Composizione Grafica

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composizione

G RAFICA di Claudia Bessi



Basta che funzioni

La composizione ha un ruolo essenziale quando si lavora ad un progetto grafico. Essa infatti rappresenta tutto quell’insieme di elementi organizzati in modo da creare una combinazione equilibrata dal punto di vista visivo. Gli elementi che compongono un progetto grafico non comunicano niente se non sono legati da una composizione grafica corretta. Comporre in modo giusto significa consentire una migliore comunicazione del nostro lavoro grafico e guidarne la lettura per raggiungere il lettore in modo efficace. Ma di quali elementi stiamo parlando? Di immagine, testo, colore principalmente. Essi sono i protagonisti della composizione grafica e possono essere disposti in diversi modi a seconda del tipo di messaggio che si vuole far arrivare. Un progetto grafico funziona, quando la sua composizione funziona. Claudia Bessi



Indice Parlar per Metafore

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The Fall

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I racconti del cuscino

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Lost in translation

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The Corporation

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Agora

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Il mio film

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Il carattere del Font

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The Roman Letters

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Vizi capitali

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La Gola

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Un font per la Gola

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Baruta Black

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Il mio font per la Gola

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Il manifesto

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Un manifesto per il font Gola

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Un libro per bambini

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Fonri sull’alimentazione colorata

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Milo e I Colori Dei Sapori

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Illustrazioni del libro

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La copertina

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Parlar per Metafore La metafora è un modo di figurativizzare un’idea. Attraverso la figura retorica della metafora possiamo trasferire un significato da un campo semantico ad un altro. Si sostituisce al termine che useremmo di solito in una frase, un altro termine che vi corrisponda per essenza o funzione. Si crea così un’immavine assai espressiva. L’unica differenza, con la figura retorica della similitudine, è l’assenza della parola “come” all’interno della frase. La metafora non viene usata a caso, ma ci deve essere somiglianza tra il termine di partenza e il termine metaforico. Abbiamo però un maggiore potere d’espressione tanto più sono lontani i termini in rapporto al loro campo semantico. Le metafore trovano il loro maggiore spazio d’espressione nell’arte, in particolare nella poesia. La metafora spesso è associata all’allegoria, ma esiste, tra queste due figure retoriche, una differenza. Infatti entrambe si basano sulla sostituzione di un termine con un altro, ma l’allegoria non si basa sul sul piano emotivo per la sua espressione, ma su un’interpretazione razionale di ciò che si vuole esprimere con il termine allegorico. Diciamo quindi che la metafora è più diretta dell’allegoria.

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The Fall di Tarsem Singh

Con questo film, il regista Tarsem Singh, ha voluto creare un inno alla cinematografia. Numerosi infatti sono i riferimenti al mondo del cinema; ad esempio quando la luce proiettata all’interno del buco di una serratura rivela l’immagine capovolta dell’ombra di un cavallo, che si trova al di là della serratura: il sistema di proiezione dell’immagine, proprio della fotografia e quindi del cinepresa. Lo stesso protagonista della storia, Roy, è uno stuntman, che a causa di un incidente sul set, è finito in ospedale. Qui farà amicizia con una bambina di nome Alexandria che si innamorerà della storia che Roy le racconta. La storia è un racconto parallelo al film stesso, una storia nella

storia. Il protagonista e la bambina proiettano nel racconto fantastico riferimenti alla loro vita reale. Usando molta fantasia ed immaginazione Roy costruisce personaggi ben definiti, come protagonisti di un film del quale è lui il regista, ed è attraverso l’immaginazione di Alexandria che questa storia prende forma davanti ai nostri occhi. L’abbraccio tra realtà ed immaginazione, questa dunque è la base della storia di The Fall, ma è anche la base su cui si definisce il cinema in sé. Il finale è un susseguirsi di scene di stuntmen di film anni ‘20, chiude la pellicola attraverso un percorso ad immagini che ci fa rivivere i primi anni del cinema e delle sue prime innovazioni

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I racconti del cuscino di Peter Greenway

“Voglio riuscire a usare il cinema come un mezzo di discussione di idee, su tutto, ma soprattutto sulla rappresentazione,sull’estetica e su tutta l’industria cinematografica”. Peter Greenway

pelle in una tela e così il corpo in un’opera d’arte. Anche la letteratura ha una parte importante all’interno del film, in quanto Nagiko scrive il suo Pillow Book sul corpo dei suoi diversi amanti, appositamente scelti, ognuno per uno specifico capitolo, ognuno per ogni racconto. Il regista privilegia, in modo evidente, la visualizzazione, l’immagine come livello di narrazione principale. La tecnica che egli usa è una multimedialità, ovvero la possibilità di vedere più scene simultaneamente. Il cinema non è altro che immagine in movimento e così Greenway fa scorrere le pagine del libro in basso allo schermo, mentre la scena principale vede il protagonista che sta leggendo. Così lo spettatore può vivere e non solo vedere, a 360 gradi, tutto ciò che accade.

I racconti del cuscino è un film ispirato al libro di una dama di corte giapponese, che provava piacere quando i suoi amanti scrivevano poesie sul suo corpo. La scrittura, la calligrafia, e in particolare la calligrafia giapponese, questo è tema dominante del film di Greenway. Attraverso il percorso di vita della protagonista, Nagiko, impariamo ad apprezzare l’arte della scrittura non tanto come insieme di parole, quanto come insieme di disegni veri e propri, ideogrammi. Il corpo è percepito come un foglio bianco ed il suo unico piacere consiste nell’ essere percorso dal pennello e l’inchiostro. Nagiko ama solo la calligrafia perfetta e riesce così a trasformare la

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Lost in translation

di Sofia Coppola

Amo questo film perché è riflessivo e introspettivo. Sofia Coppola ha voluto raccontare due vite, una ragazza appena sposata, Charlotte, e un personaggio famoso, Bob Harris, entrambi ospiti in un albergo di Tokyo. Con pochi dialoghi e una bellissima fotografia la Coppola riesce a farci assistere al percorso di crescita interiore di entrambi i personaggi. Sia Charlotte che Bob non credono di essere soddisfatti e felici della propria vita, cercano qualcosa nella loro esistenza, ma non sanno bene cosa. Ma sono in due e riescono a capirsi, semplicemente stando insieme. Per è me è un film importante perché riesce a raccontare come ciascuno di noi non possa solo esistere o vivere passivamente, ma debba anche riuscire a cogliere qualsiasi piccola cosa della vita che possa renderlo felice e completo. I due personaggi possono rispecchiare davvero qualsiasi persona comune, così lo spettatore riesce ad avvicinarsi di più al film, immedesimandosi o riconoscendosi. E’ un film che ho apprezzato tantissimo anche per-

ché la regista, sul finale, ha lasciato un pezzetto di storia all’immaginazione dello spettatore. I due protagonisti infatti, alla fine, quando si salutano per l’ultima volta, si sussurrano qualcosa che non è dato sapere.

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The

Corporation

di Mark Achbar e Jennifer Abbott

sterminio nazisti (forniva dei macchinari che “aiutavano” gli aguzzini a contare e catalogare le proprie vittime); dello scandalo del latte contaminato in Florida da un prodotto chimico della Monsanto; l’aberrazione della guerra dell’acqua in Bolivia quando il locale governo ne aveva appaltato lo sfruttamento - anche di quella piovana! - ad una multinazionale americana. Sono tutti esempi della assoluta mancanza di scrupoli di dette società. I registi colpisono dritti al cuore dello spettatore, usando la tecnica del documentario, che rende ancora più reali e tangibili le tematiche raccontate.

Si tratta di un film-documentario che illumina su aspetti quotidiani della vita che la società oggi dà per scontati e sui quali non pensa valga la pena di soffermarsi. The Corporation è tratto dal libro di Joel Bakan, dal titolo The Corporation: la patologia ricerca del profitto e del potere. Le società di capitali (le corporation) sono autorizzate dalla legge ad elevare i propri interessi su tutto e tutti senza porsi alcun limite né pratico né tanto meno morale. Il raggiungimento a tutti i costi degli obiettivi economici porta non solo alla distruzione degli individui e dell’ambiente in cui essi vivono ma anche dei componenti delle società stesse. Il film espone molti esempi storici e recenti di come le corporation agiscono. Si parla ad esempio del coinvolgimento dell’IBM nella gestione dei campi di

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Agora

di Alejandro Amenábar

comunque una base di verità così forte e interessante. Il regista spagnolo è bravo a mascherare con la sua innegabile abilità con la macchina da presa la staticità di una narrazione che gira sempre intorno allo stesso tema. Ciò che ne esce è un ottimo documento e base per future, private, ricerche sulla figura di Ipazia e la storia di Alessandra d’Egitto.

Siamo ad Alessandra d’Egitto, tra il quinto e sesto secolo dopo Cristo, quando l’impero romano non è ancora completamente cristiano. Pagani e cristiani si fronteggiavano verbalmente ogni giorno, in un clima sempre più teso, fino all’ineluttabile fatto di sangue. Fu così che l’Agorà dove la filosofa, matematica e astronoma Ipazia insegnava ai più importanti giovani della città, venne distrutta in quanto archivio di testi blasfemi o meglio, non specificatamente cristiani. La protagonista di questo film è Ipazia, un personaggio femminile storico di indubbia importanza. La donna, bella e ambita, preferisce una morte da idealista, ad un battesimo di comodo che l’avrebbe resa cristiana. Questo film, utilizza la storia di questo personaggio come un ottimo pretesto per parlare della storia della Chiesa cristiana. Nell’Agorà del titolo ebbe luogo uno dei fatti più emblematici per capire il potere che la religione esercita sui popoli e su come anche il più tollerante dei credi abbia cavalcato ignoranza e crudeltà. Agorà ha il pregio di togliere la polvere da un episodio che per quanto venga qui romanzato, ha

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p r o g e t t o

Il mio film

Il film che girerei dovrebbe parlare di persone e della vita delle persone. In una folla, per strada, quando camminiamo, incontriamo e ci scontriamo con tanta gente che non conosciamo, sconosciuti. Mi piacerebbe raccontare di una ragazza che cammina per le strade della sua città , per le strade che percorre ogni giorno senza accorgersi delle vite che la sfiorano e le passano accanto. Un giorno però la ragazza si soffermerebbe a pensare a come potrebbe essere la storia di alcune di quelle persone che urta mentre cammina. Magari sono amanti, magari sono orfani, sono artisti, sono operai, madri, mariti, figli... La ragazza inizia a lavorare di immaginazione e

costruisce la storia dei suoi passanti, dei loro sogni e delle loro tristezze e insoddisfazioni, immagina tutto, si basa su un profumo, su uno sguardo. Il mio film vorrebbe scoprire cosa si nasconde dietro la superficie, a cosa ci fa pensare l’aspetto o la camminata o lo sguardo di una persona sconosciuta che ci passa a fianco mentre siamo presi ognuno dai propri affanni.

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r i c e r c a

il carattere del Font

seconda del contenuto che essa comunica. Abbiamo un tipo di font per il titolo di un articolo di cronaca nera, un font per un articolo sulla maternità, uno per parlare di arte, uno per parlare di ristoranti, ecc... e così pure nei manifesti pubblicitari: la pubblicità per uno yogurt piuttosto che quella per un’aspirapolvere, ecc...

Font è l’espressione in inglese per intendere un tipo di carattere, cioè un insieme di caratteri tipografici che abbiano un certo stesso stile grafico, inteso per svolgere una determinata funzione. I tipi di carattere venivano progettati in dimensioni ben definite e qualità. In seguito si ebbe una maggiore disponibilità di stili per via delle richieste degli stampatori, così si avevano caratteri di specifico peso, cioè quanto scuro appariva il testo. Da qui nacquero i termini “neretto” e “grassetto”. Si ebbero anche specifiche condizioni aggiuntive, quali lo stile “regolare”, contrapposto al “corsivo” o “condensato”.

Possiamo quindi parlare di una eterogeneità di font, e quindi di tipi di carattere, proprio perché ogni font ha il suo carattere, esprime ciò che comunica. Esprime serietà, allegria, professionalità, disordine... quindi tanti tipi di carattere. E’ così che il font diventa vera e proprio immagine, espressione visiva del contenuto e non solo linguaggio scritto.

Oggi disponiamo di una infinita quantità di tipi di carattere e, con i giusti programmi, siamo in grado anche di realizzare un nostro font personale. Basta aprire una qualsiasi rivista per capire quanti font esistano e vengano utilizzati nel mondo della stampa. Ma anche quando osserviamo dei manifesti, la pubblicità ci offre una grande quantità di stili a

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THE ROMAN LETTERS

Costruzione delle iniziali del proprio nome e composizione di un logotipo. Il font che abbiamo preso in considerazione per l’esercizio è lo stile Roman. La costruzione di un font segue delle regole formali di costruzione ben definite da griglie e matrici geometriche. A partire dalle griglie convenzionali usate per la costruzione dell’alfabeto in stile Roman, abbiamo studiato in particolare il modo di custruire le nostre proprie iniziali del nome e cognome, nel mio caso, la B e la C. La combinazione delle due inziali poi doveva dare luogo ad un logotipo personale. Il logo deve mantenere le stesse regole di costruzione geometrica delle lettere che lo compongono.

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Vizi capitali

I vizi capitali, sono definiti così per la prima volta da Aristotele come “abiti del male”, in quanto essi “vestono” il soggetto che li compie e lo indirizzano verso una certa direzione. I vizi sono niente altro che azioni che vengono ripetute con insistenza costantemente da un soggetto. I vizi, in generale, sono espressione di una parte del carattere e della tipologia umana in sé. L’uomo è incline ai vizi proprio perché fatto di carne ed essi tendono ad impadronirsi dell’uomo per desiderio e inclinazione. L’uomo, attraverso i vizi, soddisfa il suo corpo principalmente, talvolta anche l’animo. E’ nel Medioevo che si tende ad interpretare i vizi come opposizione della volontà umana alla volontà divina. Nella dottrina cattolica i vizi capitali sono desideri non volti verso Dio, e perciò da essi hanno origine i peccati, Per questo vengono chiamati “peccati” capitali. I vizi capitali sono sette. La Superbia è il sentirsi superiori agli altri, avere la convinzione di saper fare, pensare, vivere meglio degli altri. L’Avarizia è il vizio che non libera niente, ma tiene tutti i beni materiali o immateriali per sé, è una chiusura. La Lussuria è il dolce e irrefrenabile desiderio sessuale, abbandono al piacere della carne, al fuoco della passione. L’invidia è essere felici dell’infelicità altrui, è il desiderare i beni materiali e immateriali degli altri, è basare la propria felicità sulle altrui disgrazie. La Gola è il vizio della tavola, del bere e del mangiare senza mai esser sazi, un abbandono al piacere del proprio palato. L’Ira è la rabbia senza freni che si accende nell’animo umano, senza curarsi di conseguenze, l’ira urla, picchia e grida, è il rifiuto della diplomazia e la ragione. L’Accidia infine è un esistere senza vivere, una pigrizia, o meglio indifferenza, nei confronti della vita e delle opere di bene, un torpore malinconico.

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La Gola

La Gola è il piacere senza fatica, sempre concesso, a tutte le età. Di gola si pecca almeno tre volte al giorno. Perché il cibo ci soddisfa, ci consola, riempie i nostri vuoti. E’ una sensazione indefinibile di benessere, ma non ne siamo mai sazi. I “peccatori di gola” non cedono ai vizi del cibo e del bere solo per compensare una mancanza emotiva, un dispiacere. I veri “peccatori di gola” sono molto di più, non riescono a restistere ad un fascino: il seducente invito di un piatto ben condito.

“A s s i e m e a l l a l u s s u r i a , l a g o l a è i l v i z i o p i ù c o n fe s s a b i l e . N e s s u n o s i v a n te r à p u b b l i c a m e n te d i e s s e re i n v i d i o s o, a v a ro, t ra c o ta n te , i ra c o n d o, n e g l i g e n te . M a n e s s u n o s i v e rg o g n e r à d i d i re c h e v a m a tto p e r l e p ro fi te ro l e s ” C e s a re M a rc h i , Quando siamo a tavola

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Un font per

gola Ogni font esprime un “carattere”, così per il vizio della Gola dovrà essere scelto un carattere che esprima e ci ricordi la sensazione di Gola e ingordigia. Sono stati selezionati alcuni font che potevano essere adatti al vizio. Ma, alla fine, il carattere di partenza, scelto per rappresentare il vizio della Gola, è stato Baruta Black. E’ un carattere principalmente rotondo e pesante, senza spazi lasciati al vuoto, un po’ come una pancia piena. Inoltre la forma del carattere può rimandare a dei biscotti a forma di letterine o al font usato per la pubblicità di salsicce o wurstel.

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Baruta black

Il font scelto per rappresentare la Gola, dovrà essere modificato per poter avvicinarsi ancora di più al carattere che deve esprimere. Per poter lavorare sulla forma di un font, occorre costruirne le griglie e le matrici geometriche che lo compongono. Da questa costruzione di partenza si potrà poi procedere al lavoro di modifica. Qui a fianco è riportato l’alfabeto del carattere Baruta Black, con la relativa costruzione.

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p r o g e t t o

Partendo dal font già esistente vicino all’espressione del vizio della Gola, nel mio caso il font Baruta Black, questa è stata la mia modifica. Per creare un carattere davvero “goloso”, ho associato il vizio della Gola al simbolo di un vortice. Un vortice che esprima il concetto dell’ingodigia, di un pozzo senza fondo, della gola che non smette di provare piacere nell’ingurgitare prelibatezze. Questa forma vorticosa l’ho associata all’espressione nella cucina: i ciambelloni decorati a spirale, alla glassa che decora i cioccolatini e in generale tutti i dolcetti. Ma diamo spazio a tutti i gusti! La spirale ed il

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ricciolo, infatti, non vengono associati soltanto a leccornie dolci, ma anche al gusto del salato. Avete notato che quando mettiamo l’olio a crudo sulla pasta, sulla focaccia, sulla zuppa, sul crostino... disegnamo una spirale? Oppure quando mettiamo la maionese o il ketchup su un hot-dog, non disegnamo forse delle serpentine? Tutto ciò che è Gola quindi io l’ho associato alla linea a spirale e serpentina, che si insinua nella nostra immaginazione come un filo di cioccolato oppure un filo di salsa alla boscaiola. A voi la scelta!


p r o g e t t o

Il mio font per la Gola

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il Manifesto I manifesti comparvero per la prima volta nel XV secolo, grazie alle innovazioni della stampa. Gli esempi più antichi annunciavano proclami reali, decreti, fiere e mercati, tavolta libri, opere teatrali. Nella seconda metà del ‘700 l’industrializzazione creò un diffuso bisogno d’informazione, così venne inventato un nuovo metodo di stampa: la litografia, che rese più facile realizzare manifesti illustrati a colori. Il francese Jules Chéret fu il primo dei cartellonisti moderni. Gli sviluppi più importanti si verificarono nell’ultimo decennio dell’800, con le innovazioni introdotte da Toulouse-Lautrec, Pierre Bonnard e altri artisti. In Italia, all’inizio del ‘900, ci fu Leonetto Cappiello che invento una nuova formula del messaggio pubblicitario. Con lo scoppio delle guerre, si diffusero i manifesti propagandistici. Oggi putroppo la diffusione della pubblicità televisiva, radiofonica, la pubblicazione di fotografie su giornali e riviste hanno compromesso ormai l’importanza del manifesto e ridotto il ruolo degli artisti della cartellon

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Un manifesto

per il font Gola un font per

un font per

Claudia Bessi

Per mostrare il font progettato sul tema della Gola, ho creato due diversi manifesti. In entrambi si presenta il titolo GOLA usando il font progettato, ma in due modi diversi. Nel primo percepiamo la O anche se non c’è, perché è sostituita dalla testa rotonda del bambino. Ho voluto comunicare il vizio della Gola e allo stesso momento presentare il font, mettendo la testa del bambino al posto della lettera O perché si capisse che il vizio dell’abbuffarsi di dolciumi è un’ossessione nella testa del bambino goloso.

Claudia Bessi

Nel secondo manifesto non c’è una metafora come mezzo di comunicazione, ma il vizio viene trasmesso all’osservatore mentre guarda il manifesto. La visione di tutti i piatti prelibati, suscita gola e appetito proprio in chi guarda. In questo caso il vizio possiamo dire che non è mostrato, ma è dimostrato.

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Un libro per bambini Progettare un libro per bambini sul vizio da me scelto, il vizio della Gola, non è stato facile. Ma per capire come ho lavorato, illustrerò la mia scaletta. Intanto ho pensato che il target di questo libro fossero i bambini di età tra i 5 e i 6 anni. In particolare ho voluto progettare un libro per bambini che dimostrino scarso interesse verso il cibo o che prediligono certi alimenti piuttosto che altri. Quando si lavora su un libro per bambini bisogna tenere conto anche del fattore di interesse da creare nei piccoli lettori. Ho voluto giocare su alcuni elementi per rendere il mio libro interessante: la metafora del colore, accostata al cibo. L’obiettivo del mio libro è cercare di educare l’alimentazione dei bambini ad un piatto vario, di tutti i colori. In questo modo il vizio della gola viene reinterpretato in chiave positiva. Il bambino non viene rimproverato per l’abuso di cibo, ma viene invogliato a mangiare nel giusto modo.

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Fonti sull’alimentazione colorata

I colori del cibo “Ci capita di sentirci attratti dal colore di un alimento, dalla luminosa freschezza dell’arancio�ne di un melone, dal verde di un’insalata, dal rosso acceso di un pomodoro, dal bianco latteo di una mozzarella. Questi colori ci fanno venire l’acquolina in bocca, ci stimolano a nutrirci di un certo cibo, ed il perchè è semplice: il fatto è che la nostra energia vitale trae profondo vantaggio dall’assunzione del colore connaturato in un alimento.” fonte: http://scuole.provincia.so.it/icgrosio/gusto/p_n_ colore_cibi.htm

Mangiamo colorato “Una caratteristica fondamentale di un corretto programma nutrizionale è la presenza di piatti multicolore. C’è molta differenza nel trovarsi davanti ad un piatto mono o bicolore (bistecca e insalata verde) ad una portata variopinta, l’umore cambia, si mangia più volentieri e l’alimentazione corretta non è più vista come una privazione, ma come la scoperta di nuovi e appetitosi piatti.” Dott. Alessandra Obbliti, biologa nutrizionale fonte: http://www.nutrirsimeglio.it/Colore%20 degli%20alimenti.html

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Milo

e i colori dei sapori La storia del mio libro per bambini sulla Gola ha come protagonista un bambino di nome Milo. A Milo piace tantissimo passare il suo tempo tra matite e pennarelli e colorare i suoi mille disegni. Il problema è che non ha mai interessa a mangiare, quando è ora di pranzare o di cenare, la mamma lo deve chiamare tantissime volte, ma lui non ne vuole proprio sapere. Un giorno però la mamma trova il modo di convincere Milo a mangiare il suo pranzetto. Gli racconta le filastrocche dei cibi colorati: il cibo giallo, il cibo rosso, il cibo verde, il cibo arancione ed il cibo viola. Milo pensa sempre a colorare i suoi disegni, ma non sa che anche il piatto può essere pieno di colori e ci si può divertire mangiando. Dopo aver sentito le filastrocche del cibo colorato, infatti, Milo ha un grande appetito e corre a tavola con la mamma.

Il libro offre anche uno spunto di interazione col bambino. Alla fine della storia c’è l’illustrazione del piatto colorato di Milo, con tanti cibi di tutti i colorii. Nell’ultima pagina infine c’è l’illustrazione di un piatto vuoto e bianco, dove il bambino lettore potrà disegnare e colorare il pranzetto che ha mangiato.

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p r o g e t t o

Illustrazioni del libro Dopo aver ascoltato queste bellissime

filastrocche,

Milo sente borbottare il suo pancino!

“ Mmmh... che fame mi è venuta! ” Così corre a mangiare il suo pranzetto preparato dalla mamma con i cibi

filastrocca del cibo

Giallo :

di tutti i colori!

l’uovo al tegamino

“ l'energia è sorprendente,

la banana

questo cibo è sorridente, ti regala l'allegria e la fame porta via! il sapore è zuccherino con un lato genuino, dei colori il più vivace, più lo assaggi e più ti piace! ”

la torta di riso

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La copertina Milo e...

I COLORI DEI SAPORI di Claudia Bessi

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Conclusioni Il percorso affrontato durante questo corso di composizione grafica ha voluto dare i primi strumenti minimi necessari per lavorare ad un progetto grafico. Attraverso questi tre mesi di lezioni e lavoro autonomo, ho potuto imparare quanto è importante l’autocritica nei propri progetti. Ho inoltre potuto constatare la differenza tra ciò che “piace” semplicemente e ciò che invece “funziona”. Infatti il primo giudizio appartiene più ad uno spettatore di un lavoro grafico, il secondo invece deve essere appartenere al progettista. Infatti un prodotto funziona se è motivato, valido e ben progettato. In questo corso non sono stati trattati solo argomenti puramente teorici e inerenti alla materia, ma si è spaziato in vari campi, comunque legati alla composizione grafica. Abbiamo parlato di poesia e di metafora, una figura retorica essenziale quando si progetta un manifesto, ma anche quando ci si imbatte nella stesura di una storia per bambini su un vizio capitale. La metafora serve a coinvolgere e stupire l’osservatore. Tutto ciò che abbiamo, inzialmente ricercato, poi progettato ed infine realizzato, durante questo corso, inclusa questa stessa rivista, ha a che fare con la comunicazione. Ciiò che può sembrare un oggetti inutile, come un libro, una rivista, un manifesto, in realtà è un oggetto denso di significati, duro lavoro di ricerca. Sono anche prodotti come questi infatti che permettono la comunicazione e, di conseguenza, arricchisono la cultura (ma anche l’immaginazione) di chi riesce ad apprezzarli.

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studente: Claudia Bessi corso di Composizione Grafica docente: Mario Lovergine a.a. 2011-2012


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