto così ad hoc doveva uscire dagli schemi di certe campagne stagionali. Un servizio che trova spazio nel nuovo concept dei negozi, come quello appena svelato nello store di Milano… Il concept precedente semplicemente aveva fatto il suo tempo, era un po’ claustrofobico. Avevo bisogno di luce. Ci sono bianco, riflessi, l’oro. Elementi che rimandano all’esterno, oltre alle vetrine seethrough, con un’interazione tra negozio e strada. Non è una scatola, è meno intimidatorio, respingente. Un ambiente che ti invita a entrare, per vivere un’esperienza e camminare in uno spazio che non è mai diviso come un department store. Bisogna sentirsi innamorati di un mondo non di una categoria merceologica. Come è cambiato il «famoso» consumatore, di cui spesso si parla come fosse un’entità astratta?

Non è un’entità astratta, ma è ancora più presente e più attento rispetto al passato. Vent’anni fa c’era un approccio diverso nella spesa. Oggi la modernità di una donna o uomo sofisticati sta nell’entrare in un negozio, in un’esperienza, e saper scegliere cose migliori. Non necessariamente farsi il total look. Meglio una ragazza con jeans fast fashion che si compra una Bamboo bag in cocco. Questa è la parte intrigante del consumatore, il fatto di avere più personalità, di interagire col marchio. Entrare e uscire dal negozio senza essere trasformato. Sicuramente i marchi come Zara ed H&M hanno aiutato molto a cambiare l’approccio verso la moda e il lusso. Se glielo chiedessero, realizzerebbe una collaborazione con H&M? Non lo so. Non è per snobismo ma non mi vedo Frida Giannini personalità che lavora per altri. Io vedo me stessa come designer legata a Gucci e non sarebbe Gucci con altri materiali. Cosa pensa quando vede quello che disegna indosso alle gente per strada? Se è una bella persona, con una giusta attitude, sono contenta. Se no, mi viene la pelle d’oca. Ma non posso uscire sulla porta e dire tu sì e tu no. L’edonismo, l’era delle griffe e degli stilisti. Il Duemila con gli anni degli stylist superstar. Ora i blogger. What’s next? Ci sarà un ritorno degli stilisti? Più che ritorno, credo che quando un creativo lavora per un marchio così importante, d’accordo esserne la faccia ed esserne il motore, non deve mai offuscarlo. Questo permette a un marchio di sopravvivere meglio nel futuro. Ci sono dei cicli ed è importante cambiare. Fra trent’anni non mi vedo qui. Per me ma anche per il marchio. Ha dei fantasmi? Me li ricordano gli altri ogni due minuti. Io non li avrei.

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Alessandro Sartori @ Berluti GRAZIE AL LAVORO DI ALESSANDRO SARTORI NASCE IL GUARDAROBA DELUXE FIRMATO BERLUTI. COSTRUITO grazie a UNA PIATTAFORMA HAUT DE GAMME, COMPOSTA DA 16 LABORATORI ARTIGIANALI ITALIANI. Chiara Bottoni

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uello che maggiormente mi preoccupava all’inizio di questa avventura era trovare gli artigiani in grado di sviluppare i prodotti che avevo in mente». Bastano queste poche parole, pronunciate da un emozionato Alessandro Sartori a qualche ora dal debutto parigino della prima linea di abbigliamento di Berluti, per capire il senso di questo nuovo progetto haute de gamme che porta la firma imprenditoriale di Antoine Arnault, il delfino dell’impero Lvmh di Bernard Arnault, e quella stilistica del designer italiano ex Z Zegna, oltre alla supervisione manageriale di un fuoricalsse come Pietro Beccari. «Poi ho trovato un sarto di Torino, specializzato in una particolare tecnica di lavorazione delle spalle delle giacche maschili che permette di lasciare uno spazio tra giromanica e corpo al fine di garantire la massima libertà di movimento anche sulle vestibilità più asciutte», ha continuato Sartori, «e gli ho chiesto di trasferire questa tecnica sui capospalla. La sua reazione è stata, devo confessarlo, di grande perplessità ma, alla fine, questo è il risultato», ha poi detto lo stilista mostrando con orgoglio i suoi capospalla gioiello, un doppiopetto di cashmere grigio con finiture di antilope e un parka oversize foderato di castorino. Capi che più che appartenere a una collezione di prêt-à-porter appaiono come outfit di un défilé di haute couture al maschile. Tanta è la preziosità dei materiali e delle lavorazioni nonché la cura maniacale verso il dettaglio. Un diktat che ha guidato Sartori in tutto il suo lavoro sulla collezione. Da luglio a oggi il tempo non è stato molto e praticamente lei e l’ufficio stile siete partiti da zero nel costruire l’immagine ma anche la catena produttiva del menswear di Berluti. Come avete fatto? Ho iniziato a perlustrare l’Italia alla ricerca dei migliori artigiani. Sarti, esperti nel maneggiare i pellami, maestri della tintura... Non è stato facile ma mi sono sorpreso nel constatare come esistano ancora figure iper-specializzate. Sono così riuscito a selezionare una rete di 16 laboratori che hanno spesso collaborato fra di loro nella realizzazione dei pezzi della collezione. Le finiture in pelle delle giacche ad esempio sono state messe a punto ad hoc in una fase successiva rispetto alla creazione del modello in sartoria. Questo significa che ogni capo è praticamente un pezzo unico, come avviene nel dorato mondo della haute couture femminile? Mi piace definire il prêt-à-porter di Berluti una carving couture, per sottolineare il potere straordinario delle costruzioni sartoriali che letteralmente sono in grado di scolpire i capi e di rendere attuale la silhouette. Conferendo un touch moderno a proposte pensate per essere la quintessenza di un’eleganza senza tempo. Quali sono i pezzi più rappresentativi di questa collezione in termini di artigianalità?

Potrei citare una giacca biker dipinta a mano, massima espressione di savoir faire artigianale. Ci sono volute ben 70 ore di rifinitura per metterne a punto il colore con una tecnica analoga a quella impiegata per la patinatura a mano di una borsa, che ha richiesto otto ore di lavoro per raggiungere la tonalità perfetta. Come spettatori surreali dei tableaux vivants allestiti per presentare la collezione di debutto avete scelto una selezione di forme storiche di scarpe Berluti appartenute a celebri clienti della maison. Quanto è stato importante il patrimonio del passato nel tratteggiare il nuovo corso di Berluti? La costruzione e le rifiniture a mano sono storicamente il tratto distintivo delle calzature Berluti. In una ricerca estrema della qualità che ho voluto trasferire anche nell’abbigliamento. Per raccontare come la moda possa meravigliosamente creare un punto di contatto tra il sogno e la vita reale.

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Michele Norsa @ Salvatore Ferragamo La maison toscana, fresca di quotazione a Piazza Affari, è stata la sorpresa del 2011. Con business E RICavi in aumento e un'ottima performance in borsa. Fabio Gibellino

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e si dovesse dare un premio alla migliore griffe del 2011, la maison Salvatore Ferragamo avrebbe molte chance di conquistare l'alloro. Nei nove mesi dell'anno il gruppo ha visto lievitare i ricavi del 27,6% a 701,3 milioni, l'utile netto dell'85% a 78,3 milioni e il titolo, nonostante la crisi finanziaria e le pessime performance della borsa di Milano, dov'è stata collocata a fine giugno, è cresciuto dai 9 euro del debutto agli oltre 10,2 euro attuali. MF Fashion ha incontrato Michele Norsa, amministratore delegato del gruppo, per scoprire i segreti di una strategia di business che si è rivelata vincente. Per Ferragamo il 2011 sarà un anno da ricordare? È stato un anno straordinario, soprattutto se consideriamo il terremoto in Giappone, mercato per noi importante, che ha sofferto molto nonostante i nove mesi siano leggermente positivi. Comunque la performance del gruppo è il risultato di una crescita in tutto il resto del mondo, con risultati più che eccellenti. Se li aspettava? Grazie anche alla visibilità raggiunta con la quotazione sapevamo che sarebbe stato un anno molto buono. Credo che lo sbarco in borsa abbia contribuito dando una spinta in più alla già positiva considerazione del marchio e dei prodotti.

mf fashion - 26 novembre 2011

Sembra quasi che la comunicazione finanziaria sia più importante di una sfilata o di una campagna pubblicitaria di tendenza. È così? Però il prodotto rimane la cosa più importante. La qualità a 360 gradi resta il cuore del nostro lavoro. Si aspettava anche un andamento così positivo sul mercato finanziario? Devo dire che la performance del titolo fino a oggi è straordinaria, in particolare se confrontata con l'andamento degli indici, soprattutto quello italiano. In valore assoluto avevo buone aspettative, perché la storia dell'azienda e il valore dei prodotti è fondamentale. E questi sono aspetti che fanno parte della nostra storia. Essersi quotati a Milano è stato un valore aggiunti o un freno? Credo sia un fatto positivo, soprattutto perché ha portato chiarezza. Noi siamo italiani e ci siamo quotati nel nostro Paese. Comunque in un mondo globale non ci sono grandi differenze, basta guardare ai nostri investitori, che arrivano da ogni angolo del pianeta. Sicuramente l'andamento dell'indice influisce, ma sono stati molti anche gli aspetti positivi. Sul listino milanese sono presenti pochi titoli del lusso e ciò può essere un fattore positivo. E l'attenzione al settore, che va così bene, ha aiutato. Perché il lusso è così rassicurante anche nei listini?


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Tommy Hilfiger

IL DESIGNER, ALFIERE DELLO STILE USA, RIPENSA IL SUO IMMAGINARIO A STELLE E STRISCE PER GUARDARE ALL’ALTO DI GAMMA. COMPLICE LA NUOVA INTESA DI PRODUZIONE STRETTA CON un nome cult iTALIANo: ITTIERRE. Fabio Gibellino

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na delle novità più importanti della fashion week di New York è firmata Tommy Hilfiger. A raccontare il nuovo è stata una passerella che ha rivoluzionato il concetto di preppy a cui la fashion house americana è da sempre legata a doppio filo. «Non è una questione di ripensamenti. In realtà, non si è trattato nemmeno di un cambiamento. Perché questa è un’evoluzione. Ogni brand si sviluppa nel tempo, perché è nella natura delle cose», ha spiegato Tommy Hilfiger. Che progetta di chiudere l’esercizio 2011 con ricavi non inferiori ai 2,9 miliardi di dollari e che con questa collezione tiene a battesimo l’intesa con il gruppo Ittierre: dall’autunno/inverno 2012-13 il gruppo italiano produrrà e distribuirà la prima linea uomo e donna del marchio Usa, e gli accessori, grazie a un accordo di cinque anni più tre. Qual è stato il punto di origine di questa evoluzione? Noi siamo conosciuti per il nostro mondo preppy, ne siamo precursori e massimi esponenti. Quando ho iniziato a lavorare su questa stagione mi sono diretto verso un nuovo concetto di preppy. Questa è una collezione che guarda in alto, al prêtà-porter, pur restando connessa allo stile Hilfiger attraverso molti punti comuni ben identificabili nello spirito libero che ha mosso la rivisitazione di alcuni capi tradizionali. Quali sono gli obiettivi e i competitor di questo nuovo Tommy Hilfiger? Il mio competitor naturale è Ralph Lauren, più che altro perché è americano come me, ma ce ne sono altri, perché il mondo della moda è veramente vasto. Detto questo la mia idea non è quella di guardare a eventuali competitor. Quando ho pensato e disegnato questa collezione ho cercato di creare un qualcosa di unico e di ben identificabile. Ho pensato a un military-Prep, ho guardato alle accademie militari e ai loro giovani cadetti. Poi ho pensato che questi futuri ufficiali non sono solo uomini in divisa, ma vivono anche di sport e che amano andare in motocicletta, vivere in città come in campagna. E come si sviluppano questi uomini? Quale è l’estetica della collezione? Quando ho immaginato la linea sono partito da una concetto di cadetto a cui ho aggiunto dei richiami vicini al mondo college e l’ho completato con una parte importante di country look. Quindi ho scelto materie nobili come la pelle e il cashmere, e colori come il borgogna, che in questo caso è il mio preferito, i marroni e i navy, per il giorno e i neri e i blu profondi per la sera. Il tutto costruito attraverso una scelta di tagli sartoriali precisi e di dettagli che servono per caratterizzare l’essenza della collezione. La mia intenzione con queste creazioni è quella di comunicare lusso e qualità superiori. Anche per gli accessori ho lavorato sui concetti di ispirazione e aspirazione. Ho cercato di far convivere qualcosa di fresco e nuovo partendo da concetti

sicuri come l’Oxford style. Perché per questa evoluzione Tommy Hilfiger si è affidato al rigore militare? La scelta del military è stata abbastanza facile, perché credo che oggi, in una via moderna della moda, sia veramente cool. Quello militare è uno stile sofisticato e ricco di dettagli. E vorrei sottolineare che non ha nulla a che vedere con politica o tutto quanto. È solo un’ispirazione squisitamente stilistica. Quando ha concepito il military-prep ha pensato a un mercato in particolare? Ho pensato a questa collezione guardando al mondo. Il mio uomo è americano, asiatico, globale, e certo europeo, visto che quello per noi è un mercato molto importante. Visto che parliamo di mercato, negli ultimi anni le crisi finanziarie, secondo lei, in che modo possono aver cambiato la percezione dell’uomo nei confronti della moda? In realtà non ho visto grandi cambiamenti nel menswear. Piuttosto, anche qui, ho visto un’evoluzione. Quel che voglio dire è che non ho visto gente con una voglia di non spendere più, ma, al contrario, ho visto gente disposta a spendere anche di più, e soprattutto di spendere meglio. Di cercare più lusso e qualità. Dunque è fiducioso per il futuro, c’è qualcosa in vista per il 2012? Guardo con attenzione all’Asia, aprirò a Tokyo e Hong Kong. Inauguro sempre nuovi negozi, fa parte della nostra politica, e poi sono sempre alla ricerca della location doc. E qual è la location perfetta? Beh, la 5th avenue a New York, tanto per dirne una. Diciamo che la location perfetta si trova in tutte le vie magiche della moda nel mondo. Il mercato su cui scommette per il 2012? È facile, Cina, è il mercato per il 2012. E il 2011 com’è andato? Bene. Il Giappone, con tutto quello che è successo, è stato soft, la Germania si è rivelata molto forte, la Gran Bretagna è stato un gradito ritorno, la Turchia è andata molto bene e l’Italia (terzo mercato europeo, ndr) è cresciuta. Con questa collezione debutta la collaborazione con Ittierre. Com’è andata? Sono molto felice del lavoro fatto con Ittierre. Sono stati molto professionali e hanno inteso perfettamente quelli che erano i miei desideri. Sono stati veloci e preparati.

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Silvia Fendi @ Fendi la griffe SATELLITE dEL GRUPPO lvmh DI BERNARD ARNAULT rilancia il suo uomo: «È contemporaneo, Urbano e attento MINUZIOSAMENTE ai dettagli», HA SPIEGATO LA DESIGNER ANIMA DEL PROGETTO. Alessia Lucchese

L’

uomo di Fendi ritorna ad affascinare il fashion system. Con un come-back sotto i riflettori della fashion week milanese che lascia presupporre un ritorno in piena regola tra gli appuntamenti cult sul catwalk delle prossime stagioni. Lontano dagli sguardi della stampa da diverse stagioni, il menswear della maison romana scrive una nuova pagina del suo stile, lasciando volutamente da parte ogni riferimento ai trend per abbracciare un’attitude più concreta. Prediligendo un tocco urbano per i completi daywear dalle silhouette asciutte, l’uomo della doppia F firmato autunno-inverno 2012/13 scopre una silhouette relaxed e ricercata. Raccontata attraverso l’estetica di Silvia Venturini Fendi, anima creativa del progetto. Erano quattro stagioni che le collezioni Fendi uomo erano lontane dalle luci della ribalta, protagoniste di presentazioni destinate solo ai compratori. A cosa si deve questo come-back ufficiale all’interno del calendario di Milano moda uomo? Le ultime stagioni hanno registrato una forte crescita sia per quanto riguarda il fatturato sia in termini di punti vendita. Abbiamo quindi ritenuto fosse arrivato il momento giusto per ritornare sotto i riflettori con il nostro uomo. Se potesse descrivere in tre aggettivi l’uomo di riferimento di Fendi quali sceglierebbe? Urbano, contemporaneo, attento minuziosamente ai dettagli. Abbiamo lavorato su una ricerca tecnologica di tessuti, con capi che hanno dato più spazio al daywear, per una mascolinità decisamente facile e vera.

Sono molti i marchi che oggi scommettono sul menswear haute de gamme. Lvmh, gruppo di cui fa parte il marchio Fendi, sta rilanciando in grande stile un brand only for men come Berluti in una chiave quasi couture. Secondo lei potrebbe essere questa la nuova frontiera dei marchi del lusso? Il lusso si identifica oggi con la ricerca e con l’utilizzo di materiali pregiati. Che riescono a mescolare nel modo più equilibrato il rispetto del passato e delle tradizioni artigianali a una forte attenzione all’innovazione e alla sperimentazione. Anche in questa collezione abbiamo voluto sottolineare questo aspetto ricorrendo a tecniche elaborate e ricercate come quella dell’agugliato, fino alla fusione del panno con il visone o del feltro con l’astrakan. Avete scelto, per il momento, di mostrare la collezione maschile con una presentazione. Pensate di tornare a sfilare? Per il momento non escludiamo nulla, ogni strada è aperta. Preferiamo concentrarci ora su nuovi progetti per il rilancio della linea maschile. Stiamo infatti mettendo a punto la versione pour homme della nostra fragranza bestseller Fan di Fendi, che sarà lanciata a settembre. Da poche settimane Pietro Beccari, ex Louis Vuitton, è diventato ceo di Fendi. Contate di proseguire con lui questa nuova strategia? Pietro Beccari conosce la moda maschile molto bene e siamo lieti di poter lavorare con lui. Tra qualche mese potremmo essere più precisi nel raccontare l’evoluzione del nostro mondo.

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Stefano Pilati @ Yves Saint Laurent LA FOTOGRAFIA DI Robert Mapplethorpe, La trasgressione E La nozione di potere associata al sesso, LA CULTURA underground. LO STILISTA SVELA IL VOLTO PECCAMINOSO DEL MENSWEAR DELLA GRIFFE FRANCESE DI PPR. Giampietro Baudo

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ex & money». Una stagione raccontata in due parole. Il messaggio di Stefano Pilati per il menswear di Yves Saint Laurent è l'incipit di un nuovo capitolo estetico nella storia della blasonata maison francese, oggi satellite del gruppo Ppr di François-Henri Pinault. Dopo otto anni al timone creativo della griffe (è stato nominato nel 2004 dopo l'uscita di scena dell'accoppiata Tom Ford-Domenico De Sole, ndr) è arrivato il momento di cambiare. E tra i marmi immacolati della Sorbonne il designer ha scelto di intonare una sinfonia hard & sexy, vicina al côté più intimo e personale di monsieur Yves. «In questi anni ho sempre cercato di raccontare un'idea di uomo precisa... una figura elegante, cosmopolita. E soprattutto originale. Anche in questa stagione ho cercato di andare in questa direzione svelando una certa cultura underground che oggi non è più così nascosta e sommersa. Di segreta è rimasta solo una certa sessualità forte e quasi estrema, che ho cercato di distillare in ogni singolo outfit». A incorniciare il portrait di stagione, un grande brackboard artistico su cui si staglia una storica intervista ad Andy Warhol, la stessa che risuona nel soundtrack interpretata da Sam Wagstaff, storico boyfriend di Mapplethorpe, e remixata con pezzi electro di Scanner e frammenti di Justify my love di Madonna. Per un'atmosfera peccaminosa con influenze sadomaso. Quale è stata l'idea guida di questa stagione? Il bagaglio fotografico di Robert Mapplethorpe. Il sesso considerato come una trasgressione. Un giubbotto biker proveniente dall’archivio di YSL, risalente agli anni 70. La nozione di potere associata al sesso. L’assenza, in questo momento, di vere effervescenze «underground» come i movimenti elitisti newyorkesi degli anni 70/80. E poi un’immagine di monsieur Yves Saint Laurent con indosso un trench di pelle nera. Quanto contano gli archivi della Yves Saint Laurent nel creare il menswear? Non molto. Sono più che altro immagini di riferimento di monsieur Yves Saint Laurent che normalmente si iscrivono, con discreto senso di supporto, alle mie idee iniziali di creazione delle collezioni. Diciamo che sono frammenti e ricordi remixati tra di loro. Quando disegna la collezione uomo ha in mente un punto di

riferimento? Spesso me stesso. Molto l’air du temps o alcune immagini iconografiche di maestri di stile, normalmente selezionati per la loro sofisticazione anche intellettuale. Definisca il suo concetto di menswear. E soprattutto, secondo lei, in che direzione si sta muovendo la bussola del guardaroba uomo? Il menswear in questo momento ha il vento di poppa. Da anni insisto con la mia moda per sollecitare la vanità che esiste in ogni uomo per renderla più accettata e meno destinata a un pubblico più femminile. Soprattutto operando all’interno di un marchio iconico come Yves Saint Laurent, dove originalità, stile e vanità sono non solo legittimi ma anche vitali all’identità e al successo della griffe. Quali sono gli elementi essenziali del menswear oggi? Silhouette definita. Interpretazione dei classici. Funzionalità. Spirito giovanile: quest’ultimo è la vera novità. Anche quando è classico, fino al bigottismo della tradizione, l’uomo ha preso coscienza che voler apparire più giovane lo fa sentire meglio. Ha ancora senso portare in passerella l'uomo? Finché stampa e clienti non svilupperanno un senso di immaginazione che va oltre la visualizzazione di un capo appeso, siamo obbligati a rappresentare un insieme, un tutto, un’ atmosfera. E niente, meglio di una passerella, è in grado di tradurre un'immagine, una fascinazione creativa, in un percorso concreto e facilmente comprensibile. Esiste una tipologia di uomo a cui le piacerebbe parlare con la sua collezione? Credo siano tutti i maestri estetici del passato. Il resto, mi interessa a tutto campo. Non giudico e non faccio distinzioni. Considero la mia moda atemporale e cosmopolita. Come dovrebbe essere la mia clientela ideale a cui sto raccontando questo percorso creativo. Cosa preferisce creare di più, la collezione uomo o la linea donna? L’uomo mi permette di rinnovarmi e di essere più pragmatico nella funzionalità. La donna seduce di più il sogno romantico della bellezza, quindi con un percorso e un approccio più astratti: nelle creazioni femminili si crea una tensione più impalpabile e intrigante.

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Giorgio Armani

Dal suo rapporto con milano al suo hotel deluxe. giorgio armani si racconta e racconta la sua moda, svelando il suo sogno di fare un film. Stefano Roncato

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l rapporto d’amore con Milano. La prima sfilata. La passione per la moda e la rivoluzione di stile iniziata con una giacca. E l’emozione, dietro le quinte dei suoi défilé, che ancora c’è. Giorgio Armani racconta la sua storia dagli esordi fino alla consacrazione della sua visione di eleganza lineare e mai ostentata. Un percorso in esclusiva tra parole e immagini nate in uno shooting in cui è stato protagonista, nel suo Hotel deluxe che si affaccia sulla Madonnina. «Per me etica ed estetica coincidono. Un sogno? Ne ho molti: girare un film, ad esempio. Però oggi più che mai mi concentro sulla mia impresa. Questo mestiere ha sempre bisogno di revisioni, di aggiornamenti». Cosa pensa quando osserva il panorama di Milano? Che rapporto ha con questa città? Quando guardo il suo skyline in continua trasformazione penso a quanto Milano condensi davvero lo spirito stesso della modernità. Basa la sua energia sul cambiamento, sulla tensione verso il nuovo ed è un aspetto che trovo stimolante. Milano è la città nella quale ho costruito la mia fortuna: ho con essa un rapporto d’amore e un senso d’infinita riconoscenza. Sono arrivato da Piacenza con la mia famiglia negli anni del primo dopoguerra. Qui ho studiato, ho fatto amicizia, ho cominciato a lavorare, ho costruito la mia vita. Posso dire che questa città mi ha accolto e mi ha offerto grandi possibilità. Oggi, mi sento compiutamente milanese. Perché ha deciso di costruire qui il suo Hotel? Questo Hotel, l’ho dichiarato più volte, è un atto d’amore verso la città, intesa non solo come la mia Milano, ma come capitale internazionale della moda e del design. Milano è una metropoli attiva e vitale con un ruolo produttivo importante, in Italia e nel mondo. Mi sembrava giusto portare in città questo ulteriore elemento dell’Armani lifestyle. Il progetto è stato un sogno lungamente accarezzato, realizzato in modo ragionato, unendo impegno e rischio calcolato, seguendo una precisa e coerente direzione verso il futuro. Come è iniziata la sua passione per la moda? In maniera naturale. Mentre crescevo, comprendevo l’importanza degli abiti nel definire una persona. Spesso, però, erano abiti rigidi, nei quali non mi riconoscevo. Le esperienze di lavoro che ho fatto appena arrivato a Milano mi sono state molto utili. Ai grandi magazzini La Rinascente ho potuto osservare la gente da vicino. Ho poi avuto la fortuna di lavorare con Nino Cerruti e quell’esperienza è stata per me fondamentale. Qual è l’idea più rivoluzionaria di Armani? Quella che ha dato l’avvio a tutto: costruire una giacca fluida come un cardigan, elegante ma sciolta. Ne ho fatto il centro del guardaroba maschile e il pilastro di quello femminile. E anche se oggi lo stile Armani è molto più di una giacca, la giacca esprime perfettamente la mia ricerca di un’eleganza lineare e non ostentata. E la sua prima grande soddisfazione? La prima sfilata. Sono passati molti anni, ma ne ho ancora ricordi vividi. Da lì è cominciata la mia avventura nel mondo della moda e il mio percorso nella moda che è stato graduale e organico. Oggi sono guidato, da sempre, dagli stessi valori. Per me etica ed estetica coincidono. I semi di tutto erano già in quella sfilata: il senso di eleganza e di scioltezza, la ricerca di un linguaggio sofisticato e mai ostentato. Come definirebbe il suo stile?

L’essenza del mio lavoro è la coincidenza di etica ed estetica e l’accento su un’eleganza soft, interiore. Il mio lavoro oggi è percepito come classico, ma quando ho iniziato rappresentò una rottura. Da allora ho continuato a reinventare e reinventarmi, restando sempre fedele e coerente con me stesso. Non cambio il mio stile, ma lascio che cambi usando come filtro gli anni che passano, i gusti che si trasformano, tenendo sempre bene a mente il mio personalissimo modo di vedere la moda. Il rapporto tra passato e futuro, fra tradizione e innovazione è molto sottile. Io penso che la vera innovazione nasca da uno sguardo personale e libero sulla tradizione. Può descrivere l’universo della donna e dell’uomo Armani? Deve rispecchiare necessariamente le qualità che una persona, uomo o donna, deve avere perché, come ho sempre sostenuto, l’eleganza rappresenta una dote interiore. È un universo che comunica sempre con i mutamenti della società, ma che si basa su valori solidi: essenzialità, rifiuto di qualsiasi eccesso e amore per l’estetica. Cosa l’ha ispirata per le sue ultime collezioni Giorgio Armani uomo e donna? Per l’uomo ho rivisitato con ironia i tessuti classici e le disegnature tradizionali, puntando su una gamma di colori nuova e mascolina. Nella collezione donna ho invece giocato con i contrasti, immaginando una donna androgina che non vuole rinunciare alla sottigliezza e alla leggerezza del vestire femminile. Come è mutato il mondo della moda nel corso degli anni? È cambiato molto, soprattutto dopo il boom degli anni 80, sia dal punto di vista economico che sociale. Ormai la comunicazione sembra aver preso il sopravvento su tutto. È un cambiamento che rispecchia però una crisi più profonda che non è un fenomeno solo italiano. Dal mio punto di vista, credo che l’unico modo per resistere e opporsi sia puntare, ancora, sulla qualità dei prodotti. Le piacerebbe disegnare una linea per il mondo fast fashion magari con H&M? Onestamente non ne sento il bisogno. La presenza del fast fashion ha effettivamente cambiato il mondo dell’abbigliamento portando un concetto di velocità e basso costo. Io a questo mercato, molto interessante e non soltanto per la politica dei prezzi, avevo però già pensato nel 1991 con A/X Armani Exchange, che non è la mia collezione low cost, ma una linea di moda: un total urban look molto accattivante per consumatori tra i 16 e i 25 anni, basato sulla formula fast fashion. Cosa pensa dei nuovi media? C’è qualcosa della nuova tecnologia che le piace di più? Utilizzo l’iPad e lo trovo molto utile. Trovo che i nuovi strumenti tecnologici abbiano velocizzato la ricerca delle informazioni e aumentato gli scambi. Sono strumenti essenziali, a patto, peró, di non diventarne schiavi. Si emoziona ancora? Magari a un attimo dall’uscire in passerella a fine sfilata… La passerella è sempre una grande prova e ogni volta è come fosse la prima volta. Mi emoziono ancora tantissimo. Ha un sogno? Ne ho molti: girare un film, ad esempio. Oggi più che mai, però, mi concentro sulla mia impresa. Questo mestiere ha sempre bisogno di revisioni, di aggiornamenti. Non si deve dare nulla per scontato.

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Dries Van Noten

IL DESIGNER HA CREATO LA SUA MAISON RESTANDO FEDELE A UN'ESTETICA ETNO-CHIC E ARTISTICA. E ORA INCITA I GIOVANI STILISTI ITALIANI A OSARE SEMPRE DI PIÙ. Chiara Bottoni

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n artista prima ancora che un designer. Capace di creare un mondo affascinante dove si muovono leggere le sue donne. Femmine di carattere, con un gusto armonico per i mélange cromatici e una passione per i collage di etnie differenti. Dries Van Noten e la sua moda sono la dimostrazione concreta di come, in un prevalere di logiche commerciali che spesso rischiano di stritolare la creatività, oggi sia ancora possibile continuare a perseguire la propria strada assecondando la passione. È l’unico padrone a capo dell’azienda che porta il suo nome, fondata nel 1986. E oggi lo stilista di Anversa è il portavoce di una filosofia estetica che detta tendenza e riesce a vivere, e a crescere, senza assecondare le regole del mercato. Un esempio importante per i giovani creativi di oggi e un invito a continuare a sperimentare. Con un piccolo monito rivolto a Milano, perché anche qui gli stilisti emergenti si impegnino a replicare il clima vivace di altre piazze internazionali, in primis Londra. Ricordando che il motore propulsore devere essere un mix di: «Passione e creatività». Qual è la sua visione del mondo della moda oggi? Penso che siamo molto fortunati del fatto che la passione riesca ancora a essere, anche in un’epoca storica di crescente industrializzazione, il principale movente della moda. Per citare la colonna sonora del mio ultimo show, l’unica cosa che mi auguro è che si possa in qualche modo «Rallentare il tempo». Più nello specifico, è straordinario vedere questa fioritura e questo brulichio di giovani talenti a Londra. Sarebbe fantastico che lo stesso fermento si vivesse anche a Milano. Ogni tanto mi domanda perché questo non accada... Che peso hanno l’arte e la sua storia nel suo lavoro estetico? Le mie collezioni sono influenzate da una moltitudine di stimoli differenti. Naturalmente, l’arte gioca in queste dinamiche un ruolo di primo piano. In particolare, ci sono due collezioni che esemplificano al meglio questo rapporto speciale con la dimensione artistica. Il womenswear per la primavera-estate 2011, dove sono stato ispirato dalla giustapposizione di stampe che abitualmente non sono associate all’abbigliamento, fra cui i lavori del fotografo James Reeve. E, più recentemente, il menswear per l’autunno-inverno 2012/13, per il quale ho preso spunto da due artisti olandesi, un creatore di murales e un calligrafo. In ciascuno dei due casi, ho pensato che sarebbe stato un interessante esperimento osservare come la loro visione po-

tesse essere tradotta su degli abiti. Nessuna delle due è stata una prova facile a dirla tutta ma credo che il risultato finale sia stato soddisfacente. Qual è stato il punto di partenza della sua ultima collezione donna portata in scena alla fashion week di Parigi? La mia attenzione è stata catturata dalle stampe e dal color blocking. Prendendo spunto da codici apparentemente familiari di prints e da silhouette convenzionali di abiti, ho scardinato e sovvertito il già esistente fino a creare un nuovo capo di abbigliamento, un nuovo accessorio o un nuovo ornamento. Sono conosciuto per l’aspetto etnico e colorato del mio lavoro... Con questa collezione ho cercato di cambiare questa percezione attraverso, in un certo senso, la concettualizzazione dell’uso del colore e delle stampe. Alcuni abiti del mio archivio personale e della collezione del Victoria and Albert museum di Londra sono stati fotografati e la loro immagine, rimasterizzata digitalmente, è stata stampata bidimensionale su sete e cotoni. Per la precisione, abbiamo trovato delle tuniche tradizionali, delle gonne e delle giacche provenienti da Cina, Corea e Giappone. Le immagini di questi capi già esistenti sono state impresse su nuovi abiti con una base differente di colore, spesso ruotando orizzontalmente lo scatto sul corpo. Frammenti di stampe sono stati sezionati e mescolati per creare l’illusione di pieghe. In questa stagione avete portato avanti anche un grande lavoro sui colori... La palette si è adeguata alla varietà degli abiti che abbiamo trovato e fotografato, presentandosi come meno studiata, meno logica rispetto a quanto ci si aspetterebbe in una collezione tradizionale. Questo uso del colore ha creato un più vivace trionfo di tonalità esplosive. Il risultato è un originale mix di toni e stampe, ora uniti fra di loro e proposti orizzontalmente su cappotti, gonne, maglie e bluse omaggio alla sartorialità di un tempo. Abbiamo mescolato tutto ciò, la vivacità e l’arditezza delle stampe femminili, con la severità maschile della monocromia sartoriale e con l’aspetto più cupo del khakis militare. Quali sono gli imminenti progetti di sviluppo del suo brand? Come azienda, stiamo attraversando una fase di introspezione e di riorganizzazione piuttosto che un momento di crescita. Stiamo esplorando diverse opzioni e opportunità che si trovano, a oggi, a uno step non ancora sufficientemente avanzato per essere svelate.

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Peter Pilotto e Christopher De Vos @ Peter Pilotto Peter Pilotto e Christopher De Vos hanno creato un mondo natural-space di stampe e silhouette scultoree, Sperimentando collaborazioni a 360 gradi. Alessia Lucchese

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ono diventati in poche stagioni uno degli hot names della London fashion week, tanto da costringere Anna Wintour, potente direttore di Vogue America, a prolungare il suo soggiorno british. E sono tra i più richiesti dai big brands per firmare capsule collection decisamente speciali. Peter Pilotto e Christopher De Vos, il duo creativo che sta dietro al brand Peter Pilotto, continuano a stregare il mondo fashion con le loro stampe dai tratti psichedelici e space, spalmate su abiti dalle silhouette sculptural. Una collaborazione nata sui banchi della scuola di Anversa tra i due designer (il primo è metà italiano e metà tirolese, il secondo è un mix di sangue belga e peruviano). Quattro anni fa la scelta: dare vita al brand, e la loro ambizione oggi è quella di creare una griffe lifestyle, grazie anche a una serie di partnership mirate che stanno portandogli molta fortuna. Le stampe sono diventate il vostro marchio di fabbrica. A cosa vi ispirate? Siamo da sempre ispirati dalla natura, specialmente dai suoi colori. Ogni stagione lavoriamo in modo differente, ma quando creiamo i nostri print ci piace trovare un immaginario da cui siamo colpiti e ritradurlo, magari combinando sui pattern tecniche inaspettate, inserendo del pizzo o squarciando il tessuto con dei laser cut. Partiamo sempre dai colori quando pensiamo a una collezione e cerchiamo di dare loro risalto attraverso combinazioni uniche. Sulla stessa direzione si muovono anche le forme scultoree che hanno i vostri abiti… Ci piace creare strutture differenti ma che accompagnino sempre le linee del corpo. Per questo i tagli dei capi per noi sono fondamentali perché ci permettono di presentare qualcosa che normalmente non si vedrebbe sugli abiti. Cerchiamo di non dimenticare mai nessun dettaglio quando disegniamo le nostre collezioni. Nelle ultime stagioni siete stati tra i marchi più richiesti per siglare dei co-branding, da Kipling a Schneiders. Cosa pensate di questa formula sempre più in voga nel panorama fashion? Si tratta di progetti molto interessanti, che ci hanno permesso di confrontarci con

nuovi segmenti e nuove categorie. Kipling, per esempio, è molto amato dalle teenager e realizzare borse e accessori per questo pubblico è stato molto divertente e anche istruttivo. Completamente differente, invece, la partnership con Schneiders, un marchio dall’heritage incredibile. Abbiamo sempre desiderato sperimentare il nostro stile sui capispalla e collaborare con il brand del loden per eccellenza ci ha dato la possibilità non solo di realizzare una capsule collection outerwear ma anche di introdurre tra le nostre categorie una linea di piumini che abbiamo presentato durante la sfilata di febbraio. Avete avviato altre collaborazioni durante le scorse stagioni? Dalla primavera-estate 2011 le nostre calzature sono firmate da Nicholas Kirkwood, mentre sta arrivando nei negozi la nostra prima linea beachwear che abbiamo disegnato in collaborazione con Lisa Marie Fernandez. Non escludiamo in futuro di continuare questo tipo di collaborazioni: in fondo, ognuno impara a parlare il linguaggio dell’altro arricchendosi. Siete nati come marchio womenswear. Pensate di continuare su questa strada o volete sperimentare il vostro stile anche sull’uomo? La nostra attenzione oggi è focalizzata sulla donna. Non vogliamo procedere troppo velocemente, ma crescere passo dopo passo. Anche le collaborazioni che abbiamo firmato di recente riguardano solo l’universo femminile e sono un modo per imparare a confrontarci con nuovi segmenti di mercato per noi ancora inesplorati. Quest’anno abbiamo anche firmato la nostra prima collezione Cruise e il riscontro è stato indiscutibilmente molto soddisfacente. Il vostro marchio è basato a Londra e siete tra gli hot names della London fashion week. Quanto conta questa città nel vostro percorso creativo? Londra è una città che sta vivendo un fermento creativo importante, soprattutto per quanto riguarda i giovani designer come noi. Non essendoci molti grandi marchi i designer emergenti hanno più chance di farsi conoscere e di far parlare di sé. Il supporto del British fashion council o di Topshop con il progetto Newgen è stato fondamentale anche per noi per crescere.

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Stella McCartney

il suo brand young & cool è stato l'apripista della filosofia eco-friendly in chiave glam. ora l'inghilterra celebra mrs mccartney arruolandola come bandiera delle olimpiadi 2012. E LEI SFODERA una miriade DI NUOVI PROGETTI. Chiara Bottoni

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l suo è uno dei nomi più hot della scena fashion internazionale. La prima a essersi fatta portavoce della moda eco con una label di posizionamento alto. Stella McCartney nelle ultime stagioni non ha sbagliato un colpo. I suoi outfit sono stati consacrati dai red carpet e osannati dalla stampa perché freschi e cool. Mentre la sua it bag Falabella è diventata il must-have di ogni fashionista. E anche l'ultima collezione, quella andata in scena a Parigi durante la settimana del prêt-à-porter, ha confermato l'abilità della designer nel costruire l'immaginario estetico perfetto delle it girl contemporanee, con una sequenza di look divertenti, svelti e subito desiderabili. Fra decori barocchi ricamati su mini dress, patch di maglieria e knitwear sagomati sul corpo. Non c'è da stupirsi dunque che Londra, sua città natale, l'abbia consacrata a regina di stile dell'evento più atteso di questo 2012, le Olimpiadi che si svolgeranno nella capitale britannica la prossima estate. Affidandole la realizzazione in tandem con Adidas, marchio sportswear con cui la designer ha all'attivo una collaborazione di lunga data, la realizzazione delle divise della Nazionale britannica. Ed è proprio a Londra che Stella McCartney ha aperto il nuovo anno con due eventi speciali, l'happening «World of Stella» nel department store Selfridges durante il quale è stata presentata la nuova fragranza della stilista, Lily, e lo show performance per il lancio della Evening collection. Senza dimenticare l'inaugurazione, proprio nella città britannica, di una seconda vetrina a Brompton cross. Un quadro speciale di eventi che posizionano il marchio, satellite del gruppo Ppr, nell'Olimpo dei brand più iconici e desiderati del momento. Eventi che rappresentano per Stella un grande riconoscimento personale e professionale, come ha raccontato in questa intervista. Quale valore ha per lei la partecipazione all'evento dell'anno per Londra? Sono una designer britannica, nata e cresciuta in Inghilterra, e lavorare per il nostro team nazionale significa molto per me, sia a livello personale sia a livello professionale. È un grandissimo onore essere stata scelta. Come direttore creativo della squadra britannica dovrò far fronte a un milione di implicazioni, davvero un'enorme scommessa. Ho cercato di mettere in luce l'orgoglio di una nazione e di tradurlo in abiti, tenendo conto della necessità di garantire delle performance tecniche agli atleti.

Questo lavoro porta inoltre a doversi occupare dei migliori sportivi al mondo, cercando di aiutarli a supportare le performance in gara e permettendo loro al contempo di sentirsi a proprio agio e forti. Inoltre ho dovuto tenere in considerazione il fatto che tutto sarà trasmesso in televisione, dove miliardi di spettatori assisteranno all'evento. La scommessa sarà offrire qualcosa di diverso e interessante. Ci sono perciò tantissime cose a cui pensare e così tante direttive da rispettare. Tutto ciò rende questo impegno un'esperienza davvero emozionante che mi costringerà a mettermi sul serio alla prova. La City è stata anche teatro di uno show per presentare la evening collection... Volevo davvero fare qualcosa di speciale a Londra. Con questa collezione ho scelto di celebrare la donna e la sua femminilità, cercando di creare look per più tipologie di fisico e di età. Lei è stata la prima a sdoganare il concetto di eco fashion, dimostrando che la moda ecosostenibile può essere cool. Che messaggio intende lanciare scegliendo questa filosofia per raccontare la sua estetica? Per me la cosa più importante è rispettare l'ambiente, sapendo di non poter raggiungere la perfezione ma cercando comunque di ottenere il meglio possibile. Ogni stagione per me è una vera sfida. Basti pensare alla ricerca dei nostri fornitori. Il cotone organico, ad esempio, una volta può arrivare dal Perù, un'altra dalla Spagna. Ho sempre cercato di dimostrare che è possibile ottenere l'eccellenza salvaguardando il nostro pianeta. Una sfida che credo di aver dimostrato possa essere vinta. Un caso piuttosto eclatante in questo senso è il successo che è riuscita a ottenere con la it bag Falabella. Una borsa non fatta di pelle ma di un materiale alternativo. Lo stesso si può dire per le calzature con suola biodegradabile presentate nell'ultima sfilata parigina... Qual è stata l'esegesi di Falabella in particolare? Volevo creare una borsa che potesse assumere infinite identità. Che fosse giorno e notte; statement e understatement; che avesse un aspetto nuovo o vintage; che fosse capace di costruire il tuo outfit o di giocare con esso. Per me Falabella è tutto ciò. Un perfetto bilanciamento di infiniti mondi.

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Christophe Lemaire @ Hermès «FUNZIONALITÀ, COMFORT, SEMPLICITÀ CON UN CONTRALTARE HIGH QUALITY». È IL CREDO DI CHRISTOPHE LEMAIRE, NUOVA ANIMA DEL READY TO WEAR DONNA DELLA MAISON. RILETTO SECONDO UN CODICE ESTETICO DI MODERNITÀ ATEMPORALE. Giampietro Baudo

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na trasformazione sottile nel segno del più puro ésprit française. È questo il percorso che Christophe Lemaire sta portando avanti approcciando l’universo Hermès. Nato in Francia nel 1965, ha presentato la sua prima collezione nel 1991 dopo aver lavorato per Thierry Mugler e Christian Lacroix. Nel luglio 2000 è diventato direttore artistico di Lacoste e nell’autunno del 2010 ha raccolto il testimone di Jean Paul Gaultier diventando direttore artistico del ready to wear donna della maison. Oggi, con tre collezioni all’attivo, ha dipinto il profilo della sua donna Hermès: tipicamente parisienne, elegantemente sofisticata e capace di sprigionare uno charme pudico e discreto. Quale è il carattere della donna Hermès di oggi? La donna Hermès non è interessata al tempo e allo spazio... vuole riempire il suo guardaroba di singoli pezzi timeless, in grado di essere trasformati. Credo che oggi l’abbigliamento debba seguire il più possibile il movimento del corpo; le persone si muovono in maniera differente a seconda dei pezzi che indossano e io nel mio design cerco di riflettere anche questo concept. Mi piace mettere l’accento su funzionalità, comfort, semplicità, con un contraltare di altissima qualità. Trascorro molto tempo in atelier pensando ai movimenti di una donna, a dove e come devono essere posizionate le tasche in un abito, a come deve essere il giromanica. Il gioco è tra libertà e creatività: la moda non è mai così superficiale come sembra. Quale è stato il suo approccio a un universo unico come quello di Hermès, fatto di stile ma anche di grande savoir faire artigianale? Quando Pierre-Alexis Dumas (direttore artistico della maison, ndr) mi ha chiamato sono rimasto stupito ma allo stesso tempo ho capito di condividere con Hermès gli stessi valori e lo stesso vocabolario estetico fatto di funzionalità, colore e grande qualità. Quali sono i valori su cui sta costruendo il suo percorso estetico? Sono sempre stato affascinato dal mondo Hermès e da parecchio tempo avevo come punto di riferimento questa fashion house. Quando sono arrivato qui ho visitato ed esplorato a fondo gli archivi per comprendere la cultura della maison, per assimilare la sua storia così incredibilile e comprendere la sua tradizione di artigianalità e savoir faire. Il tutto senza diventarne prigioniero. Hermès è un marchio con 175 anni di storia alle spalle, con un’eredità importante e una lunga storia del ready to wear che inizia negli anni 20. Voglio scrivere un nuovo capitolo nella storia del womenswear Hermès, tenendo in testa alcuni elementi di due talentuosi designer come Martin Margiela e Jean-Paul Gaultier che hanno tanto contribuito a questo progetto. Mi piacerebbe aggiungere il mio tocco personale per catturare un’immagine contemporanea da aggiungere alla naturale evoluzione della griffe. Quando penso a Hermès mi vengono in mente parole come heritage, pelle, colore, 20s... in una lettura moderna del presente. Qual è il suo primo souvenir legato al marchio?

Fin da bambino sono sempre stato affascinato dai colori e dall’opulenza, dalla generosità e dall’allure immaginifico delle vetrine Hermès... crescendo lo spirito anticonformista e l’eleganza raffinata della maison mi hanno catturato sempre di più. La filosofia e lo spirito di grande tradizione e maestria mi hanno stregato. Poter lavorare in questo atelier è sempre stato un sogno che ho coltivato, qualcosa che ho sempre sperato. Quale è stata l’ispirazione della collezione portata in pedana a Parigi? Quando creo una collezione sono sempre interessato alla qualità e alla bellezza. Questa stagione avevo in testa una sorta di viaggio affascinante perché credo che lo stile nasca sempre da una fusione di elementi anche molto differenti tra di loro. Mi piace sposare suggestioni differenti, mischiare influenze e tracce che arrivano da mondi diversi. Per questo per l’autunno-inverno 2012/13 ho cercato di concentrarmi sullo stile dei gaucho argentini mixato con una certa allure parigina, con un certo fascino francese che ha iniziato a delinearsi in maniera forte durante gli anni 70. Mi piaceva l’idea di poter far convivere in un’unica silhouette un certo spirito wild, selvaggio, libero e fortemente maschile con un côté più timido, romanticamente pudico. Credo che il rigore e la forza rendano una donna molto attraente, senza dimenticare la sua anima più femminile e charmant. Accanto al ready to wear lei si occupa anche di supervisionare tutto il mondo accessori, un universo fondamentale nei conti del marchio. Come ha approcciato questo fronte? Non seguo in toto gli accessori ma lavoro a stretto contatto con i designer che seguono questo segmento, in particolare con Pierre Hardy, che segue le scarpe, e con Couli Jobert, che si occupa di tutta la pelletteria. Quando lavoro sulla sfilata cerco di scegliere all’interno della collezione di accessori quelli che meglio possono accompagnare e sposare i look. Ma lavoriamo anche insieme per creare dei pezzi speciali; per esempio nell’autunno/inverno ho cercato di sviluppare, assieme al team accessori, una serie di fermagli da sera in legno laccato e abbiamo cercato di utilizzare il classico canvas Hermès su raffinate valigette quotidiane. Ho anche utilizzato numerosi gioielli in argento, in lacca o smaltati. Mi piace poter esplorare materiali differenti, testando la capacità dei nostri artigiani che sono dei veri maestri. Inoltre, proprio per poter accentuare il look delle ragazze in pedana, ognuna portava un cappello in feltro molto maschile. Per sottolineare la dignità e la forza di una silhouette strutturata e fiera. Qual è il suo obiettivo? Dove vuole portare la maison Hermès? Sto lavorando perché l’abbigliamento Hermès mantenga lo stesso charme e la stessa eleganza che ha avuto fino a questo momento. Ma, allo stesso tempo, voglio che incorpori le caratteristiche estetiche del contemporaneo, del design attuale. Sono interessato in tutto quello che può travalicare i limiti del tempo diventando immortale, forever. Ma allo stesso tempo voglio che ogni singolo pezzo sia intriso di modernità. Voglio seguire il mio istinto dando una visione attuale a una grande eredità.

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Fausto Puglisi

«Tutto ciò che faccio è spinto dalla passione. odio l’omologazione». questa È la parola di Fausto puglisi, enfant prodige della moda italiana, cresciuto tra cultura mediterranea e los angeles mood. Francesca Manuzzi

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iciliano, classe 1976 e con un sangue caliente che scorre nelle vene. Ma occhi e mente proiettati worldwide. E un talento intrinseco per il marketing. Che lo fa diventare, senza forzature, l’enfant prodige della moda italiana. Quasi un nuovo Gianni Versace, che piace a buyer, fashion editor e consumatori finali. E non ultime le star di mezzo mondo. Da Beyoncè a Madonna, talmente ammaliata da far vestire Nicki Minaj e M.I.A in total look Puglisi per la sua esibizione da colossal durante il Super bowl 2012. Fausto Puglisi, alla sua terza collezione vera e propria e con un background estetico costruito tra Messina, New York e Los Angeles, tratteggia una donna che non abbandona il suo fare sfrontato e rock, ma lo incanala in una nuova sensualità alla Bergodorf Goodman maniera, che ricorda le donne di Helmut Newton, delicatamente aggressive. Ossimoro che racconta riga per riga la sua creatività, tra il Mediterraneo e il cinema, con un retrogusto barocco figlio di un mix tra decorativismo mitologico e cultura street. Qual è il suo modus operandi? L’atto creativo è un colpo di frusta. Tutto ciò che faccio è spinto dalla passione. Non voglio sembrare retorico, ma cuore e desiderio sono il motore di tutto ciò che faccio, senza mezze misure. Io odio l’omologazione. Per me la moda è musica. Non ho una vera guide line da seguire. Anche quando disegno una collezione, ho sempre un approccio cinematografico, seguire un mood diventa spesso complicato. Per me Maria Antonietta vive nell’antica Roma, Versailles è in Sicilia, Nicki Minaj si fidanza con l’imperatore Caligola e Belle De Jour potrebbe essere un film di Cicciolina. Com’è l’universo abitato dalla donna Puglisi? Devo individuare il suo contesto geografico, culturale, emozionale. Penso ai mo-

menti della giornata, della notte. Le sue esigenze, le amicizie, la casa in cui vive o l’albergo in cui sta per entrare. Se è bionda o mora, il suo numero di amanti. Se è felice. E generalmente scelgo una colonna sonora. Mi piace fare il regista, lo sceneggiatore e il costumista allo stesso tempo. Solo così posso creare il più ricco degli abiti da sera, una semplicissima T-shirt o una gonna. Quali sono gli elementi che ispirano la sua creatività? Ho un team che amo. Il mio braccio destro, Masha Brigatti, o il mio assistente, sono sempre accanto a me. Litighiamo, ci scontriamo, c’incontriamo. Poi colleziono libri d’arte, amo raccogliere foto. Il mio mondo è un’orgia di immagini che spesso non seguono una logica. L’unica cosa che m’interessi è la bellezza. Non quella sussurrata, ma che laceri e seduca. Poi un quadro, una statua, un fiore, un corpo, un animale, un film, un libro. Amo i tessuti classici, come crepe, jersey, seta. E tantissima pelle, che è sexy. So a priori che il mio mare è il Mediterraneo. La storia che ho nelle vene, con il sole, il drappeggio della statuaria antica. Mi chiedo sempre se attraverso un vestito si possa raccontare l’atto eroico di Roma, Siracusa, Atene e Sparta, visto attraverso il cinema americano. I miei vestiti devono raccontare il mio mare e la sua forza. Ha un sogno? La dimensione del sogno e della bellezza sono per me il modus con cui creare. La mia esperienza è la narrazione di un sogno, ho sempre saputo ciò che avrei fatto, mi considero un marinaio emigrante con la valigia sempre pronta. Ciò che disegno è solo ciò che mi diverte vedere, toccare, plasmare. Può portarmi all’esasperazione, prima di tutto deve emozionarmi, rendere felice. La gente compra solo quando desidera. Il desiderio porta persino a uccidere. Continuerò a sognare e chi vivrà vedrà.

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Federico Piaggi e Stefano Citron @ Gianfranco Ferré I DUE DESIGNER STANNO RIDEFINENDO l’anima geometrica e opulenta dell’architetto della moda italiana. NEL SEGNO DELLA TRADIZIONE. Alessia Lucchese

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na nuova pagina si aggiunge alla storia di Gianfranco Ferré. Un capitolo ancora tutto da scrivere, dove la penna intinta nell’inchiostro inizia a scrivere su una pagina bianca. Timidamente, ma allo stesso tempo con decisione e fermezza. Perché quella che Stefano Citron e Federico Piaggi vogliono dipingere è una nuova tessera nel mosaico estetico della maison di via Pontaccio. Direttori creativi della griffe da due stagioni, ai due designer ex allievi dell’Architetto della moda è stato affidato il non facile compito di riportare il marchio ai fasti di un tempo. Sullo sfondo si staglia la difficile gestione di Paris group della famiglia Sakari a cui oggi fa capo il brand. Un incarico che la coppia creativa ha raccolto come una sfida, con l’obiettivo di traghettare la griffe verso un futuro ancora tutto da scrivere. Quanto l’eredità di Gianfranco Ferré influenza le vostre collezioni? Abbiamo lavorato per diverso tempo con l’Architetto, conosciamo molto bene la sua moda e credo che le sue sfilate abbiano acceso in noi l’amore per questo mestiere. Ma allo stesso tempo, tributargli ogni volta un omaggio è un percorso fine a se stesso. Più che dai capi d’archivio, prendiamo ispirazione da scatti fotografici, dalle campagne pubblicitarie storiche. Con questa collezione abbiamo voluto portare in passerella una donna così come lui avrebbe voluto che la disegnassimo, ma allo stesso tempo abbiamo cercato di esprimere a pieno il nostro stile. Qual è il messaggio che volete lanciare? Che la donna di Gianfranco Ferré vuole essere rigorosa, ma allo stesso tempo sensuale. Definirla sexy sarebbe sbagliato: noi pensiamo a una femminilità elegante, sofisticata, ma allo stesso tempo non algida e distante. E quest’anima un po’ miste-

riosa è esplicitata attraverso le nostre collezioni, dove i volumi e l’architettura aiutano a dare una mera apparenza di semplicità a costruzioni molto complesse. Non amiamo creare look troppo scenografici, il purismo è da sempre un tratto distintivo della nostra matita. Qual è la vostra donna di riferimento? Sensuale, contemporanea e raggiungibile. Un’eleganza rigorosa ma non impossibile. Quanto risulta attuale la lezione di Gianfranco Ferré? Moltissimo. E il nostro obiettivo è quello di proiettare la maison verso un futuro nuovo, che però non si distacca completamente dalla tradizione. Quando pensiamo a Ferré e al suo lavoro ci vengono in mente soprattutto le collezioni degli ultimi anni 80 e dei primi 90, quando il suo disegno era molto grafico e architettonico. Ferré era elegante, rigoroso, a tratti anche maschile, ma mai lezioso. È proprio su questo che vogliamo insistere, nel disegnare una donna dinamica e forte, non statica. Ogni abito è costruito secondo un’ottica tridimensionale, che cambia a seconda dei punti di vista. È un po’ questo che rende Gianfranco Ferré diverso dagli altri marchi... Rigore è una parola che affiora molte volte quando parliamo del nostro stile. Ma è quello che oggi ci rappresenta. Non vogliamo inseguire per forza le tendenze, vogliamo esplicitare il nostro gusto personale e seguirlo. Per l’inverno, per esempio, abbiamo voluto combinare la pulizia geometrica a dettagli opulenti. Ma senza essere carichi al 100% come spesso sapeva essere l’Architetto. Siamo una storia differente e vogliamo dimostrarlo seguendo questa direzione.

mff-magazine for fashion n° 65 - aprile 2012


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Bruno Pavlovsky @ Chanel La maison apre a Saint-Tropez e Capri con due boutique. «La Francia, come l’Italia, si trova in un contesto politico ed economico incerto. Ma bisogna reagire e mostrare gli artigli», ha detto Bruno Pavlovsky, presidente dell’area moda della griffe. Che entro la fine dell’anno aprirà a Nanjing, Shenyang e Dalian. Giampietro Baudo

C

hanel parte per un viaggio tra le località vacanziere haut de gamme, con un politica di boutique effimere, a scadenza. E contemporaneamente guarda alla Cina, mercato su cui scommettere per far crescere la piattaforma retail composta da 180 monomarca nel mondo. La maison della doppia C, che secondo una recente stima di Cheuvreux-Crédit Agricole group genera un giro d’affari di circa 3,2 miliardi di euro, mette l’accento sull’Europa. E reduce dall’inaugurazione a New York, in Wooster street, della mostra «The Little black jacket» punta il suo obiettivo sull località europee di vacanza chic. La prima è stata Saint Tropez, a rinsaldare un legame che dura da diverse stagioni. Ora tocca a Capri, con una boutique effimera in via Camerelle, nel giardino mediterraneo di una raffinata villa. Dove sarà presentata, oltre al prêt-à-porter e agli accessori primavera-estate 2012, anche la collezione demi couture Paris-Bombay. Il tutto pensando allo spirito croisière di mademoiselle Coco Chanel, che in un’altra città di villeggiatura elegante, Deauville, iniziò la sua carriera nella moda. E, secondo indiscrezioni, la cittadina francese dovrebbe essere la location della prossima sfilata cruise della griffe, dopo l’ultimo show nei giardini di Versailles. A maggio 2013, in occasione del centenario della prima boutique Chanel a Deauville, Karl Lagerfeld, anima creativa della maison, starebbe pensando a un grande evento celebrativo. Una sorta di viaggio rétro, in treno, partendo da Parigi e arrivando nella cittadina nel nord della Francia. Ma in questa estate 2012 gli occhi sono puntati su Saint Tropez e Capri, come ha spiegato in questa intervista a MFF Bruno Pavlovsky, presidente della divisione moda di Chanel. Oggi Chanel ha cinque boutique in Italia a cui si aggiunge questo spazio a Capri. Perché? Vogliamo testare la clientela italiana, capire se ha voglia ancora di prodotto Chanel e in quale misura. Queste boutique effimere (lo spazio di Capri in via Camerelle, 14/b sarà aperto fino al 30 settembre, ndr) avendo un tempo limitato di azione ci permettono maggiore flessibilità di gestione e ci permettono davvero di capire come funziona il mercato in loco. Dobbiamo dire che il negozio di Saint Tropez ci ha spinto a muoverci in questa direzione; il successo di questo monomarca francese (lo spazio all’1 di avenue du Général Leclerc sarà operativo fino al 7 ottobre, ndr) è stato incredibile.

mf fashion - 9 Giugno 2012

Perché avete scelto di investire su Francia e Italia, in un momento tanto delicato per l’Europa? La Francia, come l’Italia, al momento si trova in un contesto politico ed economico incerto. Ciò non toglie che bisogna reagire, mostrare gli artigli. E continuare a sedurre le donne con il nostro universo di stile. Parlando alla clientela locale, la migliore in assoluto in fatto di chic ed eleganza, e sviluppando il turismo asiatico in arrivo, che ha un ottimo potere di spesa. Abbiamo sempre scelto la location migliore, senza fretta. In Italia, per esempio, abbiamo cinque store. Fino ad ora sono andati bene adesso stiamo capendo se intervenire su Venezia o su Roma, ingrandendo la nostra storica boutique che serve tutto il sud dell’Italia. Quali sono le prossime aperture worldwide pianificate? Stiamo lavorando su piazze differenti per completare la nostra piattaforma distributiva che al momento conta su 180 monomarca. Stiamo lavorando su città come San Pietroburgo, Riyadh, Lussemburgo e Perth. E come state procedendo sullo sviluppo del grande, e sempre più importante, mercato cinese? La Cina sta crescendo bene. Entro fine anno apriremo altre tre boutique, a Nanjing, Shenyang e Dalian. Stiamo lavorando per risistemare lo store di Pechino e renderlo un vero e proprio flagship Chanel. E poi stiamo studiando il mercato cinese che sta cambiando e che ha bisogno di essere studiato, stagione dopo stagione, in modo approfondito. Proprio per questo motivo, per spiegare i valori della maison, abbiamo portato la nostra mostra «Culture Chanel» in due città location importanti come il MoCA-Museum of contemporary Art di Shanghai e il Namoc-National art museum of china di Beijing. E l’accoglienza è stata incredibile. Accanto alla Cina le grandi scommesse sono l’India e il Brasile anche per voi? Il Brasile e l’India sono mercati difficili ma molto interessanti. Li guardiamo da vicino anche se il problema dei dazi doganali di ingresso continua a essere un serio problema. Comunque entro fine anno apriremo uno store a San Paolo e svilupperemo anche il resto del Sud America con una boutique a Città del Messico. L’India è invece un mercato a parte, ancora fortemente legato alle tradizioni e ai costumi locali. Gli indiani con grande potere d’acquisto e voglia di lusso viaggione. E possono acquistare Chanel in ogni parte del mondo.


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Carlo Rivetti @ C.P. Company/Stone Island Il marchio che fa capo alla Sportswear company, si racconta in un percorso estetico di 200 creazioni, tra passato e presente. Ad accompagnare il tutto un libro, Stone Island ’982-’012 e la creazione di tre capi iconici. «La sperimentazione per noi non si ferma mai, è un meraviglioso meccanismo autoimplementativo», ha spiegato il suo fondatore. Elisa Rossi

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tone island compie trent’anni e li festeggia partendo da Pitti immagine uomo, con una mostra per condividere una lunga storia, dal 1982 al 2012, vissuta seguendo il fil rouge della ricerca e della sperimentazione, spingendosi spesso ai limiti dell’innovazione tessile. L’esposizione, che sarà curata dai creativi britannici Simon Foxton e Nick Griffiths, sarà aperta questa sera nella cornice della Stazione Leopolda e sarà visitabile fino al 7 luglio. L’exhibition, che vuole ripercorrere i temi di eccellenza esplorati dalle origini fino ad oggi dal brand da 51 milioni di euro di ricavi, prende forma in un racconto espositivo ma anche nelle pagine di Stone island ’982-’012, volume iconografico che sarà presentato in anteprima durante i giorni della rassegna fiorentina. Il tutto sarà svelato scegliendo un percorso semplificato nei tre capi-icona del gruppo, in un percorso che si snoda tra passato, presente e futuro, intriso di fuochi d’artificio di tecnologie. Come ha spiegato a MFF Carlo Rivetti, patron di Sportswear company a cui fa capo il brand. Da cosa nasce la voglia di raccontarvi attraverso una mostra? L’appuntamento, ospitato dalla Fondazione Pitti discovery e curato da Simon Foxton e Nick Griffiths, è un’occasione per mettere in mostra 30 anni di storia tutti dedicati alla ricerca e alla sperimentazione tessile, allo studio della funzione d’uso dei capi e all’innovazione, indagando spesso mondi lontani dall’abbigliamento. Questo appuntamento, aperto a tutti, vuole essere un modo per divulgare il contenuto delle nostre ricerche, mostrando il nostro cuore: l’evoluzione, la tecnologia e la ricerca, a cui diamo voce con i nostri tessuti, realizzati attraverso trattamenti innovativi. Ecco allora che gli spazi della Stazione Leopolda si suddividono in macro-aree popolate da più di 200 capi d’archivio affiancati dai trattamenti e dai processi produttivi che ci sono voluti per realizzarli: spalmature, resinature e placcature, fino allo studio della rifrangenza della luce e all’indagine dei materiali termo-sensibili, passando per le più particolari tecniche di tintura. Lo step successivo dei festeggiamenti passa attraverso un libro… Il passo contemporaneo alla storia mostrata è la presentazione della storia scritta, un libro, per rendersi leggibili a tutti. Arrivati al 30° anno di età, credo ci sia davvero qualcosa di interessante da svelare al mondo. Stone island ’982-’012 racconta il marchio e il suo know how attraverso più di 300 immagini di capi iconici, grazie a immagini pulite, dirette, volutamente didascaliche, a valorizzare una visione estetica nitida e affermativa che ricostruisce la storia dello sportswear alla maniera Stone island. Ne risulta una galleria di immagini, affiancate dalla descrizione accurata di ogni capo come i termini di un dizionario dal linguaggio chiaro e sintetico, ordinate cronologicamente per dare valore storico e rivelare l’evoluzione del marchio fino ad oggi. Cosa rappresenta la riproduzione dei vostri tre capi-icona? Uno sguardo a come eravamo, con la riproduzione fedele del nostro primo giubbot-

mf fashion - 19 giugno 2012

to in tela stella, identico a quello che ha segnato la nascita del marchio. Passando attraverso al come siamo, simboleggiato dal capospalla 30/30, con due esterni e due interni, intercombinabili in 30 diverse modalità d’uso. Fino a sbirciare a come saremo, col debutto del nostro primo tessuto riflettente. Ce l’abbiamo fatta, adesso la scommessa sta nell’implementare questo filato. Come sviluppate la ricerca e la sperimentazione continue sui materiali? La ricerca non si ferma mai. È un meraviglioso meccanismo autoimplementativo. Penso ad una palla di neve lanciata dalla cima di una montagna, che nella discesa inarrestabile diventa sempre più grande. La ricerca si muove esattamente nello stesso modo: parti da un’idea, e mano a mano che la sviluppi comincia a ingranare un meccanismo che coinvolge nuove persone, nuove situazioni, nuove vie, in uno stimolo continuo. Sta poi alle persone trasporre il materiale che ne deriva in realtà. Da Stone Island, in questi 30 anni, abbiamo provato a fare questo. Qual è il target di riferimento di Stone Island? I nostri consumatori fanno parte di una sorta di club, quando si incontrano per strada si riconoscono. Indossare Stone island è come far parte di una community, non a caso abbiamo da poco superato i 100 mila followers su facebook. Il badge Stone island viene esibito come la mostrina di un capo militare e portato con fierezza, perché denso di contenuto. Il nostro è un consumatore consapevole ed evoluto, che riconosce il prodotto vero, di qualità, e gli diventa fedele. In questo periodo di difficoltà economica si è alla ricerca di un prodotto che duri nel tempo: ecco, un giaccone Stone Island dura in media 19 anni. Come si riflette il vostro Dna estetico nel concept dei negozi? I nostri negozi hanno un carattere metropolitano, sintetizzato da una particolare struttura composta da un pavimento flottante in acciaio e da unit di pali mobili. È un layout fortemente flessibile e in continua trasformazione, sufficientemente algido per contenere il nostro tipo di prodotto, permettendogli di emergere. Eccezione è il nostro flagship tedesco, nell’isola di Sylt, dove il format è stato declinato nei temi del mondo della vela: è un’isoletta molto particolare, con un genius loci molto forte, e un concept cittadino sarebbe stato uno sfregio. Ci è sembrato perciò opportuno interpretare lo spirito del posto. Sono in programma nuove aperture nel corso dei prossimi mesi? Il mercato tedesco, da quando abbiamo aperto nel 2009 la filiale di Monaco, ci ha regalato grandi soddisfazioni, permettendoci di raddoppiare il fatturato proveniente dalla Germania, che oggi copre da sola il 10% del giro d’affari complessivo del marchio, arrivando a rappresentare, insieme a Italia, Inghilterra e Olanda, uno dei nostri mercati principali. La politica di espansione retail è quella di valutare caso per caso le opportunità interessanti, ma per questi motivi l’unica città in cui al momento ci piacerebbe aprire un nuovo monomarca è proprio Monaco di Baviera.


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Grazia Chiuri e Pierpaolo Piccioli @ Valentino Il menswear della griffe sarà protagonista domani sera con una sfilata negli spazi della Limonia del Giardino di Boboli. «Firenze, con la sua tradizione sartoriale, è la cornice ideale nella quale presentare la nostra visione al maschile», hanno spiegato i direttori creativi Maria Grazia Chiuri e Pierpaolo Piccioli. Chiara Bottoni

L’

unanime riscontro positivo raccolto durante l’esperienza fiorentina dello scorso gennaio, che diede il via alle celebrazioni del 50° anniversario di Valentino, avrebbe forse potuto lasciar presagire questo bis. E forse la sintonia creatasi tra la maison e il contesto in cui ogni semestre si svolge Pitti immagine uomo potrebbero porre le basi per una continua e proficua collaborazione anche in futuro. Certo è che domani sera, alle ore 19, nella settecentesca Limonaia del Giardino di Boboli nel cuore di Firenze, tutti i riflettori saranno puntati sul menswear per la primavera-estate 2013 della griffe di Permira. Uno show che ha tutte le carte in regola per replicare il successo della sfilata di gennaio, quando nelle sontuose sale barocche di palazzo Corsini andò in scena la visione couture dell’uomo di Valentino, tratteggiata dai due direttori creativi del marchio, Maria Grazia Chiuri e Pierpaolo Piccioli. Che si apprestano oggi a comunicare la sottile evoluzione di questo uomo, attraverso la presentazione di un guardaroba composto da pezzi iconici e desiderabilissimi. Gioielli sartoriali, frutto della commistione studiata tra sportswear e couture. «Abbiamo immaginato la collezione uomo per la primavera-estate 2013 come un nuovo tassello nella costruzione del guardaroba ideale», hanno spiegato i designer, «un’innovazione che nasce dalla memoria è la tematica che racchiude al meglio questa stagione estiva, carica di contrasti». Contrasti che nel mood di stagione si esprimono attraverso: «Un morphing di sport e couture, un gioco di pesi e leggerezze che crea nuovi volumi». Un percorso di ricerca attraverso dettagli, lavorazioni e materiali portato avanti dalla griffe in questi anni e che ha trovato la sua perfetta dimensione in Firenze, come hanno raccontato in questa intervista a MFF Chiuri e Piccioli. Come mai avete deciso di tornare a Firenze? Firenze, con la sua tradizione sartoriale e la sua apertura verso la moda, è senza dubbio una città molto vicina alla nostra visione dell’uomo Valentino. È la cornice

mf fashion - 19 Giugno 2012

ideale nella quale poter presentare la nostra estetica legata al menswear. Un luogo perfetto, unico nel suo essere così distante dalle dinamiche di Milano e Parigi. Alla luce di ciò, non avete pensato di trasformare Pitti immagine in un appuntamento fisso per presentare il vostro menswear? Tutto potrebbe essere, mai dire mai. Certamente qui abbiamo la possibilità di esprimerci in un contesto unico, meno urlato e più interiorizzato. Che cosa dobbiamo aspettarci di vedere in passerella? L’uomo Valentino ha una sua identità ben definita che, una stagione dopo l’altra, assume sfumature differenti. Il concetto di base del nostro lavoro resta quello di creare un guardaroba completo, composto da pezzi iconici. Il nostro lavoro sul menswear è fatto di dettagli, lavorazioni, usi inediti dei materiali. Un processo finalizzato a creare pezzi super desiderabili e senza tempo. Per questa stagione, la nostra ricerca si è concentrata sulla contaminazione tra un’attitudine sportiva, data dalla scelta di particolari accessori, da guizzi di colore e da dettagli interni come l’uso del crine accoppiato, con elementi di estrema sartorialità, ai limiti della couture. Per trasmettere la nostra idea di stile al maschile. Un esempio? Il nuovo mimetico, termosaldato e accoppiato in maniera inedita. A sei mesi dalla prima sfilata dell’uomo sotto la vostra direzione creativa, che tipo di riscontri avete avuto dal mercato? Come hanno reagito i clienti al vostro racconto estetico? Siamo molto contenti di come sta andando l’uomo Valentino. Per un marchio tanto identificato con il womenswear, non era scontato poter arrivare ad avere un posizionamento di questo tipo nel menswear. È per questo che siamo entusiasti di essere riusciti a conquistare a 360 gradi il pubblico degli addetti ai lavori. Negozi di grande ricerca hanno accolto con enorme entusiasmo la nostra visione di uomo nuovo. Capace di essere contemporaneo e innovativo ma allo stesso tempo sartoriale e couture.


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Renzo Rosso @ Diesel/Otb - Only the brave Un megaevento di Diesel a San Paolo per festeggiare un piano brasiliano di sviluppo da oltre 100 milioni di dollari entro il 2016. «Il savoir faire italiano si difende anche attraverso le acquisizioni», ha detto il numero uno della holding, che ha messo a disposizione 5 milioni di euro del suo patrimonio personale per un progetto in aiuto dell’imprenditoria emiliana colpita dal terremoto. Stefano Roncato

«I

l Brasile ama Diesel». Con queste parole Renzo Rosso inizia a raccontare la sua nuova avventura in uno dei mercati che più stanno attirando l’attenzione. Da accendere con un megaevento per festeggiare la nascita di una newco con il partner locale, Groupo Aste, e una doppio opening a San Paolo. Con cocktail in negozio e maxifesta al Ballroom, uno dei locali paulisti più in voga. «Siamo molto soddisfatti delle due recenti aperture in Brasile, a San Paolo, in Haddock Lobo e a JK Iguatemi», ha spiegato a MFF Daniela Riccardi, ceo di Diesel, «i due negozi di circa 600 e 300 metri quadrati hanno superato i loro budget in quattro settimane di vendita, con prospettive di resa al metro quadrato molto elevate. Prevediamo di aprire ulteriori tre store entro l’anno (Recife e Rio de Janeiro) e altri due entro il primo semestre 2013. Ci aspettiamo entro il 2016 di superare i 100 milioni di dollari di fatturato complessivi con un piano aggressivo di aperture retail e lo sviluppo del business wholesale per tutte le collezioni del brand». Un piano di grande sviluppo sia per il brand ma anche per la holding Otb-Only the Brave. «Vogliamo continuare a crescere, pensiamo sempre ad acquisizioni, azioni che in certi casi possono anche aiutare i marchi nati in Italia», ha poi spiegato in questa intervista a MFF lo stesso Renzo Rosso, che proprio ieri ha lanciato anche un’operazione no profit per aiutare le popolazioni e le realtà produttive emiliane colpite dal terremoto (vedere box in questa pagina), «il made in Italy va preservato». Signor Rosso, perché una nuova strategia in Brasile? Abbiamo trovato il giusto partner per dare al paese quello che il paese adesso vuole. C’è un Pil eccezionale in crescita, è un mercato pieno di persone di alto potenziale di acquisto e di investimento. Per noi già contribuisce in tutti i paesi del mondo perché il turista che spende di più in Diesel è quello brasiliano. Abbiamo rimesso a posto l’organigramma societario e creato una newco (la Brave company), aperto due negozi che stanno andando bene, sono già al 20% over budget. Come avete affrontato i dazi doganali, che sui prodotti importati pesano a livello di prezzo finale? Siamo riusciti a dare un prodotto a un prezzo più giusto. L’headquarter si fa carico di una parte di contribuzione. Nel building del negozio di Haddock Lobo avranno sede anche gli uffici di Diesel in Brasile, inclusi gli showroom di vendita. Dopo Milano e New York, cosa ne pensa di sfilare a San Paolo, magari durante la fashion week?

mf fashion - 26 luglio 2012

È un’idea che mi piace molto, lo faremo sicuramente. Ho in mente un grande evento per il prossimo anno presumibilmente a ottobre, per festeggiare il successo che stiamo registrando su questo mercato. Come sta cambiando il prodotto Diesel? Sono fiero perché è stato innalzato, più qualità più made in Italy. Meno fashion esagerato. C’è un team nuovo che ci sta lavorando un anno e mezzo. La donna è affidata a uno stilista che esce da Its (il concorso annuale per creativi che si è appena svolto a Trieste e che ha come main sponsor proprio Diesel, ndr). È bello vedere che i talenti di Its adesso sono negli uffici stile più belli del mondo. In questi giorni è uscita la nuova campagna scattata da Steven Meisel, con Coco Rocha presente con lei a San Paolo… Potrebbero esserci delle novità nella comunicazione. Vorrei rivoluzionare un po’, tornare a essere «brave» con classe. Ci sarà qualcosa di significativo per l’anno prossimo. Perché questo cambiamento? Ci vogliamo posizionare come la vera alternativa al mondo del lusso nel casual. E quindi stiamo innalzando il prodotto. Non funzionano le vie di mezzo. O alto di gamma o basso di gamma. E noi andiamo verso l’alto come lifestyle brand per permetterci di entrare nelle location delle vie importanti, dove lo scontrino medio è alto. Come vede la vendita di Valentino? È triste vedere Bulgari o Valentino in mano a società straniere. Tra qualche anno cosa rappresenterà l’Italia? Il Governo dovrebbe intervenire, fare qualcosa perché i brand iconici rimangano in Italia. Non abbiamo più niente da esportare, non ci rendiamo conto che fra qualche anno rimarrà poco. Io sto diventando una mosca bianca. È vera la voce della vostra offerta per comprare Valentino? Dicono. Ho sentito. Lei continua a ricevere dossier sulla sua scrivania e a valutarli? C’è una bella creatività in giro. Ma dopo l’esperienza Valentino sono un po’ triste. Il nostro gruppo è destinato a fare acquisizioni, abbiamo un cash flow positivo e non usiamo banche. Investire in acquisizioni permette di salvaguardare il made in Italy. I governi francese e inglese salvaguardano i giovani. Capisco che paghiamo anni di politica sbagliata. Ma siamo troppo in mano a noi stessi.


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Umit Benan @ Trussardi «CREARE un sogno, non un SEMPLICE guardaroba». QUESTO IL MANTRA DI Umit benan per RISCRIVERE IL MONDO DEL LEVRIERO. Alessia Lucchese

«O

ggi per me è più importante offrire un sogno, non solo un guardaroba. Ci sono milioni di marchi che offrono guardaroba. La differenza è riuscire a fare entrambe le cose». Umit Benan aveva già le idee chiare un anno fa, quando debuttò al timone creativo di Trussardi con la sua prima collezione menswear. E lo ha confermato con l’ultimo show, negli spazi di una villa dei primi del Novecento a Milano, con una collezione ispirata al giovane erede della famiglia del Levriero, Tomaso, fotografato mentre si gode le vacanze con gli amici. Un tassello che porta a compimento la visione del designer turco, in un continuo gioco di rimandi tra un’heritage affascinante e un gusto contemporaneo e decontracté. Perché ha scelto come icona Tomaso per raccontare il nuovo uomo di Trussardi? La famiglia Trussardi è il mio point of reference quando penso a ogni nuova collezione. Ci sarà sempre un link a Nicola o a Tomaso nei capi e negli accessori per l’uomo. Il contatto con Tomaso, il suo modo di vivere, le sue passioni, il modo in cui è cresciuto e le sue visioni servono tanto per il mio lavoro. Se dovesse descrivere l’uomo di Trussardi in tre aggettivi quali sceglierebbe? È un uomo che ama la vita di qualità, che ama viaggiare. È un uomo che ama le donne. Quanto è importante lo stile della famiglia Trussardi nel suo lavoro? Non sono importanti gli abiti che scelgono, ma il loro stile di vita. Il loro approccio alla vita, la loro cultura, l’educazione e le loro abitudini.

Il menswear di questa stagione è molto Trussardi ma anche molto Umit Benan. Come riesce a conciliare due stili apparentemente così distanti? In realtà non sono così distanti. Anche Nicola Trussardi era un uomo con delle visioni differenti da quelle di uno stilista. Il suo lavoro rispecchiava la sfera personale: scattava le campagne pubblicitarie con suoi figli, i cataloghi nella sua casa… Amava lo sport e la bella vita, quella di qualità dove il lusso è cultura, con un’eleganza e un’educazione sopra le righe. Nell’ultima sfilata ha recuperato alcune icone come l’ovale e la borsa lavoro di Nicola Trussardi. Com’è confrontarsi con una maison dall’heritage così importante? Qual è il suo rapporto con l’archivio? Ogni stagione riguardo tutto l’archivio e ogni volta trovo qualcosa che mi ispira per la collezione successiva. È inutile cambiare un capo, cambiarne l’originalità, la storia. Trovo sia più intelligente presentarlo con una nuova visione e in giusto contrasto. Qual è il bilancio di questo primo anno come direttore creativo di Trussardi, soprattutto per quanto riguarda il menswear? L’obiettivo era quello di proporre la vera anima di Trussardi, volevo fare in modo che le collezioni parlassero del Dna del marchio. Sono soddisfatto perché penso di esserci riuscito, ho imboccato la strada giusta: la parte più difficile è stata fatta. Ora si tratta di fare sempre meglio. Grazie a questa esperienza sono cresciuto molto professionalmente. Quali saranno i prossimi step per la crescita dell’uomo di Trussardi? Sarà un uomo sempre più completo, stiamo costruendo un vero e proprio lifestyle con un capo e un accessorio Trussardi per le esigenze più diverse. Vedere le prossime collezioni per credere…

mff-magazine for fashion n° 66 - LUGLIo 2012


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Italo Zucchelli @ Calvin Klein ITALO ZUCCHELLI RIPERCORRE I DIECI ANNI ALLA GUIDA DELLA GRIFFE AMERICANA. DAL RAPPORTO CON CALVIN KLEIN alLA SFILATA SHOCK DEGLI ULTRA-LEGGINGS. Stefano Roncato

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enso di aver causato uno shock. Quando il modello è tornato nel backstage dalla passerella dicendo queste parole, ho capito che qualcosa era cambiato». Sorriso e niente paletti per Italo Zucchelli, quando racconta con calma apparente dietro occhi cerulei e mostra un atteggiamento dall’easyness disarmante. Un’allure moderna che non deve lasciare tranquilli, regala sorprese, infiamma improvvisamente. Con un dettaglio inaspettato, con una graffiata di sensualità in un ricordo. Senza accorgersi, rende affamati. Di frasi, di immagini, di segreti, di pelle. Proprio come la sua moda. Proprio come quel Dna a stelle e strisce e a due velocità, clean e controversial, very Calvin Klein, che è stato capace di metabolizzare. O meglio esaltare come direttore creativo della Calvin Klein Collection uomo. Ruolo ormai vicino a un giro di boa importante: quasi un decennio, da quell’aprile del 2003 quando avvenne la promozione ufficiale. Che MFF-Magazine For Fashion ha deciso di raccontare a quattro mani con il designer. Un’intervista e un racconto visivo aprendo gli archivi della maison. Scegliendo quei pezzi-idol, sensual intellettuali, dallo stile pulito con un coup de théâtre, come quei leggins eyecandy che sono rimasti nell’immaginario. Raccolti in uno shooting esclusivo nella sede milanese, dove sfila proprio il menswear della collezione ammiraglia. Che per la primavera-estate 2013 si è ispirata a nuovi «American heroes». Come è stata l’avventura da Calvin Klein? Dopo sei mesi che l’ho conosciuto, mi ha richiamato perché stava cercando un designer con esperienza nell’uomo per disegnare la donna. E io non ho resistito. Sono andato e sono entrato in azienda nel 2000. Ho lavorato con lui sul womenswear per un anno e poi due anni sull’uomo. E nell’aprile del 2003 la nomina a direttore creativo dell’uomo per la Collection e la prima sfilata con la stagione primavera/estate 2004. Prima ero dal Jil Sander. Una coincidenza. Il giorno del contratto a Calvin Klein era lo stesso giorno in cui lei ha lasciato la sua azienda. Si vede che era destino. Un bilancio di quell’incontro? Mi ha cambiato la vita. Gli ho anche scritto una lettera. Quando sono stato nominato per i Cfda awards (gli Oscar della moda Usa del Cfda-Council of fashion designers of America, ndr) gli ho mandato dei fiori. Calvin è stato un mentore, un role model. Abbiamo avuto una relazione di lavoro divertente e positiva, stimolante. È in assoluto una living legend. Cosa ha pensato quando ha vinto il Cfda awards nel 2009? Soddisfazione. Sapere che vieni considerato dagli altri designer, dai giornalisti e da chi è coinvolto nel votare è una bella sensazione. Qualche ricordo speciale con lui? Alcuni non li posso dire. Comunque sempre divertenti. Lavorare con lui è stata la cosa fondamentale, mi ha davvero ispirato il modo in cui veda una cosa. Gli piace o non gli piace. Calvin è diretto e veloce, ha una visione chiara delle cose e una visione del brand. Dal prodotto all’advertising, all’immagine… Cosa pensa del ritorno di Jil Sander? Mi sento privilegiato ad avere lavorato con due designer come loro. Hanno una visio-

ne simile ma espressa in modo diverso. Jil è più concettuale. Calvin più americano outgoing, easy. Lui è quello più hardcore minimalist. Vive in una casa purista, come una scatola bianca. E lei come si definisce? Sono vicino a questa estetica. È la mia seconda natura. Quello che faccio e quello che sento si avvicina a questo. Nella mia stessa casa mi piace avere pochi mobili, voglio un ambiente moderno. Persino la mia casa al mare a Far Island è tutta a vetri. Com’è essere un italiano che disegna un marchio americano? Direi che è un segno dei tempi. Basti pensare a un belga come Raf Simons o un tedesco come Karl Lagerfeld alla guida di due maison storiche francesi come Dior o Chanel. Essendo italiano, porto un elemento di fantasia in più, forse qualcosa di diverso. Nell’ultima collezione, abbiamo parlato di un eroe americano che è confident, good looking e powerful. L’uomo americano che si sogna di essere. C’è un segno estetico che sta cambiando? Meno esangue, più maschile… L’uomo oggi si cura. Va in palestra. Ricorre anche alla chirurgia estetica. Per me l’uomo Calvin Klein è sempre stato forte, sexy e un po’ sfacciato. Il primo ricordo era una foto nell’82/83 su L’uomo Vogue con una campagna dell’intimo scattata da Bruce Weber a Mykonos. Chi vede i modelli in sfilata deve dire: «Voglio sembrare così». Ha mai avuto paura? Paura è una parola grossa. All’inizio ammetto che ero incosciente. Dopo due o tre collezioni mi sono reso conto. Qual è stato uno dei momenti di passaggio? Era la mia settima collezione. E sette è un numero un po’ magico per me. Ho fatto sfilare improvvisamente dei leggings molto aderenti e anche leggermente trasparenti. Primo look, inizia il brusio. Secondo leggings, il brusio diventa costante. Il modello torna nel backstage, un po’ sbiancato: «Penso di aver causato uno shock». Qualcuno ha poi scritto che si poteva vedere anche se era circonciso. Ma da quel momento, c’è stata più attenzione, una grande attenzione. Mi hanno visto con altri occhi. Aveva scoperto il segreto? Mi aveva sempre colpito quel tocco controversial. La campagna di Kate Moss nuda sul divano o Marky Mark con l’underwear. Elementi di attrazione su una base clean. Ma era relativamente più facile renderlo con un’immagine e con una campagna. Più difficile farlo in sfilata. Dove si vede tra 10 anni? Una domanda da dieci milioni di dollari. Vorrei fare di più, anche nuove linee, per continuare a esprimermi. Mi piacerebbe fare la donna che sarebbe sempre minimal. Ha un sogno? Non è bello se uno smette di avere sogni, sicuramente. Ma io sono soddisfatto, ho un team meraviglioso. Mi sento fortunato perché so che faccio quello che volevo fare nella vita.

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Patrick Thomas @ Hermès Ricavi a +21,9% e utile a +15% per la griffe, ha spiegato il ceo, si prevedono risultati brillanti per l’intero esercizio. «È tutto merito della famiglia» Chiara Bottoni

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l lusso assoluto di Hermès continua a brillare nel firmamento delle griffe dai bilanci stellari. Con un utile netto in progressione del 15% a 335,1 milioni di euro che ormai supera il 20% dei ricavi, un target di crescita annuo delle vendite a tassi costanti nell’ordine del 12% e la certezza, almeno per il prossimo ventennio, che gli eredi della famiglia potranno ancora mantenere il controllo grazie alla holding H51, la griffe francese marcia dritta verso i suoi obiettivi. Puntando sull’eccellenza, sull’artigianalità e sulla qualità assoluta, valori importanti e ragione della fioritura indiscussa del gruppo. Un concetto sottolineato in questa intervista esclusiva a MFF da Patrick Thomas, ceo di Hermès, a margine della presentazione dei risultati di un semestre ancora una volta in crescita, con un turnover di 1,59 miliardi (+21,9%), grazie alle performance di mercati come Asia (+25%) ed Europa (+21%) e all’andamento di tutte le categorie di prodotto. Con un significativo exploit della divisione abbigliamento (+21%) a 334,7 milioni, dell’orologeria (+23%) e della voce Jewellery and art of living (+50%). Sei mesi segnati anche da brillanti dati di profittabilità, come dimostrato dall’utile operativo, cresciuto del 22,2% a 510,9 milioni, con un’incidenza del 32,1% sulle vendite. Dati che confermano al contempo la tenuta del mercato del lusso e l’efficacia della strategia sposata dalla famiglia Hermès, come ha precisato Thomas a MFF. I risultati di questo semestre, oltre a confermare l’inarrestabile ascesa di Hermès, tracciano un chiaro quadro della tenuta del mercato del lusso. A cosa attribuisce questa resistenza? Il fattore chiave della tenuta del mercato del lusso è attribuibile alla crescente richiesta di prodotti di qualità, capaci di comunicare valori che vanno al di là della mera funzione d’uso. Nel mondo sta crescendo il numero di consumatori evoluti che desiderano sperimentare l’eccellenza. Hermès, forte della sua tradizione, è in grado di garantire proprio questo: la perfezione di ogni prodotto frutto di un know how maturato nel tempo. Un oggetto Hermès è destinato a durare, a essere tramandato di generazione in generazione. E, questo, è un plus che distingue l’high luxury dal resto dell’offerta. Tutte le categorie di prodotto hanno registrato performance lusinghiere. Anche l’abbigliamento, che sta conquistando un ruolo di primo piano nel vostro business. Come giudica il lavoro dei vostri due direttori creativi, Veronique Nichanian e Christophe Lemaire? Siamo orgogliosi della crescita archiviata in questi anni con il prêt-à-porter. In particolare, il menswear, la cui direzione creativa è affidata ormai da 24 anni a Veronique Nichanian, è un successo a livello mondiale. Le prime collezioni di Christophe Lemaire (lo stilista ha debuttato alla direzione creativa del womenswear della griffe con l’autunno-inverno 2011/12, ndr), invece, ha riscosso grandi consensi, soprattutto in Asia. A dimostrare come il designer sia stato capace di comprendere la nostra filosofia e le nostre priorità.

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L’Asia è diventata anche per voi ormai il primo mercato in termini di vendite. Come commenta questa crescita dell’Estremo oriente? La Greater China, ovvero la Cina, Hong Kong e Macao, sono oggi il primo mercato per Hermès con una quota del 21% delle vendite. La Cina, da sola, pesa invece per un 8%. I cinesi, in particolare, stanno acquisendo velocemente sempre maggiore importanza. Hanno scoperto il mondo Hermès e ne hanno sposato i valori. In Cina avete anche lanciato Shang Xia, un marchio dedicato al mercato locale… Shang Xia è una società a sé stante rispetto a Hermès. Che però condivide la nostra filosofia di eccellenza assoluta. Il 7 ottobre apriremo una nuova boutique a Pechino ed, entro la fine del 2012, approderemo in Europa, con uno store a Parigi in rue de Sevres. A proposito di retail, come sta procedendo la strategia di Hermès? Abbiamo due differenti strategie, una per i mercati maturi e una per i Paesi emergenti. In Europa e negli Stati uniti, aree dove Hermès ha un presidio consolidato, intendiamo mantenere grossomodo lo stesso numero di store, aumentandone la metratura per ospitare una crescente gamma di prodotti. Le nuove aperture riguarderanno solamente mercati come l’Asia e il Medio oriente. Il prossimo anno abbiamo in calendario un grande opening a Shanghai. Sono in vista nuove brand extension? Da tempo si attende un eyewear Hermès… Non abbiamo nessun programma a medio termine di lancio dell’eyewear. Per il momento, le uniche brand extension che abbiamo sono il progetto di ricerca Petit h, una linea curata da Pascale Mussard, rappresentante della sesta generazione della famiglia Hermès, che riconverte oggetti e materiali scartati negli atelier e nelle fabbriche del gruppo, e la collezione di arredo, presente ormai in 45 dei nostri store. Uno dei vanti di Hermès, e uno dei suoi motivi di forza, è la presenza dominante della famiglia nell’azionariato. Cosa può dire in merito alla holding H51, costruita dagli eredi per blindare il capitale della maison? Grazie ad H51, il 52% delle azioni in mano agli eredi della famiglia è intoccabile e lo sarà per i prossimi vent’anni, rendendo impossibile qualsiasi tentativo di scalata. Oggi il nostro obiettivo è semmai quello di ridurre la quota di azioni in mano a Lvmh (pari al 22%, ndr). Ho avuto con il gruppo di Bernard Arnault una conversazione amichevole per convincerli a vendere una parte delle azioni detenute. Hermès è una società quotata in Borsa e, per definizione, deve garantire sul mercato un certo flottante. Costruire H51 è stata per noi una priorità. Senza la presenza della famiglia, sono convinto che il prezioso patrimonio della maison e i suoi valori sarebbero andati persi. La forza della maison Hermès è, in fondo, legata alla visione che la famiglia ha avuto in questi anni. E che ha reso unico e inestimabile il patrimonio di questa griffe.


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Michael Burke @ Bulgari In occasione del raggiungimento dei 20 milioni di dollari di raccolta per Save the children, Michael Burke, nella sua prima intervista come ceo, annuncia le strategie e i piani della storica maison romana di haute joaillerie rilevata da Lvmh. Chiara Bottoni

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ulgari sceglie la sua città, Roma, per celebrare il raggiungimento di un importante obiettivo charity in linea con la filosofia della griffe di preziosi, entrata nel 2011 nell’orbita di Lvmh. Ieri, infatti, è stato ufficialmente comunicato il raggiungimento del traguardo di oltre 20 milioni di dollari (circa 16 milioni di euro) raccolti con le vendite dell’anello appositamente realizzato a favore dell’organizzazione non profit Save the children. E andati a sostegno di oltre 500 mila bambini in 20 paesi di tutto il mondo. Un progetto benefico avviato nel 2009 e che avrà come nuova ambasciatrice mondiale l’attrice cinese Zhang Ziyi. Come annunciato in occasione della conferenza stampa alla quale hanno presenziato Michael Burke, ceo di Bulgari, Francesco Trapani, amministratore delegato della divisione gioielli e orologi di Lvmh, Claudio Tesauro, presidente di Save the children Italia, e il fotografo Fabrizio Ferri, autore degli scatti fotografici esposti a Palazzo Pecci Blunt nella mostra «Stop. Think. Give» che, fino al 18 novembre, raccoglierà una selezione dei 150 volti di personaggi celebri che hanno sostenuto l’iniziativa. Ma l’evento è stato soprattutto la cornice della prima intervista a Michael Burke, nominato lo scorso marzo ceo della griffe romana. Che ha raccontato a MFF il lavoro fatto in questi primi mesi alla guida della maison Bulgari, inglobata nella divisione orologi e gioielli di Lvmh (il cui turnover complessivo per i primi nove mesi si è attestato a 2 miliardi di euro in crescita del 68%). Cosa significa per Bulgari sostenere un’iniziativa charity di questa portata? Il valore di iniziative di questo tipo non dev’essere misurato a livello di gruppo ma valutato per quello che ogni singola persona ha dato. Ogni individuo con cui ho parlato in questi mesi, dagli orafi artigiani di Valenza che hanno fisicamente realizzato questo anello a chi l’ha disegnato, dai dipendenti dell’azienda ai nostri clienti, chiunque ha manifestato un atteggiamento di grande orgoglio nel partecipare al progetto. Ecco,

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per noi questa è stata già una grande vittoria. E di questo ho voluto ufficialmente ringraziare tutti. Milioni di persone hanno dato il loro piccolo contributo per un nobile obiettivo. E vorrei ringraziare anche Pietro e Camilla Valsecchi che ci hanno donato il loro palazzo per questo evento. A circa sette mesi dal suo insediamento in qualità di ceo, che tipo di percorso ha intrapreso con Bulgari? Quando sono arrivato in Bulgari quello che c’era da fare era solo proseguire un percorso avviato generazione dopo generazione dalla famiglia. Il mio compito oggi sarà guidare il marchio verso il futuro nel pieno rispetto del suo passato. A livello di singole categorie di prodotto come intende operare? Continuerà a esserci un grande focus sul core business di orologi e gioielli, le vere radici del marchio, che vorremo ulteriormente rafforzare. Confermeremo poi l’impegno sulla pelletteria e su profumi e cosmetici e proseguiremo con accorte e ragionate aperture di Bulgari hotel nel mondo. La prossima tappa sarà Shanghai nel 2015. E che cosa può dire invece dei singoli mercati di riferimento? So che la cosa può stupire ma nel 2012 le vendite in Europa sono andate davvero bene. Sono convinto che questo dipenda dal desiderio dei new spender di acquistare certi prodotti hi-luxury nei luoghi dove questi affondano le proprie origini, piuttosto che in un qualsiasi mall del mondo. Credo che questo sia il futuro del lusso. Dove saranno concentrati i nuovi opening della maison? Apriremo il prossimo mese un negozio diretto a San Paolo, rispondendo alle richieste di una Middle class in continua espansione. Nel terzo trimestre del 2013 toccherà poi a Istanbul. E la Cina? A oggi abbiamo 35 negozi diretti in città tra città primarie e secondarie ma non vogliamo andare molto oltre. Il cliente cinese facilmente si disinnamora di un brand quando diventa troppo diffuso e troppo distribuito. Il lusso richiede comunque una certa selettività. E questo sarà l’imperativo che guiderà la crescita futura di Bulgari.


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Patrizio Bertelli @ Prada Il numero uno di Prada è a Auckland per il varo del catamarano AC 72 che parteciperà alla Coppa America 2013. Il passo dalla vela al fashion è breve. «La competizione fa bene anche alla moda. Bisogna mettersi in testa di lavorare di più e di sperimentare. Come abbiamo fatto con New Zealand, la creazione di piattaforme produttive condivise da più marchi rappresenta una chiave per il futuro». Stefano Roncato

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osa rappresenta per me l’America’s cup? Un sogno, una sfida. Un po’ rappresentiamo l’Italia nel mondo. I sogni non devono essere vissuti da soli, ma condivisi in un Paese dove la vela può farsi onore». Con queste parole Patrizio Bertelli smette solo per un attimo i panni di numero uno del gruppo Prada per raccontare la nuova avventura di Luna Rossa Challenge 2013, di cui è patron. Una storia di agonismo sportivo, che inebria con orgoglio patriottico. Una grande, imponente bandiera tricolore svetta nel porto di Auckland, accanto alla base Luna Rossa dove è custodito gelosamente il catamarano AC 72 , a poche ore dal varo dove non poteva mancare anche Miuccia Prada che ha fatto da madrina. In questa sfida lanciata con il Circolo della Vela Sicilia, Luna Rossa combatterà a San Francisco per la 34ª America’s cup, e prima con la propedeutica Louis Vuitton cup. Forte di soluzioni tecnologiche all’avanguardia come la nuova wing, la vela rigida come un’ala di aeroplano lunga quasi 38 metri costruita con carbonio e materiali d’elicottero. E promette un’alta velocità stimata a poppa di 42 nodi: «Una barca che fa paura. Anche a chi la guida», ha scherzato lo skipper Max Sirena. Che si riflette sulla ricopertura specchiata e argentea. Mirror mirror, sussurra qualcuno. «È stata un’idea di mio figlio Lorenzo, che ci ha mandato immagini di aerei d’epoca, monomotori laminati», ha continuato Patrizio Bertelli raccontando come alla fine sia davvero una questione di famiglia. Che vede scendere in campo anche l’azienda di famiglia, ossia Prada come main sponsor per un investimento di circa 45 milioni di euro. «Siamo qui per restare e già confermiamo la nostra presenza anche alla prossima America’s cup. Chiaramente speriamo di essere i defender», ha spiegato in questa intervista a MFF lo stesso Patrizio Bertelli, alla guida di un gruppo da 1,54 miliardi di euro di ricavai semestrali (+36%), entrato nell’America’s cup hall of fame. E mentre si parla di vela, piano piano si svela anche il suo pensiero a 360° sul futuro della moda e del made in Italy. È stato difficile tornare a Luna Rossa? Era un progetto che avevamo messo in naftalina. Ma poi ci sono stati tre segnali. Il punto di rottura è stato quando il challenger italiano ha rinunciato. Abbiamo toccato il fondo per il mondo della vela. In quei giorni avevamo vinto il mondiale degli extreme 40. Ed eravamo andati in Borsa con successo. Ci siamo sentiti un po’ come spinti a tornare, forti anche della capacità finanziaria dell’azienda. A spingere sono stati anche i risultati della quotazione a Hong

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Kong? L’andamento parla da solo. In 14 mesi siamo cresciuti più del 50%. In valore da 9,5 miliardi di euro di giugno 2011 a 15 miliardi attuali. La quotazione fin dall’inizio era nata per una serie di motivazioni semplici. Nel 2001 dovevamo andare in Borsa esattamente dopo una settimana dall’11 settembre e ci siamo trovati con il cerino in mano. Dal 2001 al 2005 abbiamo lavorato per diminuire li debito. Dal 2006 eravamo a posto con i conti, avevamo il debito della holding per le acquisizioni. Con la quotazione a Hong Kong come prima cosa ci siamo liberati dai debiti e siamo tornati a lavorare con la nostra liquidità. Web, film, arte ed eventi non canonici. In questo momento vi state muovendo su molti canali della comunicazione… Rientra nella nostra pianificazione. Puntiamo su operazione di carattere retail e di comunicazione. Non facciamo investimenti extra attività come quelli immobiliari e non esamineremo acquisizioni, preferiamo sviluppare le nostre linee interne. Con uno sviluppo in tutto il mondo ma anche e soprattutto in Europa. Un mercato molto visitato da turisti e dove essere presenti. Si parla di un investimento di circa 45 milioni per Luna Rossa. Ci sono state critiche? L’Italia adesso non vive un momento sereno. Prada aveva la disponibilità finanziaria e questo è stato visto positivamente. Abbiamo valutato anche un aspetto nazionalistico, riuscire a fare delle cose internazionali. Dobbiamo abituarci a pensare che gli sponsor come banche e mondo finanziario non potranno comparire per un po’. Il pubblico sportivo vorrebbe finalmente vivere e partecipare a una vita più serena del Paese, partecipare a successi della vela, degli sport. Se guardiamo la Spagna, che non ha avuto momenti facili, ha potuto tenere alto il morale grazie ai mondiali e agli europei di calcio. Quando inizierà la Coppa America ci sarà un grande seguito, sarà luglio e agosto con regate che andranno in onda verso le ore 10 di sera italiane. Un orario ottimale. Già immagino le persone che si riuniscono in una cena a vedere la vela. Challenger, defender, alleanze come quella con il team neozelandese In questi giorni si sentono termini velistici che sembrano adattarsi bene anche al mondo fashion… Diciamo che le squadre qualunque siano i settori, vela, calcio o moda cercano di avere una propria identità, comunque. Ma quando si riesce a condividere certi percorsi con un avversario si fanno cammini più veloci. Nella moda si è troppo individualisti, invece, dove dovremmo essere alleati. Ad esempio, la scelta di trattare degli spazi insieme in due o tre renderebbe le trattative econo-


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miche più favorevoli. Come in certi casi fanno i francesi. Invece la prima cosa sembra essere interessante da capire è solo chi va davanti, chi decide per altri. Ma è la storia dei comuni, dei guelfi e dei ghibellini... è il nostro Dna. Cosa immagina per il futuro della moda? Rompere lo schema un po’ troppo di difesa del proprio territorio. Ricordo che al Mipel c’era un consiglio che decideva in modo netto. Una sana concorrenza e l’arrivo di marchi porta maggior lavoro e interesse, una maggiore cultura. Oggi non ci sono più le condizioni della fine anni 80 quando c’erano nomi italiani come Giorgio Armani, Gianni Versace, Gianfranco Ferré che erano la punta di diamante della moda dell’epoca, anche rispetto ai francesi. Erano attrattivi. Oggi molti giovani stilisti lavorano presso altre case di moda straniere, non c’è lo stesso stato d’animo. L’interesse è scemato. New York e Parigi sono molto corporative, fanno di tutto per migliorare. Quale ricetta suggerisce? Ci vuole un’azione importante da parte sia degli stilisti ma anche delle strutture come la Cnmi-Camera nazionale della moda italiana. Ci vuole anche la città. Non è con una festa o una mostra in più che si fa la differenza. Quando c’è un concorso di tutti, c’è richiamo. Che porta lavoro, che porta attrazione anche del sistema. Il caso opposto è il Salone del mobile, un punto di riferimento di vitalità. Per produrre di più in Italia, lei ha appena concluso un accordo con i sindacati per i suoi dipendenti. Taglio di giorni di ferie remunerati in busta paga… In Italia devono lavorare tutti di più, l’incidenza delle persone che lavorano è troppo bassa rispetto all’estero. Per me si deve anche ritornare ad accettare quelle attività più umili ma pur sempre onorevoli che oggi non sono accettati. Non solo in fabbrica ma anche l’artigianato. O la campagna. Il cittadino italiano deve superare il classismo. Le scelte politiche sono importanti, ma in questo

mf fashion - 27 Ottobre 2012

momento non credo che il premier Mario Monti abbassi le tasse, c’è sempre un’esigenza di liquidità. Cosa ne pensa di Sergio Marchionne, le cui parole hanno sfiorato recentemente l’ambito moda? Ha fatto in modo che la Fiat non fallisse, dico questo. Io non so giudicare se abbia sbagliato. Vedo che ha ereditato una situazione fallimentare e ha realizzato tanto e in fretta. Lei quanto è competitivo? Lo sono di natura, competitivo e di sviluppo, con la stessa visione dell’azienda. Ma con correttezza, fuori dalle regole non mi interessa. La competizione è una sfida e uno stimolo anche per capire come andare avanti la propria attività. La Coppa America è un banco di prova per vedere quanto il gruppo riesce a esprimersi con attività non solo moda. Non direbbe mai «Finché la barca va»? No. La barca bisogna mandarla avanti. La convinzione è di non rinunciare, di sforzarsi, di portare la cose al limite. Se non ha la conoscenza, devi trovarla. Siamo stati i primi a fare un accordo come quello con il team di New Zealand. Andare ad aprire porte che nessuno aveva aperto. Si è sperimentato, con due team di progettazione. E con un risparmio di 10 milioni di euro ciascuno. Joint venture produttive con altri brand come ricetta per il futuro? Credo nell’idea di ottimizzare in Italia, di creare piattaforme produttive condivise. Aiuterebbe anche tanti singoli più piccoli. Come dicevo, siamo spesso di fronte a un individualismo negativo. Invece aggregare piattaforme produttive rappresenta una chiave di lettura per il futuro del made in Italy. E se Luna Rossa fosse l’Italia, con lei al timone, cosa cambierebbe? Più che cambiare mi domanderei perché siamo arrivati a questo punto. Come e perché. Chiediamolo ai politici. Monti non è altro che un dottore al capezzale di un malato grave. Usa semplicemente le cure.


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第3期 / 2013年夏

2013 E T A T S E Benetton

Prada

Corneliani

Pal Zileri

Blumarine

Audemars Piguet

Bulgari 宝格丽包,Bcbg-Max Azria外观

第2期 / 2013年春

在意大利 如明星般购物

Alberto Guardiani

santoni

Damiani

3 ERA 201 PRIMAV

美的发掘

Valentino

Louis Vuitton

Salvatore Ferragamo

Ermenegildo Zegna

Valentino

Versace

Prada

Bulgari

第1期 / 2012年秋

salVatore salV al alV Ferragamo

ermenegildo Zegna e

dior

Dolce & Gabbana

A.Lange & Söhne

Pomellato

Monica Bellucci

O 2012 INVERN

优雅夏季 明星般享受的意大利旅游

Bulgari

salV al ini alV

IN NE ORAZIO B A L L O C CON E

ZIONA FONLDIA IN ITA A C A

HU

E XINore N. 1 l’edit ina in C

Eccellenza Italia

a n i C n i o m i r p l I

i a t i l s i a t r I ’ u l t l e a l d i i t m a 0 n 0 a 5 appassio www.eccellenzaitalia.cn e

L’App per Apple e Android • Il Magazine • Il sito Web L’


256 I quindici anni di moda & interviste

Stefano Sassi @ Valentino La maison è passata a tutti gli effetti sotto il controllo di Mayhoola, portando in dote un turnover che nel 2012 dovrebbe crescere di oltre il 20%. «Questo è stato un anno con risultati superiori alle nostre attese», ha spiegato l’ad Sassi. Chiara Bottoni

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alentino è ufficialmente arrivata in Qatar. Nella giornata di martedì, con le firme nel quartier generale milanese di via Turati, Mayhoola, società partecipata dall’emiro del Qatar Hamad bin Kalifa al-Thani, ha concluso l’acquisto dell’intera partecipazione nella casa di moda facente capo a Permira per una cifra mai ufficializzata ma stimata nell’ordine dei 720 milioni di euro (vedere MFF dello scorso 13 luglio). Ad annunciarlo è stato Stefano Sassi, amministratore delegato della griffe, volato in questi giorni nel paese arabo per iniziare a ragionare sulle strategie da portare avanti per lo sviluppo futuro del marchio la cui direzione creativa è affidata al duo Maria Grazia Chiuri e Pierpaolo Piccioli. Punto di partenza, i risultati raggiunti negli anni del riposizionamento, a partire dalla sensibile crescita del fatturato, pari a circa il 60% tra 2009 e 2012. E se l’ultimo bilancio ufficiale, quello del 2011, ha evidenziato un giro d’affari di 322 milioni di euro con un ebitda di 22,2 milioni, l’obiettivo per l’anno in corso è quello di chiudere con un turnover intorno ai 390 milioni di euro di ricavi, vista la progressione tra il 23 e il 24% registrata nei primi nove mesi. A tirare le fila di questo passaggio, preludio di un nuovo corso, è stato lo stesso Sassi in questa intervista a MFF. Da martedì il controllo della Valentino è dunque ufficialmente passato in Qatar? Martedì mattina è stato effettuato il closing dell’operazione e, da quel momento, i qatari sono a tutti gli effetti proprietari della maison Valentino. Inizierà a operare un nuovo consiglio che sarà a breve in piena attività. Finora, nei mesi dell’interim, abbiamo iniziato a lavorare insieme e a ragionare sugli sviluppi del marchio. Ma, concretamente, sarà nei prossimi mesi che si comincerà a programmare il futuro in termini strategici, partendo proprio da una riflessione sulle ottime performance registrate dal retail. Favorito dal restyling delle boutique, partito a febbraio da quella di via Montenapoleone a Milano (rispetto a due anni fa, prima del rinnovo, le vendite dello store sarebbero cresciute di circa il 70%, ndr).

mf fashion - 8 Novembre 2012

A tal proposito, come è andato il 2012? Il 2012 è stato un anno incentrato sul processo di cessione, durante il quale abbiamo performato ottimamente, archiviando risultati persino superiori alle nostre attese. Da gennaio a settembre, il turnover è cresciuto tra il 23 e il 24%, trend che dovrebbe essere confermato di qui a fine anno. Tutti i mercati principali di riferimento delle tre aree strategiche, Europa, Stati Uniti e Asia (escluso Giappone) sono cresciuti a doppia cifra. Inoltre, abbiamo aperto il nostro raggio d’azione al Brasile dove, a settembre, abbiamo inaugurato una boutique Valentino e una Red Valentino nel mall Cidade Jardim di São Paulo. Il consumatore brasiliano sta gradualmente diventando strategico per le maison del lusso. Lo abbiamo verificato dagli acquisti che gli abitanti del paese sudamericano effettuano all’estero nelle nostre boutique monomarca. E abbiamo da questo capito quanto il marchio sia forte in Brasile (vedere altro articolo a pagina III). Per quanto concerne le varie categorie di prodotto, come si chiuderà questo 2012? Tutte le categorie di prodotto hanno performato ottimamente. In particolare, la progressione più significativa è stata registrata dalle calzature che hanno contribuito nel portare gli accessori a pesare globalmente tra il 30 e il 35% sul turnover complessivo di Valentino. E il menswear, come sta andando? Continuerete a sfilare a Firenze durante Pitti immagine uomo? Nei piani c’è l’obiettivo di un ulteriore rafforzamento di questo business, che ha ancora un grande potenziale di crescita. Per quanto riguarda Pitti, ancora è presto per dire se ci sarà una continuità in futuro. Ancora presto anche per parlare di nuovi opening worldwide? Ne parleremo una volta che avremo iniziato a confrontarci con Mayhoola. Adesso è presto per qualsiasi dichiarazione in merito, proprio perché stiamo per iniziare una riflessione comune su come orientare e in che direzione portare il business plan futuro.


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258 I quindici anni di moda & interviste

Giancarlo Giammetti

A meno di un anno dal lancio del museo virtuale, il couturier VALENTINO GARAVANI sarà la star di una grande exhibition alla Somerset house che sarà inaugurata il 29 novembre. «La libertà è l’aspetto più bello del nostro lavoro oggi», ha spiegato lo storico braccio destro Giammetti. Chiara Bottoni

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on è passato nemmeno un anno dal lancio dell’imponente progetto legato al Museo virtuale di Valentino Garavani. Era lo scorso 5 dicembre quando, al Moma di New York, il grande couturier e Giancarlo Giammetti svelarono i dettagli di questo ambiziosa iniziativa pensata per raccontare 50 anni di moda attraverso un linguaggio moderno e accessibile a tutti. Oggi le celebrazioni della storia di Valentino si preparano a compiere uno step successivo. Il 29 novembre, infatti, saranno aperte al pubblico le porte dell’exhibition «Valentino: master of couture», che sarà ospitata nelle sale della Somerset house di Londra fino al 3 marzo 2013. In scena più di 130 modelli realizzati dalle mani sapienti delle premières di Valentino e indossati da icone come Jackie Kennedy Onassis, Grace Kelly e Sophia Loren. Oltre che una serie di creazioni inedite. Una parte della mostra sarà poi dedicata proprio al museo virtuale, permettendo ai visitatori di esplorare ulteriormente l’eredità di Valentino, come ha raccontato Giancarlo Giammetti a MFF in questa intervista. Qual è il bilancio del progetto del museo virtuale a un anno dal suo lancio? Quando abbiamo studiato questo progetto, pensavamo a come poter rendere accessibile la straordinaria collezione di abiti, circa 11 mila modelli raccolti negli archivi della maison, a un vasto pubblico. Volevamo usare un linguaggio che fosse agevole per comunicare sia con le giovani generazioni, che non sono potute entrare direttamente in contatto con la moda di Valentino, sia con quelle più mature ma desiderose di ripercorrere un pezzo di storia della moda italiana. In questi mesi i risultati che abbiamo raccolto sono stati eccezionali: più di 100 mila click e conseguenti download hanno caratterizzato l’enorme successo del museo virtuale che, il prossimo 29 novembre, diventerà parte integrante della mostra «Valentino: master of couture». E cambierà forma in quanto non sarà più solo una app ma anche un browser e verrà incluso in una pagina web. Cosa può racontare in merito a questa mostra?

mf fashion - 21 Novembre 2012

Come evidenziato dal titolo stesso, si tratterà di un vero e proprio studio e percorso su come Valentino ha lavorato in 50 anni di couture. Sarà un’escursione ricca di dettagli e di particolari sul lavoro dell’atelier. Una mostra, il gala del New York city ballet (vedere MFF del 19 settembre 2012)... Che emozioni si provano nel raccogliere questi riconoscimenti? Una grandissima soddisfazione. Né io né Valentino avremmo mai immaginato tanti riconoscimenti dopo il ritiro. Valentino ha adorato lavorare alla realizzazione dei 30 costumi della serata inaugurale della stagione del New York city ballet e questa, come gli altre iniziative, ci hanno regalato un’enorme gioia. L’anno prossimo parteciperemo ancora a nuovi progetti veloci e in totale libertà. La libertà è sicuramente l’aspetto più bello del modo in cui oggi ci muoviamo. Totalmente slegati dai calendari istituzionali della moda... Che cosa avete in programma per il 2013? Dopo il successo di «Valentino: The last emperor», abbiamo allo studio la realizzazione di un documentario dedicato al lavoro di Valentino nell’haute couture. Al mondo dell’atelier e delle petites mains... Cosa pensa del nuovo corso, manageriale e stilistico, della Valentino? Siamo molto felici sotto entrambi i punti di vista. L’emiro del Qatar ha fatto visita nei giorni scorsi all’atelier a Roma... Sono convinto che da parte loro ci sarà l’intenzione di sviluppare maggiormente la maison senza essere pensare esclusivamente alla bottom line. A livello stilistico, io e Valentino abbiamo da sempre supportato Maria Grazia Chiuri e Pierpaolo Piccioli. Stanno facendo un lavoro stupendo di bilanciamento tra tradizione e modernità. Cosa suggerisce ai giovani che oggi vorrebbero dedicarsi alla couture? Mi sento solo di dire che la couture è un mondo molto complicato da gestire a livello finanziario e organizzativo. Servono mezzi, oltre al talento. Il vero lusso oggi è poter toccare ancora gli abiti con le proprie mani.


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Alexander Wang

«Non puoi pensare all’estetica del futuro senza preoccuparti degli affari». Parola della nuova star americana. Fabio Maria Damato

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orre senza sosta, nel business, come nel finale della sua sfilata. Alexander Wang, designer statunitense di origine cinese, è uno dei pochi veri e credibili astri nascenti della moda a stelle e strisce. Capace di forgiare un’estetica dall’anima urban, con accenni decisamente sporty e dall’attitude cool, Wang è riuscito dal 2007, anno di lancio della sua linea, a distinguersi per personalità e capacità imprenditoriale. Caratteristiche che gli sono valse un Cfda award, l’Oscar della moda americana, come miglior designer emergente nell’edizione 2008. Non è un caso se dopo il taglio del nastro del suo primo flagship newyorkese durante la fashion week dello scorso febbraio, vetrine a Shanghai, Pechino, Hong Kong e Singapore, punta a raggiungere quota 14 location in Cina entro la fine di quest’anno. E ora Wang è pronto per crescere worldwide sfoderando qualche altro asso nella manica. Cosa caratterizza la sua estetica di moda? Sono sempre stato attratto da un certo gusto del non finito. Giocare con il sottile equilibrio tra arruffato e impeccabile è una mia ossessione continua. Con quel touch sport, sempre sensuale, ammiccante e decodificato con qualcosa di super urban. In un certo senso ammiro, e mi lascio ispirare, dal lavoro di designer come Helmut Lang, Ralph Lauren e James Jebbia di Supreme. Qual è il segreto del successo? Un designer di moda deve avere un fortissimo punto di vista, capace di essere differente da quello degli altri stilisti in circolazione. Per questo motivo è essenziale, stagione dopo stagione, creare un proprio linguaggio distintivo, in grado di andare oltre la tendenza del momento. Da non trascurare la sensibilità al business. Non puoi

pensare al futuro senza doverti preoccupare in un certo senso degli affari. Quanto vale oggi il marchio Alexander Wang e come è strutturato tra mercato Usa ed estero? Siamo una label privata, una vera e propria family company. Per questo non rilasciamo dati economici e numeri di nessun genere relativi al nostro fatturato. Possiamo dire però che i tre core business sono il ready-to-wear, la linea young T by Alexander Wang e gli accessori, che sono un vero e proprio successo, forse inatteso anche per noi. Ognuna di queste voci rappresenta un terzo dell’intero giro d’affari della nostra griffe, oggi generato per un valore del 40% nel mercato negli Stati Uniti, e per il restante 60% all’estero, con in testa paesi come UK e Giappone. In questo momento state investendo in particolare sulla Cina però... come mai? Perché io sono cinese, sono nato a Shanghai. Mia mamma già 15 anni fa mi diceva sempre: «La Cina un giorno diventerà la vera e più importante patria della moda». In un certo senso questo oggi è diventato realtà. L’ex Celeste impero è il mercato più affammato di prodotti fashion e di lusso, per questo motivo, dopo il taglio del nastro in maggio del nostro primo flagship store a Pechino, contiamo di aprire 14 vetrine dirette in Cina tra la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo. Quale sarà il prossimo passo per crescere ancora? Intanto non stiamo con le mani in mano e lavoriamo all’ampliamento del raggio di azione del nostro e-store diretto, oggi capace di arrivare in ben 32 nazioni in tutto il mondo, compresa Australia e molti paesi asiatici. Il prossimo passo sarà arrivare anche in Europa entro la fine del 2012. E se mi chiedete cosa mi aspetta tra cinque anni, la risposta è: non ne ho idea!

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Tomas Maier @ Bottega Veneta «ARTIGIANALITÀ E UNICITÀ, QUESTO È VERO LUSSO». PAROLA DI TOMAS MAIER, CHE PER BOTTEGA VENETA, HA CREATO UNA STORIA DI HANDMADE PREZIOSO E DI ELEGANZA. Giampietro Baudo

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hen your own initials are enough: è questa la password per entrare nel mondo di Bottega veneta. Gran cerimoniere della maison italiana, satellite del gruppo Ppr, è Tomas Maier, che ha legato a doppio filo la sua visione estetica con quella della griffe. Pronta a crescere stagione dopo stagione. Macinando risultati stellari (nei primi nove mesi dell’anno ha registrato vendite per 671 milioni di euro, in salita del 39%) e sfornando collezioni cult. Ultimo progetto della lista, dopo la boutique-galleria d’arte a Shanghai, è un libro, il primo del marchio di Vicenza. Un album, edito da Rizzoli, pronto a celebrare la qualità della manifattura e il design innovativo del marchio che affonda le proprie radici nella tradizione veneta di un’handmade haut de gamme. «Artigianalità e unicità. Ma anche discrezione. Che insieme traducono un concetto di eleganza speciale e importante. Questa per me è la vera idea del lusso», ha spiegato il designer tedesco, da più di dodici anni (la prima collezione di Maier per Bottega veneta è del settembre 2001, ndr) guardiano estetico della maison dell’intrecciato. Come lavora quando crea una collezione per Bottega veneta? Diciamo che è un mix di tutto ciò che mi circonda. L’arte, ma anche la natura, la storia, l’oggi moderno. Ma anche un colore, che può diventare l’ossessione di stagione e che può portarmi a creare un intero guardaroba. Quale è la sua visione della donna Bottega veneta? Credo sia una donna sicura, con un occhio attento alla contemporaneaità e un forte senso personale dello stile... sa bene che cosa le piace e non ha dubbi. Quando crea per lei come la immagina? La definisca in tre aggettivi... Sofisticata, con grande carattere e individualista. Da dove è partito per creare la collezione primavera-estate 2013? È stato amore a prima vista con una certa silhouette, intensa e speciale... con spalle forti e sottilineate e maniche corte. Nella collezione presentata in pedana a Milano ci sono frammenti di referenze differenti: c’è un pizzico di anni 40 nelle forme ma, prima di tutto, questa collezione è l’evoluzione del lavoro fatto sullo scorso invernale. Come approccia gli accessori quando crea un look Bottega veneta, dove borse e calzature hanno un ruolo di primo piano? In questa collezione molti degli abiti avevano delle lavorazioni così particolari e artigianali, ai limiti della couture, per cui abbiamo utilizzato un touch delicato e discreto per gli accessori. In generale penso che gli accessori non siano mai abbastanza... ogni

singolo oggetto è in grado di dare alla silhouette un giocoso senso di movimento. Qual è il suo rapporto con l’intrecciato, il motivo iconico di Bottega veneta? Adoro lavorare con l’intrecciato... è una tecnica incredibile. Forte, flessibile, capace di dare un twist speciale a ogni look. È una lavorazione straordinariamente versatile. E figlio di una grande tradizione di andmade. Una delle cose più belle del mio lavoro è proprio la collaborazione con gli artigiani e devo dire che per quello che ho potuto sperimentare, stagione dopo stagione, gli artigiani italiani sono i migliori in assoluto. Se dovesse identificare il colore simbolo di Bottega veneta, quale sceglierebbe? Tutti i toni della pelle in questi quasi 12 anni hanno caratterizzato la mia storia qui. E poi l’ebano, un cult intramontabile, che sto trasformando poco a poco in un espresso evergreen. E accanto a questi, stagione dopo stagione, si aggiungono altri elementi cromatici che interagiscono nel segno dell’eleganza. Oggi il lusso guarda a Cina e Brasile per crescere. Voi come vi state muovendo in questi mercati così importanti? In Cina operiamo già da diversi anni e il nostro marchio è amato molto. Il cliente cinese è sofisticato, elegante, preparato e attento al prodotto, alle sue caratteristiche di handmade. Diciamo che è un vero esperto del lusso. Soprattutto il cliente di fascia alta che viaggia e che conosce il mondo. La Cina è un territorio incredibile, che ci sta dando grandi soddisfazioni. Ma puntiamo anche al Brasile dove siamo già presenti e dove apriremo un secondo store a San Paolo. Successivamente lo sbocco naturale sarà Rio. Diciamo che guardiamo con attenzione a tutta l’area del Middle e del South America, che hanno potenzialità interessanti di sviluppo. Da oltre dieci anni è l’alfiere dell’estetica di Bottega veneta. Dove si vede tra un decennio? Devo dire che non ho idea, non sono abituato a fare piani per il mio futuro... al massimo programmo per definire quello che sarà Bottega veneta nel futuro. Ma mi piace poter pensare che tutto è davvero possibile. E allora che cosa le piacerebbe augurare alla sua donna per i prossimi dieci anni? Mi piacerebbe che indossasse un abito Bottega veneta che possiede da diversi anni. Deliziandosi di possedere un oggetto di grande artigianalità, capace di raccontare un lusso personale e interprete di uno stile unico al mondo.

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Erdem Moralioglu @ Erdem CON IL SUO BRAND, ERDEM, SI È IMPOSTO NELL’ARENA FASHION E IL SUO SHOW È IL VERO HOT TICKET INGLESE. COSTRUENDO UN MONDO CHIC, DI ROMANTICISMO FUTURIBILE. Alessia Lucchese

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osa unisce Samantha Cameron e Michelle Obama in fatto di moda? Un solo nome: Erdem. Ovvero il marchio dietro il quale si nasconde il designer canadese di origine turca Erdem Moralioglu, uno tra i più apprezzati non solo dalle celebrities sui red carpet ma anche dalle donne di potere, come se la sua allure estremamente femminile ma condita da una buona dose di grinta sia la divisa giusta da indossare a livello istituzionale. Una definizione che Erdem non ama molto applicare su di sé e sulla sua moda, ma che inevitabilmente l’ha portato sotto i riflettori anche fuori dalla London fashion week. Dove ha portato in scena la sua collezione primavera-estate 2013, un mix di romanticismo, eleganza, virtuosismi decorativi e riferimenti fantascientifici. Chi è la donna Erdem? Come la descriverebbe? La donna Erdem è prima di tutto una donna indipendente e forte, ma che riesce a conservare e a dimostrare la sua femminilità. In inglese direi che «marcia al ritmo del suo tamburo», un modo di dire che rappresenta bene il modo in cui io la intendo: è uno spirito libero, che va dritta per la sua strada senza curarsi troppo delle critiche che le possono rivolgere. Nelle scorse settimane sono state rivelate le nomination per i British fashion awards. E in particolare lei è in lizza per il New establishment award, dedicato ai marchi che si sono imposti prepotentemente nel panorama fashion. L’anno scorso ha visto lei tra i nominati insieme a Kane, che ha opi vinto il premio… sarà il suo turno quest’anno? Sono molto lusingato per questa nomina. È sempre un onore quando il Bfc-British fashion council riconosce il tuo lavoro. A cosa si è ispirato per la p/e 2013 che ha presentato a Londra? La collezione è dedicata a Zenna Henderson, un personaggio molto particolare che ha vissuto negli anni 50. Era un’insegnante di giorno e una scrittrice di libri di

fantascienza di notte, dove raccontava la venuta degli alieni sul nostro pianeta. Così mi sono lasciato ispirare dall’idea di queste donne che arrivavano sulla Terra e che cercavano di mescolarsi con le altre persone, tuttavia senza mai riuscire a nascondere completamente la loro natura extraterrestre. Molti buyer e giornalisti pensano che la sua sfilata sia uno dei motivi principali per non perdersi la fashion week di Londra. Qual è il suo pensiero riguardo questo endorsement? Credo sia un magnifico complimento da ricevere! Mi sento molto privilegiato a essere tra i protagonisti della fashion week. Lei è certamente uno degli hot names della moda londinese. Quanto conta Londra nel suo lavoro di tutti giorni, quanto la ispira nelle sue creazioni? Ha mai pensato di sfilare in altre città? Londra è la mia città, la mia casa, per questo per me è una grandissima fonte di ispirazione. È un luogo splendido, pieno di vita e di colore, e sempre di più è una città che catalizza moltissimi interessi, dall’arte alla musica al design. Amo sfilare qui. Proprio Londra ha lanciato la sfida alle altre capitali della moda, in particolare quella maschile. Ha mai pensato di ampliare le sue proposte anche all’uomo? Credo che quello che faccio sia molto femminile e per questo ho deciso di focalizzarmi solamente sul womenswear. Ma come si dice in questi casi? Mai dire mai. Come si vede da qui ai prossimi dieci anni? Un giorno spero di poter vendere le mie collezioni attraverso una rete di monomarca e di debuttare sul web con uno store di e-commerce. Ha ancora qualche sogno da realizzare? Credo che tutto quello che ho oggi sia già un bel sogno.

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Anna Molinari @ Blumarine ANNA MOLINARI È LA SIGNORA DELLE ROSE. ALFIERE DEL MADE IN ITALY, È L'ANIMA CREATIVA DEI MARCHI BLUMARINE E BLUGIRL DEL GRUPPO BLUFIN, CON CUI HA CREATO UN'ESTETICA DI FEMMINILITÀ DELICATAMENTE CHIC, SEDUCENTE E CHARMANT. Elisa Rossi

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n percorso coerente nel made in Italy. Senza interruzioni, da quel 1977 in cui Anna Molinari, insieme al marito Gianpaolo Tarabini Castellani, fondò quel marchio dal nome riecheggiante l’amore per il colore blu e per il mare. Dando l’incipit a una storia, quella di Blumarine, fatta di tasselli romantici, volti a dare il soffio di vita a due donne, Blumarine e Blugirl, ben distinte nei tratti ma unite nell’emanare un’aura inconfondibile di seduzione ed eleganza, di energia e ironia. Lei è la Regina delle rose che, stagione dopo stagione, crea un universo di dolce garbo alimentato costantemente dai fuochi dell’arte e della pittura, dalle quali la stilista confessa di trarre continua ispirazione. E il risultato sono due collezioni che incarnano simbolicamente un preciso ideale di femminilità. Elegantemente romantico. Come ha mosso i primi passi nella moda? Sono nata a Carpi, nel distretto della maglieria, e ho avuto la fortuna di seguire l’esempio e l’esperienza dei miei genitori che gestivano un maglificio che realizzava capi per le più importanti griffe. Alla moda ho sempre unito un grande amore per la storia dell’arte, che mi ha aiutato a scoprire e a valorizzare il lato estetico delle cose. L’aver puntato all’eccellenza del prodotto made in Italy, l’aver creato un modello di impresa familiare flessibile, dinamica, centrata sul valore delle persone, credo abbiano contribuito al successo di Blumarine. C’è stato un momento in cui ha capito che questo sarebbe stato il suo futuro? Ho capito che la moda sarebbe stata la mia strada quando con mio marito ho creato il marchio Blumarine, nel 1977. Il mio desiderio più grande e il mio obiettivo erano quelli di essere considerata un’innovatrice, creando un marchio e apportando uno stile che fosse frutto del mio gusto e della mia sensibilità. L’entusiasmo, la ricerca continua, il mettermi in gioco, la reale volontà di comprendere le donne, le loro aspettative e le loro esigenze, penso abbiano rappresentato aspetti determinanti per la crescita di Blumarine. Quali sono i caratteri di Blumarine e Blugirl? Blumarine, in particolare nelle ultime stagioni, propone l’evoluzione contemporanea del suo tradizionale concetto di femminilità, suggerendo un modo di vestire disinvolto e personale, che non rinuncia alla seduzione. Libertà di essere, libertà di sperimentare, libertà di scegliere: queste le parole chiave. La donna Blugirl invece si identifica in un’immagine ironica, bon ton e glamour, con un tocco di eccentricità. Cosa l’ha ispirata per le sue ultime collezioni? Per la Blugirl mi sono ispirata alle fotografie di David Hamilton. Sono rimasta molto colpita dal suo modo seducente, ma delicato, di ritrarre la bellezza femminile e ho

cercato di ricreare lo stesso mood nei miei abiti. Mentre per Blumarine il punto di partenza è stato un mondo di fiaba declinato in chiave contemporanea. Protagoniste sono silhouette che sfiorano in maniera impercettibile le forme pur esaltandone la femminilità. Com’è cambiato il mondo della moda nel corso degli anni? C’è una forte richiesta di concretezza e di personalizzazione del prodotto. La scelta di acquistare un capo è sempre più legata ad effettive occasioni di utilizzo, piuttosto che alla volontà di comprare qualcosa di bello o di moda tout court. Anche l’aspetto del prezzo sta diventando sempre più discriminante nello spingere i consumi. Questo non deve comunque significare il rinunciare a innovare e a imporre uno stile, in particolare nel mondo del prêt-à-porter di lusso, che al contrario ha il dovere di coniugare contenuti creativi, eccellenza qualitativa e competenze sartoriali. La vostra politica delle licenze è da sempre molto importante e studiata. Ne sono in cantiere di nuove? Nel 2012 abbiamo portato a termine il completamento del portafoglio licenze sulle principali categorie necessarie per lo sviluppo (oggi a quota 18, ndr). In futuro prevediamo di consolidare questo portafoglio, con l’inserimento di qualche licenza di nicchia. Come evolverà la collezione dedicata all’arredo? L’arredo casa, quest’anno alla terza collezione, integra perfettamente le due licenze già esistenti sull’arredo tessile, risalente agli anni 80, e sull’arredo tavola e oggetti ornamentali. Obiettivo di questo progetto è ampliare i principali mercati esteri esistenti, forti del posizionamento del marchio Blumarine nell’abbigliamento a livello internazionale. Parlo dei mercati ad elevato tasso di crescita, quali Russia, Cina, Medio Oriente, Brasile e India. Cosa si ricorda del suo primo show? Rivivo ancora la grande emozione del debutto ufficiale della mia collezione, avvenuto al Modit di Milano nel 1980. Un’esperienza che ricordo con grande nostalgia ed emozione: in quell’occasione ho ricevuto il premio come migliore stilista dell’anno grazie alla realizzazione di alcuni capi in maglieria con decori innovativi. Si emoziona ancora l’attimo prima di uscire sulla passerella al termine della sfilata? Certamente, una sorta di esame che si rinnova ogni sei mesi; ma è una sfida che ancora mi appassiona. Dove si vede tra dieci anni? Non faccio progetti, ma spero di poter continuare ancora a dedicarmi a tutto ciò che riguarda la bellezza, la creatività e l’eleganza.

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Isabel Marant

UN'ESTETICA PARIGINA MA CON UN RETROGUSTO CALIFORNIANO. ISABEL MARANT HA CREATO IL SUO MONDO RILEGGENDO LA CULTURA USA E SFORNANDO ACCESSORI CULT. Chiara Bottoni

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na parigina a LA. Isabel Marant è un po’ questo. Una designer francesissima nel dna e nel suo stile boho-chic, innamorata della West coast e dello spirito libero della cultura a stelle e strisce. A svelarlo sono le sue collezioni, legate a doppio filo a temi dell’America di ieri e di oggi. Elvis e gli anni 50. I cowboys e le Hawaii. E a confermarlo è l’innamoramento che verso la sua moda hanno le star di Hollywood. Attrici e modelle come Kate Bosworth, Katie Holmes, Miranda Kerr, Alessandra Ambrosio e Rosie Huntington-Whiteley sono tra le fan sfegatate del marchio francese pronte a sfoggiare i Dicker boots, le Beckett trainers o un paio dei famosi pants in denim ricamato. Per i loro look street o per un concerto a Coachella. Pezzi diventati veri best-seller, sold out nei negozi e sulle principali piattaforme di e-commerce. Del resto, la combinazione tra la Ville Lumière e la città degli angeli può avere effetti esplosivi. E un alto tasso di coolness. Come ha raccontato la designer, alla guida di un marchio da fatturato di 62 milioni di euro 2011 (+44%), che si appresta a sbarcare a Los Angeles con un grande store monomarca. L’immaginario legato agli States è stato il filo conduttore delle sue ultime due collezioni ma lo è, in generale, della sua moda. Che cosa la affascina della cultura di quel mondo? Qualche anno fa ho fatto il mio primo viaggio in California e sono stata letteralmente conquistata dal mood di questo luogo, dove amo tornare appena posso. Mi piace l’intera atmosfera che si respira in questa terra che ha fatto sì che mi lasciassi sedurre dallo stile di vita a stelle e strisce. Devo dire che, in generale, sono comunque sempre stata colpita dallo spirito libero della cultura americana e dall’approccio easy going che hanno le persone nei confronti della vita. Ho voluto tradurre questo spirito nelle mie due ultime collezioni, ispirandomi per l’autunnoinverno 2012-13 al mondo dei cowboys e per la primavera-estate 2013 alle Hawaii e a Elvis.

A che tipo di donna pensa quando disegna le sue collezioni? Quando mi accingo a disegnare una nuova collezione non penso a un tipo di femminilità in particolare ma ci sono alcune donne che ammiro per il loro modo di essere stylish, come Frida Khalo, Diana Vreeland, Simone de Beauvoir, Jane Birkin o Françoise Hardy. Sono tutte donne a proprio agio con se stesse e che hanno uno stile molto personale. Con la mia moda, desidero creare qualcosa che permetta a tutte di essere comode nei propri abiti e con il proprio atteggiamento e modo di essere. Ha avuto un enorme successo con le calzature. Le Beckett trainers sono sold out ovunque… può raccontare qual è stato il punto di partenza per la creazione di questo best seller? Quando ero una teenager avrei voluto mettere una suola di sughero sotto le mie scarpe da ginnastica perché desideravo mantenere il comfort di una sneaker ma allo stesso modo sembrare più alta. Quando ho iniziato a progettare le Beckett, tre anni fa, avevo in testa l’idea che le sneakers con platform fossero tutt’altro che affascinanti. Anzi… Per me tutto si basa sullo stile e sull’attitude, così quando ho creato le mie, la vera sfida era trovare un equilibrio bilanciato tra un’estetica gradevole e il comfort di una sneaker flat. Ho studiato a lungo la formula del rialzo nascosto per fare in modo che apparisse gradevole all’occhio e rendesse bella la silhouette del corpo. Penso che questa combinazione di estetica e praticità sia il segreto del successo di queste calzature. Insomma, sono comode e ti fanno sembrare persino più alta! Che programmi sono in cantiere per il marchio nei prossimi mesi? Ultimamente ho viaggiato molto perché abbiamo aperto diversi flagship store dall’inizio del 2012: Hong Kong, Tokyo e Parigi… Entro un paio di mesi toccherà a Los Angeles, Seoul, Shanghai e Londra. Il marchio è in una fase di evoluzione continua.

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Jonny Johansson @ Acne ICONA JEANS e TRENDSETTER, CAPACE DI SCRIVERE CAPITOLI DI CULTURA URBAN. QUESTO È ACNE. «LA MODA NON È SOLO BRAND, È PROPORRE NUOVE IDEE», DICE JOHANSSON. Alessia Lucchese

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uai a definirlo ancora un marchio denim wear. Oltre al colosso fast fashion H&M, Svezia nel mondo della moda vuol dire soprattutto una cosa: Acne. Sono passati 15 anni da quando Jonny Johansson creò 100 paia di jeans in raw denim da regalare ad amici e parenti, trasformando un collettivo di creativi in un vero marchio all’avanguardia, capace di stupire sulle passerelle di Londra e Parigi rispettivamente con le proprie proposte womenswear e menswear. Fino ad attirare l’attenzione di designer del calibro di Alber Elbaz che per Lanvin ha scelto proprio la griffe che si nasconde dietro l’acronimo di «Ambition to create novel expression» per una capsule collection denim-couture. Una parabola di stile che ha portato il brand di Stoccolma a diventare uno dei marchi più all’avanguardia del panorama fashion, capace di proporre una moda in continuo divenire. Proprio come l’ultima collezione che ha calcato le passerelle londinesi, dove protagoniste sono cowgirl fasciate da giacche decostruite e abiti stretti da cinghie effetto bondage. Una collezione più romantica del solito. A che cosa è dovuto questo cambio di rotta? Come spesso accade, tutto è partito dalla musica e in particolare dalla canzone Wrecking ball di Emmylou Harris. Mi sono immaginato queste donne vestite di bianco, su questo prato, e da lì è nato il desiderio di raccontare qualcosa di differente. Ma sempre con un touch molto urban, che è un po’ la firma del nostro marchio. Per un marchio di moda quanto è importante saper voltare pagina ed evolversi? È fondamentale. Credo che la moda, d’altronde, sia proprio basata sul cambiamen-

to, sulla sperimentazione di linguaggi ogni volta nuovi e diversi pur restando fedele al proprio Dna. La moda non è solo una questione di brand ma è soprattutto saper proporre delle nuove idee. Da sempre siete riconosciuti più che come un marchio come una fucina di creatività. Uno dei progetti per cui siete più famosi è il magazine Acne paper, che in qualche modo vi ha portato anche a pubblicare il vostro primo libro… Abbiamo lanciato Snowdon blue, un libro che raccoglie alcuni tra i più bei ritratti di Lord Snowdon, con cui abbiamo collaborato nel 2007 proprio per il nostro magazine. Snowdon ha sempre fatto indossare ai personaggi che ritraeva una camicia azzurra, una sorta di uniforme che che considero un tocco di design molto democratico. Ho sempre ammirato il suo lavoro e quello che ne è risultato è stato una collaborazione molto naturale. Credo che i suoi ritratti rivelino di ogni personaggio, a partire dai reali fino alle pop star, un aspetto umano e intimo. Avete anche lanciato una collezione design. Com’è nata l’idea? Design e architettura sono sempre state mie grande passioni, perciò è stato piuttosto naturale ritrovarmi a essere ben inserito in tutto il processo creativo che è stato dietro. È stata una bella opportunità per esprimermi in qualcosa di diverso al di là degli abiti. La vostra crescita è ben rappresentata anche dall’espansione degli store nel mondo… Ormai siamo arrivati a circa 25 Acne studios, compreso il recente opening di Copenaghen. E ora, a novembre, siamo pronti a debuttare in Asia con il primo store a Tokyo.

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Diego Della Valle @ Tod's Il numero uno del gruppo Tod’s, protagonista di questi ultimi 15 anni di moda & finanza, ha creato un impero che ha archiviato il 2012 a 963,1 milioni di euro, in crescita del 7,8%, a fronte di un utile netto di 145,7 milioni di euro (+7,8%). La sfida per il futuro? «Basterà semplicemente focalizzare l’attenzione sulle cose che sappiamo fare meglio. Il made in Italy, inteso come know how per le varie categorie merceologiche, dal cibo, all’arte e alla moda, è uno straordinario valore che dovrà essere sempre preservato e valorizzato». Chiara Bottoni e Fabio Gibellino

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a piccola azienda di famiglia e un segreto nascosto in quel labirinto di 133 piccoli gommini che è diventato il trademark di una storia di artiginalità. Siamo nei primi del ‘900 e la famiglia Della Valle opera già nel segmento calzaturiero. Ma è verso la fine degli anni ‘60 che Dorino Della Valle fonda il calzaturificio Della Valle, che diventerà spa nel 1979 e che fino agli anni ‘80, grazie alla grande perizia che ne contraddistingue le lavorazioni, lo porterà a produrre le scarpe di alcuni tra i più importanti nomi storici del neonato made in Italy come Krizia, Fendi, Romeo Gigli, Gianfranco Ferré e Azzedine Alaia. Ma questo è solo il primo passo di una storia ancora tutta da scrivere: e che farà da protagonista. Negli anni ‘80 infatti, l’accento viene messo sullo sviluppo dei marchi propri, ed è in questo periodo che vedono la luce le prime collezioni a marchio J.P Tod’s, successivamente Tod’s. Nel frattempo a ereditare la guida dell’azienda arriva Diego Della Valle, e con lui l’invenzione del primo mocassino con i gommini. È da qui che è iniziata la seconda parte della storia, quella che si è trasformata in una cavalcata verso un successo, economico e di stile, planetario, che ha portato il gruppo quotato alla Borsa di Milano nel 2000 e a cui appartengono anche i marchi Hogan, Fay, Roger Vivier ed Elsa Schiaparelli, verso un successo che lo ha trasformato in un fiore all’occhiello della tradizione made in Italy nel mondo. Come si è evoluta Tod’s e quali sono stati i vostri step fondamentali nell'evoluzione di questi 15 anni? Tutto nacque da un’intuizione, circa trent’anni fa, che rivoluzionò il mondo della calzatura. L’idea fu quella di coniugare la praticità di una scarpa con la suola in gomma con un gusto formale caratterizzato dall’utilizzo dei pellami più pregiati, avvalendosi delle abili mani dei migliori artigiani italiani. Da questa fusione di ingegno e maestria tecnica nacque il mocassino con i gommini che ha reso Tod’s un marchio iconico nel mondo. Il gruppo, quotato in Borsa dal 2000, attraverso i marchi Tod’s, Hogan, Fay e Roger Vivier, è un esempio di come sia possibile coniugare moda, finanza ed eccellenza artigianale con un pizzico di sogno. Come si è coniugato il rapporto tra stile e gestione economica di una realtà solida come la vostra? Il valore chiave del nostro lavoro, radicato nel DNA di ciascun brand, è tutt’oggi l’artigianalità, intesa come valorizzazione del made in Italy nel mondo degli accessori. Quello che ci ha premiati è l’essere stati sempre coerenti nel presentare al consumatore un prodotto di eccellenza, iconico, ovvero destinato a rimanere per sempre, superando mode e stagioni. Aggiungendo a tutto ciò quell’idea di sogno e di desiderabilità che rende ancora più eccezionale un acquisto. Con lka quotazione e l’approdo a Piazza affari del gruppo Tod’s com’è cambiata la vostra storia?

Negli ultimi dieci anni il mercato è cambiato molto e l’azienda crescendo sia in dimensioni che in fatturato ha aumentato l’internazionalizzazione e la sua presenza nei nuovi mercati. Sicuramente un’evoluzione naturale. Qual è l’importanza della differenziazione merceologica nella composizione del giro d'affari di un marchio? Innanzitutto bisogna proporre dei prodotti che siano utili al consumatore, che rispondano alle esigenze della vita moderna. Unire a questa priorità valori come l’esclusività e la qualità che rendono un accessorio desiderabile. I nostri prodotti iconici, come il Winter gommino e la DBag hanno rappresentato comunque una “rivoluzione” dello stile nell’epoca in cui sono stati realizzati. Il Winter gommino è un’evoluzione della driving shoe degli anni ’60, che ha saputo coniugare la praticità all’eleganza con un sistema di fabbricazione artigianale molto innovativo. La D-Bag nasce invece nella seconda metà degli anni ’90. Amata dalle celebrities di tutto il mondo, in primis Lady Diana, perché era una borsa diversa dalle altre, con un design originale, perfetta in ogni occasione, realizzata con un materiale naturale e chiaro, poi diventato il pellame per eccellenza rappresentativo di Tod’s. Da quando l’export è diventato indispensabile nella composizione del giro d'affari di una realtà come la vostra? Può un’azienda sopravvivere puntando solo ai mercati tradizionali? Le aree importanti per noi sono oltre all’Europa e l’America, sicuramente l’Asia, e mercati nuovi come il Brasile. Si tratta di aree molto vaste, dal grandissimo potenziale. Negli ultimi anni siamo cresciuti tantissimo, grazie ad una richiesta da parte di questo mercato di prodotti raffinati e di alta qualità; il Made in Italy ne è certamente l’espressione massima. Le nostre collezioni sono molto amate, sia per il design elegante che per le lavorazioni artigianali con le quali viene realizzato ogni singolo prodotto. Qual è la sua visione del futuro per la moda? E come si ommagina lo sviluppo futuro di Tod’s? Per il futuro basterà semplicemente focalizzare l’attenzione su le cose che sappiamo fare meglio (a partire dalla primavera-estate 2014 la linea donna del marchio Tod's sarà affidata ad Alessandra facchinetti, con un passato blasonato tra Prada, Gucci e Valentino, ndr). Il made in Italy, inteso come know how per le varie categorie merceologiche, dal cibo, all’arte e alla moda, è uno straordinario valore che dovrà essere preservato e valorizzato. Nei paesi ricchi “emergenti” ha un appeal fortissimo. La ricetta l’abbiamo in casa dobbiamo solo promuoverla nel modo giusto e con il sostegno delle Istituzioni. Per il gruppo Tod’s, vedo un’ulteriore crescita e internazionalizzazione con un DNA focalizzato sui nostri valori e sui messaggi che vogliamo trasmettere al consumatore. Eleganza senza tempo, tradizione artigianale, ricerca e innovazione.

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Yves Carcelle @ Louis Vuitton L'arrivo di Marc Jacobs al timone creativo. Il battesimo del ready to wear. Lo sviluppo internazionale. Il legame sempre più forte con il mondo dell'arte. Per la maison gioiello del gruppo Lvmh sono stati anni rivoluzionari. «Nel 1996 abbiamo celebrato il centenario dell'iconico Monogram... è stata una sorta di nostro Giubileo: la conclusione di un’epoca e l’inizio di una nuova era». Chiara Bottoni

C’

è una maison nel mondo della moda che ha visto la sua storia cambiare radicalmente negli ultimi 15 anni. Passando da protagonista nel mondo degli accessori a modello di lifestyle. Con incursioni nelle arti e grazie a sperimentazioni continue, prolungate e stupefacenti. Si tratta di Louis Vuitton, griffe ammiraglia del gruppo Lvmh di Bernard Arnault, che grazie alla visione creativa di Marc Jacobs è riuscita a integrare due mondi. Quello del fashion, effimero e stagionale. E quello della pelletteria, eterna e destinata ad accompagnare una persona per più anni o, addirittura, per una vita intera. Una liaison sintetizzata al meglio dalla possibilità di convivenza, in un unico negozio, di un trunk centenario con gli outfit dell’ultima collezione. Come ha raccontato in questa intervista a 360 gradi Yves Carcelle, ceo di Louis Vuitton sino alla fine dello scorso anno e oggi guida della Fondation d’Entreprise Louis Vuitton pour la Création. Uno dei grandi protagonisti, insieme alla famiglia Arnault e a Marc Jacobs, della rivoluzione della maison di questo quindicennio. Condottiero preciso di una maison storica e blasonata, che è diventata un modello di riferimento nel fashion system. E non solo.

francesi del lusso che ha segnato, come una sorta di Giubileo, la conclusione di un’epoca e l’inizio di una nuova era. Il successo legato a questo progetto ci ha convinti che fosse giunto il momento di espandere il terreno d’azione. Molte erano le possibilità che ci si sono presentate davanti agli occhi. Parecchie aziende avevano lanciato profumi ed eyewear, avviando le classiche licenze… Ma era nostra convinzione che per far davvero crescere Louis Vuitton senza perdere di vista le radici del brand e rimanendo fedeli al nostro business model di integrazione totale, il prêt-à-porter e calzature fossero i mondi giusti da esplorare. Mi viene sempre in mente questa conversazione con Bernard Arnault. Un giorno lui mi disse: «Sai cosa penso? Che dovremmo reclutare un direttore artistico e partire sin dalla prima stagione del ready to wear organizzando un fashion show». Io rimasi sorpreso. Era certamente la strada giusta da intraprendere ma certo era piuttosto complicata. In un gruppo che ha sempre lavorato sui concetti di durata e di eternità, affrontare il mondo della moda voleva dire non solo introdurre un nuovo know how produttivo ma anche una nuova visione del concetto di temporalità.

Come è evoluta la storia di Louis Vuitton negli ultimi 15 anni? Il 1997 è stato probabilmente uno degli anni più importanti per Louis Vuitton perché ha coinciso con la nomina di Marc Jacobs a designer e con il lancio della prima collezione di ready-to-wear. Quando sono diventato ceo della maison, nel 1990, il mio compito era quello di implementare ulteriormente il business del marchio nel suo segmento core, ovvero il viaggio e la pelletteria, dove c’era ancora molto da fare. Nel 1996, abbiamo celebrato il centenario del Monogram, arruolando sette designer da Vivienne Westwood ad Azzedine Alaïa, da Helmut Lang a Romeo Gigli, invitati a dare una personale interpretazione di questo leggendario simbolo di Vuitton. Questa esperienza è stata una sorta di endorsment del mondo della moda per una delle più storiche maison

E così avete chiamato alla corte di Louis Vuitton un talento come Marc Jacobs... Nel mondo della moda, soprattutto lavorando con Marc Jacobs, bisogna essere pronti il giorno dopo lo show a sentirsi dire: «Cambiamo tutto». La visione di Marc è infatti davvero la visione del momento. Abbiamo comunque deciso che sarebbe stato interessante integrare queste due prospettive del mondo. E, trascorsi 15 anni, posso dire ci siamo riusciti. È stato un lungo processo di perfezionamento e di aggiustamenti. Nel 1998 abbiamo inaugurato il primi due punti vendita con uno spazio dedicato al prêt-à-porter, a Parigi e a Londra. Poi è toccato a Tokyo e Osaka e siamo andati avanti così, apertura dopo apertura… Il processo è stato lungo, abbiamo dovuto integrare la produzione, costruire

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un workshop per l’abbigliamento e per le scarpe. Ma, ci tengo a ripeterlo, a 15 anni di distanza posso affermare con soddisfazione che siamo riusciti a realizzare un incredibile matrimonio tra il senso di eternità legato al Dna della maison e l’ultimissimo punto di vista della moda espresso da Marc ogni stagione. È proprio la duplicità tra queste due anime, tra questi due mondi, che la mostra «Louis Vuitton - Marc Jacobs» svoltasi nel 2012 al Musée des arts décoratifs di Parigi ha raccontato. E credo che il risultato di tutto ciò sia la perfetta armonia che si trova nel vedere accanto a un vecchio trunk l’ultima collezione fashion. Insomma, per Vuitton il 1997 rappresenta il momento in cui si è realizzata una fusione unica nella sua storia. Cosa ha regalato a Louis Vuitton l’introduzione del ready to wear? Il ready to wear ha portato con sé diverse cose. Innanzitutto una nuova fetta di clientela, più attenta alla moda. Al contempo ha invogliato ancora di più i nostri clienti storici e ci ha permesso di creare negozi più grandi e più lussuosi. Oggi siamo presenti in 65 Paesi. In ognuno di questi abbiamo dovuto capire le caratteristiche della clientela locale e conoscerne gusti e tradizioni. Sin dal mio arrivo in Vuitton avevo un intento molto chiaro, quello di aprire almeno ogni anno un negozio in un nuovo paese. E ci siamo riusciti… Continueremo a crescere finché ci saranno nuovi paesi da conquistare! Un altro aspetto ampiamente sviluppato nel corso di questi anni è stato il legame con l’arte… Il legame con l’arte affonda le sue radici sin dai tempi della famiglia Vuitton, i cui membri erano molto influenzati dall’universo artistico e culturale che li circondava, in particolare dall’Impressionismo. Negli ultimi anni, con l’arrivo di Marc Jacobs, abbiamo sicuramente accelerato questo processo di compenetrazione, creando collaborazioni con artisti, designer e architetti… Il feeling che si è creato tra questi mondi e Vuitton però è stato possibile innanzitutto grazie alla presenza di un Dna ben preciso nella maison. Abbiamo sviluppato più modalità di collaborazione: dal commissionare a un artista un pezzo ad hoc da mettere in uno store al dare a un artista il compito di curare l’allestimento delle vetrine, ad esempio in occasione delle Christmas windows quando, cosa

paradossale per un retailer nel periodo festivo, diamo totalmente spazio all’arte senza esporre alcun prodotto. Altre volte, invece, possiamo organizzare o sponsorizzare exhibitions, come avviene nel caso degli eventi inscenati al quinto piano della Maison Vuitton sugli Champs Elysées, dove abbiamo realizzato più di 150 collaborazioni in due anni. O, ancora, può succedere che invitiamo gli artisti a lavorare sui nostri prodotti in collaborazione con Jacobs. Abbiamo incominciato nel 2000 con Stephen Sprouse. Ricordo ancora che trascorse due settimane nei nostri uffici a fare graffiti! Il fatto che un intervento così radicale sul Monogram non abbia intaccato l’iconicità del marchio è dipeso proprio dal radicamento dell’arte nel Dna di Vuitton. Marc Jacobs e Yayoi Kusama, l’ultima delle collaborazioni celebri in ordine cronologico, si incontrarono invece nel 2006, quando organizzammo uno show in Giappone e Marc ebbe occasione di visitare lo studio dell’artista. Si creò subito tra i due una grande sintonia e, come ricordo di questo momento, la Kusama mostrò a Jacobs una Speedy da lei era stata decorata con dei dots. Così, quando scoprimmo che il 2012 sarebbe stato l’anno delle celebrazioni dell’artista giapponese, decidemmo di proporle di fare qualcosa insieme. A creare un legame tra Vuitton e il lavoro della Kusama c’era un’ossessione. L’ossessione per la ripetizione all’infinito di qualcosa: in un caso il Monogram, nell’altro i pois. Come è cambiata, a suo parere, la moda negli ultimi 15 anni? Credo che tutto sia cambiato in maniera positiva. La moda è diventata una sorta di linguaggio comune nel mondo. Nonostante la crisi e le diversità culturali, è diventata un punto di contatto tra culture differenti, tra clienti che sono diventati sempre più esperti e sofisticati nelle loro scelte. Se c’è invece un aspetto negativo dell’evoluzione del fashion in questi anni, dal mio punto di vista, è il fatto che ci siano tanti brand che si copiano fra di loro. La creatività è un ingrediente indispensabile per chi vuole fare questo lavoro. Fatto che esclude il copiare il passato o le strategie altrui. Il mio augurio è che la moda non diventi un’industria di marketing ma che resti culla di creatività nel rispetto della storia di ciascun marchio.

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Brunello Cucinelli

brunello cucinelli È stato uno dei protagonisti indiscussi del 2012. la sua azienda È RIUSCITA A CONQUISTARE IL MERCATO FINANZIARIO E QUELLO REALE. E SENZA RINUNCIARE AL CONCETTO DI IDENTITÀ TIPICO DEL SUO MADE IN ITALY, TRADIZIONALE E COOL. Chiara Bottoni

P

rotagonista del binomio moda-finanza nel 2012, Brunello Cucinelli chiude un anno da record sotto molti aspetti. L’imprenditore umbro del cashmere, il cui marchio è diventato nel mondo l’espressione di una vera e propria filosofia di vita e quintessenza dell’Italian style, ha osato quello che ai più sarebbe sembrato un azzardo, uscendone vincitore a pieno titolo. In un anno difficile per l’economia e per l’Italia in particolare, Cucinelli è riuscito infatti a portare la sua azienda in Borsa lo scorso aprile, mettendo a segno un rialzo del titolo di quasi il 50% nel giorno del debutto. Debutto a cui hanno fatto seguito risultati eccellenti nel corso di tutto l’anno. Questo a conferma dell’attrattività che i titoli del lusso esercitano sugli investitori ma anche a dimostrazione del potere del made in Italy nel mondo. «Il mondo vede l’Italia come qualcosa di speciale, la gente è innamorata delle nostre bellezze», ha sottolineato Cucinelli in questa intervista. E dimostrazione ne sono anche i risultati di un gruppo che ha chiuso i nove mesi a 220,2 milioni di euro di fatturato (+15,2%), grazie ai mercati stranieri, che sono arrivati a ritagliarsi il 73% del turnover complessivo con ricavi in crescita del 25%. Presupposti solidi per avviare il 2013 con entusiasmo tra aperture di punti vendita, dato che per il nuovo anno sono già stati stipulati accordi per 12 nuove location, e investimenti significativi come quello previsto di circa 20 milioni di euro (di cui 5 già versati nel 2012) per l’ampliamento della fabbrica umbra. Un ulteriore segnale, quest’ultimo, dello stato di salute in cui versa l’azienda. E un messaggio positivo per l’Italia intera, un paese in cui credere, come ha ribadito più volte l’imprenditore in questa intervista. Domanda. Come ricorderà il 2012? Questo è stato l’anno speciale della nostra azienda e della mia vita. Ci siamo quotati con risultati significativi in un momento storico difficile e siamo stati premiati. L’aver avuto, a metà del roadshow, domande 18 volte superiori l’offerta è stato un messaggio straordinario per noi e per tutta l’Italia. È stato inoltre un anno positivo anche dal punto di vista dei risultati e sotto il profilo dell’immagine. Abbiamo veicolato nel mondo un bel prêt-à-porter di lusso, che il mercato ha dimostrato di apprezzare. Che cosa ha dato all’azienda la quotazione? Ha dato tantissimo. Moltissima visibilità, internazionalità e apertura. Ci ha dato anche più sicurezza perché ci ha abituati a essere ancora più rigorosi. La consapevolezza di essere ormai un’azienda pubblica è uno stimolo continuo a fare ancora di più e meglio. Essersi quotati a Milano è stato un valore aggiunto? Per me ha avuto un significato particolare. Sono fiero di essere italiano e di

essermi quotato in Italia. Le bellezze del nostro Paese sono un valore che tutto il mondo apprezza. Perché il lusso affascina così tanto i nuovi consumatori? Perché il lusso è qualcosa di unico che l’Italia è capace di veicolare e di trasmettere al meglio. Abbiamo come Paese tantissime possibilità nell’alto di gamma a patto di mantenere una certa esclusività nella distribuzione. Continuo a riporre fiducia in prodotti che assommino i valori di qualità, manualità e creatività del Made in Italy, distribuiti però con una certa saggezza. Quali sono stati i mercati migliori? L’America, cresciuta nei nove mesi del 28%, è per noi un mercato importantissimo. Grande soddisfazione ce l’ha data però anche l’Europa (+17,8%) e tutti i mercati emergenti sono in sviluppo. L’Italia ha purtroppo registrato un calo del 6% ma a fronte di diversi anni di grande crescita. Come ha fatto a conquistare il consumatore americano tanto da far diventare gli Stati Uniti il vostro primo mercato? Siamo stati capaci di comunicare molto bene l’idea del marchio e del prodotto, curando ogni dettaglio dall’immagine generale al visual merchandising. Chi visita i nostri corner nei vari department store del Paese ha la possibilità di respirare la cultura e l’artigianalità italiane. Quell’Italia bella di cui Roberto Benigni ha parlato nel suo recente intervento televisivo. Un paese autentico, che produce e che fa. Avete in programma un’ampliamento della sede produttiva di Solomeo per far fronte alla crescita dell’azienda. Cosa può raccontare in merito? Entro febbraio/marzo del 2014 raddoppieremo tutte le strutture esistenti, rispettando la filosofia dell’attuale sito produttivo di Solomeo. La nuova sede, che sorgerà sempre immersa nel verde del territorio umbro, ci permetterà di lavorare in serenità per circa cinque/sei anni. Come vede il 2013? Lo vedo come un anno positivo per il mercato del lusso assoluto. E, conseguentemente, anche per la nostra azienda. Che messaggio vuole dare all’Italia in questo momento complesso per il Paese? Negli ultimi mesi, ho viaggiato moltissimo e mi sono reso conto, con gioia, che il mondo ci vede come qualcosa di unico, ci osserva con sguardo ammirato. La gente è innamorata delle nostre bellezze e ha il desiderio di acquistare i nostri manufatti speciali. Il nostro Paese, e l’Europa in generale, hanno ancora tanto da offrire. Perciò, parafrasando Obama, mi sento di dire che per l’Italia il periodo migliore deve ancora venire.

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Entre Amis alla conquista del mondo

è

una storia che fa sperare quella di Entre Amis. Il marchio che fa capo alla Ca Group della Holding M.G.A della famiglia Casillo non teme la crisi e anzi la sfida continuando ad investire forza creativa ed energie in nuovi progetti. Lanciato nel 2007, Entre Amis sceglie di rivolgersi ad un pubblico raffinato che ne coglie valori e qualità: la sartoria napoletana vive una nuova primavera attraverso l’efficacia di una collezione di pantaloni che fa dell’avanguardia un suo fiore all’occhiello. All’inizio c’è l’attenzione per il guardaroba femminile con 1500 capi che diventano subito oltre 27mila grazie all’introduzione della capsule collection di pantaloni maschili. Oggi il mondo Entre Amis rappresenta la voglia e la capacità dell’Italia che non si arrende e che porta la sua eccellenza nel mondo. Con un fatturato in costante crescita il marchio si afferma su tutte le piazze che contano, basti pensare che le collezioni sono presenti nei principali 400 multimarca italiani. In Italia certo ma anche all’estero ed è proprio sui mercati stranieri che la società si prepara a scommettere. Con la primavera/estate 2012 vengono siglati accordi distributivi in Scandinavia, Olanda, la Spagna e Benelux mentre nuovi clienti arrivano da Svizzera, Corea, Cina e Germania. Con un fatturato che per la p/e 2013 cresce del 26,7% portando i capi a quota 50 mila, Entre Amis faTutti i dati e le informazioni contenuti nel presente Focus sono stati forniti dall’Azienda che ne garantisce correttezza e veridicità, a soli fini informativi.


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rà anche meglio con l’invernale con una previsione di incrementare il giro d’affari del 60,2% per 60 mila capi prodotti. Ma non è tutto, per i prossimi tre anni la società partenopea si allea con la nipponica Interbridge Corporation per lo sviluppo del mercato del Sol Levante mentre sotto il profilo creativo nascono due nuove realtà. Si tratta della capsule collection Coroglio by Entre Amis, un progetto dedicato al beachwear che sarà presentato alla prossima edizione di Pitti e il cui ricavato sarà in parte devoluto alla ricostruzione dell’importante polo scientifico della Città della Scienza recentemente distrutta da un incendio doloso. Subito dopo l’intera collezione Entre Amis farà il suo debutto al Premium di Berlino mentre a Pitti Bimbo debutterà Entre Amis Garçon, la prima collezione bimbo dell’azienda. Entre Amis racconta un’Italia nuova e di successo. Che parte da Napoli per conquistare tutto il mondo con il suo charme e la sua progettualità.


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Fracomina goes global

C

ontinua la corsa di Fracomina. Il marchio che, insieme ai brand Fracomina Mini, Fracomina Bluefeel, e M!a F, fa capo alla holding campana P.F.C.M.N.A. SpA della famiglia Prisco, non smette di crescere e guardare all’estero. Il Gruppo nasce dall’esperienza di una famiglia che, per quasi 80 anni, tre generazioni, si è dedicata con passione all’universo del tessile. Ma è nel ’94 che questa realtà napoletana mette le basi per spiccare il volo. Entrati in azienda, i 5 fratelli Prisco ridisegnano la società con l’obiettivo di portare l’eccellenza italiana in tutto il mondo. Il risultato è il lancio, all’ inizio del 2000, del primo marchio di casa Fracomina. Che si distingue subi-

to dagli altri marchi presenti sul mercato perché riesce a coniugare il mondo fashion all’orgoglio di un’identità fortemente italiana. Nel giro di pochi anni, l’offerta si arricchisce pensando a soddisfare tutte le sfaccettature di una clientela femminile. Nasce così Fracomina Mini, un progetto moda interamente dedicato alle bimbe, poi Fracomina Bluefeel che fa del Denim una filosofia di stile e infine dall’autunno / inverno 2012/13 anche M!a F.

la collezione pensata e realizzata per un pubblico adulto esigente e raffinato. E se il tandem creatività e professionalità è alla base del successo del Gruppo, non da meno è la visione dei suoi proprietari che fanno sì che oggi esistano 12 boutique monomarca e oltre 1000 i punti vendita wholesale in Italia mentre all’estero sono 400 con un peso del 30% sui risultati. Riconosciuto e consolidato in Italia dove si prevedono nuovi monomarca in piaz-

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ze prestigiose, il mondo di Fracomina punta sull’espansione estera. Dopo Spagna, Portogallo, Olanda, Polonia, Belgio e Grecia e l’area dell’ex-Jugoslavia, il Gruppo potenzierà la sua presenza nei terrori dell’ex-Urss ma anche in Estremo Oriente e Usa grazie a nuovi accordi distributivi.

Nella pagina accanto, in alto campagna adv PE 2013 un ritratto di Nando Prisco CEO dell’azienda e in basso immagine tratta dall’ultima sfilata di Fracomina. In questa pagina una selezione di immagini tratte dall’ultima sfilata di Fracomina

Last but not least il mondo di Fracomina è anche on-line con uno store che va ben oltre lo shopping. Collegandosi a shop.fracomina.it si accede a una nuova dimensione fashion dove il cliente è protagonista assoluto che può sì acquistare la collezione ma anche informarsi sulle ultime tendenze, condividere contenuti e vivere a 360° il marchio.


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Herno veste l’élite

Nelle immagini l’interno dell’headquarter Herno e un ritratto del presidente Claudio Marenzi

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asce alla fine degli anni 40’ sul Lago Maggiore il mondo Herno. Che rilegge in chiave contemporanea le caratteristiche e le eccellenze del luogo. E’ il lago con i suoi colori, con l’incertezza meteorologica e le suggestioni della natura di Lesa a fare da filo conduttore all’impresa fondata da Giuseppe e Alessandra Diana Marenzi. La coppia, forte dell’intuito commerciale di lui e della competenza tecnica di lei, traccia le regole di un nuovo concetto di stile che unisce eleganza e pragmatismo. Il risultato, all’inizio, ruota attorno all’impermeabile, già allora capo imprescindibile del guardaroba maschile, che diventa elemento distintivo e portavoce di un made in Italy autentico. Dal rainwear maschile alle prime collezioni donna il passaggio è stato fisiologico, già negli anni ’50 ci sono i primi modelli, fino ad aggiungere una nuova eccellenza: la manifattura in cashmere. Specialisti del capo spalla, i Marenzi dopo aver sviluppato le collezioni pioggia puntano sulla fibra più nobile diventando i maestri delle lavora-

zioni double. L’introduzione del cashmere, da un lato fa da volano all’espansione in Europa, dall’altro inizia ad attirare l’attenzione di grandi griffe sempre alla ricerca dell’eccellenza manifatturiera italiana. A partire dagli anni ‘70 Herno diventa un marchio globale, pioniere all’estero è tra i primi a d inaugurare boutique in Giappone e a scommettere sugli Usa. Con l’inizio del nuovo Millennio è Claudio Marenzi a prendere in mano le redini della società di Lesa. I valori e il dna dell’impresa vengono potenziati dal giovane imprenditore che diviene partner dei principali marchi del lusso italiano ed internazionale che si affidano ad Herno per la produzione dei loro capi spalla più lussuosi. Oggi il mondo Herno, 30 milioni di euro di fatturato 2012, un flagshipstore a Milano e una rete di oltre 800 top buyer nel mondo, continua a dettare legge nel segmento outwear più raffinato. Dall’impermeabile al duvet, dall’ingegneria sartoriale di Herno Laminar alla nuova collezione Herno Kids passando per i cappotti, Herno veste l’alta borghesia colta.

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Il mondo Herno e l’immagine della campagna pubblicitaria

Da destra, due proposte Herno, due modelli Herno Laminar e due capi della nuova collezione Herno Kids


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Il menswear deluxe di Inghirami

è

l’eccellenza del made in Italy che va in scena con Inghirami. Il gruppo di Sansepolcro, fondato dall’avvocato Fabio Inghirami nel 1949, rappresenta una delle realtà italiane più distintive nel panorama del tessile e abbigliamento non solo italiano ma anche internazionale. Capace di interpretare l’eleganza più classica, al Gruppo fanno capo aziende e marchi come Duca Visconti di Modrone, Ingram, Fabio Inghirami ,Reporter, Pancaldi, Sanremo e Robert Friedman che da sempre hanno un ruolo da protagonista nel guardaroba dell’uomo elegante. Che sceglie questi marchi consapevole di acquistare prodotti concreti che vengono realizzati sotto l’attento controllo di personale specialzzato e nel pieno rispetto delle regole sociali. Così, da sempre, la camicia può essere solo Ingram. Che veste intere generazioni grazie ad un’offerta completa ed organica dove trovano posto proposte formali e classi-

che, camicie di nuova generazione come il modello Slim che coniuga moda e buon gusto ma anche il progetto ecocompatibile brevettato Cottonstir. Dalla camicia all’abito il passaggio è fisiologico con Reporter che dal 1994, anno in cui entra a far parte del Gruppo Inghirami, traduce in realtà l’allure dell’immagine di un cult movie come Progfessione Reporter di Michelangelo Antonioni. Il film venne presentato al Festival di Cannes nel 1975 e subito entrò nell’immaginifico globale per il suo spirito innovativo ma anche per un’immagine inaspettata e senza tempo. Da quell’icona cinematografica trae ispirazione un marchio di abbigliamento che oggi è diffuso in tutti i mercati del mondo ed è posizionato nei principali negozi e apprezzato. Perchè l’eleganza non è a tempo, è una questione di personalità ed eccellenza manifatturiera. www.inghirami.com

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In sella con Le Coq Sportif

è

una grande storia di eccellenza quella che lega Le Coq Sportif al mondo dello sport. Nato nel 1882 dallo spirito imprenditoriale di Emile Camuset, a oltre 130 anni di distanza, il galletto sportivo continua a rappresentare i migliori valori delle principali competizioni sportive. Nel 1951 la società di Romilly-Sur-Seine diviene, per la prima volta, fornitore ufficiale delle maglie del Tour de France, un momento che segna l’inizio di partnership altolocate in tutte le discipline. Basti pensare che Le Coq Sportif negli anni ha firmato le maglie del team francese alle Olimpiadi di Roma del 1960, il look di Arthur Ashe nel ‘75 vincitore a Wimbledon e poi ancora la nazionale di Rugby francese e quella Italiana Campione del mondo di Calcio nel 1982. A partire dagli anni ‘80, Le Coq Sportif veste con successo sportivi del calibro di Justine Henin, Yannik Noah, Diego Armando Maradona e la nazionale Argentina vincitrice dei Mondiali in Messico e anche Joakim Noah centrale dei Chicago Bulls con cui firma una prestigiosa scarpa tecnica. Lo sport è nel Dna di Le Coq Sportif che ne esalta i valori più autentici ma è con il ciclismo che si sublima questa vocazione. Nel 2012, in occasione dei 130 anni dell’azienda, Le Coq Sportif

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torna al suo grande amore, Il Tour de France, in partnership con Amaury Sport Organisation. Fornitore ufficiale dei campioni del Tour de France, partner della Vuelta, della Parigi-Nizza e della famosa Parigi- Roubaix , il marchio del galletto quest’anno ribadisce il suo expertise nel segmento cycling performance, con la realizzazione della Maglia Gialla nell’anno del centenario della più grande corsa ciclistica al mondo. La nuova Maglia Gialla è un concentrato di know-how, ricerca tecnologica e stile. Studiata nei minimi particolari per essere partner attivo dei campioni di ciclismo, la Maglia Gialla presenta dettagli catarifrangenti, quest’anno per la prima volta l’arrivo sarà in notturna, accorgimenti di ultima generazione e un tocco di stile alla francese: Il collo si ispira alla maglia del Tour del 1951, le iniziali HD e una frase, entrambi catarifrangenti, rendono omaggio a Henri Desgrange, fondatore della Grande Boucle. Non solo, per l’occasione, Le Coq Sportif ha creato anche “Nuit Noire” una capsule collection in edizione limitata con le stesse caratteristiche tecniche ed estetiche delle maglie dei leader del Tour de France 2013. Questa esclusiva capsule collection, disponibile in edizione limitata, comprende : una maglia, un giubbino e un gilet.


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MET, 10 anni di Gioie

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embra ieri, quando nel 2003 il Gruppo Italservices decise di regalare al progetto MET una capsule collection ad alto tasso glamour. Si tratta di Gioie che oggi compie 10 anni di femminilità e stile. Perché Gioie non è semplicemente un tema, da sviluppare stagione dopo stagione all’interno del mondo Met, è un progetto organico, dove il jeans, vero protagonista della moda del nuovo secolo, si allea con la manifattura, anche quella artigianale, per dare vita a nuove interpretazioni creative. Il successo di Gioie nasce, in primis, dalla volontà di un gruppo internazionale come Italservices da 130 milioni di euro di fatturato, di non limitarsi a proporre un guar-

daroba ma innovare costantemente per rispondere alle esigenze della sua clientela. Nell’anno del decimo anniversario Met potenzia ulteriormente il pacchetto Gioie con un total look di un centinaio di pezzi con le famose vestibilità tipiche del marchio, una selezione di 20 accessori e un’inaspettata varietà di lavorazioni, applicazioni in cristallo, pietre e declinazioni anche metal. Disponibile dall’autunno/inverno 2013/2014 la nuova collezione detta le regole di un guardaroba potente che è già stato selezionato da celebrities globali del calibro di Halle Berry, Paris Hilton e Sharon Stone. Gioie X°, che sarà venduto con un packaging speciale, rappresenta l’occasione non solo

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per raccontare 10 anni di ricerca ma anche per sottolineare la passione per il jeans che da sempre guida Gegè Schiena e Lena Schiena, rispettivamente direttore creativo del marchio Met e responsabile della collezione Gioie. La collezione anniversario è un’occasione per ricordare gli esordi, come dimenticare il primo Gioie, un pantalone con cascata di mini Swarovski sulla gamba, che nel giro di una stagione rivoluzionò l’idea di casual nei principali negozi italiani ed internazionali, ma soprattutto per guardare a domani. A tutto denim.


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Cesare Paciotti, la storia di una passione globale

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ogno e realtà. Rock and Royalty. Parte da Civitanova Marche il viaggio creativo di Cesare Paciotti. BFF delle principali celebrities internazionali, il designer è ambasciatore dell’eccellenza made in Italy nel mondo grazie a collezioni di calzature innovative che dettano le regole dei trend più attuali. Alla base del successo dell’azienda, fondata dalla famiglia Paciotti nel 1948, c’è l’expertise di una terra che produce calzature e pelletteria da sempre, ma anche la capacità di guardare al mondo con entusiasmo e determinazione. L’arrivo di Cesare Paciotti nel 1980 in azienda rappresenta il momento chiave in cui la società da eccellente supplier per le principali griffe italiane ed internazionali, diventa anche brand graTutti i dati e le informazioni contenuti nel presente Focus sono stati forniti dall’Azienda che ne garantisce correttezza e veridicità, a soli fini informativi.

zie alla visione cosmopolita e all’avanguardia del giovane presidente. Che unisce alla capacità produttiva artigianale una visione forte, inaspettata sul mercato, che conquista nel giro di poco il pubblico, la stampa e le celebrities più influenti e affascinanti del mondo. La forza di Cesare Paciotti consiste nella capacità di non aver mai rinnegato il suo Dna ma anzi di averlo potenziato facendo squadra all’interno di una famiglia dai grandi valori. Azienda affidabile e di successo, la Cesare Paciotti ha portato in tutto il mondo il savoir faire italiano, quel gusto e quell’empatia che tut-


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Nella pagina di sinistra: da sinistra il ritratto di Cesare Paciotti e una selezione di campagne pubblicitarie. In questa pagina: dall’alto celebrities in Cesare Paciott e una campagna pubblicitaria

ti ci invidiano. Azienda orgogliosamente familiare, la realtà marchigiana ha fatto delle sue caratteristiche un punto di forza, ha reso possibile una creatività di nuova concezione unita alla manualità artigiana, un mix esplosivo che si è subito imposto nelle migliori location del lusso internazionale. Da Carla Bruni a Karen Mulder fino a Bianca Balti e Anja Rubik per citarne solo alcune, le top model diventano fan di Cesare Paciotti per cui interpretano alcune delle campagne pubblicitarie più significative della moda contemporanea. Il red carpet degli eventi più prestigiosi diventa la seconda casa di Cesare Paciotti, una vetrina scintillante che porta in tutto il mondo il marchio grazie a nomi del calibro di Cameron Diaz, Anne Hathaway, Paris Hilton, Sienna Miller ed Elisabetta Canalis. Dalla prima boutique, inaugurata nel 1984 in via Sant’Andrea, dove hanno sede anche lo showroom e l’ufficio stampa, il successo è interplanetario e porta l’imprenditore visionario a portare il suo stile in tutto il mondo: dagli Usa all’Estremo Oriente passando per le nuove piazze del lusso, ogni città ha il suo monomarca per far sognare le donne e gli uomini che fanno dello stile un concetto mai banale.


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L’eleganza semplice di Petit Bateau

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entoventi anni. E’ questo lo speciale compleanno che Petit Bateau festeggia nel 2013. Un anniversario straordinario di una maison francese che grazie alla sua creatività veste da 0 a 924 mesi. Fondata a Troyes da Pierre Valton nel 1893, nel 1988 è acquisita dal gruppo Yves Rocher ma per tutti Petit Bateau è la marca del cuore: le sue t-shirt, le culotte e la Mariniere sono capi icona che hanno accompagnato e continuano a piacere a intere generazioni. In Europa come in tutto il resto del mondo. Basti pensare che oggi l’azienda possiede 6 filiali, conta 230 boutique monomarca ed è distribuita nei migliori department store internazionali, nella grande distribuzione, nei multimarca, nei franchising e online con risultati più che positivi. Nell’anno delle 120 candeline, l’azienda del piccolo battello unisce tradizione e ricerca. Da un lato, con la suggestiva retrospettiva Made In Troyes che fino al 7 luglio, attraverso quarantadue scatti del fotografo d’arte Stéphane Remael, racconta la quotidianità dei dipendenti della fabbrica Saint Joseph in un percorso organico che attraversa tutta la città. Dall’altro, sceglie Gildas Loaëc e Masaya Kuroki della Maison Kitsuné come nuovi direttori artistici delle collezioni adulto uomo e donna dall’autunno/inverno 2013. Quello tra Petit Bateau e Kitsunè è un sodalizio vincente: nel 2009 il laboratorio di idee parigino, nato come etichetta musicale si è evoluto in fashion brand, aveva firmato una prima capsule collection contraddistinta da un logo a nodo marinaio a forma di cuore. Un successo globale che ora diventa un nuovo capitolo della storia di Petit Bateau, come ha spiegato il Direttore Generale Patrick

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Pergament, “Petit Bateau sta attraversando una fase importante della sua storia e di sicuro questo cambiamento non passerà inosservato. Siamo entusiasti per questa unione tra il nostro know-how e l’estro delle nuove generazioni. La nostra esperienza e il loro stile molto personale si combineranno per creare dei nuovi classici per gli adulti”. www.petit-bateau.it


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Silvian Heach a ritmo di dance

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’è tutta la forza creativa di un gruppo all’avanguardia nella nuova collezione autunno/inverno 2013-14 firmata Silvian Heach. Il marchio ammiraglio del gruppo Arav da 90 milioni di euro di fatturato nel 2012, è pronto a dettare legge nel mare magnum della moda contemporanea. Frutto dell’expertise e della visione di Mena Marano e Giuseppe Ammaturo, il marchio lanciato nel 2002, in poco più di un decennio si è distinto per la capacità di innovazione e soprattutto per la semplicità con cui interpreta e soddisfa i desideri di una clientela al femminile. Così la prossima stagione fredda sarà frizzante e seducente grazie ad una collezione che trae ispirazione dagli anni ‘80 per declinare un guardaroba affascinante dove trovano posto abiti da red carpet e felpe revival. Rock Star Style e Grunge gILET haSSEL PGA13185GL CH ShIRT TERRI CVA13276CA HB SKIRT gOOdmaN LFA13205GO CR

Chic, sono questi i due temi portanti della collezione Silvian Heach che, dalla fine dell’estate, irromperanno nei 75 monomarca del marchio in 30 paesi e negli oltre 2400 punti vendita tra Italia ed estero. Ed è proprio il progetto retail ad essere al centro della crescita di Silvian Heach, ma anche della sua costola Silvian Heach Kids, che scommette sull’Italia con il potenziamento del numero delle insegne nelle località a più alta vocazione turistica partendo da Ischia e dalla Sicilia. “Siamo davvero molto soddisfatti di come il nostro progetto di espansione prosegua con così grande successo per accrescere la distribuzione dei nostri marchi ed incrementarne la brand awareness a livello nazionale”, ha sottolineato l’amministratore delegato Mena Marano, “L’area del Golfo di Napoli e la Sicilia sono da sempre meta prediletta di turisti provenienti da tutto il mondo, garantendoci co-

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sì un elevato potenziale di visibilità. La presenza internazionale è infatti estremamente alta in queste aree, soprattutto nella stagione estiva, ed essere presenti ci consente di abbracciare un vasto bacino di consumatori grazie all’ampia gamma dei nostri prodotti sempre più apprezzati sia in Italia che all’estero”.

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MF

il quotidiano dei mercati finanziari

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