Mfl32 gen feb 2014

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MFL

Magazine For Living

w w w. m f f a s h i o n . c o m

n. 32. GENNAIO/fEbbrAIO 2014. Solo in abbinamento con Mf/Mercati finanziari - IT Euro 4,50 (3,00 + 1,50) bIMESTrAlE

house/il rifugio deluxe creato da tommy hilfiger

Supplemento al numero odierno di MF/Mercati Finanziari. Estero: BE 6,00 â‚Ź. Spedizione in abbonamento postale L. 46/2004 art. 1 C. 1 DCB Milano

people/le follie primitive di maria pergay per fendi

american

art-furniture/tutti i cult objects di design miami

il sogno a stelle e strisce contamina il design. in un caleidoscopio di cultura pop e abitare made in usa





Openview

American Beauty Living in America cantava James Brown. E parte proprio da questo ritornello il nuovo numero di MFL - Magazine For Living, progetto editoriale studiato per raccontare un lifestyle di lusso. In un volo di cultura pop, in un remixage di idee e di suggestioni per celebrare il Paese simbolo del consumismo, ma non solo. La sua iconica bandiera, i suoi simboli più sfacciati, la sua capacità di raccontare il contemporaneo e la sua voglia perenne di immaginare il futuro. Un domani immaginifico, speciale. Pronto a diventare realtà di lì a qualche anno. E allora il racconto parte proprio dalla celebrazione dell’America flag: 13 strisce rosse e bianche, le 13 colonie originarie, e 50 piccole stelle in un rettangolo blu, i 50 Stati federati degli Stati Uniti. Quel drappo che ha ispirato l’arte, la musica, la moda, lo sport. In un omaggio a 360 gradi. Ma Usa è prima di tutto un modo di vivere. Incarnato da icone come Tommy Hilfiger. Interpretato dagli artisti che affollano Design Miami. Usa è un puzzle di simboli inequivocabili e planetari: le pom-pom girl, i baseball cap, le Nike Air Jordan regine del basket, la bottiglietta della Coca-Cola, la mela della Apple o i gorgheggi di Bob Dylan. Perché la sigla di United States of America è, prima di tutto, un ricordo. Sedimentato nella memoria, complice un mix di cultura televisiva e cinematografica. Pronta a farci sentire un po’ tutti quanti cittadini americani. Giampietro Baudo


Sommario 8 10 e 11 12 a 17 19 20 22 24 26 28 e 29

in Cover Un overview del progetto Metamorphosis Design collaboration Maria Pergay per Fendi, presentato a Design Miami

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01. Cabinet pétales, armadio in acciaio inox policromo, legno e pelle 02. Cabinets Arlequin, armadio in ebano e amaranto, acciaio inox, guscio d’uovo e galuchat

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03. Torchères flammes, lampade in ferro battuto, acciaio inox, rete in rame e LED 04. Uno scorcio dell’allestimento andato in scena a Design Miami

Foto Stefano Roncato - Artwork Giorgio Tentolini

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Evergreen/Un Ego sconfinato di Camilla Gusti Follie/Una signora inossidabile di Cristina Morozzi Atmosfere/Stars and stripes di Matteo Zampollo Photo/Pom-pom (granny) girl di Francesca Manuzzi Food/Macelleria made in Usa di Matteo Zampollo Anniversary/Celebrating a New era di Matteo Zampollo Collectibles/Jordan special pack di Francesca Manuzzi Sculpture/Fake middle class di Francesca Manuzzi Exhibition/Atelier d’art à la Céline di Elisa Rossi Installation/Recycling Coca-Cola di Elisa Rossi Beauty/Una porta (rossa) su NY di Matteo Zampollo Projects/Miraggi ex tempore di Francesca Manuzzi Architecture/Ciambelle spaziali di Francesca Manuzzi Music/Video democracy di Matteo Zampollo Tommy oasis di Matteo Zampollo, foto Jason Schmidt / Trunk archive / Contrasto American pop-dream di Matteo Zampollo Casa museo di Francesca Manuzzi, foto Tom Kessler Living in America di Barbara Rodeschini, artwork Giorgio Tentolini New York society di Matteo Zampollo A noir portrait servizio Stefano Roncato, foto Michele De Andreis Product/The flag, Bianco purezza, Blu perseveranza, Rosso coraggio di Barbara Rodeschini Story teller/La magia dell’arredo di Camilla Gusti


Alice Bedroom design Alessandro La Spada


2008

Evergreen

Un Ego sconfinato Leggerezza e trasparenza, all’insegna di un rigore quasi minimalista grazie al sapiente uso di materiali tecnologici innovativi. Si può descrivere così Ego, uno dei fiori all’occhiello di Poliform, realtà industriale con sede a Inverigo (Como), che ha fatto della continua ricerca della qualità la propria missione, rinnovando le proprie proposte per interpretare sempre al meglio gli stili di vita e i trend contemporanei. Ideata nel 2008 dal progettista e architetto Giuseppe Bavuso, la cabina armadio dai lineamenti avveniristici è stata concepita come pura riduzione di un volume geometrico al suo unico contorno: un’interpretazione all’insegna della massima purezza, sottolineata dagli schienali in vetro trasparente. Con quattro aperture: a battente, a libro, scorrevole e complanare e un’attrezzatura interna completa, pensata per consentire di immagi-

nare un ordine sempre più individuale, Ego è basata su un fianco a telaio portante, che ne sottolinea la solidità formale e il rigore geometrico, e da ante più semplici e minimali. Il tutto può essere realizzato in artik bianco, noce e rovere spessart. Le ante e il fianco a telaio sono disponibili in vetro trasparente e riflettente, bronzato e fumé con profilo e maniglia in alluminio verniciato bronzato e laccato opaco. Ego si afferma come una nuova proposta all’avanguardia, dedicata all’ordine dalla massima neutralità e un sistema armadi «senzafine» dalla modularità evoluta, in grado di inserirsi in qualsiasi spazio. È la rappresentazione perfetta dell’estetica della leggerezza, fra spessori sottili e ampie superfici. Capace di riassumere, in un solo oggetto, l’essenza del made in Italy più elegante. Camilla Gusti

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Follie

Una signora inossidabile

Ha 83 anni e li porta con grazia e civetteria. E con quel senso di solidità che caratterizza il materiale che ha scelto per dare forma ai suoi progetti. Tutto questo è Maria Pergay, che a sorpresa ha scelto Fendi per un progetto folle Accoglie i giornalisti che fanno la fila per intervistarla a l’Enclos des Bernardins a Parigi, nell’ambito dell’esposizione «Metamorphose». È seduta nella sala Fendi che ospita le sue creazioni, inedite e vintage, sempre con il sorriso sulle labbra, disponibile a raccontare la sua avventura di esule dalla Russia di Stalin a Parigi. Maria Pergay non avverte il peso degli anni sulle spalle. «Il personaggio della vecchia signora mi accompagna... Ci dialogo, ma non riesco ad abitarlo. L’incarico ricevuto da Silvia Venturini Fendi mi ha fatto superare barriere ed esplorare nuovi territori della creatività. Vado avanti. Non ho il tempo di pensare all’età». La sua carriera di creatrice, non ama essere definita designer perché lo trova riduttivo, inizia ne-

gli anni 60 con oggetti decorativi in argento. Dopo quella prima esperienza apre una Galleria in place des Vosges a Parigi, che diventa presto meta di clienti provenienti da tutto il mondo. «L’incontro con il metallo», ha poi raccontato, «deriva dalla mia formazione di orefice e dalla fascinazione per una materia difficile da plasmare. C’è anche un legame emotivo con la fuga dalla Russia: Stalin in russo vuol dire acciaio. Il suo uso mi ha consentito un percorso originale e permesso una sorta di verginità creativa. Non amo seguire le orme, ma scoprire nuovi orizzonti. L’acciaio mi è parso il materiale ideale, forte e inossidabile, per dare forma alle mie visioni, restituendo la loro componente viscerale, in qualche misura brutale».


L’ufficio incantato

L’installazione, realizzata da Maria Pergay per Fendi all’esposizione «Metamorphose», negli spazi di l’Enclos des Bernardins (nella foto a sinistra), rivela la forza dell’anticonvenzionale fantasia della creatrice e la sua felice disinibizione nell’uso dei materiali, che abbina con grande coraggio, costruendo relazioni improbabili tra legno grezzo e acciaio, tra lucide laccature e fregi barocchi. L’acciaio è il grande protagonista, utilizzato nelle lampade da terra Torcia, che rivelano la sua perizia nel modellare l’acciaio cui regala inedite qualità plastiche, nella seduta che pare un fiore sbocciato. Pelli di leopardo tagliate al vivo, selvagge, fanno da contrappunto alla nitida struttura delle sedute in acciaio. Il tavolo è una coraggiosa ibridazione di rustico e raffinata ebanisteria. L’insieme eclettico rivela il suo personale approccio alla decorazione d’interni.

Tappeto volante

Il letto tappeto volante, una sinuosa lastra in acciaio simile alla silhouette di un corpo in abbandono e sorretta da un monolitico basamento, accoglie una sottile imbottitura (nella foto a sinistra). Si tratta di un pezzo storico, immortalato anche con una giovane Brigitte Bardot sdraiata sopra. Creato nel 1968 divenne rapidamente un pezzo icona, particolarmente amato da Pierre Cardin che invitò Maria Pergay a disegnare per il suo marchio. Riscoperto nel 2006 dal gallerista Demisch Danant per cui Maria ha disegnato numerosi pezzi, si rivela con la sua linea fluida di assoluta contemporaneità ed è desinato a far parte della collezione in serie limitata di design artistico di Fendi casa.

Chaise Lion

La struttura in acciaio scatolato sorregge una seduta, costituita da un foglio di acciaio, modellato in morbide pieghe, quasi fosse un duttile velluto decorato, con al centro una stampa animalier (nella foto a destra). Il bracciolo e le gambe anteriori, che terminano con elaborati fregi dorati di gusto barocco, rivelano il rimando alla memoria, contrappunto all’impianto moderno del disegno. Una soffice pelliccia leopardata, tagliata al vivo, appoggiata in modo informale, regala un’immagine volutamente selvaggia. L’elaborato pezzo è stato creato da Maria Pergay per Fendi in occasione di design Miami 2013 ed è stato esposto in anteprima a Parigi nell’ambito della mostra «Metamorphose». La presenza della pelliccia sottolinea il legame con la tradizione della maison romana.

Table Marronnier

Il legno grezzo, tagliato a blocchi, è per Maria Pergay il compagno ideale dell’acciaio. Questo tavolo basso, un pezzo inedito, creato per la rinnovata boutique Fendi di avenue Montaigne e destinato a essere replicato in edizione limitata, è da considerarsi una perfetta sintesi della poetica di Maria (nella foto a sinistra). Gambe possenti, simbolo della forza della natura, fanno da controcanto a un piano nitido, sagomato da curve delicate. L’inclusione al centro, raffigurante la sezione di un tronco d’albero, rappresenta l’importanza del decoro, che non manca neppure nelle realizzazioni brutaliste. a cura di Cristina Morozzi

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L'opera fotografica Jasper Johns Oval Office, creata da Jon Rafman


Atmosfere

Stars & stripes Chissà se la storia di Betsy Ross è vera. Chissà se, davvero, una sarta di 24 anni prese le indicazioni personali di George Washington e realizzò a mano la prima bandiera degli Stati Uniti. E, non contenta del ruolo, lo fece travisando le indicazioni dello stesso Washington, riguardo il numero delle punte delle stelle. Certo è che quella sarta di Philadelphia ha creato più di tutti il vero simbolo degli Stati Uniti d'America. E, di conseguenza, un'icona che ha segnato la storia mondiale. Che è stata masticata e rimescolata innumerevoli volte, in altrettanti modi differenti. E forse la sua reinterpretazione più famosa, quella stampata nella memoria popolare Usa, è quella firmata Jasper Johns. Autore di opere ispirate ai «luoghi comuni», al riciclo di idee davvero trasversali. Alla condivisione dell'ispirazione. La prima bandiera gli apparve in sogno, una notte del 1954. E si svegliò con l'urgenza di tradurre su tela quel messaggio onirico. Ispirata a lui, anzi, dedicata a lui, l'opera virtuale di Jon Rafman, che aggiunge simboli a simboli. Spalma il logo bianco rosso e blu all'interno dello Studio ovale della Casa bianca. Tapezza di Stars & stripes il centro del governo degli States. Realizzando il nuovo sogno hyperamericano.

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Esagerata e sempre sopra le righe. L'essere oltre appartiene decisamente al carattere di Lady Gaga. Icona massima di come la moda abbia incontrato il pop, ha contribuito a sdoganare nomi di nicchIa in ambito fashion, rendendoli conosciuti a un nuovo pubblico. È del 2010 il mega singolo in collaborazione con un'altra regina della musica Usa, Beyoncé. Telephone, il secondo estratto del suo lavoro The Fame, ha raggiunto vette di notorietà altissime, arrivando al quarto posto tra le classifiche di vendita dei singoli di quell'anno. Il clip, avendo due star di prim'ordine, non poteva essere sussurrato. Una storia tarantiniana di novelle Thelma & Louise in versione gangster, a tratti iperviolento, che diventa una sorta di musical, con coreografie di gruppo e momenti teatrali, dove le due star flirtano con naturalezza con la camera. E per simboleggiare la fama raggiunta, Lady Gaga e Beyoncé si vestono direttamente con la bandiera statunitense. Wonder woman patriottiche, ballano vestite solo di stelle e strisce, accompagnate da un esercito di ballerini in blue-jeans. Quasi a citare il re del rock, Bruce Springsteen. Costantemente in denim, stars and stripes.

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Lady Gaga e Beyoncé in un frame del video Telephone


Un'uscita della collezione Stars and stripes, creata da Viktor & Rolf nell'a-i 2000/01

Se l'ambizione deve passare dal popolare, allora che sia davvero popolare. Forse questo il ragionamento di Viktor & Rolf, coppia creativa belga con il cuore a Parigi, per creare il loro ritorno al pret-à-porter. Un ritorno, perché il debutto vero e proprio di Viktor Horsting e Rolf Snoeren era già avvenuto diversi anni prima, con la collezione presentata a Hyeres, piccola cittadina, vero punto di riferimento per una certa schiera di creativi ipervisuali tra moda e fotografia grazie al suo festival. Le incursioni nel mondo della haute couture, e poi il ritorno al ready-to-wear. Quasi una concessione al popolare. Un come-back verso la creatività più accessibile. E cosa scegliere, se non il simbolo pop per eccellenza dell'era contemporanea, la bandiera degli Stati Uniti d'America? Forse unica ispirazione davvero trasversale, riconoscibile in tutto il mondo, che non ha bisogno di alcuna traduzione. Uno statement forte e preciso. Non come esempio da ammirare, ma come mezzo da utilizzare. Il tutto in una collezione, battezzata Stars and stripes, che smonta e rimonta, in forme sempre diverse, l'icona americana. E che, nonostante tutto, riesce sempre a essere se stessa.

Atmosfere


Il finale della collezione Raf Simons fall-winter 2014/15,disegnata assieme a Sterling Ruby


Atmosfere

Un clash di menti ipercreative di solito crea qualcosa di buono. Nello specifico, qualcosa di molto buono. Raf Simons e Sterling Ruby hanno unito le forze ancora una volta, per portare in passerella a Parigi una esclusiva collezione creata in stretta collaborazione. Una passerella che ha strappato applausi, con gocce morbide di Stars and stripes che cadevano dal soffitto, una riedizione dell'installazione Soft work, portata in scena dall'artista americano. Oltre a stampe, colori e dettagli arty, che svettavano sugli outfit creati dal designer belga. Non è la prima volta che le due teste si uniscono: Ruby aveva già creato gli interni dello store di Tokyo di Simons, nel 2008. L'anno successivo, è stato Simons a utilizzare il denim lavorato dall'artista per una collezione dedicata. Nel 2012, invece, i quadri di Sterling Ruby sono stati stampati per l'haute couture di Dior, di cui Simons è direttore artistico. E ora è tempo di celebrare una sorta di co-branding, un nuovo passo nella ricerca sulle culture giovanili di cui Simons si è rivelato esploratore. Scavando nella generazione 2.0 e trovando in Sterling Ruby un alleato solido. Per costruire un esercito di acid kids dalle derive pop-punk, in scena dal prossimo autunno-inverno. Matteo Zampollo

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Photo

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Pom-pom (granny) girl

Le Sun City Poms ritratte da Todd Antony

Sun City! Scandito dal canto: «Datemi una S, datemi una U...». Perché questa cittadina dell'Arizona, non lontana da Phoenix, ha una squadra di ragazze pom-pom speciale. La popolazione è costituita da più di 37 mila residenti in pensione, tanto da autobattezzarsi Senior citizens paradise, di cui 100 che hanno già spento la centesima candelina. Storie di record. Ma è da record anche Todd Antony, fotografo londinese che ha scovato un gruppo di 12 signore dai 50 in su, con la manicure perfetta, pronte per alzare la gamba ad altezza faccia e sventolare nuvole di pom-pom colorati, indossando cappelli da cowboy e abiti in spandex e seta. Sono le Sun City Poms, squadra ufficiale di cheerleading, fondata nel 1979 per incitare il softball locale. Cinquanta parate all'anno in tutto lo Stato, tra frange e perline, calci e mani buttate in aria. Due gior-

ni di shooting sono bastati per mettere insieme un reportage dai toni solarizzati, tra palme e cactus, atmofere à la Lynch e tributi a Coppola. «Penso che queste signore abbiano un'agenda più fitta d'impegni di molta gente non ancora in pensione», ha spiegato il fotografo. «Il fatto più divertente è che al mio ritorno all'inverno inglese, quando ho detto agli amici d'essere appena tornato da una settimana di scatti con delle cheerleader dell'Arizona, hanno tutti pensato di lasciare il lavoro, comprare una cam e partire in nome dell'arte come solo il lobo frontale può dettare, fino a quando non hanno scoperto che la più giovane avesse 55 anni». Ha dell'incredibile e, questa volta, l'ossessione per la giovinezza non si traduce in chirurgia plastica. Ma in una città per la terza età, super giovane. Francesca Manuzzi


Food

Macelleria made in Usa

«Gli agricoltori lo chiamavano per macellare la carne per loro, a 31 cents al giorno. Questo succedeva quando aveva tra i 16 e i 17 anni», ha raccontato Carl Sandburg, storico statunitense di inizio Novecento. E pensare che quel giovane macellaio di campagna, chiamato da tutti Abe, sarebbe diventato qualche decina di anni dopo presidente degli Stati Uniti d'America, conosciuto da tutti come Abraham Lincoln. Può darsi che sia partito da qui, Dominic Episcopo, fotografo di Philadelphia per pensare il suo libro, Meat America. Una serie di fotografie di tagli di carne, sapientemente modellati a ricreare immagini e momenti della storia americana. Quasi tutti gli Stati, i monumenti, i profili dei presidenti, oltre a riferimenti continui alla cultura Made in Usa. «Siamo in un momento in cui abbiamo bisogno di definire i nostri valori e scoprire come dirci davvero Americani, abbiamo bisogno di un manifesto! E avrebbe senso che venisse ricavato proprio dalla carne», ha spiegato Episcopo. Che vede nella carne la passione di una vita e una musa abbastanza inaspettata. Ha evitato quasi sempre tagli netti, tranne dove necessario, modellando totalmente a mano i soggetti delle sue opere, la maggior parte delle volte creati partendo da una costata. E spesso si è trovato a cena con la moglie mangiando lo Stato del New Jersey o Elvis Presley. Citando le parole di Weegee, celebre fotoreporter, Episcopo mette davanti agli occhi non orizzonti spettacolari, panorami invidiabili. Ma un vero e proprio «taste of reality», un boccone di realtà, cruda tra l'altro, tranne che in un paio di occasioni. Attraverso immagini che possono scatenare sentimenti differenti, ma che di sicuro stimolano emozioni e pensieri. Significati politici? No, almeno in origine. Ma lo stesso autore ammette che con il passare del tempo, le sue immagini hanno assunto valori inaspettati, anche opposti tra loro, a seconda dell'osservatore. Perché tutti, in fondo, abbiamo avuto a che fare con la carne. In un modo o nell'altro. Matteo Zampollo Nelle immagini a lato, alcune fotografie tratte dal libro Meat America di Dominic Episcopo

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Anniversary

Una foto degli anni 70 con la collezione completa di New era per la Mlb. In basso, un 59fifty creato per l'anniversario

Celebrating a New era Quando si dice che non tutti i mali vengono per nuocere, sembra sempre la solita frase fatta per alzare il morale dopo un brutto momento. Una pacca sulla spalla che appare quasi inutile. Ma la vita ha fortunatamente insegnato che a volte è proprio così. A volte serve un fatto tragico per far apparire qualcosa di positivo, di stupefacente. Qualcosa che addirittura cambierà per sempre la storia. Il 1954 cambierà per sempre la storia del baseball, nello specifico. Anche grazie a due tragedie, avvenute in posti distanti, in ambiti differenti, di diversa gravità. Ma entrambe mali necessari. Milwuakee, Wisconsin. Marzo 1954. Bobby Thomson, super star dei Milwaukee Braves, si rompe una caviglia in allenamento (Bobby Thomson era quello che tre anni prima aveva realizzato il «shot heard 'round the world», il fuoricampo all'ultimo inning che aveva dato la vittoria alla sua squadra del tempo, i Brooklyn Dodgers). Come suo sostituto, i Braves schierano il ventenne Hank Aaron. È un'altra epoca, Aaron aveva brillato nella Negro league, la lega per giocatori di colore, ed era stato comprato giovanissimo dai Braves. Forse senza il grave infortunio di Thomson, oggi non sarebbe mai arrivato alla ribalta «Ham-

merin' Hank» Aaron, uno dei giocatori più forti della storia, detentore per 33 anni del record di fuori campo nella Mlb. Non tutti i mali vengono per nuocere. Buffalo, New York. Marzo 1954. Harold Koch è ancora in lacrime per la morte del padre, Ehrhardt, avvenuta pochi mesi prima. Nelle sue mani, ora, l'azienda di famiglia che il signor Ehrhardt, immigrato tedesco, aveva fondato nel 1920. La New era cap company, specializzata in cappelli, da qualche anno era approdata nel baseball, unico marchio indipendente a rifornire alcuni dei big team. Ma l'ambizione della famiglia Koch era più alta. E l'unico modo era innovare. Rilanciare. Buttare sul mercato un nuovo prodotto. O meglio, con l'evoluzione di uno già esistente. Asciugate le lacrime, Harold si lancia a disegnare. E disegna il cappellino perfetto. Rinnova dettagli e linee dei fitted già in uso dalle squadre. Crea il 59fitted, il Brooklyn style, come lo chiamavano allora, e di cui è appena stato celebrato il 59° anniversario. Inutile dire il successo clamoroso che, da lì in avanti, il 59fitted regalerà a New era, imponendosi come cappellino ufficiale della lega e diventando un accessorio di moda. Ancora una volta, non tutti i mali vengono per nuocere. Matteo Zampollo

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photo: www.studioventuno.eu

www.ceramicaflaminia.it Mono’Noke’/Patrick Norguet, Compono System/Cappellini e Talarico


Collectibles

Sotto, le sneakers di carta create dall'artista Jason Ruff

Jordan special pack Cos'hanno in comune le Newport cigarettes e un paio di Nike Air Jordan? Le sneakers di Jason Ruff e un bello swoosh, con la differenza che sulle sigarette si ribalta. Le creazioni di Ruff sono eccellenti sculture a bassissimo impatto ambientale, architettate assemblando il cartoncino dei pacchetti di Marlboro, Philip Morris, Natural American spirit e altri brand da tabaccheria, rivisti per un ipotetico Nike store, rifornito di scarpe da basket da collezione. Vizi al quadrato, che l'artista americano riproduce in scala 1:2, grandi circa 11 cm. «Sono frutto di una cultura del consumo. Sono cresciuto con Air Jordan e Joe Camel e l'idea di essere cool era la mia ispirazione quotidiana», ha spiegato l'artista. E chi più di Kanye West e le sue Air Yeezy? Il sesto rapper più ricco del 2013, con i suoi 20 milioni di dollari di giro d'affari, dal 2009 firma un paio di Nike, che Ruff non poteva non rieditare nella loro mini versione eco-friendly e giusto in tempo, considerando che il cantante ha da poco firmato

un contratto con Adidas per il 2014 che non riguarderà solo le calzature (i rumors dicono che disegnerà l'etichetta Y-3 insieme a Yohji Yamamoto, ndr). «Sono sempre stato affascinato dal design delle sneakers e dallo status che un paio di scarpe ti facevano conquistare o perdere negli anni della scuola. Così come da piccolo ai mini-market delle stazioni di benzina m'incuriosivano quelle confezioni dietro alla cassa, un arcobaleno pericoloso e decisamente non per bambini. Il mix delle due passioni è nato quando passeggiando per strada, su un marciapiede, ho trovato una pacchetto di sigarette con uno swoosh. Il gioco era fatto», ha spiegato Ruff, raccontando la nascita del progetto. Che fa diventare arte materica piccole Air Jordan III, tributo alle scarpette che His airness utilizzava nell'88, la sua quarta stagione nell'Nba e nei Chicago bulls, e Air Max 1 premium dedicate al giocatore di baseball cinese Chien-Ming Wang. Francesca Manuzzi


design CRS ALBED

Delmonte s.r.l. via S. Martino 20834 Nova Milanese (MB) t. 0362 367112 info@albed.it - www.albed.it


Sculpture

Fake middle class

alla moglie cicciotta con la macchina fotografica inutilizzata appesa al collo. Poi, giocatori di football dei Dolphin disperati post match o impegnati in una zuffa sul campo, così come il surfista e la fidanzata cheerleader. Tutti come calchi di persone reali, realizzate meticolosamente, curandone capelli, vene, abiti e dettagli effimeri. Hanson, spesso commisurato ad artisti come John de Andrea e George Segal, ha dedicato la sua carriera a quelli che considerava gli invisibili della società: colf, postini, camerieri, operai e turisti super lontani dal sogno americano, nella banalità e malinconia della ruotine. E il libro-album Duane Hanson. Sculptures of the American dream porta sotto i riflettori figure a grandezza naturale in bronzo o vetroresina, persone pseudo reali, provocatoriamente silenziose e sole, rassegnate nel loro cliché. Very Usa. Francesca Manuzzi

La scultura Man on Mower di Duane Hanson (1995)

Come se i personaggi di Hopper prendessero vita. O il celebre grasso dei racconti di Raymond Carver si sedesse sulla nostra panchina al parco. O ancora, i Brillo di Warhol avessero un padrone, che sta per utilizzarli per fare il bucato. Per Duane Hanson, una sorta di sociologo della scultura, nato in Minnesota e adottivo del Sud della Florida, è maniacalità dei dettagli, iperrealismo al 200%. I suoi personaggi, sculture life-like che rappresentano la società americana di metà XX secolo, dagli anni 60 a oggi hanno fatto il passaggio di tutte le massime gallerie. Ultimamente alla Biennale di Venezia è apparsa una turista americana media e dal 20 febbario al 25 maggio 2014 approderà al Museum di Ixelles di Bruxelles. In mostra gli emblemi della cultura di massa statunitense del post seconda guerra mondiale. Uomini di mezza età sovrappeso indossano camicie hawaiiane, fissano ipotetici monumenti insieme


Photo: Cesare Chimenti

Sangiorgio Mobili s.r.l _ Biassono (MB) Italy, via Trento e Trieste 101 _ Tel. +39 039.490 271 Fax: +39 039.490 594 _ e-mail: info@sangiorgiomobili.com _ www.sangiorgiomobili.com


Exhibition


Uno scorcio della mostra «Isa Genzken: Retrospective» al MoMa di New York

Atelier d'art à la Céline

Phoebe Philo e la maison diventano mecenati d'arte, con un progetto a supporto della cultura internazionale Primo step, il lavoro di Isa Genzken al MoMa. Ma è solo l'inizio di una storia Made in Germany. Sono statue, ma anche installazioni, pellicole, fotografie e scritture d'arte. Classe 1948, la tedesca Isa Genzken è considerata una tra le scultrici di maggior contenuto della sua generazione, nonostante negli Stati Uniti il suo nome non sia ancora tra i più altisonanti. È proprio su questo terreno d'anticipo, però, che i veri mecenati lungimiranti si divertono a giocare. E a cambiare il destino degli artisti che promettono grandi successi. A non tradire le aspettative in questo caso ci ha pensato Phoebe Philo, anima creativa della maison Céline, che vedendo i lavori dell'artista non ha avuto dubbi a supportarla in una nuova exhibition all'interno di uno dei musei più ambiti worldwide: il MoMa-Museum of modern art di New York. Scegliendo questo show come progetto inaugurale del Cultural sponsorship programme che il brand di proprietà di Lvmh ha deciso di portare avanti per sostenere, secondo criteri ultra selettivi, i creativi internazionali che dimostrino di essere in linea con la filosofia della griffe d'Oltralpe. «Credo che molte più persone dovrebbero conoscere il talento di quest'artista radical e hardcore», ha commentato Philo. Detto fatto, e l'impegno è esattamente tutto in questa direzione. Inaugurata nei mesi scorsi, «Isa Genzken: Retrospective» rimarrà in calendario fino al prossimo 10 marzo, per poi proseguire il suo lungo percorso verso il Museum of contemporary art di Chicago e terminare l'esperienza al Dallas museum of art nel corso del 2015. Elisa Rossi

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Nella foto, il Coca-Cola crate fan costruito dallo studio Porky Hefer design a Cape town

Installation

Recycling Coca-Cola Stop at the red sign. A Cape town, quello che è uno tra i primissimi claim pubblicitari della Coca-Cola, non poteva trovare una collocazione migliore. Impossibile non vederlo. Lui si chiama Elliot, e a prima occhiata sembra una gigantesca costruzione Lego. Mano a mano che ci si avvicina, però, il rimando a uno dei loghi più conosciuti worldwide diventa immediato: Coca-Cola. Ma cosa ci fa un'installazione colossale firmata bianco su rosso al Victoria & Alfred Waterfront di Città del Capo? Siamo nel 2010 e le menti diabolicamente geniali a cui è affidato il marketing del colosso americano di soft drink hanno un'intuizione brillante: in Sud Africa, quello è l'anno dei Fifa world cup, di cui Coca-Cola rappresenta uno degli sponsor ufficiali. E il tema del riciclo, anche per un'azienda intoccabile quale rappresenta la company di Atalanta, si fa sempre più pressante. È qui che nasce Elliot, simbolo dell'impegno green Coca-

Cola a livello globale in cui si inserisce, tra le altre, l'iniziativa «Live for a difference» con l'obiettivo entro il 2015 di riciclare il 50% dei packaging mondiali. Composto da 4.200 cassette per un'altezza di oltre 20 metri e un peso di circa 27 tonnellate, il titano doveva rimanere sulle rive del porto per appena un anno, esattamente come il fratello Oupa a Johannesburg. Niente da fare, perché l'affetto e la simpatia suscitati, nonché l'essere diventato la maggiore attrazione della città, hanno valso all'Ercole del recupero una vita ben più lunga, conclusasi la scorsa estate ma solo per far proficuamente proseguire agli imballaggi il loro eco-percorso. Dalla compagnia a stelle e strisce rassicurano: Elliot e Oupa non saranno gli unici della famiglia. E a Cape Town è già in discussione una nuova installazione per deliziare gli afecionados della bevanda più amata negli States. Elisa Rossi

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Beauty

La Red door Elizabeth Arden Spa & Beauty boutique di Union square a New York

Una porta (rossa) su NY Cosa si nasconde dietro una porta rossa? Quali sono i segreti custoditi con cura al suo interno? Semplicemente, il mondo di Elizabeth Arden. Il marchio di culto per il beauty newyorkese ha, da poco, aperto il suo nuovo spazio nella Grande mela, il terzo, a Union square. Uno spazio di quasi mille metri quadri, divisi su due piani: il ground floor dedicato alla vendita di prodotti marchiati Arden, mentre al -1 compare l'ampia gamma di servizi di benessere offerti dalla maison. Fondata nel 1910, con l'apertura del primo store sulla Fifth avenue, Elizabeth Arden è diventato con il passare degli anni una realtà imprenditoriale florida. Che è sbarcata anche a Milano, dove, fino al 17 febbraio, come successo nel 2012, ha occupato il quinto piano de la Rinascente di Milano. Una Temporary Spa del brand, dove è stato possibile usufrire di tutti i servizi esclusivi offer-

ti dallo storico marchio del beauty. Dai massaggi ai rapidi beauty fix, fino a consigli di stile e di rinnovamento del look, sotto la supervisione del fashion counselor Paolo Lungo. Un'esperienza che, a Milano come a New York, ha offerto una proposta unica e inimitabile. Oltre ai trattamenti più classici, come il distintivo Massaggio Porta Rossa, noto per il suo duplice effetto antirughe e di idratazione, la Temporary Spa propone un percorso dalla testa ai piedi, che aiuta le clienti a riscoprire se stesse e seguire il motto di Elizabeth Arden: «Every woman has the birthright to be beautiful and natural». Trucco, nail art, hair styling, tutto affidato ai massimi esperti dei vari settori per assicurare il meglio possibile. Un luogo dove ogni donna può trovare il modo giusto di coccolare se stessa. Matteo Zampollo

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idee per la mia casa riflessisrl.it

PICASSO Credenza in rovere poro aperto bianco. Anta mito in acciaio martellato. www.facebook.com/Riflessisrl - Tel. (+39) 085 9031054 - info@riflessisrl.it Store Milano, piazza Velasca 6 - Store Napoli, viale Kennedy 415\ 419



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Projects

Miraggi ex tempore Tre installazioni a tempo determinato nei deserti degli Stati Uniti. Create con differenti usi, ma tutte votate all’arte dell’happening: una casa specchiata, un megastore fake firmato Prada e le strutture in legno del Burning man ge altamente ingegnerizzato, ideato da Phillip K Smith III. L'artista, proprietario da nove anni dei cinque acri su cui è situata l'installazione, ha rieditato questa casetta in legno edificata negli anni 70, guarnendola di specchi, rendendola inagibile per via dei cavi elettrici e del sistema Arduino, che la popolano al suo interno, ma la rendono un'abitazione-opera d'arte che varia insieme ai cambi di clima, luce

L'opera Lucid stead di Phillip K. Smith III a Joshua tree

Joshua tree in California, la contea di Jeff Davis appena fuori da Valentine in Texas e Black rock city in Nevada. Tre luoghi ameni, emersi da tre deserti in tre differenti Stati americani. Ma ad accomunarli si aggiungono l'arte, la musica e l'happening. Nel parco nazionale sudest californiano, intitolato alla Yucca brevifolia per la sua presenza rigogliosa, sorge Lucid stead, una sorta di piccolo cotta-


Sotto, il Prada Marfa di Michael Elmgreen e Ingar Dragset. Nella foto in basso, una delle sculture di legno del Burning man 2013

diurna e notturna. «Lucid Stead irrompe nella calma del deserto. E nel momento in cui sembra che tutto sia fermo, luci, ombre, riflessi e proiezioni sono di nuovo in cambiamento», ha spiegato Smith. E anche quello che sembrava ormai un'istituzione nel bel mezzo dell'alto deserto del Texas occidentale, quell'oasi griffata Prada Marfa che gli artisti Elmgreen & Dragset hanno ideato nel 2005, pare sul punto di chiudure. La boutique fake del brand meneghino, in realtà opera di land art permanente co-prodotta dall'Art production fund e da Ballroom Marfa, da allora custodisce accessori della fall di quell'anno, senza essere stata commissionata dal marchio. Su Facebook è già partita una pe-

tizione, con 4 mila like, per salvare la scultura, che sembra non essere legale secondo il Dipartimento dei trasporti texano. Sono, invece, ancora più a breve termine le sculture di legno dai tratti vagamente gipsy installate nel deserto Black rock dello Stato del Nevada, a 150 kilometri a nordest di Reno, per il Burning man. Il festival di otto giorni, che conclude la festa americana del Labor day a settembre, è una rassegna di musica e opere, a cui non manca mai un fantoccio di legno, create dai partecipanti stessi e disseminate sulla distesa salato. L'ultimo sabato notte vengono bruciate, come in un rito ancestrale antropologico. Francesca Manuzzi

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Architecture

Ciambelle spaziali Cupertino.org. Il luogo digitale, e non, più disciplinato ed educato d'America secondo Forbes e migliore per vivere, come risulta da una ricerca di Money del Times. L'oasi nella Silicon valley ospita i cyber-cervelloni mondiali, con in testa Apple, Oracle, HP e Amazon. E si prepara, ormai dal 2011, a ospitare un centro di ricerca per 13 mila nuovi dipendenti della compagnia della mela morsicata. Il Campus 2, così viene chiamato il mega headquarter, andrà ad affiancare l'attuale Infinite loop, sede attuale che impiega 10 mila lavoratori Apple. Ma i numeri non finiscono: 300 mila metri quadrati di area saranno lasciati liberi in vista di future espansioni. Sullo spazio piantumato con 7 mila alberi principalmente di melo atterrerà un'enorme O, la Mothership di 260 mila metri quadrati pronta per un'ulteriore ascesa del brand. Il progetto, a cura dell'architetto Norman Foster e la sua Foster + Partners, pare costerà, La Mothership all'interno del Campus 2 di Apple

secondo stime di Businessweek, circa 5 miliardi di dollari e potrebbe crescere ancora prima della fine dei lavori prevista per il 2016. E i rendering parlano da soli. L'anello a quattro piani, nero come un iPhone, intelligente come il più potente iMac, dalle colonne in alluminio spazzolato come un Macbook e i corrimano smussati in angoli curvi dello stesso raggio di un iPad, ha pareti sottili come le cabine di un aereo e buona parte dei compenenti verrà realizzato a mano e su misura. Oltre all'astronave ammiraglia arriveranno due futuristici edifici, un parcheggio da 2 mila posti, navette da tutta la baia di San Francisco, una palestra, una caffetteria di quasi 10 mila metri e una tavola calda. Da notare che il tutto sarà alimentato da energie rinnovabili con celle fotovoltaiche sui tetti e ventilazione naturale a sostituire l'aria condizionata per il 75% dell'anno. Francesca Manuzzi


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Music

Video democracy

È una domenica pomeriggio, di qualsiasi posto negli States. Il tempo non è dei migliori e il divano molto comodo. Tv accesa, come accade sempre. Ci sono oltre 1.200 canali in America, oltre 300 di questi disponibili sul territorio nazionale. Uguali, per tutti. Ci sono le news 24/7, i canali sportivi, quelli musicali. Ci sono le reti di intrattenimento con i giochi a premi, le trasmissioni di cucina. Più o meno tutto quello a cui, ormai, siamo abituati anche da questa parte dell'oceano. Lo zapping è frenetico, compulsivo. Un quadro stereotipato, sì, ma molto reale e molto democratico. Tutti sanno cosa aspettarsi, cosa preferiscono, qual è la programmazione. La televisione è un fatto democratico. Forse, le canzoni di Bob Dylan lo sono ancora di più. Il cantante di Duluth rappresenta un pezzo importante della cultura Usa. Una poetica fragile ma dirompente, dalla parte dei perdenti. Simbolo di un cambiamento radicale. Sarà stato questo il ragionamento di Vania Heymann, talentuoso regista israeliano, quando si è ritrovato per le mani un compito gigantesco. Creare il video di Like a rolling stone, inno dylaniano del 1965, che non aveva mai avuto una trasposizione visiva. E che, in occasione della release di un cofanetto contenente i suoi 35 album, la Bob Dylan Complete album collection: vol. one, aveva bisogno di una quadratura del cerchio. Qualcosa che ancora mancava. Così Heymann ha chiamato a raccolta la cultura via cavo, quella popolare. E l'ha riunita in un web video interattivo, in cui ognuno può scegliere il proprio canale preferito. E vedere i protagonisti divagare in dialoghi surreali, nient'altro che il lip sync con il testo della canzone. Sedici diverse scelte, che riconducono tutte alla storia disgraziata della ragazza benestante caduta in miseria, costretta a vagare «with no direction home, like a complete unknown». Like a rolling stone, appunto. E Bob Dylan? C'è. In un canale dedicato ai classici della musica, dove lo si vede interpretare il pezzo in un concerto del 1966. Nel momento in cui lui stesso diventava un simbolo di democrazia. Urlando «How does it feel? » Matteo Zampollo Nelle immagini a lato, alcuni frame tratti dal video Like a rolling stone di Bob Dylan, diretto da Vania Heymann

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L’ha chiamata Palm beach, come una delle spiagge più note di tutti gli States. Un holiday house da sogno nella meravigliosa ed esclusiva Mustique. Così Mr Hilfiger passa i suoi momenti di relax, letteralmente a due passi dal mare

Tommy OASIS Testo Matteo Zampollo - Foto Jason Schmidt / Trunk archive / Contrasto


Tommy Hilfiger, con la moglie Dee Ocleppo, sul terrazzo della loro villa a Mustique


La cosa bella di Mustique è il suo dress code. Sull’isola viene richiesta una «barefoot elegance»: a piedi nudi, ma con grande classe. Un concetto che esprime bene lo spirito dell’isola, un paradiso semplice, ma con i canoni luxury, adattati a un jet-set internazionale. «La vita è primitiva e semplice qui», ha spiegato Tommy Hilfiger, uno degli abitanti più illustri di questo buen retiro a cinque stelle. Il designer americano è arrivato in questa isola delle Piccole Antille per la prima volta nel 1985. «Affittammo la villa di Mick Jagger e subito mi innamorai di questo posto», ha continuato Hilfiger «Era tutto molto tranquillo, il clima eccezionale. C’erano soltanto 50 case a quel tempo». Non che le cose siano poi cambiate molto nel corso di questi quasi trent’anni. La piccola isola (5,7 km quadrati, per intenderci, un minuscolo

comune della provincia italiana) oggi ha circa 500 abitanti, con una novantina di ville private, destinate esclusivamente ai più ricchi del pianeta. Paparazzi? Neanche per sogno. Perché Mustique è un’isola privata: teoricamente fa parte dello Stato di Saint Vincent e Grenadine, ma è di proprietà della Mustique company, ufficialmente affittata, ufficiosamente venduta. Il colpo di genio di investire su quest’isola è venuto nel 1958 all’ereditiero scozzese Colin Tennant, in seguito Lord Glenconner, che acquistò l’isola dal governo locale per 45 mila sterline, che quasi andò in rovina a causa dell’acquisto. L’intento originale era quello di crearci una piantagione di cotone, per farla fruttare al massimo; ma il progetto non ebbe molta fortuna. Anche perché tutto doveva essere costruito da zero, dalle infrastrutture ai servizi

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Sopra, uno scorcio del salotto, con vista diretta sul mare. A destra, una delle stanze della casa, con letto a baldacchino e ampio terrazzo. Nella pagina a fianco, la scalinata principale, d’ispirazione coloniale, della Palm beach house

di base, visto lo stato completamente natuale del luogo. Così l’isola diventò ben presto un luogo di vacanza super esclusivo, dove Glenconner, ben inserito nella società inglese, sviluppò un turismo selezionatissimo che continua anche ora. Nel corso del tempo, l’isola è stata scelta per le vacanze da Paul Newman, Raquel Welch, David Bowie, Noel Gallagher, Paul McCartney e Mick Jagger. Ed è merito del frontman dei Rolling Stones se Tommy Hilfiger si è innamorato di questo luogo da sogno. Oltre a essere il proprietario della sua prima casa in affitto, è stato anche il suo primo vicino di casa, quando all’inizio degli anni 90 Hilfiger decise di acquistare qui una grande maison. «Abbiamo preso un disegno di una casa che non era mai stata costruita e l’abbiamo adattato ai miei gusti», ha precisato il designer, affian-


Sopra, la sala da pranzo per dodici ospiti; a sinistra, un dettaglio della parete con specchio decorato e una collezione di vasi. Nella pagina a fianco, la piscina a ridosso della spiaggia e, sotto, una vista del giardino

cato nel restauro dell’abitazione dallo svedese Arne Hasselqvist, progettista specializzato in case vacanze di lusso e firma di buona parte delle abitazioni locali. La pianta originale della casa era firmata Oliver Messel. Come quella di tutte le altre case di Mustique: già, perché Messel, apprezzato scenografo dei teatri londinesi, era stato nominato da Lord Glenconner come unico architetto ammesso, affiancato poi negli ultimi anni da Hasselqvist. Per gli arredi interni, invece, Hilfiger si è affidato a Colefax and Fowler, firma inglese di interior design di alto rango, a cui chiese uno stile British colonial. Sono stati così importati direttamene da Londra pezzi antichi e alcuni oggetti provenienti dalle vendite private del Duca e della Duchessa di Windsor. La

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casa di Tommy Hilfiger venne ribattezzata Palm beach e venne inaugurata tre anni e mezzo dopo l’inizio dei lavori. La villa oggi è uno delle dimore più ricche ed esclusive dell’isola, con otto camere da letto, disponibili per 16 ospiti, una piscina praticamente sulla spiaggia, campi da tennis e sei acri di spiaggia privata, con ricche palme e zona relax. Gli interni, in stile Coloniale, sono ricchi di dettagli e molto curati. Uno scorcio di paradiso, dove mr Hilfiger trascorre il più tempo

possibile. «Tutta la mia famiglia ama stare qui. Si ha la sensazione di essere completamente tagliati fuori dal mondo, eccetto per il mio smartphone che resta attivo. Anche se, ammetto, ogni tanto provo a spegnerlo». Quando, invece, lo stilista e la sua famiglia non sono presenti, la casa viene messa in affitto. Come tutte le altre house, esclusivamente sul sito della Mustique company, dove sono visibili tariffe, disponibilità e dettagli di tutte le proprietà dell’isola.


American pop-dream Il gotha del nuovo design mondiale si dà sempre più spesso appuntamento in Florida. In occasione dell’Art Basel Miami, il punto di ritrovo è nel Design district, a pochi passi da South beach. Dove giovani talenti, provenienti da tutto il mondo, sono affiancati da nomi affermati. Al servizio del nuovo sogno creativo Usa a cura di Matteo Zampollo - artwork Valentina Gigante


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Galerie Kreo

Gemstone table, tavolo in resina e vetro colorati. Design Hella Jongerius


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Galerie Bsl

Pathway mix, serie di tavolini con base in ottone, pietra sardonica, pinolite ed eclogite. Design Taher Chemirik


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Carpenters workshop gallery

Grandfather clock, orologio con schermo integrato, con video di mani che disegnano le lancette del quadrante. Design Maarten Baas


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Industry gallery

Binary chair 01, seduta costituita esclusivamente da parti di computer. Design Benjamin Rollins Caldwell


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R 20th century gallery

Unique accretion, serie di vasi in ceramica e porcellana. Design The Haas brothers


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Volume gallery

Low wooden shape, seduta in legno di quercia. Design Jonathan Muecke


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L’open space al primo livello della casa che ospita opere d’arte collocate su una superficie di oltre 150 metri quadrati


casa museo Una galleria d’arte in cui vivere. Un monolite, eretto con lastre customizzate di cedro e pannelli di zinco, custodisce un tesoro nascosto nel cuore del Nebraska. Una mansion che protegge i suoi ospiti, ideata dallo studio TACKarchitects di Omaha, seguendo le orme della Kaufmann house di Richard Neutra Testo Francesca Manuzzi - Foto Tom Kessler



Sopra, la piscina con listoni in Ipe, legno brasiliano massiccio. Nella pagina a fianco, in senso orario, la scala che conduce al piano superiore decorata da numerose opere d’arte, uno scorcio dei due piani della casa e una porzione del cubo costruito ad hoc in Mdf laccato

Un continuum tra interno ed esterno. L’Art house, progettata dallo studio di Omaha Tack architects fondato nel 2011 da Jeff Dolezal, Rebecca Harding e Chris Houston, è un canvas che accoglie l’estesa collezione di opere d’arte di un appassionato che tiene molto alla propria privacy. Il design della casa affonda le sue radici nel lavoro di Richard Neutra e in quel celebre progetto che è la sua Kaufmann House. Ogni stanza ha una vista unica sull’esterno, diventando un tutt’uno grazie alle ampie vetrate scorrevoli Fleetwood che si aprono sulla natura circostante. Le camere sono agglomerate in tre differenti ali, indipendentemente dalla loro funzione d’uso. Conducono tutte sulla zona living, uno spazio aperto, con soffitti rialzati di 40 centimetri che permettono al tetto di fluttuare su tre lati, facendo in modo che la luce naturale penetri in tutti gli spazi. Il corpo centrale dell’a-

bitazione è definito da una sorta di cubo, che ospita cucina, bar, dispensa e salone, predisposto per dare il ritmo agli spazi della casa ed è rifinito in Mdf laccato di un bianco super riflettente, a effetto wet, come la carrozzeria di un’auto. Ambienti extra neutri, pronti a soddisfare la richiesta espressa dal cliente: «Una galleria d’arte in cui poter vivere». Una buona porzione dei pezzi della collezione privata sono ideati da artisti americani moderni e contemporanei, e in larga parte provenienti dal Bemis center, il museo d’arte contemporanea di Omaha (il proprietario della casa è un membro del board di direzione, ndr). Dentro un cuore d’arte, fuori un’opera d’arte architettonica, che agli occhi si palesa con facciate in cedro rigato, pannelli di zinco customizzato e una grande piscina che affaccia a ovest, protetta da un muro di vetro. Tutte le apparecchiature che gestiscono la movimen-

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Sopra, una veduta dell’esterno della casa con giardino. A lato, la camera da letto, uno dei bagni dell’abitazione e la cucina, ideata in legno per mantenere un fil rouge tra interior ed exterior: lo spazio è decorato da quadri e sculture con al centro il grande tavolo customizzato

tazione, la domotica e gli argani della casa sono totalmente insonorizzate e celate, per proteggere il benessere del living. Lo studio Tack ha lavorato in tandem con consulenti per l’ingegnerizzazione e ridimensionamento degli apparati tecnologici, oltre a studiare un riscaldamento geotermico con tripla linea radiale inserita nelle pareti, così come l’aria condizionata è veicolata dai pannelli di legno del tetto. L’abitazione è un contenitore in cui si assapora l’aria della galleria: «Abbiamo progettato aree museali in passato e per l’Art house sono state impiegate le medesime tecniche», ha spiegato il team di Tack architects. Allo stesso tempo, è stata edificata un’area dedicata ai piccoli di famiglia: una specie di kindergarten per bambini, con stanze gioco, ideate con materiali differenti e concept ad hoc. Così come è avvenuto per la progettazione della piscina, realizzata in Ipe, un legno

massiccio brasiliano, che richiede trattamenti particolari o per la jacuzzi XXL riscaldata per sei persone. O ancora il bagno suddiviso tra moglie e marito, in una zona totalmente specchiata, che ruota in funzione delle necessità o il tavolo della sala da pranzo in alluminio anodizzato con piano in legno di acero griffato Herman Miller che si trasforma in bancone. E niente faretti per ridurre l’impatto poco gradevole. Così come i soffitti del piano terra della casa, che ospita il numero maggiore di opere d’arte, sono guarniti di luci a incadescenza e fluorescenza, attivabili a seconda della necessità. Una specificità simile delle richieste alla famiglia è costata una cifra media top secret. Ma non sono le uniche spese folli. Nel salone, oltre alle innumerevoli opere d’arte, sul pavimento in cemento resinato, campeggia un piano Baldwin, che secondo indiscrezioni è appartenuto a Liberace.

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panzeri

Viki, lampada a sospensione dalle forme geometriche

flexform

Cestone, divano componibile. Design Antonio Citterio

desalto

Maxit, tavolino basso. Design Arik Levy

coalesse

Sebastopol, tavolini squadrati. Design Emilia Borgthorsdottir

Living in America

artemide

Hakofugu micro, lampada da tavolo collezione IN-EI. Design Issey Miyake + Reality Lab


kartell

mdf italia

Fl/y, lampada a sospensione. Design Ferruccio Laviani

Minima 3.0, libreria contenitore. Design Bruno Fattorini & Partners

arclinea

Artusi, cucina in versione angolare con due penisole

cappellini

alias

Gamma, tavolo in legno con struttura metallica. Design Jasper Morrison

Nell’anno della Biennale al Whitney museum, l’ultima nell’iconico building sulla Madison avenue di New York prima del trasferimento downtown nello spazio disegnato da Ren-

Paludis, sedia in acciaio e paglia. Design Giandomenico Belotti

zo Piano, tra la High line e l’Hudson river, che aprirà i battenti nel 2015, il sogno americano è sempre più attuale perché come diceva Mario Soldati: «L’America non è soltanto

una parte del mondo. L’America è uno stato d’animo, una passione. E qualunque europeo può, da un momento all’altro, ammalarsi d’America». Una malattia, quella per gli

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Usa, che diventa importante fonte d’ispirazione per un design efficace e radical chic. Che ha risonanza internazionale. Dall’«Autunno Americano» a Milano, che da settembre


boffi

Saint Germain, guardaroba - armadio zona notte. Design Piero Lissoni+CRS Boffi

flos

Romeo Soft F, piantana. Design Philippe Starck

la murrina 602, lampada in vetro soffiato

zanotta

Nyx, letto con struttura in acciaio verniciato. Design Emaf Progetti

poliform

Victor, contenitore comodino. Design Mario Mazzer

2013 a febbraio 2014 ha portato in scena l’energia indimenticabile dei protagonisti a stelle e strisce in un percorso multi sensoriale capace di far incontrare all’ombra del Duomo, Jackson Pollock e Andy Warhol,

Marilyn Monroe, Bob Dylan e Steve McCurry, all’emozione dello stile sempre attuale di Frank Lloyd Wright, in esposizione dal 1° febbraio al 1° giugno all’interno del MoMa. E non è un caso che il concetto stesso

di design prenda forma negli anni 50, pochi anni dopo la liberazione ad opera degli americani, quando si scatena un’inarrestabile energia creativa destinata a cambiare l’idea del bello. Che diventa prag-

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matico e che abbraccia l’industria, unendo efficacemente forma e funzionalità. Grazie quindi all’America, l’Europa e i suoi progettisti si trovano a sperimentare campi d’azione fino ad allora inesplorati, l’Italia


luceplan

Synapse, lampada a sospensione. Design Francisco Gomez Paz

flaminia

Como, ambiente bagno. Design Rodolfo Dordoni

grohe

F-digital deluxe, spa multisensoriale domestica

rinasce e si candida a essere luogo d’eccellenza per il design di domani che, oggi, si incontra anno dopo anno sotto la bandiera del Salone internazionale del mobile di Milano. Un’America che fa tendenza e che

supera le differenze all’insegna di un’unità estetica e creativa nuova, che prende forma da influenze esterne e tradizione. Come ha detto il presidente americano Barack Obama: «Non c’è un’America nera

e un’America bianca, un’America latina e un’America asiatica: ci sono gli Stati Uniti d’America». Un messaggio nitido che racconta di coraggio, perseveranza e purezza, di bianco, rosso e blu, di stelle e strisce. Di un

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momento, l’oggi, che fa sperare anche il Vecchio continente, orfano di sicurezze e che guarda agli Usa come a un faro nella notte. testo Barbara Rodeschini artwork Giorgio Tentolini


new

Un club di stampo londinese ma che ha fatto il giro del mondo. Dal primo circolo aperto nel 1995, Soho house è diventato simbolo di eleganza per l’upper class worldwide. Che nella Big apple ha trovato casa nel 2003, in un palazzo di sei piani nel Meatpacking district

Testo Matteo Zampollo


york society

Home is where the heart is. Ma per la nuova high society è un po’ duro capire dove è il cuore. La soluzione migliore, quindi, è avere una casa in tutto il mondo. Una dimora stabile per una classe ben precisa. Soho house nasce con questo intento, un punto fisso, un luogo di ritrovo per persone like-minded, cariche di creatività. La prima apertura risale al 1995, a Londra. Un circolo privato nel quartiere di Soho, appunto, riservato a

persone influenti nel campo dei media, del cinema e dell’arte in genere. Da allora, altri dieci circoli sono stati aperti in tutto il mondo. Ognuno di essi ha delle caratteristiche peculiari, a seconda del luogo in cui si trova. La prima esperienza fuori dai confini britannici arriva una decina di anni fa, quando Soho house mette gli occhi sulla Grande mela. New York rappresenta un passo importante, la naturale espansione di Londra,

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Sopra, una stanza con bagno interno e, a lato, un dettaglio del lavello. Nella pagina accanto, in senso orario, la drawing room, il bar, il cinema e una vista del ristorante. In apertura di servizio, la piscina all’ultimo piano della Soho house di New York, con vista sulla città

ma anche una prova difficile, un test complesso. Una vecchia warehouse, nel mezzo del Meatpacking district di Manhattan. Sei piani interi, oltre 45 mila metri quadrati da occupare. Che si sono trasformati in uno dei place to be per il popolo social newyorkese. Oltre a tutti i trattamenti riservati in esclusiva ai membri del club, Soho house a New York è anche un hotel, con 30 camere, aperte al pubblico. I soci, invece, possono gustarsi tutto il resto: oltre al ristorante, al bar e alle sale di ritrovo, il club offre un cinema privato con 44 posti, una Spa al terzo piano, un club all’ultimo (abbellito dalle ultime acquisizioni del gruppo in campo artistico, con opere di Jenny Holzer e Kaws, per citarne solo alcuni), e una piscina riscaldata sul rooftop. Una vera e propria oasi di puro relax in mezzo alla frenetica Manhattan. Il club nella Grande mela ha da poco compiuto dieci anni e le celebrazioni sono state sontuose. Il sesto piano è stato occupato per una notte intera dai Mumford & Sons, la band inglese, vincitrice del «Best album award» agli ultimi Grammy. Con loro, alle tastiere, si è esibito a sorpresa anche John Legend, semplicemente invitato alla festa. La portata dei nomi è utile per comprendere il polso del fenomeno. Soho house è un progetto che non vuole fermarsi, e la sua espansione ha preso una piega decisamente internazionale. Per il 2014, infatti, sono già state pianificate tre aperture in tre città agli antipodi: Chicago, Dubai e Istanbul.

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A

noir

portrAit Ambienti barocchi e fascino crepuscolare. Atmosfere cortigiane e velature dark. Eleganti ritratti che citano i frames di American horror story. Per raccontare la fiaba notturna creata da Roberto Cavalli

Servizio Stefano Roncato Foto Michele De Andreis

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Nelle immagini di queste pagine, abiti, borse e calzature Roberto Cavalli


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Nelle immagini, abiti, borse e calzature Roberto Cavalli; occhiali vintage Models: Elza @ Next models, Victor Gorincioi e Stefan Knezevic @ Independent men Grooming: Rory Rice @ HM Battaglia using Mac cosmetics Ha collaborato: Elisa Rossi


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The flag

Tredici strisce come le prime colonie, 50 stelle come gli Stati attuali. E tre colori caratteristici, in prestito dalla madrepatria britannica. E arricchiti di valore

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01-ALMA DESIGN. Julie, tris di sedie. Design Tria.De design + valèriegalli. 02-ROCHE BOBOIS. Mah-jong-matelot, divano componibile con tessuto disegnato da Jean Paul Gaultier. 03-DEDAR. Cuscino realizzato con tessuto Forever e passamanerie della collezione outdoor. 04-MINI. Mini Roadster per l’edizione 2014 di Mini takes the States. 05-POLTRONA FRAU. 1912 candela, tris di candele in astuccio di Pelle Frau.

06-ALBED. Line, libreria componibile modulare laccata. Design Daniele lo Scalzo Moscheri. 07-MOLTENI&C. 45°/specchiera, specchio ovale della collezione Grado°. Design Ron Gilad. 08-VENINI. Fazzoletto Opalino, serie di vasi in vetro soffiato a mano con tecnica di lavorazione opalino disponibili nei colori lattimo, rosso e orizzonte. Design Fulvio Bianconi. ricerca di Barbara Rodeschini

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Bianco Purezza

Oltre a essere il colore base della Union jack, tradizione vuole che il bianco della bandiera Usa simboleggi l’innocenza. Che si ritrova in arredi dalle linee minimal 01-BAXTER. Maxime, armadio basso, rivestito in pelle bianca. Design Roberto Lazzeroni. 02-NATUZZI. Re-Vive, poltrona reclinabile e pouf. Design Kent Parker. 03-HERITAGE. Vogue, poltrona con braccioli rivestita in tessuto. 04-TISETTANTA. Taffy, gruppo notte in legno con fianchi sagomati e cassetti con guide invisibili silent-system e pomoli in cromo lucido.

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05-ROYAL COPENHAGEN. Hydrangea, vaso in ceramica. 06-MDF ITALIA. Mamba light, scrivania pensile. Design Victor Vasilev. 07-DESALTO. Kloe, poltrona in total white. Design Marco Acerbis. 08-RIFLESSI. Bridge, consolle in legno in rovere tinto. 09-POLIFORM. Bangkok, armadio minimal. Design Operadesign. ricerca di Barbara Rodeschini

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Blu Perseveranza

«Vigilanza, perserveranza e giustizia». Nelle parole del segretario del Congresso, Charles Thomson, questi i valori dati al colore. Ottimo anche in chiave ultra-pop

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05-ROYAL COPENHAGEN. Sky, mug bicolore. Design H.C. Gjedde. 06-FLOS. Miss Sissi, lampada da tavolo. Design Philippe Starck. 07-GERVASONI. Nuvola 09, poltrona con trapuntino in piuma d’oca e poliestere. Design Paola Navone. 08-ALBED. Filum, porta battente in vetro e alluminio. Design Brian Sironi. ricerca di Barbara Rodeschini

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01-B&B ITALIA. Jean, divano con rivestimento in tessuto o pelle. Design Antonio Citterio. 02-POLTRONA FRAU. Sasso, tavolo o comodino disponibile in due altezze diverse. Design Paola Navone. 03-ETHIMO. Tavolino ripiegabile della linea Flower. 04-MDF ITALIA. Lim 3.0, tavolo essenziale. Design Bruno Fattorini & Partners.

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Rosso Coraggio

La resistenza, la forza e l’orgoglio. Il colore red come simbolo di valore assoluto nella Stars and stripes. E nel design si fa sigillo di sensualità e passione 01-B&B ITALIA. Michel, divano angolare. Design Antonio Citterio 02-PANZERI. Brera, lampada a sospensione della collezione Veneziani. 03-ALIAS. Kobi, sedia con struttura in alluminio e seduta in poliuretano. Design Patrick Norguet. 04-RUBELLI. Lacca Wall, tappezzeria ad effetto seta, dalla collezione The walls of Venice. 05-MOLTENI&C. 10°/mensola, serie di

mensole a muro dalla forma rastremata. Design Ron Gilad. 06-FENDI CASA. Ottavia, vasi in vetro di Murano lavorati a mano e soffiato a bocca come da tradizione. 07-KUSMI TEA. Boite di tè Ceylon Op. 08-NESPRESSO. Inissia, macchina da caffè dal design compatto. 09-RIFLESSI. Ter, tavolini in cristallo curvato incastrabili uno dentro l’altro. ricerca di Barbara Rodeschini

03-alias

05-molteni&c.

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Story teller

La magia dell’arredo

«Mi è sempre piaciuta la prototipazione: si parte da un’idea in movimento che si trasforma in pezzo finito». Parola di Giorgio Cattelan, alla guida di una realtà, la Cattelan Italia, in continua crescita La passione per la famiglia, le idee, per ogni progetto che diventa un mobile, ogni materia che diviene oggetto e per tutto quello che è simbolo di una realtà in evoluzione. Questa la filosofia che da sempre guida Cattelan Italia, azienda veneta specializzata nella produzione e nella distribuzione di complementi d’arredo. Nata nel 1979 dalla geniale intuizione di Giorgio e Silvia Cattelan, che iniziarono a proporre piccoli complementi caratterizzati dalla forza progettuale e tattile del marmo, oggi la realtà da 45 milioni di euro, guidata insieme ai figli, Lorenzo e Paolo, può vantare la presenza di 3.500 punti vendita in 130 Paesi nel mondo, tra Canada, Israele, Shanghai e Beijng. Nell’ultimo anno, grazie a una strategia imprenditoriale vincente che coinvolge a 360° prodotto, immagine e sviluppo di canali retail, ha registrato una crescita del fatturato del 28% con un importante incremento in Italia pari al 19%. Ora l’obiettivo dell’azienda è quello di consolidare mercati strategici come Stati Uniti, Russia, India, Medio Oriente e il Centro Africa. E di conquistare un’autorevole visibilità nei mercati di grande espansione, grazie a tre nuovi monomarca previsti per il 2014 e collocati a Manila, Sydney e Melbourne. Così come ha raccontato Giorgio Cattelan, presidente e amministratore delegato di Cattelan Italia. D. Qual è la filosofia del marchio? R. La casa è il simbolo delle cose care, un mondo dove ognuno si circonda di elementi accoglienti nella forma e nel contenuto. È il fascino dell’essenziale che si esprime attraverso mobili, complementi, colori non colori, materie solide come la storia della nostra azienda. D. Come principali punti di forza, insieme a una collezione di prodotti versatili, funzionali e vendibili, avete scelto l’immagine del brand. Qual è la vostra strategia di marketing riguardo a tale proposito? R. Siamo all’inizio di un percorso importante: il prodotto continua a essere il nostro focus, ma ora è il momento di affiancare l’immagine alla sostanza perché fanno parte di un unico valore. «Noi siamo quello che sembriamo»: questa è la nostra filosofia, e attraverso una nuova campagna pubblicitaria e l’utilizzo di media diversificati vogliamo raccontarla al meglio. L’idea è aumentare la visibilità del brand su diverse piattaforme, da quelle più tradizionali, come le fiere di settore, ai media, agli eventi. Passo dopo passo senza stravolgere la semplicità che ci appartiene.

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A sinistra, un ritratto di Giorgio Cattelan. Nelle altre immagini, alcuni ambienti Cattelan Italia

D. Qual è il prodotto che vi rispecchia di più tra tutti quelli che sono stati realizzati da Cattelan in questi anni? R. Ogni prodotto racconta una storia, quella del suo tempo, senza però essere datato. Nel passato Mia, la sedia pieghevole, venduta in oltre 500 mila pezzi e ancora in produzione. Il tavolo Monaco, dall’eleganza discreta, rappresenta la sintesi di un perfetto equilibrio tra creatività e rigore, e infine Eliot wood drive, un tavolo dallo spirito geometrico e dalla forte personalità, estremamente adattabile ad ogni ambiente. D. Un dato particolarmente importante è il +19% in Italia. Come spiega questa crescita in un mercato in difficoltà? R. Abbiamo lavorato bene e investito nel servizio, nella precisione dei tempi di consegna, nell’assistenza e nell’autenticità del nostro made in Italy. Nonostante il momento positivo non si può essere ingenui perché la crisi è ancora incalzante ma l’Italia è simbolo di grandi valori estetici e virtuose maestranze artigianali, quindi rimango ottimista, la voglia di fare non manca e neppure i solidi ideali. D. Come riuscite a coniugare tradizione e innovazione? R. Tradizione e innovazione sono il risvolto della stessa medaglia, perché siamo una famiglia, con la sua storia e il suo divenire. Gli stessi valori che posseggono i nostri prodotti, con un’anima artigianale e uno spirito contemporaneo. Cambia la materia, cambia la tecnologia, ma la nostra passione ha radici antiche che non possono cambiare. Lo stile dei nostri prodotti è un mix di innovazione e tradizione. Alla ricchezza virtuale di un know-how consolidato, si aggiunge la curiosità del nuovo, del bello, dell’utile. Il gioco di intreccio tra sapienza e tradizione conferisce continuità estetica e manifatturiera a ciascun prodotto. D. Com’è strutturata la strategia distributiva di Cattelan? R. Cattelan Italia è oggi una realtà in continua evoluzione che apre nuovi mercati e consolida quelli più strategici. A supporto c’è una rete distributiva senza frontiere, che opera nei diversi continenti. La strategia è presidiare i mercati con servizi di qualità, coerenza imprenditoriale e investimenti mirati. Siamo presenti in 130 Paesi in oltre 3.500 punti vendita multimarca tra i più qualificati. Oggi Cattelan Italia considera un punto focale del suo futuro, l’apertura progressiva di monomarca e shop in shop. C’è la volontà di creare un concept aziendale personalizzato: ovvero un nuovo modo di intendere le collezioni come una selezione di referenze dotate di valori funzionali e forme stilistiche da abbinare e contestualizzare nei modi e nell’uso. D. Quali, secondo lei, sono state le recenti innovazioni che hanno caratterizzato il mercato? R. Credo che la principale innovazione stia nel servizio e nella forza di un brand che riesce a ottenere spazi, corner e shop in shop. Non si sceglie più un prodotto ma la sua filosofia, il suo stile, l’immagine coordinata di più pezzi che insieme arredano. Per quanto riguarda la tecnologia, oggi tutto è possibile, ogni materiale può essere lavorato e plasmato, grazie soprattutto ai tagli laser. Mi è sempre piaciuta, oggi come allora, la fase della prototipazione, perché si parte da un’idea in movimento, un pensiero che si plasma e si trasforma in pezzo finito. E ogni volta è una magia. Camilla Gusti


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