Through the drosscapes: images, perspectives and strategies

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attraversando i paesaggi dello scarto

Ilaria Catalano Claudia Scaravaggi



attraversando i paesaggi dello scarto immagini, prospettive e strategie

Politecnico di Milano Tesi di Laurea Triennale in Architettura Ambientale Ilaria Elena Catalano Scienze dell’Architettura Claudia Scaravaggi Relatore Alessandro De Magistris



ai nostri genitori


Indice


Abstract

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Introduzione

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1. Cava di Erchie un’occasione di riflessione

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Prima Parte 2. Definizioni

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3. Paesaggi dello scarto: esordi e sviluppi storici

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4. Letture e interpretazioni teoriche: prospettive dello scarto Prospettiva ecologica: paesaggio come sistema composito Prospettiva estetica: nuovo significato spaziale Prospettiva visiva: immagine statica e in movimento

67 71 87 105

Seconda Parte 5. Casi studio Detroit, Michigan, Stati Uniti Aeroporto di Tempelhof, Berlino, Germania Complesso archeologico di Angkor, Cambogia Arte Sella, Borgo Valsugana, provincia di Trento, Italia Stalker|Osservatorio nomade, Roma, Italia

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Terza Parte 6. Nuovi sedimi fertili

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Bibliografia

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Abstract


I paesaggi dello scarto. Cosa sono? Qual è il loro valore materiale e simbolico? Sono tasselli mancanti all’interno del nostro paesaggio o rappresentano possibili terreni fertili in cui operare? È a queste domande che cercheremo di dare una risposta in questa tesi. Punto di partenza è stata una visita a una cava dismessa, scenario di una natura devastata dall’uomo, nel comune di Erchie, lungo la Costiera Amalfitana: occasione che ha fatto nascere in noi il desiderio di studiare questa tipologia di luoghi. L’indagine prende avvio da alcune definizioni tracciate da studiosi appartenenti a diversi campi e procede descrivendo le origini e gli sviluppi storici di questi luoghi rifiutati. Per leggere, capire e progettare in queste terre abbiamo indagato sguardi trasversali che riguardano il campo delle arti e delle scienze. In questo lavoro l’argomento verrà considerato da diverse prospettive: ecologiche, estetiche e visive. Questa visione multidisciplinare rappresenta uno strumento indispensabile per leggere gli spazi residuali e restituirne la scala, la frammentarietà e la ripetizione. Gli interventi antropici hanno esaurito la Terra fino a renderla satura di ogni possibile e ulteriore costruzione, per questo diventa indispensabile tornare a volgere l’attenzione verso il patrimonio paesaggistico preesistente. Chiarire i metodi di approccio e gli sguardi possibili sullo scarto evidenzia

la necessità di comprendere in maniera più approfondita in che direzione debba muoversi il mestiere dell’architetto o paesaggista e con quali consapevolezze. Attraverso l’analisi di casi studio in cui si sono verificate condizioni di abbandono e successivo recupero, abbiamo cercato di dimostrare che esistono strumenti operativi atti a realizzare possibili “riqualificazioni”, a dare un nuovo senso a questi paesaggi dismessi e apparentemente esauriti. Gli esempi citati vogliono esprimere la possibilità che esista nuovo materiale reale con cui confrontarsi: luoghi, prima insignificanti, diventano portatori di ruoli e significati differenti all’interno del campo della progettazione. Queste esperienze verificano la possibilità che si possa ragionare in maniera diversa attraverso il progetto, in modo che dialoghi con lo scarto piuttosto che escluderlo a priori come materia non propria. Questa ricerca propone un metodo multiprospettico per rapportarsi a questa realtà, stimolando un approccio più consapevole nei confronti della condizione culturale in cui ci troviamo. Il nostro obiettivo è quindi quello di riflettere sullo scarto, indagandone il valore materiale ma non solo, e mostrandolo come nuovo terreno fertile su cui è ancora possibile operare. Date queste premesse si cerca di definire una strategia, non assoluta né definitiva, costituita da elementi teorici, articolati, interscalari e multidisciplinari per il progetto nei paesaggi di margine.

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Introduzione


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aesaggi artificiali, abbandonati, quasi casuali e imprevisti, fanno ormai parte della nostra quotidianità. L’aspetto poco indagato è che essi mostrino un carattere estetico scenografico in grado di suscitare piacere e appagamento alla vista e all’esperienza, al pari dei grandi scenari naturali tradizionalmente osservati e contemplati o ai grandi monumenti in rovina del passato. I luoghi abbandonati, infatti, sono dotati di una bellezza intrinseca che ci attrae e respinge, ci seduce e intimorisce contemporaneamente. Le ragioni di questa dicotomia di sensazioni possono essere ritrovate all’interno della cultura del passato. Dalla fine del Seicento e durante tutto il corso del Settecento, in conseguenza all’avvento dell’industria, artisti, scrittori e filosofi cercano di chiarire le emozioni suscitate dalla maestosità della natura, sino ad arrivare a definire la categoria estetica denominata Sublime. Anziché occuparsi della natura intrinseca di un’opera d’arte o di un paesaggio naturale essi indagano il fenomeno in relazione agli effetti che l’opera esercita sull’animo umano. In quest’ottica viene superata la concezione tecnicista del Bello e la volontà a definirne canoni oggettivi: Edmund Burke sosterrà così per la prima volta il primato del Sublime sul Bello. Il risultato dell’osservazione di questi paesaggi si colloca quindi tra un piacevole orrore e una serena contemplazione. Che cosa sono questi resti industriali, que-

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ste cave dismesse, questi segni indelebili nel tessuto del paesaggio e della città se non luoghi in cui il sublime contemporaneo si manifesta? È proprio questa chiave di lettura che interessa i sensi e le emozioni, a legare tutti i casi dai noi studiati. È questo l’approccio che ci permette di leggere le rovine attuali e quelle del passato. Oggigiorno qualifichiamo i residui del passato come patrimonio dell’umanità, tuttavia questo processo di valorizzazione non avviene per le rovine contemporanee che spesso non temono confronti quanto a spettacolarità. Punto di partenza e occasione di riflessione è stata una visita ad una cava, precedentemente sfruttata dall’industria siderurgica come miniera di roccia calcarea e ora abbandonata, situata nel comune di Erchie, lungo la Costiera Amalfitana. L’idea iniziale era quella di realizzare un progetto architettonico, immaginando una possibilità di recupero e riutilizzo per dare a questo sito una nuova dignità. Una volta visitatalo, tuttavia, la nostra opinione è cambiata. Questa cava, con il suo aspetto gravemente degradato dallo sfruttamento, ha provocato in noi forti emozioni che ci hanno spinto ad indagare la natura di questi luoghi e soprattutto a ricercare ciò che possa realmente dare loro una seconda vita, aldilà dell’ulteriore costruzione e cementificazione.

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Il lavoro è articolato in tre parti. La prima è dedicata alla ricerca del significato che questi luoghi dello scarto hanno avuto per studiosi di diverse materie. Vengono qui indagate le diverse sfaccettature, le inclinazioni di significato e il valore che, in diversi ambiti, questi luoghi possono avere. Inoltre vengono delineati gli sviluppi storici di questi luoghi rifiutati. Viene, infatti, strutturata un’antologia di momenti fondamentali nella loro storia: dalla loro nascita, ovvero da quando l’uomo ha fatto la sua comparsa sulla terra, fino all’età contemporanea, con l’avvento dell’industria, lo sfruttamento sfrenato delle risorse naturali fino ad arrivare alle conseguenze distruttive delle guerre mondiali. In questo processo la rovina è un tema centrale della modernità e diventa oggetto di progetto. Diversi studi, effettuati dagli anni Cinquanta del Novecento ad oggi, hanno delineato strumenti teorici e pratici atti ad analizzare questi luoghi e in grado di restituirne un’immagine arricchita di nuovo senso. Dai primi esperimenti di Land Art, alle riflessioni di paesaggisti-giardinieri, dai film di Antonioni e Wim Wenders agli scatti di celebri fotografi come Ghirri e Burtynsky. Questi studi sono da noi definiti “prospettive”: ecologiche, estetiche e visive, e vengono indagate per cercare di capire e progettare questi luoghi marginali. La seconda parte è dedicata all’analisi di casi studio fondati su strategie che organizzano


lo sguardo, di paesaggi e architetture incomplete o in attese di definizione; si vogliono qui evidenziare alcuni possibili strumenti operativi. I metodi di lettura e le strategie trovate dimostrano che, in questi luoghi che sembrano dominati dal caos e dall’assenza di regole, un progetto possa avere ragione di esistere, e che sia possibile realizzare un contatto e un dialogo con lo scarto. Questa raccolta di esperienze, riguarda progetti appartenenti a scale differenti, dall’intervento a livello sociale in un’enorme città come Detroit, degradata a causa della crisi economica, al recupero di un aeroporto nel centro della città di Berlino, da un abbandono programmato delle rovine di templi in Cambogia all’installazione di dispositivi naturali in una valle dimenticata nella regione del Trentino, fino al laboratorio d’arte urbana Stalker avento come oggetto i paesaggi abbandonati. La terza parte si focalizza sulla ricerca degli strumenti per la costruzione di una strategia di lavoro per la trasformazione di questi paesaggi dispersi e residuali. Partendo dalla consapevolezza che non sia possibile riempire tutto quanto ci si offre ancora libero, continuando un processo che lavora - spesso male - per imperterrita addizione; urge recuperare e rigenerare quanto è rimasto: gli spazi interclusi degradati e dimenticati, le dismissioni post-industriali, i ritagli tra gli svincoli autostradali, l’abusivismo, le campagne incolte, tutti quei residui di margine

liberi, disponibili alla trasformazione. L’obiettivo non è quello di definire un metodo né di delineare delle specifiche azioni pratiche legate al progetto – che è sempre unico e legato a molte altre variabili – ma di esplorare una strategia, non assoluta o definitiva, costituita da elementi teorici di riferimento per il progetto. La natura multidisciplinare di questo testo nasce dalla volontà di non ingabbiare questo tema in una sola forma di racconto. Le citazioni in apertura di ogni capitolo e l’apparato iconografico sono ulteriori testimonianze di un percorso di ricerca e di scrittura che si è avvalso di molteplici fonti. L’uomo continuerà a produrre scarto, di conseguenza è necessario imparare ad accettarlo e soprattutto ad apprezzarlo. Quindi l’obiettivo che questo lavoro si pone è di operare riflettendo su di esso, studiandone i diversi possibili aspetti, indagandone il valore e trattandolo come nuova terra su cui operare.

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Capitolo 1 Cava Erchie: un’occasione di riflessione

Cava di Erchie, Salerno, Novembre 2013


Se dunque volessi descriverti Aglaura tenendomi a quanto ho visto e provato di persona, dovrei dirti che è una città sbiadita, senza carattere, messa lì come vien viene. Ma non sarebbe vero neanche questo: a certe ore, in certi scorci di strade, vedi aprirtisi davanti il sospetto di qualcosa d’inconfondibile, di raro, magari di magnifico; vorresti dire cos’è, ma tutto quello che s’è detto d’Aglaura finora imprigiona le parole e t’obbliga a ridire anziché a dire

Da Le città invisibili di Italo Calvino


Monte L’uomo a Cavallo

Monte Piano

Faro Capo d’Orso


Torre di Erchie

Erchie

Torre del Tummolo


Cava di Erchie, Salerno, Novembre 2013


E

rchie, piccolo borgo marinaro della Costiera amalfitana, sorge come un anfiteatro stretto tra i monti Lattari e il mare. Dai promontori che la circondanoemergono due antiche torri saracene: Torre Cerniola e Torre del Tummolo. Si narra che quest’ultima torre conservi le spoglie di Kheir-Eddin il Barbarossa, feroce saladino seppellito dai suoi uomini nell’antica costruzione perrisiedere in eterno vicino al suo caro mare. Anticamente denominata Ircle, Ercle, Hercla ed Erchia, a immortalare la leggenda che vuole il villaggio legato ad un tempio dedicato ad Ercole. Il primo nucleo di case di pescatori nasce intorno ad un monastero benedettino fondato nel 979 dal doge amalfitano Mansone III. Il paese ha vita fiorente fino al 1154, quando una ciurma di saraceni distrugge abbazia e villaggio. In un luogo dove tutto è esiguo e contenuto, non ci si aspetterebbe di trovare una cava abbandonata maestosa quanto una montagna. Una cava visibile anche dal porto di Salerno: tre immensi buchi scavati nel

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costone roccioso in un territorio considerato dall’Unesco patrimonio dell’umanità. La storia della cava vede le sue origini nei primi anni del Novecento,periodo in cui viene estratta roccia calcarea destinata alla produzione di ghisa per gli altiforni dell’Ilva di Bagnoli. In funzione per più di cinquant’anni, viene abbandonata nel 1965 in seguito alla chiusura degli stabilimenti1. La cava è stata una delle maggiori fonti di reddito non solo delle famiglie di Erchie ma anche dei comuni limitrofi – Cetara, Maiori e Minori. Lo scavo, infatti, ha rappresentato per più di sessant’anni l’unica possibilità di guadagno e, quindi, di sopravvivenza:tutto è ruotato attorno al lavoro svolto in questa cava. Luigi di Bianco, erchietano, in un articolo ci racconta che “al mattino presto arrivavano operai da Maiori e da Cetara. In quegli anni a Erchie fioriva anche la cultura dei limoni e fra operai alla cava e operai ai limoneti, ogni giorno, arrivavano una ventina di persone”2. Gli operai che lavoravano alla cava si arrampicavano sul costone per riempire la roccia con dinamite: lo scoppio avveniva regolarmente alle 12 e alle 17. Il materiale veniva

h t t p : / / l a c i t t a d i s a l e r n o. g e l o c a l . i t / c r o n a ca/2013/08/18/news/la-storia-della-cava-di-erchiein-una-mostra-fotografica-1.7599546 2 http://www.dazebaonews.it/primo-piano/item/463lo-scempio-della-cava-di-erchie-un-buco-nella-rocciadove-regna-il-degrado

in seguito trasportato attraverso dei vagoni fino al mare, dove la nave “Jason” caricava il materiale. Un giorno, la nave ha smesso di attraccare e la cava è stata abbandonata e ignorata a lungo. Gli amministratori locali, infatti, non hanno mai affrontato veramente l’argomento, chiedendo una bonifica o la riqualificazione dell’area. Nel 2000 la cava è stata acquistata da Ambiente Italia, società legata a Mizzitelli, lo stesso proprietario del mostro Fuenti – “una gigantesca speculazione edilizia in una zona di tutela naturale dove dovrebbe vigere l’assoluto divieto di qualsiasi edificazione, sia pubblica che privata”3. L’obiettivo era il risanamento della cava attraverso la costruzione di un complesso turistico a basso impatto ambientale. Un progetto bloccato fin dall’inizio dalla Soprintendenza perché legato ai fini della speculazione edilizia. In questo luogo una riqualificazione è ben lontana da essere presa in considerazione. Il Piano regolatore generale del Comune di Maiori ha, infatti, definito questa parte di

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3

Ibidem


Cava di Erchie, Salerno, ca 1950

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montagna zona 1A E3, ovvero area di tutela dell’ambiente naturale dove sono vietati interventi di nuova edilizia, sia pubblica che privata; ogni trasformazione del suolo e della vegetazione spontanea; attraversamento di strade, acquedotti e opere di rimboschimento in contrasto con la vegetazione esistente. Il Comune di Maiori è, quindi, il primo ostacolo al risanamento della cava4. La tipologia di questa cava viene influenzata dal contesto geografico-morfologico in cui si trova. Inserita in un tessuto collinaremontuoso, è ben visibile dal territorio circostante sia per la grandezza dello scavo che per la posizione più elevata rispetto al limitrofo insediamento e alla rispettiva spiaggia. La cava è divisa in tre enormi fori uniti da brevi gallerie. Presenta due livelli: il primo, a pochi metri d’altezza dall’acqua, in passato luogo destinato allo scarico del materiale sulla nave, è ora un’ampia “terrazza” aperta sul mare. Da questo punto, oltre a poter godere di una meravigliosa vista sul porto di Salerno, è possibile osservare colossali mezzi industriali utilizzati un tempo per raccogliere e conservare la materia una vol-

http://www.dazebaonews.it/primo-piano/item/463lo-scempio-della-cava-di-erchie-un-buco-nella-rocciadove-regna-il-degrado?tmpl=component&print= 4

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ta estratta: un tripudio di cemento e ferro, ormai segnato dalla salsedine e dal tempo, capace di ammutolire lo spettatore. In questa distesa di terra, tra il pietrisco e la ricchissima flora spontanea (predominante è la gariga i cui ciuffi d’erbe si alternano ad arbusti di varie dimensioni), è ancora possibile osservare i resti ormai arrugginiti delle rotaie che servivano ad utilizzare i carrelli per il trasporto della roccia. Cimeli industriali, testimoni silenti di un’antica e pericolosa attività, giacciono in questo luogo collaborando a creare la straordinaria atmosfera di cui è caratterizzato. Il secondo livello si trova ad un’altezza molto più elevata rispetto al primo e per raggiungerlo è necessario utilizzare una lunga rampa di scale in cemento: avvicinandosi a questa seconda parte della cava si inizia ad avvertire un cambiamento in termini sensoriali. È in questo secondo livello che è avvenuta l’estrazione più recente della roccia e nel corso del tempo sono andati formandosi tre grandi voragini nella parete rocciosa. Questi fori sono collegati tra loro attraverso gallerie e, nonostante la breve distanza che li separa,presentano sottili caratteristiche di-


verse tra loro. Nel primo foro si avverte un improvviso silenzio. Il rumore delle onde che s’infrangono sugli scogli, così fragoroso vicino al mare, qui sparisce e viene sostituito da un leggero eco dettato dalle alte pareti. La macchia mediterranea è riuscita a rimpossessarsi completamente del luogo: mirto, erica, rosmarino, euforbia arborea e timo hanno invaso l’intera area. Se nel primo, la vista sul mare e sulla costiera era limitata, nel secondo foro questa è restituita in maniera straordinaria. In questo punto l’intero Golfo di Salerno si offre alla vista in tutto il suo splendore. I suoni del mare ritornano ad echeggiare e la presenza della vegetazione inizia a diminuire per la costante e continua presenza del sole. Il terzo foro, il più piccolo, regala emozioni inaspettate: una ringhiera, utilizzata un tempo per prevenire la caduta dei minatori in mare, si erge a strapiombo sulla costa. Da questa “balconata” mozzafiato si può finalmente godere della vista della Costiera Amalfitana. Un secondo gioiello ci viene offerto da questo luogo: una torre Normanna5 completamente diroccata, un luogo suggestivo, a strapiombo sul mare, offre un’esperienza

unica e memorabile per le sue viste e per i resti della torre che sembrano voler incorniciare questo paesaggio meraviglioso. Attualmente l’ingresso è vietato; essendo però privo di controllo e dal momento che la recinzione,ormai completamente arrugginita, è stata in alcuni punti rimossa per permettere l’accesso,chiunque è libero di entrare. Si può prendere il sole, osservare il mare, pescare. La magia della quiete, del silenzio, rotto solo dal suono delle onde che s’infrangono contro gli scogli, caratterizza questo luogo. La cava di Erchie, con i suoi scenari e il suo carattere deciso s’inserisce nel più ampio contesto naturale della Costiera Amalfitana. Con i suoi paesaggi, le sue viste e le sue occasioni sensoriali questa rappresenta un paesaggio mediterraneo unico. In questo contesto la presenza simultanea di opposti contrastanti tra loro è il carattere fondamentale: verticale/orizzontale, stretto/ profondo, aperto/chiuso, denso/rarefatto, alto/basso sono binomi che si realizzano in questi luoghi. La sua identità geografica presenta un dato fondante: una natura impervia in cui il contrasto tra mare e mon-

Santoro L., Le torri costiere nella provincia di Salerno: paesaggio, storia e conservazione, Paparo Edizioni, Napoli 201 5

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tagna ne delinea la caratteristica principale. La Costiera, nelle sue morfologie e nella sua anima, ha la potenza espressiva di un’opera d’arte, è uno spettacolo naturale in grado di trasmettere forti emozioni; è una terra dove anche gli opposti, invece di respingersi, si fondono in una sola moltitudine. La presenza della cava in questi luoghi, patrimoni dell’umanità, è allo stesso tempo contraddittoria e affascinante. L’uomo, distruttore della natura, è stato in questo caso fautore della creazione di un’occasione di pieno godimento di questa terra. Niente di quanto scritto finora può suggerire alla fantasia la ricchezza del suo patrimonio monumentale. Descrivere la cava con dei semplici epiteti è un arduo compito; lasciamo ora che siano le foto e i disegni a raccontarla.

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Cava di Erchie, Salerno, Novembre 2013


Cava di Erchie, Salerno, Novembre 2013

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Cava di Erchie, Salerno, Novembre 2013

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Cava di Erchie, Salerno, Novembre 2013

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Cava di Erchie, Salerno, Novembre 2013

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Le cave in Italia Queste mappe provengono dal Rapporto Cave realizzato da Legambiente nel 2011 e rappresentano un quadro della situazione nelle diverse Regioni italiane. In Italia si contano 18.752 cave, di cui il 5.763 attive e 13.016 dismesse, a queste si dovrebbero sommare le cave abbandonate che il rapporto non ha potuto registrare nelle regioni della Calabria, Abruzzo e Friuli Venezia Giulia, che porterebbe il dato a superare di gran lunga le 15 mila cave dismesse. Senza contare queste ultime la percentuale di cave abbandonate e dismesse in italia è del 69%. Progetti di recupero e riutilizzo sono temi attuali all’interno di questo quadro disastroso. Il destino di questi luoghi infatti è troppo spesso quello di divenire discariche. Il nostro discorso però non riguarderà le cave ma si svilupperà ad un altro livello. La visita alla cava di Erchie è stata punto di partenza per una riflessione più ampia riguardante questa tipologia di luoghi: i paesaggi dello scarto.


da 1 a 5 cave da 6 a 20 cave piĂš di 20 cave

Cave nei comuni italiani, Rapporto cave 2011, Legambiente


regione

attive

Abruzzo

239

dismesse

totale

-

Basilicata

51 32 Calabria 216 - Campania 376 1 336 Emilia-Romagna 296 298 Friuli-Venezia Giulia 67 - Lazio 393 475

239 83 216 1 712 594 67 868

Lombardia 558 Liguria 98

2 888

Marche

172 Molise 56

1 002 545

601

Piemonte 472 Puglia 339

311

783

550

889

Sardegna

381 Sicilia 557

492

873

691

1 248

Toscana

1 029

1 432

1 100

1 292

403

Trentino-Alto Adige

192 Umbria 103

529

77

Valle d’Aosta 39 37 Veneto 566 1 614 totale 5 736

Legambiente, Rapporto cave 2011

30

13016

3 446 627 1 174

180 76 2 180 18 752


15% 16% 51%49% 45%

85% 26%

84%

60%

31%

74% 69%

49%

51%

15% 85%

29% 71%

55%

14% 86%

45%

10% 90%

55%

21%

79%

62% 39% 61%

38%

43% 57%

55%

45%

cave attive cave abbandonate

Cave attive e abbandonate in Italia, Rapporto cave 2011, Legambiente


Fata Morgana, Werner Herzog, 1970

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Il residuo deriva dall’abbandono di un terreno precedentemente sfruttato. La sua origine é molteplice: agricola, industriale, urbana, turistica ecc. Residuo (délaissé) e incolto (friche) sono sinonimi. La riserva è un luogo non sfruttato. La sua esistenza è legata al caso oppure a una difficoltà di accesso. Appare per sottrazione dal territorio antropizzato. Il carattere indeciso del Terzo paesaggio corrisponde a un’evoluzione lasciata all’insieme degli essere biologici che compongono il territorio, in assenza di ogni decisione umana.

Gilles Clément | giardiniere, paesaggista, architetto, agronomo Da Manifesto del Terzo Paesaggio

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Fata Morgana, Werner Herzog, 1970

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La parola “waste” viene dal latino vastus, che vuol dire disabitato o desolato, un termine affine al latino vanus (vuoto o vano), e al vocabolo sanscrito per mancante o difettoso. Così in origine esso significava grosso, vuoto, spoglio, inutile e ostile all’uomo: “un’ampia e malinconica desolazione di putridi acquitrini” (Shelley, Alastor). Le definizioni di questo vocabolo occupano svariate colonne di testo minuto. Ci sono non più di cento parole in un dizionario di inglese che hanno altrettante definizioni. I significati di “waste” vanno da quello di selvaticità ed inutilità a quello di malattia o di spesa insensata. Ogni significato ha un carattere negativo, eccettuato, forse, quello di “scapoli usati per pulire macchinari”.

Kevin Lynch | architetto, urbanista Da Deperire. Rifiuti e spreco nella vita di uomini e città

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Fata Morgana, Werner Herzog, 1970

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Lo scarto (dross) è considerato come un componente naturale di ogni città che si sviluppa dinamicamente. È un indicatore della salute dello sviluppo urbano. I paesaggi dello scarto (drosscapes) sono interstizi, spazi “in-between” nel tessuto urbano della città, aree in attesa di sviluppo, zone di scarico rifiuti, una distesa apparentemente senza fine di interruzioni e perimetri che incorniciano i quartieri abitativi. Gli spazi vuoti sono costituiti da aree non edificate o non edificabili, spazi sempre più frammentati, marginalizzati interstizi tra gli edifici che costituiscono il tessuto urbano. Una marginalità che si presenta anche all’esterno, dove i confini netti tra paesaggio agrario e paesaggio urbanizzato si sono trasformati in un bordo sfrangiato.

Alan Berger | docente di architettura del paesaggio Da Drosscape: Wasting Land in Urban America

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Fata Morgana, Werner Herzog, 1970

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Nuove terre sono spazi il cui destino è segnato, spazi già fondati, significati, la cui ri-scoperta consiste in un atteggiamento progettuale che ne coglie ulteriori possibilità in continuità con ciò che persiste e che anzi, grazie al nuovo, amplifica le proprie capacità di relazione. Quella che prende corpo in queste situazioni è certo architettura, ma il suo ancorarsi ad una situazione, al palinsesto esistente, è tale per cui difficilmente è possibile estrapolarla dal contesto in cui si mette senza strappare anche parti del luogo; allo stesso tempo, la propria natura di artefatto dotato di chiara identità e lingua è palese.

Sara Marini | architetto, dottore di ricerca Da Nuove Terre. Architetture e paesaggi dello scarto

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Fata Morgana, Werner Herzog, 1970

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Nel tessuto abitato esistono quattro spazi. Il Primo è quello chiuso, deciso dalla griglia urbana (dimore, negozi, uffici). Il Secondo è aperto, ma il suo uso è limitato da regole (vie, piazze, parchi). Il Terzo è formato dagli spazi dismessi, aperti o chiusi: saranno prima o poi recuperati da una gestione regolata, oppure diventeranno luoghi di autogestione. Il Quarto spazio è lo spazio aperto senza alcuna utilità economica o sociale: privo di funzione, sfugge agli interessi di gestione dall’alto o dal basso. Non ha altro statuto se non quello di esserci. Il Quarto spazio è inabitabile, è inaccessibile, è interstizio senza passaggio, è soglia senza un al di là. Nuovo paesaggio di rovine, è terreno di viaggi virtuali. Spazio rimosso per eccellenza.

Matteo Meschiari | antropologo Da Quarto spazio, luoghi di non uso e giardini nomadi

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Fata Morgana, Werner Herzog, 1970

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Terrain vague sono siti obsoleti nei quali soltanto alcuni valori residui sembrano sopravvivere, nonostante la disaffezione totale dell’attività della città. Da un punto di vista economico, aree industriali, stazioni ferroviarie, porti, siti contaminati, sono diventate aree dove possiamo dire che la città non esiste più. Essi sono i suoi margini, privi di qualsiasi integrazione effettiva; sono isole interne alla città svuotate di attività; sono dimenticate, sviste, resti che sono rimasti al di fuori delle dinamiche urbane. In breve, questi sono luoghi estranei al sistema urbano, mentalmente esterni nell’interiorità fisica della città, appaiono come la sua immagine negativa tanto nel senso della critica come in quello della possibile alternativa.

Ignasi de Sola-Morales | architetto, storico, filosofo Da Quaderns n. 212

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Capitolo 3 Paesaggi dello scarto: esordi e sviluppi storici

Thomas Gainsborough, Romantic Landscape, 1783


Le rovine di un edificio mostrano che altre forze e altre forme, quelle della natura, sono cresciute nelle parti scomparse o distrutte dell’opera d’arte; e così, da ciò che dell’arte in esse vive ancora e da quella parte di natura che già vive in esse è scaturita una nuova totalità, un’unità caratteristica. […] Il fascino delle rovine è che un’opera dell’uomo viene percepita alla fine come un’opera della natura. […] Le rovine creano la forma presente di una vita passata, non restituendo i suoi contenuti o i suoi resti, bensì il suo passato quanto tale. Questo è anche il fascino delle antichità, delle quali solo una logica ottusa può affermare che una imitazione assolutamente esatta da un punto di vista estetico avrebbe lo stesso valore

Da Saggi sul paesaggio di Georg Simmel



I

paesaggi dello scarto esistono da quando l’uomo ha fatto la sua comparsa sulla Terra, in quanto lo scarto è conseguenza e risultato stesso della presenza dell’uomo e della sua attività. Fin dall’antichità l’essere umano ha plasmato l’ambiente in cui ha abitato, subendone contemporaneamente la sua influenza. Egli ha scelto dove insediarsi sulla base delle risorse naturali, delle utilità e dei pericoli che la natura esternava. Durante il periodo neolitico, l’uomo, divenuto agricoltore e allevatore, è intervenuto sul territorio modellandolo affinché producesse le risorse necessarie alla sua sopravvivenza; diventando così, di fatto, un abitante stabile dell’ambiente e non più un cacciatore nomade continuamente alla ricerca di nuove aree. L’essere umano fa della trasformazione della natura il proprio modo di stare al mondo. Tanto più, dall’epoca romana in poi diventa capace di progettare il paesaggio, di suddividerlo e organizzarlo, di superare ostacoli, di intervenire sul corso dei fiumi, di portare acqua lì dove mancava. Di conseguenza il suo impatto sull’ambiente è risultato sempre più imponente, fino a lasciare tracce

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profonde sul paesaggio in modo irreversibile. Si pensi, ad esempio, alla centuriazione, il grande sistema di organizzazione e suddivisione del territorio in spazi regolari, che ancora oggi in molte aree determina la forma dei nostri campi. I primi fenomeni Avendo introdotto il concetto di paesaggio, però, è bene evidenziare che la sua concezione e cognizione distingua due pensieri differenti: da un lato una visione oggettiva secondo la quale “l’ambiente è visibile sempre e ovunque e, di conseguenza, vi è sempre e ovunque paesaggio”1; dall’altro lato una visione più soggettiva e nozionistica in cui il “paesaggio non è sempre esistito, né è presente in ogni parte del mondo”2. Quest’ultima asserisce che “tutte le società hanno un ambiente che percepiscono attraverso la vista e gli altri sensi, ma quel che vi vedono non è necessariamente paesaggio”3. Ogni cultura utilizza termini specifici per esprimere questo rapporto con l’ambiente. Il mondo dell’antica Roma, per esempio, non ha avuto coscienza del paesaggio in

Berque A., Tutto è paesaggio, “Lotus”, n° 101, p. 199 Ibidem 3 Ibidem 4 Ivi, p. 71 1 2

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quanto tale, designabile per mezzo di una parola indicata. A tal proposito l’antropologo Augé scrive: “ogni paesaggio esiste solo per lo sguardo che lo scopre”4, presuppone almeno un osservatore. Questa presenza dello sguardo che ‘attua’ il paesaggio ipotizza altre presenze, altri spettatori. I paesaggi che ci appaiono più naturali devono tutti qualcosa all’intervento dell’uomo, e quelli che ne sembrano del tutto indipendenti sono stati almeno accostati da vie di comunicazione e di mezzi tecnici che permettono appunto di farne dei paesaggi.

Sulla base di questi concetti si può comunque affermare che non è possibile conoscere la storia del paesaggio senza sapere quella dell’uomo che l’ha modellato, così come non è possibile comprendere la storia dell’uomo senza ricomporre l’ambiente in cui ha sempre vissuto.

Paesaggio modellato, plasmato, sagomato, adattato, creato, ma, soprattutto, scartato. L’attività dello scarto è antica quanto la pre-


senza dell’uomo sulla Terra. Si pensi a Siracusa, custode di un’antica cava greca: quello che oggi sembra un paradiso terrestre con la fisionomia di una valle profonda dove crescono piante di limoni, nell’antichità doveva essere un luogo infernale dove reietti e prigionieri erano costretti ai lavori forzati. Si pensi al Colosseo, utilizzato come immensa cava di pietra per l’edificazione della Basilica di San Pietro; o agli stessi acquedotti in rovina di Roma che furono chiusi per costruire abitazioni. Singolare è un rescritto imperiale romano del 397 d.C. al prefetto dell’Oriente, in cui vengono date istruzioni di usare il materiale dei templi pagani demoliti per la manutenzione dei ponti pubblici, delle strade, degli acquedotti e dei pozzi. Nelle epoche passate, infatti, era consuetudine diffusa estirpare singoli elementi architettonici dei vecchi monumenti per ricollocarli e riutilizzarli in nuove costruzioni. La ricostruzione diventa, quindi, un rifacimento storico, un tentativo di ricreare l’immagine della memoria. Nel tempo questa pratica è andata a costituire una delle principali forze che hanno

plasmato le nostre città e il nostro territorio, come afferma Trasi “la cava è il negativo delle città: si toglie da una parte per mettere da un’altra”5. Variamente occupati da abitazioni, trasformati per nuovi usi, reinventati spazialmente e linguisticamente, i manufatti del passato sono giunti fino ai giorni nostri in forme in parte alterate, trasmettendo, attraverso il tempo, i valori di cui erano portatori e contribuendo a crearne di nuovi grazie alle invenzioni inedite a cui il loro riutilizzo aveva dato luogo. Questo tipo di pratiche sembrano subire una battuta d’arresto nel momento in cui si trovano a confrontarsi con il mondo contemporaneo. Il Grand Tour e il fascino delle rovine nei secoli Fin dalla prima metà del XVI secolo artisti e poeti giungono in Italia con l’intento di comprendere le tracce del mondo antico e di compiere nuove esperienze estetiche. Questi ricorrenti spostamenti culturali avvengono prima con un movimento spontaneo e, in seguito, secondo una consuetudine pedagogica obbligatoria per la formazione umanistica: il Grand tour. Definito come

Trasi N., Paesaggi rifiutati, paesaggi riciclati, prospettive e approcci contemporanei, Librerie Dedalo, Roma 2001 5

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“una vera e propria istituzione che radunava in sé i caratteri della vacanza premio, dell’iniziazione mondana, del corso di perfezionamento, del battesimo dei sensi, dello stage di formazione dirigenziale, del pellegrinaggio devoto (per i cattolici)”6, il tour è fondamentale per comprendere l’evoluzione dello sguardo sui siti archeologici. Attraverso la raffigurazione pittorica e letteraria il paesaggio delle rovine assume valore culturale.

Le rovine di epoca greco-romana sono state preservate perché, durante i periodi di declino delle civiltà, questi resti mostravano la grandezza di un’altra civiltà, ormai passata, che si ammirava e a cui si riconosceva la maestria di costruzioni durature. Attraverso i resti di questi monumenti era possibile studiare e tentare di capire le ragioni del declino di Roma. Le rovine rappresentavano contemporaneamente la caducità dell’uomo e delle sue opere, e la sua possibilità di salvezza. A partire dal Cinquecento un flusso conti-

Marenco F., La colonna e la rovina: Roma nell’immaginario britannico fra Sette e Ottocento, in De Seta C., a cura di, Imago Urbis Romae, Electa, Milano 2005, p. 65 6

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nuo di artisti europei giunge in Italia. Tra questi si distinguono i pittori fiamminghi, che ritraggono un paesaggio in cui le rovine diventano le vere protagoniste, e non più soltanto sfondo. Successivamente, tra il Seicento e il Settecento, le opere dei pittori e degli incisori mostrano le vere trasformazioni subite dal paesaggio italiano antico e contemporaneo e, progressivamente, si modifica la lettura utilizzata dagli stessi artisti sui siti storici, visitati sempre più assiduamente. Le viste delle rovine di Roma ispirano le opere d’incisione dell’artista e architetto Gian Battista Piranesi. Qui il pessimismo del decadimento diventa estremo: le rovine con la loro grandiosità sono le uniche a opporre all’opera distruttrice del tempo una forte resistenza, destinata, però, a non durare in eterno. La natura alla fine occuperà anche quei luoghi, come dimostra l’insinuarsi della vegetazione tra le crepe. Per Piranesi le rovine devono restare tali. Esse rappresentano l’eredità di qualcosa che non può tornare: l’architettura romana è fondamento di tutte le architetture successive. Le sue figure non sono immagini che imitano una


realtà ideale ma semplici apparenze, create per produrre “un’esibizione indiretta, simbolica, di qualcosa di cui si avverte la presenza intorno a sé, al disopra di sé, qualcosa di cui non si può più garantire una diretta personificazione”7.

duta degli imperi, testimoniato e mostrato dalle stesse rovine.

Nelle numerose descrizioni riportate dai viaggiatori del Tour, “le dimensioni di tipo documentario, evocativo, semantico e pedagogico convivono, mentre il documento archeologico diviene una testimonianza fisica delle narrazioni degli autori classici, e come tale espressione di un patrimonio culturale ed etico condiviso, ed al tempo stesso, icona del sublime paesaggistico, e quindi esperienza estetica soggettiva”8. Senza entrare nello specifico di un tema molto vasto e vario, tracce di queste tendenze culturali si trovano nelle opere di Goethe9, Ruskin10, Dickens11, Chateaubriand12, Zola13, dove considerazioni storiche, estetiche e filosofiche sul tema del paesaggio e delle rovine si mescolano a commenti sugli usi e costumi delle popolazioni locali. Per Chateaubriand “tutti gli uomini hanno una segreta attrazione per le rovine”14, suggerita da quel sentimento di sublime che nasce dal contrasto fra la condizione umana e la ca-

Per capire il concetto di sublime paesaggistico e quindi di esperienza estetica soggettiva è importante andare ad analizzare il contributo fornitoci dall’autore Edmund Burke. Nel suo testo intitolato A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of The Sublime and Beautiful15 afferma: “Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile, o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore, è una fonte del sublime; ossia è ciò che produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire. Dico l’emozione più forte, perchè sono convinto che le idee di dolore sono molto più forti di quelle che riguardano il piacere. Quando il pericolo o il dolore incalzano troppo da vicino, non sono in grado di offrire alcun diletto e sono soltanto terribili; ma considerati a una certa distanza,e con alcune modificazioni, possono essere e sono dilettevoli, come riscontriamo ogni giorno”16. Pertanto il sublime è sì una categoria estetica, ma è soprattutto un sentimento, un’emozione connessa in qualche modo al terrore e al dolore, ma osservabile anche “a

Dal Co F., Piranesi e la malinconia, in Storia dell’architettura italiana. Il settecento, Electa, Milano 2000 8 Ibidem 9 Goethe W., Viaggio in Italia, traduzione di Emilio Castellani, Mondadori, Milano 1983 10 Ruskin J., Viaggio in Italia, a cura di Attilio Brilli,

Mondadori, Milano 2002 11 Dickens C., Impressioni italiane, traduzione di Claudio Messina, Edizioni del Vascello, Roma 1989 12 F. R. De Chateaubriand, Mémoires d’outretombe, Penaud, Paris 1850 13 Zola É., Mes voyages; Lourdes, Rome, a cura di Ternois

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una certa distanza” e per questo è possibile associarlo al diletto. Continua Burke: “La passione causata da ciò che è grande e sublime in natura, quando le cause operano con il loro maggior potere, è lo stupore; e lo stupore è quello stato d’animo in cui, ogni moto sospeso, regna un certo grado di orrore. In questo caso la mente è così assorta nel suo soggetto che non può pensarne un altro, e per conseguenza non può ragionare sul soggetto che la occupa. Di qui nasce il grande potere del sublime, che, lungi dall’essere prodotto dai nostri ragionamenti, li previene e ci spinge innanzi con una forza irresistibile”17. Altra caratteristica del sublime è quindi quella di essere facilmente associato alla natura, e alle sue potenti manifestazioni. La suggestione che questi fenomeni producono su di noi è tale da impedirci di razionalizzare ciò che vediamo, e di spingerci “con una forza irresistibile” verso il mondo dell’immaginario e del sensazionale, in cui lo stupore è tale da diventare orrore. Di particolare interesse per la lettura del paesaggio archeologico è la descrizione che fornisce Charles Dickens della città industriale ideale di Coketown (letteralmente “cit-

R., Fasquelle, 1958 14 F. R. De Chateaubriand, Génie du Christianisme, Flammarion, Parigi 1966; trad. it. Genio del Cristianesimo, Bompiani, Milano 2008 15 Burke E., A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of The Sublime and Beautiful, trad. it. Inchiesta sul

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tà del carbone”): “Coketown, verso la quale si recavano Gradgrind e Bounderby, era un trionfo di fatti: in essa non c’era nemmeno l’ombra di fantasia [...]. Era una città con mattoni rossi o, per meglio dire, di mattoni che sarebbero stati rossi se fumo e cenere lo avessero permesso: così come stavano le cose, era una città di un rosso e di un nero innaturale come la faccia dipinta di un selvaggio; una città piena di macchinari e di alte ciminiere dalle quali uscivano, snodandosi ininterrottamente, senza mai svoltolarsi del tutto, interminabili serpenti di fumo” 18. Un’ulteriore e rilevante interpretazione dei paesaggi del Tour è quella effettuata dagli architetti: le suggestioni culturali dei siti italiani costituiscono, infatti, un modello di riferimento fondamentale per il disegno di paesaggio che si sviluppa nell’Inghilterra dei primi del XVIII secolo. Il paesaggio di Alexander Pope, William Shenstone e William Kent è ricco di riferimenti e richiami figurative, che alludono ai luoghi del Tour e, attraverso di essi, ai valori del mondo classico. La potenza dei paesaggi in rovina non si

bello e sul sublime, a cura di SERTOLI G., Aesthetica edizioni, Palermo 1985 16 Ivi 17 Ivi 18 Dickens C., Hard Times-For These Times, Signet Classics, 1997; trad. it. Tempi difficili, Garzanti, Milano


esaurisce con il passare del tempo, o con le trasformazioni del gusto e delle culture. Nella prima metà del Novecento possiamo, infatti, osservare come gli stessi luoghi continuino a esercitare un impulso creativo e innovatore: si pensi ai taccuini di viaggio illustrati di Pierre Jeanneret – non ancora Le Corbusier – che trae, dall’osservazione dei paesaggi dell’antico, le informazioni per sua la progettazione d’avanguardia. In seguito, la modernità ha trasformato la categoria culturale delle rovine dandole nuovi significati, talvolta legati alle tragedie storiche. Lo sviluppo della dimensione industriale, ad esempio, ha portato alla nascita della categoria delle rovine tecnologiche e produttive, che trovano nell’elemento delle macchine, delle miniere, delle cave, i propri esempi storici simbolici e allegorici. Rivoluzione industriale Tra Medioevo ed età moderna la città cambia volto, subendo una veloce urbanizzazione che ha ripercussioni sulla società e sul paesaggio. Assistiamo a casi di gigantismo urbano, alla nascita dello Stato moderno,

all’esodo da un’economia rurale di sussistenza verso una proto-industriale, a un visibile deterioramento delle condizioni igieniche e sanitarie e alla polarizzazione della struttura sociale. Il culmine si raggiunge nel XVIII secolo e si mescola alle tensioni culturali, politiche, sociali ed economiche che il secolo dei lumi manifesta. Esse troveranno esito e soluzione nelle due rivoluzioni del Settecento: la nascita dell’industria e l’abbattimento dell’ancien régime. Viaggiatori, scrittori, pittori e storiografi ci raccontano sovente un’immagine negativa della città, dai quali emerge come luogo sporco, malsano e alterato. Con la rivoluzione industriale inizia lo sfruttamento intensivo delle risorse e cominciano ad accumularsi i rifiuti delle prime fabbriche con conseguente impatto sull’ambiente. Essa introduce nell’ambiente urbano nuove masse di persone provenienti dalle campagne, nuove tecniche di produzione e nuovi inquinanti. In riferimento ai rifiuti che la grande città del XVIII secolo deve eliminare, si può osservare come quest’ultimo aspetto della vita cittadina si sia aggravato con l’estensione della città.

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I rifiuti della società industriale, e in maniera del tutto peculiare quelli della civiltà dei consumi, sono lo spreco delle risorse della terra su cui fondano. Allora, come adesso, si pensava solo a una smisurata produttività senza mettere in conto i danni che essa provocava. Proprio a partire dalla rivoluzione industriale, la natura fisica del territorio al suo stato natio, ma soprattutto l’ambiente artificiale trasformato e condizionato come ci appare, sono diventati oggetto di studio. In Inghilterra, attorno alla metà del Novecento, nasce, infatti, una disciplina chiamata “archeologia industriale”19, ossia lo studio e la riscoperta delle aree dismesse o abbandonate della prima età industriale. Vengono esaminate quelle modificazioni lente o improvvise di interi territori, nascita e morte di piccole e grandi concentrazioni urbane, di agglomerati produttivi e di fabbriche. Questa pratica, diffusa ancora oggi, cerca di conservare i ruderi industriali che hanno contrassegnato determinati periodi storici, e si avvilisce ogni qual volta gli oggetti da loro ammirati vengano distrutti con tanta

Rix M., Industrial Archaeology, “The Amateur Historian”, 1955 19

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indifferenza. Buttes-Chaumont Per evidenziare il fatto che questi luoghi dello scarto siano presenti anche nel passato, è interessante citare un esempio di paesaggio scartato che ha ripreso vita attraverso la sua riconversione in parco nella sua stessa epoca. Stiamo parlando di Buttes-Chaumont, un tempo una cava e oggi uno dei più bei parchi di Parigi, è stato per lungo tempo considerato un luogo di sinistra reputazione. Fin dal IX secolo in questa zona i Parigini respinsero un attacco dei Normands. Buttes-Chaumont torna ad essere menzionata nuovamente nel XIII secolo per un triste ricordo: qui, infatti, vennero installate le forche patibolari tolte solo nel 1789. Successivamente l’area fu utilizzata come discarica, la quale, come ci racconta Alphand nel suo testo, “provocava esalazioni infette, non solo nei quartieri vicini, ma anche sulla città intera, secondo la direzione del vento”20. A quell’epoca, le cave di calcare che occupavano già i paraggi, si estesero fino alla zona


di Buttes-Chaumont, che man mano divenne una vera e propria cava a cielo aperto e in parte sotterranea, il cui sfruttamento era particolarmente intensivo. Il gesso estratto fu utilizzato per la costruzione di molti edifici della capitale. Verso la fine del XIX secolo i terrazzamenti realizzati per il passaggio della ferrovia, frenarono lo sviluppo dell’attività estrattive. Nel 1860 Napoleone III decise di dotare il nord di Parigi di un parco, attraverso la sistemazione di questo luogo deserto e malsano. Questa scelta entrava a far parte del più ampio progetto di trasformazione della città di Parigi da parte del prefetto Haussmann. L’ingegnere Alphand, insieme all’architetto Davioud e all’orticultore Barillet-Deschamps, progettarono il parco, il quale venne terminato nel 1867. Grazie alla particolare morfologia del suolo, con i suoi rilievi e i suoi profondi scavi dovuti all’antica cava, i progettisti hanno potuto creare un paesaggio montuoso quasi a scala naturale. Tuttavia dietro al carattere ornamentale ed estetico vi è sempre l’aspetto funzionale e pratico, necessario per le caratteristiche del sito: ad esempio, il muro su cui scorreva la grandiosa cascata d’acqua e

il muro di fondo dell’immensa grotta erano dei muri di sostegno che servivano, in realtà, ad impedire il franare dei sovrastanti terreni argillosi. I pendii quasi verticali sono stati sagomati con pendenze che permettessero al suolo di essere sostenuto e di poter ricevere terra vegetale e piante. Alphand e i suoi collaboratori hanno dovuto superare inconsuete difficoltà per cercare di assimilare questi terreni, questi paesaggi alterati, ad una destinazione completamente nuova. La natura così come viene teorizzata e progettata, si arricchisce dei contributi che le provengono dai diversi campi del sapere: la botanica, l’agronomia, l’idraulica, la topografia fondano una somma di conoscenze.

Agire su una natura già alterata, urbanizzarla estremizzandone la sua naturalità, renderla fruibile nell’ambiente urbano: è questo l’obiettivo che si propone Alphand; egli scrive “la natura fornisce le grandi linee, ma deve necessariamente subire certi aggiustamenti che la contengano e la modifichino”21, indicando l’i-

Alphand A., Les Promenades de Paris, J. Rothschild, Parigi 1867-1873 20

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nevitabilità del cambiamento e mostrandosi, in questo senso, vicino allo spirito contemporaneo.

Agli inizi del ventesimo secolo ha iniziato a svilupparsi una peculiare sensibilità verso la tutela del paesaggio. Una preservazione per proteggere il territorio dallo sfruttamento intensivo che si stava diffondendo sempre in maggior misura. Tale necessità cominciava ad essere auspicata da tutti: in difesa delle bellezze naturalistiche iniziavano a muoversi non più solo le ristrette élite di uomini d’arte, cultura e poesia ma anche tutti coloro che, soffocati dai ritmi snervanti delle città, rimpiangevano le campagne. Una considerazione e un rispetto verso il paesaggio cui, però, non corrispondeva altrettanta concretezza a livello istituzionale. Le leggi emanate fino ai primi del Novecento, infatti, non portarono ordini specifici nei confronti del paesaggio e della tutela dei monumenti naturali. Tutta l’iniziativa normativa era indirizzata fondamentalmente alla conservazione del

patrimonio storico, degli oggetti d’arte, delle antichità, della proprietà letteraria ed artistica. Tutto ciò conduceva ad una insolita contraddizione. Accadeva, infatti, che lo Stato, primo custode dei tesori dell’arte (dagli splendidi quadri dei grandi maestri del paesaggio, alle opere letterarie dei grandi scrittori, fino ai magnifici versi dei poeti che ne decantavano le meraviglie), rischiasse di lasciare trascurati gli straordinari e irreparabili “originali” da cui queste stesse opere d’arte aveva preso ispirazione. La conservazione del paesaggio nasce in Europa e negli Stati Uniti con motivazioni diverse. La prima vede una reazione elitaria con crescenti e, sempre più evidenti, fenomeni di pressione ambientale, legati soprattutto all’imporsi della civiltà industriale. I secondi, invece, volevano conferire alla popolazione un elemento di riconoscimento e identità22. Questa differenza interpretativa è visibile nell’istituzione delle prime aree protette nel corso del XIX secolo: in Francia la progressiva depredazione, a fini speculativi, della foresta di Fontainebleu spinse a fondare nel 1901 la Société pour la protection des paysage23,

Ivi La tutela dei grandi spazi naturali è una ”invenzione americana” (R. Nash, The American Invention of National Parks, in American Quarterly, 1970). La creazione di parchi ha un’origine abbastanza recente: solo verso la metà del secolo scorso si inizia a parlare di parco na-

zionale nel senso di spazio protetto a vantaggio di una nazione. Sebbene l’America del Nord sia stata la prima ad avere l’idea del parco, l’Europa espresse la volontà di proteggere la natura molto prima. Infatti tra il XVI e il XVII secolo già si trovano le prime disposizioni per la protezione della fauna selvatica con la creazione

Tutela del paesaggio

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che riuscì a favorire la tutela della foresta e ad avviare il processo che portò, in seguito, all’approvazione della Loi organisant la protection des sites et monuments naturels de caractere artistique. Negli Stati Uniti, invece, l’azione porterà, nella seconda metà dell’800, alla nascita del sistema di parchi nazionali e, all’inizio del 900, alla prima agenzia per la protezione della natura del mondo, il National Park System24. Appena uscita da una lunga guerra civile, la comunità statunitense necessitava di forti riferimenti culturali in cui riconoscersi. Questi furono individuati nella valorizzazione e nell’appagamento del grandioso patrimonio naturale.

tività l’onere di rimediare le conseguenze di abusi privati e/o pubblici a danno dell’ambiente. Guerra e macerie La guerra e le rovine, derivate dalla sua potenza distruttiva, sono una chiave di lettura centrale del Novecento e della Modernità. Il tema della maceria del costruito entra nel dibattito architettonico e porta con sé due approcci tra loro opposti: la conservazione dello stato di fatto o l’eliminazione e la ricostruzione ex novo dell’edificato.

La nostra sopravvivenza è tutelata e garantita dalla protezione delle risorse per le generazioni future. La suddetta tutela dovrebbe comprendere non solo la salvaguardia delle risorse essenziali, ma anche il mantenimento o il riuso delle aree in abbandono. Cerchiamo di impedire l’erosione totale del suolo e la deturpazione di particolari qualità estetiche di un paesaggio. L’assunzione di queste responsabilità eviterebbe alla collet-

A partire dai primi fenomeni di invasione bellica, intere città venivano rase al suolo in seguito al passaggio degli invasori. Dai bastioni di Troia alla Muraglia cinese, dagli oppida romani ai castelli medievali, l’uomo ha costantemente dedicato il suo ingegno all’edilizia difensiva; nel Novecento però costruire per proteggersi è divenuto un atto privo di senso. Nel corso del XX secolo, infatti, si assiste a mutamenti nel fenomeno bellico sotto una duplice azione: il progresso tecnico negli armamenti e la mondializ-

di zone naturali, mentre per l’America del Nord verso la metà del XVII secolo si parla ancora di semplici restrizioni riguardanti la caccia. In ogni caso si tratta di regolamentazioni e atti di protezione specifici, settoriali e che, quindi, non prendono in considerazione una visione globale di conservazione della natura. Per spie-

gare la leadership americana per quanto riguarda i parchi nazionali Roderich Nash considera quattro fattori. Innanzitutto il rapporto con la wilderness e l’ideologia democratica. L’elemento successivo è l’esistenza di un ammontare elevato di territorio non sfruttato dall’uomo nel momento in cui le prime due influenze si com-

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zazione dei conflitti25. Durante le guerre mondiali obiettivo principale degli attacchi è la distruzione non solo dei centri urbani, ma soprattutto delle aree della città in cui sono concentrate le industrie e gli apparati di produzione. Attraverso bombardamenti e attacchi aerei intere parti di città vengono rase al suolo e lo Stato e la sua popolazione sono messi in ginocchio. Testimonianze di esperimenti di distruzione sono evidenti nel sito chiamato Dugway proving ground, situato nel deserto americano dello Utah. In questa occasione venne reclutato segretamente, nel 1943 ad Harvard, l’architetto ebreo tedesco Eric Mendelsohn, esponente del movimento modernista26, per ricostruire alcuni caseggiati di edilizia popolare tipici della capitale e di altri grandi città del Reich. L’efficacia dei test condotti su questo sito si rivelò poi, in tutta la sua atroce grandezza, nel cuore della Germania. I nomi delle città che hanno subito gli attacchi più eclatanti - Dresda, Tokyo, Londra - sono associati alle maggiori imprese di ricostruzione postbellica. Altrove vi sono luoghi che, spesso per scelta consapevole e

binano in modo da produrre un desiderio per la loro protezione. Questo in Europa non poteva accadere: la vastità dei territori americani non era comparabile a quella del vecchio continente. Infine, la civiltà americana era sufficientemente ricca per permettersi il lusso di preservare la natura nel suo stato originale.

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per ragioni commemorative, sono stati lasciati come nell’ultimo giorno prima della pace. In Francia, l’esempio migliore è offerto dal villaggio di Oradour sur Glane, i cui seicento abitanti furono tutti massacrati nel giugno 1944 dai nazisti in fuga. Ogni edificio fu incendiato o fatto esplodere. Dopo la guerra il generale Charles de Gaulle prese una decisione che segnò profondamente il sentire francese nei confronti della memoria e delle rovine: la città non venne più riconosciuta e fu trasformata in memoriale della tragedia e dell’irrazionalità della violenza dell’occupazione tedesca. Automobili, edifici, cimeli, infrastrutture: ogni cosa è come congelata alla mattina di giugno. Anche la Spagna reca sul suo territorio un’analoga testimonianza, risalente alla Guerra civile degli anni 1936-39. Il nome della cittadina è Belchite, vicino a Saragozza in Aragona. Al termine dell’assedio da parte delle forze repubblicane nel 1937, la cittadina fu consacrata a Francisco Franco e venne deciso di non ricostruire l’abitato sopra le rovine, conservate intatte a perenne monumento del sacrificio dei caduti. Altro esempio importante della volontà di con-

A cura di Ferrara G., Rizzo G., Zoppi M., Paesaggi: didattica, ricerche e progetti (1997-2007), Firenze University Press, Firenze 2007 24 Ibidem 25 Broggini O., Le rovine del Novecento, Diabasis, Parma 2009 23


servare le memorie è quello che è accaduto in Inghilterra in seguito ai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Il 15 agosto 1944 Kenneth Clark, insieme a luminari della cultura, fra cui Thomas Stearns Eliot e John Maynard Keynes, firma una lettera al “Times” in cui si propone che un certo numero di chiese bombardate vengano conservate nello stato in cui si trovano in qualità di monumenti di guerra. Questo progetto viene poi sviluppato nel libro di Barbara Jones, Bombed Churches as War Memorials, con i progetti dettagliati di architetti come Hugh Casson. L’idea fondamentale è stata quella di non lasciare queste chiese nello stato di “cumuli neri e freddi di macerie di implacabile amarezza bensì rovine di giardini abitate da uccelli e addolcite da verzura, luoghi che i bambini avrebbero trovato emozionanti da esplorare”27. Anche se molte chiese vengono ricostruite o demolite, ne vengono conservate sei le cui rovine hanno una particolare suggestione. Questi progetti però non sono stati portati avanti nello spirito con cui sono nati, e le rovine conservate ora sembrano residui ordinati, accidentali, dotati di tutti quei caratteri estetici a cui gli autori si erano

specificatamente opposti. Questo gruppo di artisti dichiaravano infatti che la conservazione implica una comprensione della rovina come rovina, e la sua ricreazione come opera d’arte in sé. I resti della distruzione sono qualcosa in più di una collezione di detriti: sono un luogo con una loro individualità, un proprio carico di emozioni, atmosfera, dramma, grandezza e fascino. Queste qualità devono essere conservate con la stessa cura delle pietre spezzate che le incarnano fisicamente. La guerra ha raso al suolo grandi porzioni di città e su queste macerie generazioni di architetti si sono impegnati nella ricostruzione. Gli approcci sono stati opposti tra loro: da una parte la ricostruzione fedele di interi quartieri del passato, ad Amburgo per esempio intere aree della città, una volta ricostruite, hanno avuto lo stesso identico aspetto che avevano prima delle devastazioni della guerra, dall’altra la costruzione ex novo, come a Postdamer Platz, o in altre ferite aperte della storia di Berlino, sanate e ridotte a “tante vetrine della prosperità creata dalla riunificazione”28.

Vanderbilt T., Survival City, adventures among the ruins of atomic America, Chicago Press, Chicago 27 Woodward C., Tra le rovine. Un viaggio attraverso la storia, l’arte e la letteratura, Parma, Guanda, Parma 2008 26

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La guerra e la sua distruzione hanno fatto in modo che lo scarto e la rovina entrassero a far parte dell’idea del progetto, innescando rinnovate spinte progettuali e nuove sensibilità. Alla fine della

seconda guerra mondiale, l’ampiezza delle distruzioni belliche e la successiva ricostruzione delle città permise di sperimentare ipotesi teoriche e soluzioni tecniche elaborate dai grandi urbanisti europei nel corso degli anni Venti e Trenta. L’idea della tabula rasa di Le Corbusier del 1922 nasce, infatti, dalla consapevole potenzialità distruttrice della guerra29: radere al suolo la città antica, che ormai non ha più nessuna ragion d’essere perché lontana alla sensibilità moderna e simbolo di un ordine corrotto che ha portato alla tragedia della guerra, e ricostruire tutto con spirito moderno. Il tema dell’organizzazione a livello urbano acquista tanta importanza soprattutto in previsione di un secondo conflitto: l’enorme domanda di abitazioni e la necessità di agire con rapidità portarono all’applicazione burocratica di formule e schemi insediativi desunti dalla tradizione modernista, come il bisogno

Davis M., Locatelli V., Le Corbusier, la storia, la conservazione. Tre letture attraverso il testi, Franco Angeli, Milano 1990 28 29

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di dare una casa a tutti e nel minor tempo possibile – social housing – o l’utilizzo di materiali e tecniche di standardizzazione e prefabbricato. Gli anni successivi alla Seconda guerra mondiale mostrano le prime riflessioni critiche sull’efficacia dell’urbanistica: la vastità delle distruzioni, l’enorme domanda di abitazioni e la necessità di agire con rapidità portarono all’applicazione burocratica di formule e schemi insediativi desunti dalla tradizione modernista. Il piano per Londra di Abercrombie nel 1944, è un’importante testimonianza dell’approccio alla tematica urbana che, nel 1946 con il New Towns Act, portò al più radicale progetto di decentramento sperimentato nel secondo dopoguerra. In conclusione lo scarto entra così a far realmente parte della cultura progettuale del Novecento, sia esso conservato intatto o restaurato completamente per ricordare il passato, sia esso cancellato e utilizzato come punto di partenza per nuove idee di progetto.


Società contemporanea “Sprecare è un noto modo di dimostrare il proprio potere”30 afferma Lynch, a dimostrazione del fatto che le società del presente palesano caratteri simili a quelli del passato. Infatti “i re costruivano palazzi che non potevano abitare, si procuravano più vestiti di quanti potessero mai indossare, consumavano, fino ad ammalarsi, cibo che il loro corpo non riusciva ad assimilare”31. I paesaggi postindustriali abbandonati aumentano sempre più intorno a noi. Molti oggi si occupano di trovare nuovi usi per centri urbani in decadenza o per aree industriali dismesse. Anche per Lynch, tra le prime categorie di terre esaurite, vi è quella delle industrie estrattive: “I domini dei grandi consumatori di spazio – i re, gli eserciti, le industrie estrattive –, una volta che ne siano stati allontanati i padroni, possono diventare i parchi e i giardini dei loro umili successori. I morti arroganti arricchiscono il suolo. Nelle città americane le riserve militari dismesse, insieme ai vecchi fasci binari e alle discariche, sono una risorsa primaria di terra rinnovabile. I parchi urbani di Londra sono là perché i sovrani si riservano terreni di caccia accanto ai palazzi, il che era allora un uso molto poco efficiente del suolo

Lynch K., a cura di Southworth M., Deperire. Rifiuti e spreco nella vita di uomini e città, CUEN, Napoli 1992 31 Ibidem 32 Ivi, p. 150 33 Ivi, p. 147 34 Ibidem

urbano”32. L’attività mineraria sotterranea o in superficie crea terre esaurite: “Spesso si definisce esaurita la terra così danneggiata dallo sviluppo che di per sé, senza ulteriori tradimenti, non rappresenta una risorsa”33. Da questa definizione viene esclusa la terra abbandonata a causa di cambiamenti del mercato – “le pertinenze di una fabbrica vuota, suoli che siano semplicemente brutti o pericolosi”34, la terra non utilizzabile naturalmente o divenuta tale per cause ancora naturali. “Se rende, non è terra esaurita. Se non rende, a causa di qualche diavoleria umana, ma una volta rendeva, allora è esaurita”35. Essa può distruggere il soprassuolo, la vegetazione, lasciare pozzi o buche, contaminare il terreno. Il riciclo di questi spazi è necessariamente legato a problematiche ambientali, ancora prima che estetiche. Nel suo libro What Time is This Place? Lynch si sofferma su un aspetto del consumarsi: la percezione, l’espressione e la gestione del cambiamento nell’ambiente. Egli esorta i pianificatori e gli architetti a non pensare all’ambiente in termini statici, ma ad occuparsi del cambiamento, per accoglierlo, esprimerlo, esaltarlo; per Lynch l’esempio

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Ibidem

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offerto dalla Gran Bretagna dove i progettisti del Landscape Architecture operano salvaguardando, con le linee del paesaggio, la validità economica degli oggetti territoriali, valutandone tutte le possibilità insieme ad economisti, legislatori, agricoltori, operatori turistici, naturalisti, archeologi, conferma che la possibilità di convertire e al tempo stesso salvaguardare è un’operazione possibile. Oggi ci si pone il problema riguardo la necessità della riqualificazione di tutte quelle aree sino ad oggi sfruttate e per lo più abbandonate dall’uomo, il tentativo disperato dell’uomo di porre riparo alla fragilità degli equilibri ecologici in parte compromessi. Nel passato gli scarti erano qualcosa da rendere inoffensiva e invisibile, da portare il più lontano possibile. Ora, mentre la

città continua ad espandersi, le terre desolate riappaiono al suo centro, sotto forma di lotti vuoti, case sbarrate, slums esauriti. Gli architetti si sono occupati maggiormente dei nuovi sviluppi più che dell’ambiente della decadenza. I campi abbandonati, le terre incolte, le

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miniere e gli edifici in disuso, i lotti vuoti, i mucchi di rifiuti solidi, i vecchi scali ferroviari, lo spazio vicino alle autostrade vengono spesso ignorati. Se continuiamo a nasconderli o allontanarli dal luogo in cui siamo, presto vivremo in mezzo ai nostri stessi residui. Se provassimo, invece, a guardare con interesse questi paesaggi dello scarto forse potremo imparare a integrarli in un continuo ciclo d’uso.

Abbiamo assistito a una continua e crescente costruzione in città attraverso l’attività di produzione, consumo e distruzione tipica dell’industria capitalista. Il principio dell’usa e getta degli oggetti si estende fino alle città, ai paesaggi. Il consumo di suolo, di risorse

e di energia presenta oggi il proprio conto: osserviamo la comparsa di territori antropizzati abbandonati, di attività industriali che cessano o migrano altrove, di opere che rimangono incomplete e di città che iniziano a decrescere. Il superamento dei confini delle nostre città e la dispersione sempre più intensiva di abi-


tazioni e attività economiche determinano nuovi ruoli per i centri urbani, e ne disegnano forme non tradizionali. Tale processo è designato come urban sprawl, la cui dinamica di espansione disegna un habitat a bassa densità difficilmente riconducibile alle forme più stabili del territorio e del paesaggio. Il problema non è tanto l’espansione della città, bensì la frammentazione del territorio e dei paesaggi che ne deriva. L’accostamento di vecchio e nuovo esprime vividamente il passare del tempo, e il contrasto è spesso molto suggestivo. La stratificazione risulta come un’accumulazione visibile di tracce sovrapposte di periodi successivi, in cui ogni traccia modifica ed è modificata dalle nuove aggiunte fino a comporre una specie di collage temporale. Le grandi cattedrali, ad esempio, sono magazzini del tempo. Canterbury è sorprendente per il suo aspetto di luogo sacro, arricchito secolo dopo secolo. Il mondo intorno a noi, che in gran parte noi stessi abbiamo creato, muta continuamente e spesso ci confonde. Cerchiamo di agire su questo mondo per conservarlo o

per cambiarlo, rendendo così visibili le nostre aspirazioni. Importante è, come osserva Lynch, che nel contesto del paesaggio che si rinnova resti incastonata la testimonianza del passato, l’oggetto della storia intesa come riferimento di un’evoluzione che, pur continuando ad aumentare lo spessore storico del paesaggio, non perda il filo di questo crescere e ne salvaguardi le peculiarità. Quindi un controllo del mutamento, un aggiornamento continuo del territorio alle mutevoli esigenze della società e dell’economia, senza mai spezzare i fili che legano la società all’ambiente, la cultura alla natura. Inevitabilità della dissipazione

La crisi è un momento di disorientamento, di perdita dei riferimenti, di stallo di un sistema e, allo stesso tempo, può rappresentare un momento di cambiamento in cui si approfitta della sospensione delle dinamiche esistenti per trasformarle. Ciò di cui necessitiamo è una nuova visione. Il binomio

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costruzione-distruzione che ha dominato l’età della tecnica deve indirizzarsi verso un modello che abbia il suo fulcro non nella tabula rasa, quanto nella continua interpretazione, riuso, riabilitazione dell’esistente e, in particolare, di quelle macerie che l’età della tecnica ha lasciato dietro di sé e che costituiscono ora il nostro mondo, le nostre città. Si assiste a una nuova ricerca di connessione collaborativa tra la città e la terra. Jeremy Rifkin ha saputo, in questo senso prospettare una visione positiva, auspicando l’avvento di una “civiltà dell’empatia”36, in cui la comune avversità in tempi di crisi ci porti ad un aumento della nostra sensibilità empatica, permettendoci di progettare il nostro mondo all’insegna di una solidarietà estesa globalmente a tutte le società umane nonché agli enti naturali. Lynch ci fa riflettere sull’inevitabilità del declino, del consumo, dello scarto, del rifiuto, della dissipazione, di cose e di luoghi: “La dissipazione è un processo che pervade (per quanto allegramente ignorato) la società umana, proprio come il sistema vivente più in generale. E’ un carattere del flusso più profondo che

Rifkin J., La civiltà dell’empatia. La corsa verso la coscienza globale nel mondo in crisi, Mondadori, Milano 2010 37 Lynch K., Deperire, cit. p. 171 36

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ci trascina, dell’eterna provvisorietà delle cose. C’è la dissipazione rapida degli oggetti, e quella lenta dei luoghi e ciascuna ha le sue caratteristiche. Il ritmo della dissipazione è oscillante; il flusso ciclico o direzionato a seconda delle circostanze. La dissipazione minaccia la nostra salute, il nostro benessere e i nostri sentimenti. Interferisce con l’efficienza delle nostre imprese. E tuttavia ha un suo valore. È una minaccia incessante, se cerchiamo di conservare le cose. Ma potrebbe essere mutata in un vantaggio, se cerchiamo la continuità piuttosto che la permanenza”37.La dissipazione e la perdita sono il lato oscuro del cambiamento, un aspetto represso ed emotivamente caricato. La dissipazione è un processo che pervade la nostra società. Ha un carattere sia eterno che provvisorio. L’accostamento dei due termini è paradossale ma inevitabile. Pensiamo al consumo rapido e fugace degli oggetti: la transitorietà ne è l’emblema. Parallelamente, non smetteremo mai di produrre e scartare oggetti, e qui risiede il carattere illimitato. Abbiamo parlato di oggetti per semplicità ma possiamo allargare quest’immagine paradossale ai paesaggi e alle architetture. Tutto ciò è costruito su una visione antro-


pocentrica. Se estendessimo il significato di questi concetti, evitando di mettere la nostra specie al centro dell’universo, scopriremmo che la dissipazione è un processo fondamentale dell’intero sistema vivente. I processi dissipativi sono ovunque. Li produciamo, li subiamo, li accettiamo. E li contempliamo con serenità: “il ruscello che è lì da sempre è un piacere per chi lo guarda proprio per l’assenza di eternità che c’è in esso. Scorre da tanto tempo, e ancora scorrerà negli anni a venire, ma la sua essenza è un cancellarsi, un correr via. Il suo fascino risiede nel contrasto tra i sassi e l’acqua corrente, l’immobilità e il fluire. Pur in movimento esso resta al suo posto, e tuttavia non può rimanere per sempre”38.

e dalla permanenza, dobbiamo imparare a deperire, a vedere la continuità nel flusso, le traiettorie e gli svelamenti progressivi”39. Con queste parole Lynch ci indica, tra le righe, quasi delle tracce da seguire per la riqualificazione e il riciclo; queste tracce ci danno una presa sul passato e sul futuro, impossibile per le cose immobili e non miste. Oggi viviamo in un tempo in cui tutto cambia velocemente. La vita è crescita e declino, trasformazione ed eliminazione, e noi forse potremmo e dovremmo imparare a prendere piacere in questo, proprio per mantenere la nostra continuità.

Nel suo capitolo finale ‘Scartare bene’ Lynch presenta ed illustra la sua filosofia della dissipazione positiva: afferma che dobbiamo imparare a pensare in maniera costruttiva e creativa agli scarti e allo scartare perché è una parte essenziale della vita e della crescita: “Ci sono molti problemi tecnici ed economici da affrontare per trattare apertamente la dissipazione e il declino, ma le difficoltà principali sono nella nostra mente. Ossessionati dalla purezza

38 39

Ivi, p. 59 Ivi, p. 271

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Capitolo 4 Letture e interpretazioni teoriche: prospettive dello scarto


L

a natura incostante e complessa di questa tesi testimonia la volontà di non fissare il tema in ambito prettamente architettonico e univoco, ma di aprirlo a più prospettive. I paesaggi dello scarto hanno una composizione molteplice e variabile, il progetto vi si accosta e ne suggerisce possibili usi e aperture. La ricerca è, infatti, intesa e strutturata come una scoperta sperimentale, un interrogarsi sul problema posto, nel quale convergono attori, tempi, azioni e materiali molteplici, talvolta simultanei o variabili. Il progettista deve spaziare in più scale, utilizzare strumenti diversi, integrarli, osservare da vicino e lontano, in una messa a fuoco continua, mai definitiva ma dinamica e rivelatrice. Il processo d’indagine si deve così arricchire di idee proveniente dall’antropologia, dall’ecologia, dalla sociologia, dal cinema, dalla fotografia e dall’arte. Grazie a queste e altre prospettive può essere avviato un cambiamento dello sguardo, passaggio obbligato per mutare la direzione di sviluppo, aprendo alla possibilità di trasformazione su questi luoghi. Si utilizzano immagini, pensieri, teorie, collaborazioni che non rinunciano all’ambizione di trasformare l’ambiente in cui viviamo e l’orizzonte dei valori di riferimento. In particolare, osserviamo prospettive artistiche, ecologiche, cinematografiche e fotografiche. Ecologia, campo imprescindibile quando si parla di paesaggio. Essa è il trait d’union tra esseri viventi e ambiente, determina le loro relazioni e le loro azioni. Ci avvaloriamo del concetto di Terzo paesaggio, espresso da

Gilles Clément, per esprimere una necessità biologica che modifica la lettura del territorio e valorizza luoghi abitualmente trascurati. L’arte, invece, ci aiuta a comprendere le potenzialità di queste terre abbandonate: è quasi un comportamento esemplare. I land artisti, infatti, creano opere che vivono questi luoghi, li penetrano, fino a donare loro nuovo significato. Infine il cinema e la fotografia cercano nuove strade, nuove espressioni, tra finzione e realismo, tra narrazione e documentario, che trasformano i paesaggi abbandonati talvolta in protagonisti, talvolta in sfondi. Registi come Wenders e Antonioni e fotografi come Ghirri, Burtynsky e Ruscha ci suggeriscono un nuovo sguardo poliedrico e aperto, con modi e riflessioni differenti ma legati da una ricerca visiva ed estetica di sublime contemporaneo. È necessario mantenere un atteggiamento critico nei confronti dei materiali che ci si offrono: le nuove possibilità, le tensioni in atto e le molte derive. Il territorio è ormai saturo di costruito, di abusato e poi dismesso, la direzione di ogni trasformazione deve quindi mirare a porre un limite a questo consumo, nell’ottica di ricreare spazi relazionali, tra gli esseri viventi e i paesaggi. Riteniamo che la partecipazione di discipline differenti sia un nodo fertile in questo processo, essa estrapola i paesaggi dello scarto dall’ambito strettamente architettonico per aprirli a un nuovo sguardo propulsivo e fertile.

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Capitolo 4.1 Prospettiva ecologica: paesaggio come sistema composito

Immagine satellitare - vegetazione nel mondo, NASA, Dicembre 2013


Quale patto allora bisogna fare oggi tra la città e la natura? Il modello di paesaggio, come progetto globale sullo spazio che organizza il territorio alla maniera di un giardino, riposa su una concezione ottimista, rousseauniana del rapporto uomo-natura: la ricerca della felicità e del riposo dell’anima attraverso la contemplazione. Questa attitudine “estetizzante” non è più sufficiente a rispondere alla cupa inquietudine legata alla distruzione fisica e chimica della biosfera e alla globalizzazione della città. All’attitudine estetizzante paesaggistica deve aggrapparsi la posizione “ambientale” ed ecologista che affonda le sue radici nella coscienza infelice della rottura catastrofica del legame tra l’uomo e la terra, che attinge i suoi riferimenti non più dall’arte dei giardini, ma dalle scienze del vivente

Da L’artiste: homo faber des lieux di Bernard Kalaora



L

a prospettiva ecologica nei confronti dei paesaggi dello scarto risulta un approccio attualmente inevitabile. L’osservazione di tali luoghi da questo punto di vista può risultare vantaggiosa solo se ci si distacca dalla concezione classica che si ha di questa disciplina. Il termine ecologia, infatti, non sarà da noi utilizzato nella sua accezione ordinaria ma verrà accostato a quello di “paesaggio” e di “salvaguardia-riqualificazione”. L’ecologia di cui noi parliamo, quindi, è strettamente riferita al paesaggio e non viene considerata come scienza in sé. Oggigiorno, nell’ambito dei concetti ambientali, appare molto complesso introdurre, anche solo di nome, una nuova disciplina ecologica, tanto più se questa disciplina si richiama ad un’idea come quella di paesaggio, ben radicata nella nostra cultura, alla quale, però, viene dato un significato molto diverso da quello adottato dalla comunità scientifica. Ecologia e paesaggio, considerati nella loro accezione tradizionale sembrano essere due termini antitetici tra loro e poco adatti ad inserirsi nel concetto di una scienza esatta: l’ecologia è infatti una

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branchia delle scienze naturali che studia l’ecosfera, il paesaggio invece, come viene inteso qui, non corrisponde solo all’ecosfera e agli insieme degli ecosistemi. Diventa quindi necessario andare a chiarire i singoli termini di cui si compone tale nuova disciplina e osservare se, dalla loro unione, ne può emergere un significato nuovo ed utile soprattutto per tutti coloro che si occupano della riqualificazione degli spazi alterati. Ripercorrendo brevemente lo sviluppo del concetto di “paesaggio” si scopre che questa parola appare alla fine del XV secolo, in olandese landschap, per definire non un luogo naturale ma più specificatamente un quadro di paesaggio nella pittura occidentale. Il termine equivalente francese (paysage) è nato nel XVII secolo per designare quadri rappresentanti vedute campestri o giardini1. Sembra, quindi, che il paesaggio occidentale sia fondamentalmente un’invenzione pittorica del XV secolo e che, di conseguenza, come oggetto estetico, necessiti di una mediazione artistica2. Ciò vale ad esempio per il mare e la montagna3, questi due paesaggi, che oggi sembrano a noi del tutto naturali, sono soltanto delle acquisizioni risalenti al

Martellucci S., L’idea paesaggio. Caratteri interattivi del progetto architettonico e urbano, Alinea, Firenze 2007 2 Trasi N., Paesaggi rifiutati, paesaggi riciclati, prospettive e approcci contemporanei, Editrice librerie Dedalo,Roma 2001 3 Corbin A., Le territoiredu vide, L’Occident et le desirdurivage. 1750-1840, Parigi, Aubier, 1988

XVI secolo. Fino ad allora l’unico paesaggio che trovava comprensione agli occhi dell’uomo occidentale era la campagna, cioè natura fertile e addomesticata. L’altra, quella selvaggia, suscitava noia, inquietudine e paura: Montesquieu, attraversando le Alpi, affermò lamentandosi “un très mauvais pays”4. Affinchè questo, il suddetto “pays”, riesca a diventare paesaggio, sarà necessario l’intervento di artisti, poeti, pittori e scrittori che, nel corso del XVII secolo e in quello successivo (quello dei fotografi), lo trasformeranno, inventando la “montagna”. È sempre, quindi, grazie

all’arte che, nei nostri sguardi, il paesaggio selvaggio diventa un paesaggio5.

La critica che in questi anni si è occupata di paesaggio ha sottolineato, inoltre, la necessità di partire da una lettura etimologica di questo vocabolo, cercando di andare ad ordinare gli elementi di questo “concetto” instabile per definizione. Questo termine rimanda, infatti, ad uno sguardo soggettivo sul reale: la natura viene “rispettata” ma anche “abbellita”, ovvero essa viene elaborata sia intellettualmente che spiritualmente.

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Montesquieu, Voyage de Gratz à La Haye, La Pleiade, Parigi, p. 803 5 Trasi N., op. cit, p.50 4


Mappa tematica - aree verdi a Madison, Wisconsin, rilevata da NLCD (National Land Cover Database), 2001

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Bernardi nella sua opera afferma: “Siamo davanti a un primo paradosso per cui il paesaggio da una parte ci permette di vedere la natura, dall’altra ce lo nasconde”6. La fluidità di questo concetto è rimarcata anche dal fatto che la Convenzione Europea del Paesaggio, nel 2000, ha ritenuto necessario fissare una nuova definizione di questo vocabolo. Il paesaggio diviene sinonimo di “territorio”, esso abbraccia oggi tutto il reale, anche gli attori che lo abitano e le azioni che ne impongono le sue trasformazioni. Il paesaggio, nel momento in cui viene a coincidere con “territorio”, e con tutto quello cui esso concerne, non è più investigabile solo attraverso le sue rappresentazioni, attraverso il mezzo artistico, ma anche tramite la sua osservazione diretta7. Si può, quindi,concludere che vi siano due modalità di approccio al paesaggio: il primo di tipo “estetico” e soggettivo, il secondo, più oggettivo invece, relativo agli elementi dell’ambiente considerati nella loro forma intrinseca. Da questo punto di vista si può dedurre che il binomio ‘ecologia-paesaggio’ inizia ad apparire meno forzato. Il secondo tipo di

Bernardi S., Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia 2002, p. 24 7 Marini S., Nuove Terre. Architetture e paesaggi dello scarto, Quodlibet, Macerata 2005 8 Lucien K.,Tutto è paesaggio, Testo & Immagine, Milano 1999

approccio, quello che considera gli elementi del paesaggio nella loro forma intrinseca, è all’origine della disciplina scientifica dell’ecologia del paesaggio8.

Il termine landscape ecology viene coniato dal biogeografo Carl Troll9 nel 1939 (Landschaftokologie) e, tradotto poi in inglese con il termine landscape ecology, considera l’assorbimento del paesaggio nella sua realtà fisica, la dissoluzione dei suoi valori nelle variabili ecologiche; in breve, la sua naturalizzazione. Mentre prima, come si è visto, essendo esso oggetto estetico, era oggetto culturale, ora diventa naturale. Il biogeografo era rimasto impressionato dal concetto di “ecosistema” definito da Tansley (1935) e dalla lettura delle prime foto aeree di rilevamento del territorio. Nel corso di uno studio foto-interpretativo della savana dell’Africa orientale egli dice: “Si incontrano qui due strade della scienza del paesaggio, una come corologia, l’altra come ecologia”. La ricerca tramite le foto aeree è, in fondo, “Ecologia del paesaggio” e Troll stesso dà

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Troll C., Luftbildenplan und oekologischebodenforschung, in “Zeitschrift & Gesellschaft f. Erdkunde, Berlin (citato in: Ingegnoli V., Pignatti S., L’ecologia del paesaggio in Italia, Cittàstudi Ediz., Milano 1996) 9


Varianti di suolo e foreste 1. Foresta di Miombo su suolo secco 2. Terreno periodicamente allagato 3. Savana umida 4. Foresta Higrรณfilo umida sempreverde

Presenza di piante 1. Sonneratia alba 2. Rhizophora 3. Palma Nipa 4. Foresta tropicale 5. Arbusti

Carl Troll, Elaborazioni grafiche di immagini aree, Africa 1935

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una delle prime definizioni di paesaggio intendendolo “come la complessiva entità spaziale dello spazio dell’uomo”. La disciplina dell’Ecologia del paesaggio così come la conosciamo noi si è sviluppata però in modo poligenico, da studiosi che si sono differenziati tra loro sia nella definizione di ecologia, sia nella definizione del concetto di paesaggio. E’ dalla seconda metà del Novecento in poi che, diversi studi della natura e del territorio hanno portato notevoli contributi alla formazione di tale disciplina, anche se non sempre in maniera diretta. Fino ad allora, nelle applicazioni più importanti a scala territoriale, l’ecologia ufficiale non era mai riuscita a fornire basi teoriche e indirizzi metodologici davvero efficaci: l’ecologia non era stata in grado di fornire risposte ai molteplici interrogativi che scaturivano dalla difficoltà nella gestione del territorio e, inoltre, dato più importante, si sforzava di tenere l’uomo al di fuori dello studio degli ecosistemi naturali, anzi addirittura in contrapposizione ad essi. La Landscape ecology, ora, supera la dicotomia nell’interpretazione del rapporto uomo-natura e risolve così anche l’ambiguità

Trasi., op. cit, p. 61 Berque A, Etres humains sur la Terre. Principes d’ethique de l’ecoumene, Gallimard, Parigi 1996 10 11

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del termine paesaggio.

Questa disciplina, infatti, interpreta il paesaggio in chiave globale andando a fondere la visione naturalistico-ecologica con quella storico-umanistica ed anche con quella percettivo-estetica. I paesaggi, dunque, sono considerabili come aggregati superiori di unità ecosistemiche nei quali è compreso l’uomo, le sue attività e anche le sue azioni trasformatrici10.

A questo punto, si può affermare che il senso del paesaggio è cambiato, lo sguardo su di esso si è ampliato, andando a posare la propria attenzione anche su quei paesaggi che fino ad oggi sono stati “rifiutati”. Dal punto di vista della scienza dell’architettura, quindi, diventa interessante applicare i termini ecologia e paesaggio a quello di preservazione-riqualificazione. In relazione a questo, andremo ora ad esplicare recenti teorie legate al paesaggio e, anche se in maniera diversa, permeate da un forte spirito ecologico. Per introdurre questo argomento è inte-


ressante andare all’origine della questione attraverso la teoria dell’ecumene di Augustin Berque11: egli ci invita a riflettere sul senso che collega i diversi ordini di realtà nella relazione esistente tra l’uomo e la terra. Secondo questo autore “è sotto due aspetti che la concezione moderna del rapporto dell’uomo col mondo è stata rimessa in causa nel XX secolo: attraverso l’ecologia, dal lato delle scienze della natura, e attraverso la fenomenologia, dal lato delle scienze dell’uomo”. Per spiegare questo rapporto egli introduce il termine “ecumene”: esso deriva dal greco oikoumene(ge) ossia “(terra) abitata”, cioè la parte della Terra dove si trovano le condizioni ambientali favorevoli per la dimora permanente dell’uomo12. Questo termine è in accordo con il legame fenomenologico ed ecologico che fa della Terra la matrice dell’impronta dell’esistenza umana. La Terra, per Berque, appare quindi come la dimora dell’umanità: “come un’entità relazionale l’ecumene è l’insieme dei luoghi, ovvero la relazione dell’umanità all’estensione terrestre; il luogo di tutti i nostri paesaggi”. In questa prospettiva la teoria del geografo francese ha delle affinità con l’ecologia, e va ben oltre, sostenendo infatti

che l’ecumene, “è detta tale in quanto l’uomo la abita, la sistema, la pensa, la ama o la rifiuta”. L’aspetto fondamentale che più ci interessa focalizzare all’interno di questa teoria è la posizione dell’uomo. L’ecumene di Berque ci suggerisce che nel paesaggio esiste, potenzialmente, un senso che si estende dalla materialità verso una dimensione spirituale: esso non è inscritto nelle forme esteriori ma è qualcosa che esiste solo nello stato virtuale. Quindi, che si tratti di artista o contadino, ogni uomo dispiega, trasforma, elabora la biosfera in ecumene. Quindi la terra, intesa come dimora umana, è ciò che risulta da questa correlazione. Questo tipo di spazio è iniziato insieme all’umanità stessa: sin dal principio, infatti, la distesa materiale della superficie terrestre non ha cessato di essere semantizzata e modellata dall’opera umana. Per Berque la realtà sensibile del paesaggio si ancora nella realtà fattuale dell’ambiente e quest’ultimo diventa così una nuova fonte di senso dei nostri luoghi13: seguendo questo filone di pensiero, l’ecologista, l’artista, l’urbanista e l’architetto devono definire dei progetti strutturati attorno ad una tematica “ecosistemica e biosferica” al fine di impri-

Devoto G. Oli G., Devoto-Oli. Vocabolario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze 2014 13 Berque, Les raisonsdu paysage, Hazan, parigi 1995 12

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mere nel territorio il senso della vita e reintrodurre nel cuore della scienza una simbolica poetica del caos e della complessità. Restando sempre in ambito francese, un altro apporto teorico contemporaneo interessante, al fine della gestione dell’approccio agli spazi alterati, è quello offertoci dalla teoria e dai progetti del paesaggista Gilles Clement. Egli rivolge il suo pensiero agli spazi dell’abbandono, non tanto con un interesse al processo di produzione di questi, quanto con la volontà di tracciarne un vero e proprio manifesto: Le manifeste du Tiers paysage. “Terzo paesaggio definisce l’insieme degli spazi abbandonati, che sono i principali territori di accoglienza della diversità biologica. Esso comprende il territorio residuo, sia rurale che urbano, e l’incolto: i cigli delle strade e dei campi, i margini delle aree industriali e le riserve naturali. E’ spazio dell’indecisione e dell’apertura e gli esseri viventi che lo occupano agiscono in libertà. Dobbiamo considerare il terzo paesaggio una necessita biologica, che condiziona il futuro degli esseri viventi, modifica la lettura del territorio e valorizza luoghi abitualmente

Clément G., Manifesto del Terzo Paesaggio, Quodlibet, Macerata 2005 15 Caravaggi L., Il paesaggio come varietà della vita, AA. VV. Paesaggi della biodiversità, Connecting Cultures, Milano 2003 14

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trascurati”14. Gli spazi che comunemente vengono rifiutati rappresentano per lui, giardiniere come egli stesso si definisce, aree di coltivazione della diversità, importanti riserve botaniche e culturali, in cui l’indeterminazione si fa progetto. Egli teorizza che uno dei ruoli degli spazi scartati sia appunto quello di essere bacini di coltivazione della diversità. Caravaggi, a proposito della biodiversità, sostiene che essa costituisca “la maggiore risorsa per la vita sulla terra in quanto è proprio la capacità di passare da un equilibrio all’altro, che dà la possibilità ai componenti biologici di sopravvivere alle modificazioni esistenti o interne anche estremamente drastiche. La diversità delle specie e delle forme risponde alla necessità insita nello sviluppo della natura, di sfruttare al meglio le risorse ambientali nello spazio e nel tempo, attraverso la creazione di sistemi strutturalmente complessi che si auto organizzano, si auto controllano, si auto mantengono, grazie alla completa integrazione delle parti”15.

A questo punto le friches non sono più zone abbandonate da riqualificare ma occasioni da preservare: è, in questo senso, che i tre termini sopra esposti (ecolo-


Gilles ClÊment, Sviluppo del tessuto urbano per figure concentriche - all’interno i residui, Manifesto del Terzo Paesaggio

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gia-paesaggio-riqualificazione) iniziano a coincidere. Questi sono considerati luoghi di vita estrema, in cui la vegetazione trova l’ampiezza biologica più forte; è qui che il processo di colonizzazione, di riconquista arriva a coincidere con un accrescimento della biomassa e quindi, dal punto di vista dell’ecologia globale, è benefico. Clemènt dice che

“non ci sono incidenti in natura, solo le costruzioni dell’uomo creano incidenti. La natura può provocare dei cataclismi. Poi li cicatrizza”16. Le costruzioni umane, una volta finite, sono soggette a un processo di degrado irreversibile, la loro incapacità ad evolversi le condanna alla rovina; la natura, al contrario, non completa mai nulla; essa inventa costantemente un processo di vita sulle basi, ogni volta nuove, di uno sconvolgimento. Non si mira, però, a una protezione ecologica integrale degli spazi alterati, questo infatti, sarebbe un discorso di tipo nostalgico e ignorerebbe il potere inventivo della natura. Infatti, situazioni di abbandono possono essere considerate anche positivamente: se un sistema

Clément G., op.cit. Lynch K., Deperire. Rifiuti e spreco nella vita di uomini e città, CUEN, Napoli 1992, p. 232 16 17

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isolato viene lasciato a se stesso, dice infatti Clausius, esso tende verso uno stato di disordine, oppure, verso uno stato di grande probabilità. Quindi la condizione per vedere comparire questo “stato di grande probabilità”, in cui molte cose diventano possibili e probabili, è proprio un certo abbandono. Dal punto di vista della prospettiva ecologica si inserisce in questo dibattito anche l’opinione di Kevin Lynch. Egli, a differenza di Gilles Clemènt, non attribuisce un particolare valore a questa forma del naturale, la descrive semplicemente come un passaggio della trasformazione. Sostiene: “Alcune aree devono essere riportate a uno stato di incolto. Ci è difficile pensare che qualcosa così nuovo, relativamente, possa già cambiare, possa già morire. Lo vediamo come un fallimento, ma si tratta di una rinascita”17. Nella sua opera Wasting away egli segna un punto di svolta nel rapporto con il progetto. Definisce il legame tra territorio e luogo/ oggetto rifiutato e sottolinea che il carattere d’urgenza che solleva il termine “scarto” in merito all’ecologia della città è elevato. Lynch, a proposito di questi siti, avanza la


Gilles Clément, Passaggio dall’incolto giovane (diversità media) all’incolto spinoso (picco di diversità) alla foresta (diversità marcata), Manifesto del Terzo Paesaggio

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proposta di un riciclo, attraverso la realizzazione di una learning ecology: un’ecologia che tenga in considerazione il ruolo di attori “in grado di modificare coscientemente se stessi e dunque di cambiare le regole del gioco”18. Lynch, con il suo scritto Wasting away (tradotto in italiano con il verbo Deperire) ha un atteggiamento positivo nei confronti dello scarto. Egli pone fiducia nelle capacità da parte dell’uomo di un cambiamento cosciente, proprio nel concetto di riciclo, ma non solo; egli sostiene, infatti, che sia necessario camuffare lo scarto, renderlo un’esperienza positiva, dargli un’altra forma, riutilizzarlo, oppure accettare qualche aspetto di inefficienza19. Secondo lui, alla base di tutto, diviene fondamentale il cambiamento nella mentalità delle persone, un cambio di posizione rispetto all’atteggiamento usuale. Egli dice infatti: “L’adattabilità è uno stato mentale: una disponibilità ad accettare il cambiamento, fondata sulla fiducia che si possa agire e scegliere in ogni probabile circostanza futura. Una simile fiducia deve trovarsi sotto la nostra percezione del deperire”20. Egli riflette sul fatto che sia necessario iniziare a pensare a un riuso anche degli

Ivi, p.150 Ivi, p.225 20 Ivi, p.60 21 Ivi, p.206 18 19

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oggetti contemporanei, in quanto ritiene inevitabile che questi prima o poi saranno abbandonati. In aggiunta egli sostiene che: “Dissipare cose, spazio o energia è un fatto relativo, che dipende dagli usi alternativi di queste risorse, e da come le valutiamo. Questo tipo di riflessioni possono prepararci al futuro e ci aiutano a progettare cose che siano poi riutilizzabili”21. Questo atteggiamento cosciente nei confronti del progetto, però, deve essere affiancato da uno sguardo nuovo, interessato agli oggetti e ai luoghi scartati. La disciplina dell’ecologia, e in particolare quella del paesaggio, risulta quindi essere affine allo studio e all’avvicinamento dei paesaggi abbandonati. Essa è articolata attraverso la comunione di discipline distanti ma correlate tra loro (geografia, scienze naturali, scienze sociali). Per questo motivo permette di avere una visione completa di questi luoghi. In queste occasioni, infatti, si mescolano molti fattori appartenenti a campi di studio differenti. Questi paesaggi naturali, deturpati e abbandonati dall’uomo, portano con sé un carico di informazioni tali da necessitare uno sguardo analitico dif-


ferente. Esso deve essere in grado di mettere in relazione tutte le nozioni recuperabili da questi luoghi in modo da potere operare nella giusta direzione per la loro riqualificazione.

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Capitolo 4.2 Prospettiva artistica: nuovo significato spaziale

Robert Smithson, Spiral Jetty, Rozel Point, Great Salt Lake, Utah 1970


Un luogo non accede all’esistenza per l’uomo che attraverso uno sguardo soggettivo; l’occhio dell’artista ne costituisce l’espressione più pura

Da Le paysage dans l’art di Raymond Bouyer



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paesaggi dello scarto sono stati spesso presi in considerazione da parte degli artisti. Essi hanno visto in questi luoghi ormai abbandonati e considerati scarti inutilizzabili, un terreno fertile per le loro creazioni e, attraverso le loro opere, sono stati in grado di donargli nuovo significato. La lettura di un paesaggio da parte di un’artista può contribuire a capire ciò che di significante vi è all’interno e, soprattutto, le potenzialità che essi nascondono. Interessante a tal proposito è la teoria di Roger1 riguardo l’artalizzazione. Secondo lo studioso francese esistono due modalità con cui approcciarsi al paesaggio da un punto di vista artistico: la prima è costituita da quella che lui chiama “artalizzazione in situ”, è un apporto diretto da parte dell’artista e consiste nell’inscrivere il codice artistico nella materialità del paesaggio. La seconda, che lui chiama “artalizzazione in visu”, è un’operazione indiretta sullo sguardo, al quale vengono forniti nuovi schemi di percezione. Il “paese” costituisce il grado zero del paesaggio, esso precede ogni tipo di artalizzazione. I paesaggi, però, sono

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Roger A., Court traité du paysage, Gallimard, Parigi 1997

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diventati a noi così familiari e naturali che ci siamo abituati a credere che la loro bellezza sia scontata; è agli artisti, dice Roger, che spetta il compito di ricordarci che un paese non è un paesaggio, e che c’è, dall’uno all’altro, tutta l’elaborazione e la mediazione dell’arte. Questa teoria, quindi, serve a spiegare l’importanza che noi accordiamo all’intervento artistico nella natura. Kalaora dice: ”Se si vuole fare un nuovo patto con i luoghi naturali, frammentati, disarticolati, alterati, questa transazione non sarà possibile che attraverso la mediazione di uno sguardo soggettivo che li rende vicini e familiari, e li unifica in un unico volto amico. Solo l’artista può trasfigurare uno spazio astratto in uno spazio concreto d’orientamento e figurativo poichè è l’inventore dei possibili. Quando il possibile orizzontale, quello degli spazi geometrici arriva alla sua fine, il possibile verticale, quello delle configurazioni creatrici e delle congiunzioni con il reale, comincia. Invertendo i sensi, rile-

gando gli opposti, gli artisti rompono la monotonia della quotidianità ed aprono ad orizzonti là dove c’erano dei limiti. Ritrovare ciò che fa il senso nel deserto, ridare un orizzonte a ciò che ci cir-

Kalaora B., Le Musèe vert, ed. L’Harmattan, Parigi 1993 Trasi N., op.cit., p. 70 4 Hobbs R., R.Smithson: a retrospective view, Duisburg, New York 1982 2 3

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conda, implica l’associare gli artisti alle decisioni e alle scelte di coloro che lavorano sul territorio, implica il ricreare una cultura paesaggistica della riqualificazione del territorio”2. Da una stretta collabo-

razione tra artisti e tutti coloro che operano sul territorio in vista di una riqualificazione possono nascere progetti profondamente legati a quei luoghi, al fine di evitare l’oggettivizzazione generalizzata che metodicamente fa astrazione del senso dei luoghi e della loro qualità paesaggistica3. Minimalismo, Land Art e Arte Povera, racchiudibili nella sigla sintetica di Environmental Art, sono delle correnti artistiche non figurative recenti che si sono occupate di paesaggio da una nuova prospettiva. L’esaltazione del bello naturale, anticipata dalla pittura di paesaggio romantica e compiuta dall’arte astratta del novecento, grazie a queste recenti correnti si è ulteriormente arricchita. Come nota Hobbs, la visione del paesaggio che propongono questi movimenti è da porre in relazione con la nuova spazialità della città americana: “In quel decennio


Andy Goldsworthy, Knotweed stalks, Derwent Water, Cumbria 1988

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(gli anni ‘50-’60) l’inaugurazione di un massiccio sistema di collegamento interstatale su autostrada e l’esplorazione delle zone sotto la stratosfera terrestre rivoluzionarono il concetto di spazio. Esso non era più un vuoto in attesa di essere riempito né la sua vuotezza veniva resa viva da qualche presenza. Le highways squarciarono il paesaggio americano e riportarono alla luce gli strati della crosta terrestre, le sue sinclinali e anticlinali, i suoi frastagliati strati rocciosi. Guidare in una qualche superhighway diventa sinonimo dell’andare in nessun luogo. Anche in movimento, sembrava di stare fermi: l’immobile uniformità delle vedute - le stesse stazioni di benzina, gli identici luoghi di sosta, gli incroci a quadrifoglio che si ripetevano e le catene di motel trasformarono il paesaggio in una ripetitiva striscia continua punteggiata di elementi banali”4. È in questo contesto che nasce una percezione spaziale “priva di pensiero e sentimento”, sospinta verso una dimensione primigenia nel suo rapporto con il paesaggio. Qui la Natura rientra in pieno diritto in relazione con l’opera d’arte, essa non è oggetto di mimesis ma diventa materiale del lavoro artistico; non per essere riprodotta ma per diventare parte di un procedimento di produzione. L’interesse da parte degli artisti nei con-

Smithson R., The writings of R. Smithson, N.Holt, Newyork 1979, p. 200 6 Idem, Entropy made visible 7 Idem, Frederick Law Olmstead and the dialectical landscape 8 Ivi 9 Ivi 5

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fronti dei luoghi dello scarto è molto forte, molti di essi hanno preso delle posizioni coscienti su questo tema, concentrando molto spesso la loro opera sulla bellezza e sulla necessità del decadimento. Smithson, particolarmente interessato al paesaggio antropizzato, “sbiadito e fratturato”, sosteneva che “In tutto il paese ci sono aree estrattive, cave in disuso, laghi e fiumi inquinati. Una utilizzazione di questi luoghi così devastati potrebbe essere il riciclaggio di terra e acqua in termini di earth art”5. Egli, inoltre, desiderava che l’arrugginimento e l’erosione colpissero lo sguardo; associava la dissipazione al godere la vita e descriveva il fascino evocato per lui dalle terre desolate6. Nel 1973, nell’ultimo libro che Smithson7 scrive prima di morire,riporta una citazione di Price che faceva una descrizione interessante di un fianco sventrato di una collina: “Quando la violenza di una tale incisione nel suolo si è attenuata ed è stata parzialmente dissimulata e imbellita dagli effetti del tempo e dal progredire della vegetazione, tutto ciò che è diverso da questo processo abituale , diventa pittoresco, è il caso delle cave e le miniere, che sono inizialmente difformi dal contesto e considerate come tali da coloro che vogliono livellarle per migliorarle e renderle pittoresche”8.


Zander Olsen, Tree line, Surrey, Hampshire and Wales 2008

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Smithson aggiunge che: “La mia esperienza personale è che i siti migliori per la Earth art sono quelli distrutti dall’industria, o da una urbanizzazione incontrollata, o le distruzioni della natura stessa”9. Questa visione dell’irreversibilità, del non ritorno, applicata ai paesaggi alterati ha come immediata conseguenza l’impossibilità dei ripristini. A tal proposito egli afferma che la miniera di rame Bingham nello Utah è oggi uno stupendo buco, profondo più di mille metri e dal diametro di cinque chilometri. Se i conservazionisti dovessero chiedere che le miniere fossero riportate allo stato precedente, il pozzo di Bingham richiederebbe le macerie di un’altra montagna. Smithson, quindi, ritiene

che dovremmo accettare il cambiamento e che esso vada di pari passo con la tranquillità. È inutile il tentativo di ritrovare un ordine naturale che non esiste più. Le cose fluiscono senza fine da uno stato all’altro, senza possibilità di ritorno. La calma, afferma, è solo nell’occhio del ciclone.

Per cercare di capire come viene affrontato il paesaggio naturale in queste sperimenta-

Bonito Oliva A., Carl Andre, New York 1972, Dialoghi d’artista, Electa, Milano 1984 11 Avon A., Dagli artworks agli earthworks, in Rassegna, n. 36, 1988, p. 57 10

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zioni artistiche, proveremo a definire l’environmental art. Essa è un movimento che propone modalità di intervento composte essenzialmente dalla creazione di segni a grande scala sul terreno, realizzati attraverso movimenti di terra e di acqua e dall’inserimento in esso di oggetti in sé privi di valore, spesso disposti serialmente o, come disse Carl Andrè, secondo una “simmetria anassiale”10. I valori estetici insiti in questo tipo di operazioni comportano la “sparizione dell’opera dell’artista”11. L’accento può essere così spostato sul valore percettivo dell’opera in relazione all’ambiente, sul valore fondativo del gesto umano in rapporto al paesaggio. È nel valore del concetto di tempo che, in questa arte, possiamo trovare delle indicazioni sulla qualità che deve avere l’azione dell’uomo rispetto al paesaggio. Secondo Donald Worster “la salvaguardia ambientale diventa uno sforo per proteggere alcuni tassi di cambiamento che si verificano nel mondo biologico da mutamenti incompatibili presenti nell’economia e nella tecnologia. Questo programma non vuole rinchiudere la natura in un museo, congelandola per l’eternità; al contrario, la salvaguardia deve fondersi

Worster R., Storia delle idee ecologiche, Il Mulino, Bologna 1994, p. 52 13 Trasi N., op. cit., p. 78 14 Mchargh I., Design with nature, New York 1969, p. 247 12


sull’idea che proteggere la diversità di mutamento è una cosa positiva e sicura. Alcune cose hanno bisogno di più tempo per crescere o per migliorare, alcune non si adattano velocemente come altre e quelle differenze ci sono state rivelate dalla storia” 12. Interessante, inoltre, è evidenziare l’esistenza di un’asimmetria tra il “tempo ecologico” e quello “storico”: milioni di anni per l’evoluzione della vita sulla terra con lentissimi mutamenti ecologici e la conoscenza storica dell’ultimo breve periodo e, viceversa, rapidi mutamenti ecologici indotti dalla tecnologia in tempi brevissimi13. L’uomo, come sostiene McHarg14, non può interrompere il corso del tempo, ma può rallentare il processo entropico ed evolutivo favorendo la transizione a uno stato di produzione minimo di entropia, e, in ultima analisi, favorendo il futuro della specie. Lavorare con i

materiali del paesaggio significa, quindi, prendere coscienza della differente durata in termini temporali di questi materiali; ciò, tradotto in termini operativi, equivale ad agire per gesti minimi, in grado di dare un valore fondativo alla propria presenza attraverso

Pedretti B., Introduzione o della natura intelligente, in “Casabella”, n. 575-76, 1991 16 Celant G., Conceptual art, Minimal art, Arte povera, catalogo della mostra omonima, Torino 1970 17 Fried M., Art and objecthood, Artforum, giugno 1967 18 Ivi

la riscoperta del valore primario della cura della terra: tornando a parlare quel “linguaggio dimesso della quiete”15, solo quei gesti permettono al paesaggio stesso di tornare nell’ombra, tornando a un dialogo autentico tra uomo e natura. Ponendo l’accento sulla necessità di un’interpretazione continua del paesaggio, gli artisti dell’Environmental Art interrompono ogni concatenazione tra contenuto e apparenza dell’opera, rinnovando, così, un colloquio tra le discipline dell’ambiente e del paesaggio, indispensabile alla costituzione di un progetto di riqualificazione degli spazi alterati. Andando ad analizzare le correnti artistiche, scopriamo che la tendenza a lavorare con elementi del paesaggio naturale si codifica in due principali linee di ricerca, la Land Art e il Primitivismo, entrambe comprese nella più ampia accezione di Arte Povera. A fare da premessa a queste correnti, invece, vi è la Minimal Art16. In un saggio sull’arte minimalista scritto da Michael Fried17 nel 1997, famoso perché originato dall’intenzione di essere critico

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nei confronti di questo atteggiamento, ha finito per descriverne in modo circostanziato le caratteristiche che lo rendevano il fenomeno più importante della scena artistica di quegli anni. Il punto centrale della critica che l’autore muove alla Literalist Art18 è il fatto che questo genere di arte viva in virtù di un audience, esista cioè soltanto in presenza di un pubblico, mentre l’arte moderna, fatta discendere dalla tradizione del nuovo, è completamente autonoma e in ogni istante “l’opera stessa è interamente manifesta”19. Con ciò, pur considerando negativamente il fatto che l’opera minimalista sia sempre “un oggetto in una situazione”20, Fried riconosce il peso notevole che l’esperienza percettiva va ad assumere nella costituzione, oltre che nella fruizione, delle opere minimal. Il minimalismo ha portato agli estremi la dissoluzione dell’illusionismo delle rappresentazioni bidimensionali. In questo modo l’oggetto, sfuggendo alla sua modalità tradizionale di consistere, non rappresenta più nulla: come ha scritto Morris “l’oggetto non è che uno dei termini dell’estetica più recente”21. L’interesse, quindi, si è spostato verso l’intera situazione, verso tutte le altre variabili cui è legato

Morris R., Earthworks: land reclamation as sculpture, ed. Seattle Art Museum, Seattle 1979 22 Fried M., op.cit. 23 Trasi N, op. cit., p. 94 24 Avon A., op. cit, p. 58 25 Fried M., op.cit.

e da cui dipende l’artwork. Come nota Fried “la literalist art dipende dall’osservatore, è incompleta senza di lui, ha bisogno della sua presenza per esistere”22. Alla fine degli anni ‘60, però, una nuova generazione di scultori, influenzati principalmente da Robert Morris, rifiutò le raffinate forme della Minimal Art; per questi artisti, l’atto di concepire e collocare fisicamente un qualcosa in una data posizione, per un periodo di tempo limitato, è ben più importante dell’oggetto stesso. Essi contestavano

il fondamento della definizione culturale del suo ruolo e del suo mezzo, non volevano più identificare l’arte con un oggetto ma con un atto, un processo, un’azione. Tratto peculiare di questi movimenti artistici è il desiderio di trascendenza della materialità dell’oggetto23. In questo senso il confronto con la scala e con gli elementi del paesaggio obbligano l’arte a ricercare nuove forme espressive che coniughino il desiderio di allontanamento dall’oggetto artistico con la naturalità del paesaggio. Tutto ciò induce l’artista ad effettuare una ricerca impregnata di un’espressività minimalista che

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Tillim S., Earthworks and the New Picturesque, “Artforum”, dicembre 1968 26


Nils Udo, The nest, LĂźneburg Heath, Germany 1978

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si materializza nell’intervento diretto sulla terra. C’è un passaggio, quindi, da artworks a earthworks (letteralmente “lavori di terra”), termine entrato in uso per definire i risultati di questo nuovo fenomeno, ancora in parte interno al minimal, che sta ad indicare tanto il lavoro dell’arte realizzato utilizzando la terra come materia prima, quanto il risultato di un’azione estetica compiuta utilizzando la terra come contesto24. L’artista cerca di mantenere nei confronti degli insiemi naturali lo stesso comportamento che deriva dal considerare che ”le cose sono nello spazio insieme all’osservatore, non è l’osservatore a essere circondato dalle cose”25. Per il lavoro di alcuni Land Artists, si è parlato subito, per analogia, di “Nuovo Pittoresco”26. Questa idea di associare il termine ‘pittoresco’ già ai primissimi earthworks è derivata dal considerare che il tutto aveva luogo grazie a un’azione estetica condotta sulla natura. Un chiaro esempio di quali sfaccettature potesse assumere il rapporto con la Natura, e quindi anche con il ‘pittoresco’ è l’affermazione di Andre27, secondo cui la sua idea di “scultura ideale” non può che corrispondere a una strada: come si pretende da un’opera mi-

Bonito Oliva A., Carl Andre, New York 1972, Dialoghi d’artista, Electa, Milano 1984 28 Fried M., op.cit. 29 Bois Y., Promenade pittoresque autor de Clara-Clara in Richard Serra, Centre Georges Pompidou, Parigi 1983 27

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nimalista, “una strada non si rivela in qualche punto particolare”, dal momento che essa non è un oggetto da osservare, ma un percorso da seguire; le esperienze complesse che essa riserva se la si percorre non hanno attinenza con un qualche suo contenuto rappresentativo, ma con la relazione che si realizza tra la strada stessa e il paesaggio28. Lo studioso Yve-Alain Bois, in un suo recente scritto su Richard Serra29 ha cercato di dimostrare come questo termine appartenga ad una modificazione che si può definire epistemologica. Per Bois, il termine ‘pittoresco’ sta ad indicare, più generalmente, un modo di essere dell’opera e, conseguentemente, di conformarsi, della percezione che si ha quando si abbandona un punto di vista classicamente logocentrico o quando si dimostra l’efficacia del disegno e del piano, nell’attribuire un contenuto alla percezione. Il trattamento estetico del paesaggio, tensione presente negli earthworks, poi meglio esplicatasi in numerosi lavori di Land Art, non si svolge quindi a partire da un’idea aprioristica, come se si trattasse di costruire nuovamente un oggetto, ma secondo i principi di questo ‘pittoresco ridefinito’.


Richard Long, Sahara Line, Deserto del Sahara 1988

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La lettura attuata da parte di questi artisti è unica, il loro intervento e le loro sistemazioni progressive non risultano da aggiunte successive di parti nuove, ma da una successione di riscritture su quello stesso spazio, e di reinterpretazioni del senso di quel luogo in ogni momento della storia. Come dice Chemetoff “la questione di prendere in considerazione il paesaggio porta inevitabilmente a pensare alla sua trasformazione come un’evoluzione e non solamente come qualcosa da proteggere. Invece di parlare in termini di protezione , sarebbe augurabile ed utile comprendere i fenomeni che faranno evolvere i paesaggi e fondare, a partire da tale conoscenza, un altro modo di intervenire nei siti, di gestirli, di progettare l’insieme dei fenomeni che conducono a fabbricare l’identità di un territorio”30. In tale ottica, il progetto-paesaggio implica una demarche paesaggistica in cui il progetto è orientato e s’inscrive nei diversi movimenti del concreto. Intervenire significa reinventare il dato da cui si parte. Il problema del paesaggio non è quello di andare ad aggiungere elementi nuovi, ragionando in termini di coerenza e coesione, è piuttosto quello di creare un nuovo spettro in un sistema di conformazioni esistenti. Per chiarire meglio

Chemetoff A., La Feuille du paysage, Urbanisme et Architecture n. 250/1991 30

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questo concetto Lassus afferma: “pensiamo ad immaginare una sovrapposizione di diversi puzzles i cui disegni e i tagli dei pezzi sono differenti. E immaginiamo che ogni puzzle sia incompleto: qui e là delle fessure si corrispondo da un puzzle all’altro, formando così delle faglie strette e più o meno profonde, suggerendo raggruppamenti orizzontali e verticali. Un apporto comunque esso sia, distrugge per forza qualcosa, e non si sa mai l’estensione delle sue conseguenze. occorre nondimeno scegliere; e da qui la necessità di adottare una concezione che si inserisca in una storia, in un dato multiplo, oscillante, imprevedibile, che riprenda o apra altre potenzialità, soprattutto quelle, ben importanti, della vita quotidiana e dell’economia, che non può esserne dissociata”31. L’obiettivo degli artisti della Land Art è proprio quello di svelare le qualità già insite nei luoghi da loro presi in esame32. La lettura di un paesaggio da parte di un’artista contribuisce alla ricostruzione e alla reinterpretazione del luogo, estrapolando quello che vi è di significante. Ciò permette quindi di vedere aldilà del banale e del quotidiano, e di afferrare ciò che costituisce l’essenza dei luoghi “indicibili”33 presi in esame. “La desertificazione del senso è uno dei tratti co-


Robert Smithson, The Broken Circle, Olanda 1971


stitutivi della modernità”34 : di fronte a questa condizione, gli artisti hanno il ruolo sociale di ricreare i legami spezzati, prendendo come supporto le opere, proprio nei luoghi rifiutati, banalizzati, quotidiani. La prospettiva con cui gli artisti hanno osservato questi luoghi è importante per noi perché è forse quella più acuta e penetrante: il loro obiettivo è di andare a creare nuovi valori paesaggistici e dare dei fondamenti culturali ai territori della quotidianità.

Lassus B., L’obligation de l’invention. Du Paysage aux ambiances successives, in: Urbanisme n. 215, 1986 32 Trasi N., op. cit., p. 97 33 Colin A., Crise du paysage, in Revue d’ethnologie française, luglio 1989 34 Bouyer R., op. cit., p. 100 31


Alberto Burri, Cretto, Gibellina, Sicilia 1984


Capitolo 4.3 Prospettiva visiva: immagine statica e in movimento

Pina, Wim Wenders, Germania, 2011


Noi scattiamo vedute quasi istantanee sulla realtà che trascorre, e, siccome sono caratteristiche di questa realtà, ci basta infilarle lungo un divenire astratto, uniforme, invisibile, situato in fondo alla macchina della conoscenza(…). Percezione, intellezione, linguaggio, procedono in generale così. Che si tratti di pensare il divenire o di esprimerlo, o anche di percepirlo, non facciamo nient’altro che azionare una sorta di cinematografo interno

Da L’evoluzione creatrice di Henri Bergson


Introduzione


I

l cinema, come la fotografia, ha spesso mostrato immagini di paesaggio, coniugando le risorse della pittura e della letteratura e giocando sulla mobilità delle immagini. Essi hanno giocato un ruolo considerevole nella formazione di una coscienza moderna di paesaggio. Si deve a queste arti, infatti, l’aver amplificato e rinnovato ciò che il romanzo aveva annunciato: si può costruire una storia attraverso un paesaggio e reciprocamente un paesaggio attraverso una storia. In questo capitolo andremo ad osservare quale ruolo abbia avuto il paesaggio, in particolare quello dello scarto, all’interno di questa storia. Osserveremo come i registi, in particolare Wim Wenders e Michelangelo Antonioni, abbiano dedicato ad esso un ruolo talvolta di sfondo, talvolta da protagonista; analizzeremo poi come questo influenzi l’idea e la percezione che lo spettatore ha dello spazio. Infine osserveremo come i fotografi Luigi Ghirri, Edward Burtynsky ed Edward Ruscha si siano approcciati in tre maniere diverse a questi luoghi dell’abbandono, facendone risaltare aspetti e caratteri ogni volta differenti.

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Tempo e spazio come interlocutori negativi Grazie all’allargamento dei formati della pellicola, con il rapido abbandono del vecchio 1,66 per i nuovi 1,75 e 1,85, un nuovo personaggio entra in scena: lo spazio1. Questo luogo inizia ad acquisire autonomia, si intromette tra le figure, crea differenze e le fa emergere, ci parla con il suo stesso silenzio. In Italia, a partire dal Neorealismo, il rapporto stesso tra figura e sfondo appare rovesciato: i personaggi servono spesso solo da guida alla cinepresa, che percorre con loro lo spazio come se lo vedesse per la prima volta. Anche nel tempo delle inquadrature avviene un cambiamento: esso si svuota e si dilata, diventa visibile nella dinamica sorda delle attese, dei silenzi, nella durata insistente delle inquadrature stesse, che è ben superiore a quella del cinema classico, appena sufficiente per leggere le immagini. Questa durata che si protrae oltre il tempo di lettura dell’immagine fa sì che l’immagine si laceri, facendo in modo che lo spettatore abbandoni la storia per aprirsi all’osservazione.

Attraverso questo lento e progressivo emergere dello spazio e del tempo avviene una vera e propria rivoluzione nello sguardo. Tempo e spazio non sono più semplici contenitori per una storia, ma diventano a poco a poco elementi principali, voci, interlocutori negativi perché contrastano la centralità del narratore e del personaggio.

Interessante per noi è osservare come il paesaggio, quindi, non sia più semplice sfondo di una storia, ma che si contrapponga al personaggio, che divenga uno spietato antagonista e invece di lasciarsi guardare come un oggetto, gli restituisca lo sguardo.

Bernardi S., Il paesaggio nel cinema italiano, Marsilio, Venezia 2002 1

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Il cielo sopra Berlino, Wim Wenders, 1987


Wim Wenders Cosa resta del paesaggio in un’immagine?

C

osa succede ai luoghi quando li fotografiamo o li filmiamo? Il nostro rapporto con essi cambia? Diversamente da quando li osserviamo, ne prendiamo forse possesso? Cosa resta del paesaggio in un’immagine? Nell’arte pittorica l’artista, più che sottrarre, aggiunge sempre qualcosa al paesaggio. Ma per quanto riguarda il cinema e la fotografia, viene sottratto ai luoghi? Osservando le fotografie di Mario Ambrosius su Berlino2, il regista tedesco Wim Wenders3, si pone questi interrogativi. Egli paragona le immagini ottenute dalle fotografie a quelle del cinema. La differenza

principale rispetto alla fotografia consiste nella capacità del cinema di essere in grado di conservare le cose e i luoghi: all’interno delle riprese cinematografiche il prima e il dopo sono immanenti, presenti nello stesso tempo; diversamente accade nella fotogra-

2 3

Ambrosius M., Foto, Verlag Ute Schiller, Berlino 1991 Wenders W., L’atto di vedere, Ubulibri, Milano 1992

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fia, la quale, invece, fissa la frazione di secondo tra uno scatto e l’altro. Nel film il tempo che conta è sol-

tanto quello raffigurato che scaturisce dalla narrazione di una storia e che poi si impone, come dimensione temporale autonoma, sul luogo. Raccontando di una sua esperienza che ha influenzato questo pensiero dice: “Recentemente sono passato sulla Potsdamer Platz, quel giorno coperta di neve, attraversando il muro. Anche se ora non esiste più, è come se dovessimo ancora attraversarlo. Dalla grande piazza vuota mi sembra di entrare in una terra inesplorata, come una radura dissodata. Il circo Ercolino ha issato il suo tendone in un posto dove, qualche tempo prima, proprio un circo sarebbe stato impensabile. Il circo rende la piazza ancora più vuota di quanto non lo sia già, il cielo è grigio come può esserlo solo a Berlino. Mi fermo, il tempo passa. Non ho una macchina fotografica con me, sono io ad appartenere alla piazza, non il contrario. La monorotaia presto scomparirà; la strada che ora attraversa la piazza come un casuale sentiero presto, seguirà un altro percorso. L’antico edificio della Huth-Haus, ancora solitario, sarà presto circondato dal complesso amministrativo della Mercedes. E mentre resto immobile, sotto ai miei occhi scorre il tempo di questo

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Ivi, p. 114

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luogo, più forte e più tonante del mio piccolo tempo. E credo che dinanzi a questo grande tempo dei luoghi, ogni fotografia, ogni immagine cinematografica non può che ammutolire con rispetto”4. Quindi il limite e la caratteristica che può possedere un film è quella di rendere invisibile il grande tempo di un luogo, proponendo il tempo della propria storia come quello più importante.

Sono innumerevoli le immagini del territorio intrappolate nelle stesure filmiche e utilizzate come fondali (e non solo) della narrazione di molteplici storie. In alcune di queste, però, è possibile intravedere un grande tempo e una grande storia dei luoghi a prescindere dai tempi delle singole storie raccontate. Le immagini di città e di territori fissate nei film sopravvivono alle continue trasformazioni del reale, e costituiscono dunque una testimonianza che, per quanto filtrata


dagli occhi del regista, conserva un certo grado di oggettività. L’osservatore nel paesaggio Nel paesaggio la presenza di un osservatore, parte integrante ed essenziale del paesaggio stesso, comporta un riferimento all’atto del guardare. Quest’azione, ricorrente nella letteratura e nella pittura contemporanea, diventa fondamentale nel cinema moderno. Il paesaggio, nel cinema, significa non solo rapporto fra personaggio e spazio, tra uomo e mondo, ma anche rapporto fra i diversi livelli di sguardo; c’è l’osservatore che è un personaggio e la cinepresa che osserva l’osservatore. Si articola così un gioco complesso di punti di vista e, quando tale rapporto si propone come confronto tra due sguardi, il paesaggio cinematografico diventa punto di partenza per una riflessione non solo sul cinema, ma implicitamente anche sull’atto del guardare inteso come atto conoscitivo5. Come diceva Munsterberg6 il cinema

è un sistema di rappresentazione che funziona come la mente umana. Esso è potenzialmente

uno strumento per ripensare il mondo attraverso lo sguardo. Infatti, il cambiamento dei punti di vista (montaggio) e il loro slittamento (movimenti della cinepresa) incarnano tecnicamente il movimento dello sguardo e del pensiero. E’ questa stratificazione, questo gioco dei punti di vista che mette in luce, nella nostra esperienza di vita, la dialettica del vedere e del guardare. Il primo atto è collegato al nostro sapere, il secondo, invece, si spinge oltre al sapere. Il regista tedesco Wim Wenders definisce l’atto del vedere come “percezione e verifica del reale, ovvero un fenomeno che ha a che fare con la verità, molto più del pensiero, nel quale invece ci smarriamo più facilmente allontanandoci dal reale. Per me, vedere significa sempre immergersi nel mondo, pensare, invece, prenderne le distanze”7. Il cinema, come le altre arti – quando è un’arte – ci insegna non solo a vedere, ma a guardare e vedere insieme. E’ per questo

Bernardi S., op. cit., p. 34 Munsterberg, Film. Il cinema muto nel 1916, Pratiche, Parma 1980 7 Wenders W., L’atto di vedere, cit., p. 43 5 6

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motivo che diventa interessante e formativo per noi andare ad indagare le dinamiche legate all’arte dell’osservazione cinematografica. Immagini in movimento: testimonianze del tempo La potenzialità del mezzo cinematografico si è manifestata fin dalla sua nascita nella possibilità di restituire immagini in movimento. In un discorso sul cinematografo di De Chirico, risalente agli anni ‘40 si legge: “La vera risorsa del cinema ed il suo vero dominio sono il movimento e la sua possibilità di spostarsi in un istante da un capo all’altro della terra, di farci vedere immagini di ogni cosa e di tutti. Un film è un racconto narrato da immagini e non da parole”8. Il cinema, diversamente dal teatro, dalla pittura o dalla letteratura, è in grado di muoversi nei nostri spazi, nelle città e di passare da un paese all’altro. Come dice Wenders “Il cinema può muoversi nel nostro mondo, per lui tutto è il mondo”9. Quindi i film in un certo senso possono essere arringhe in difesa di luoghi, situazioni, città e paesaggi10. Il regista tedesco, infatti, dice: “Tutto sta per scomparire, bisogna fare presto se si vuole vedere ancora qualcosa.

De Chirico G., Discorso sul cinematografo, in: “Il meccanismo del pensiero”, Torino 1960 9 Wenders W., L’atto di vedere, cit., p.99 10 Colusso F., Wim Wenders, Paesaggi luoghi città, Testo e Immagine, Torino 1998 11 Wenders W., Stanotte vorrei parlare con l’angelo, Ubulibri,

La macchina da presa è l’arma contro la miseria delle cose e il loro scomparire”11. E’ anche da questo punto di vista che ci interessa osservare come il cinema ha guardato i luoghi dello scarto. L’arte, infatti,

con il suo specifico sguardo, permette di esplorare i “divenire” possibili del mondo che ci circonda e di rilevarne aspetti latenti attraverso le sue produzioni.

Il regista tedesco Wim Wenders critica la trasformazione che è stata fatta di Potsdamer Platz. Nella sua opera Il cielo sopra Berlino essa appare come una grande piazza vuota, piena di sterpaglie e di erbacce, dietro la quale è possibile scorgere l’orizzonte. Ora “è riempita di aiuole per abbellirla (...) e non è più lei, non esiste più”12. Il solo fatto che qualcosa stesse per sparire è stato, per questo regista, un buon pretesto per posizionare la macchina da presa: Il cielo sopra Berlino ne è un esempio paradigmatico. Infatti, quasi nessuno dei luoghi che sono stati ripresi in questo film si è conservato intatto. “Il film”, dice, “è oggi un archivio unico di luoghi che non esistono più”13.

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Milano 1989, p. 154 12 Interv. di Kollhoff H., Trovatemi una città per vivere 13 Wenders W., L’atto di vedere, cit. p. 118


Il cielo sopra Berlino, Wim Wenders, Germania Ovest, Francia, 1987 Potsdamer Platz rasa al suolo dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale

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Wim Wenders e il paesaggio dello scarto Winter: “Stanno costruendo una nuova autostrada”. Ze: “Laggiù, è quasi pronta. A Frederich piaceva filmare da qui; e anche da là in fondo. Lui dice che quando queste case saranno scomparse allora tutte le storie che nascondono usciranno alla luce del sole. Ha conosciuto un mucchio di gente che abita lì”. Da Lisbon Story di Wim Wenders

molte volte ripreso, questa è una sensazione spesso riscontrabile: lo spazio respinge l’uomo. Vi sono molti paesaggi ostili all’antropizzazione, “la loro vivibilità”, afferma il regista, “sarà sempre una lotta, una resistenza, e questo m’interessa enormemente, mi conferisce una singolare energia, un singolare desiderio di viaggiare all’interno di questo spazio e di conoscerlo o di descriverlo”15.

Il regista tedesco Wim Wenders nel corso della sua carriera cinematografica in più occasioni ha esplorato ed analizzato i paesaggi dell’errare e si è interessato al tema cittàarchitettura-paesaggio. Risulta molto interessante per noi la visione wendersiana dei suoi paesaggi, in particolare di quelli dello scarto. Egli stesso afferma di essere profondamente attratto dai luoghi che danno l’impressione di essere abbandonati. Dice: “Amo gli spazi vuoti, una terra inesplorata, come una radura dissodata”14. All’interno della città dice di preferire i terrains vagues, di risentire di un ostacolo entro un paesaggio, di amare l’atto di addomesticarlo. Nel paesaggio dell’Ovest americano, da lui

Durante le riprese del Il cielo sopra Berlino, il regista ammette di andare sempre alla ricerca di queste superfici vuote, di queste terre di nessuno, perché ha l’impressione che la città possa essere rappresentata molto meglio dalle zone vuote che da quelle occupate. Secondo lui sono proprio gli spazi vuoti a consentire agli uomini di farsi un’immagine della città. Non solo perché permettono di abbracciare con lo sguardo intere superfici ma anche perché, attraverso queste falle, si riesce a vedere il tempo che, in termini più generali, è l’elemento che scandisce la storia. Riguardo alla città e al rapporto tra esse e

Wenders W., Una volta, Socrates, Roma 1993, p. 384 Interv. di Boissiere D., Lyon D., Cahier du cinéma, n.449, 1991 14 15

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Il cielo sopra Berlino, Wim Wenders, Germania Ovest, Francia, 1987

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l’abbandono dice: “Io amo le città, ma a volte è necessario lasciarle, osservarle da lontano per capirne i pregi. Il deserto offre il migliore distacco per osservare la vita urbana; conosco i deserti americani e australiani, dove ogni tanto ci si imbatte in qualche resto della civiltà: una casa, una strada in rovina, una linea ferroviaria dismessa, anche un distributore di benzina abbandonato o un motel. In un certo senso si tratta di esperienze opposte a quelle che si fanno quando in città si penetra in uno spazio aperto. Una terra di nessuno all’interno di una metropoli ha come prerogativa la presenza del paesaggio urbano tutt’intorno, e ce lo mostra in una prospettiva diversa, in un’altra luce. Mentre la comparsa nel deserto dei resti della civiltà rende il paesaggio ancora più vuoto”16. Sempre riferendosi a questi luoghi dello scarto il regista afferma che “ogni secolo ha le sue rovine e un suo modo di metterle in immagine facendone paesaggio. Le nostre rovine hanno questo di particolare, sono rovine del presente, non costituiscono tradizione, non hanno fatto in tempo ad accumulare tempo. Alcune sono già rovine dalla nascita, come certi interni di locali lungo le highway o l’albergo in Portogallo dove fu girato Lo stato delle cose: ruderi da subito, sopravvissuti ironicamente, se per rovina si intende non tanto lo sbriciolarsi delle

pietre ma anche dell’anima che potrebbe abitarle. Così gli oggetti che le popolano: anch’essi con un che di reliquia, che li distacca dalle cose come una decalcomania. E’ comunque il paesaggio che ci è dato, una compresenza grottesca di naturale e artificiale, un fondale della quantità e dei suoi resti. Sono i luoghi dove viviamo i nostri rapporti con gli altri e dove, con ogni altrove nella fantasia o nella nostalgia, ambientiamo i nostri sentimenti. E’ probabile che questi nostri poveri luoghi custodiscano una loro storia continuamente mutevole o aspettino che la loro storia si avveri”17. Un’altra opera del regista tedesco, in cui il paesaggio, in particolare quello dello scarto e delle rovine, viene analizzato e riprodotto sullo schermo è Nel corso del tempo. Questo film è importante anche per la sua sensibilità nel mostrare l’errare nello spazio18. Esso ha avuto come punto di partenza una carta geografica. Vi era nel regista una volontà di trovare una storia che gli permettesse di esplorare se stesso e il suo paese, la Germania, in modo tale che fosse come un viaggio all’interno di un paese sconosciuto. Per definire l’itinerario del viaggio all’interno della storia egli segue, lungo il confine tra le due Germanie, i paesi in provincia in

Spagnoletti G., Wim Wenders Europa Cinema 91, Europa Cinema, Roma 1991 17 Wenders W., Una volta, cit., p. 13 18 Riguardo ciò citiamo il movimento Internazionale Situazionista che, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, causò in Europa importanti trasformazioni sociali e politi-

che, portando nel campo del dibattito culturale politico-artistico idee rivoluzionarie riguardo il tema della fruizione dello spazio. In particolare ci riferiamo alla Deriva Situazionista che può essere definita come un intenzionale smarrimento dell’orientamento. In un’ottica anti-funzionalista e in termini contestativi, loro

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Nel corso del tempo, Wim Wenders, Germania Ovest, 1976

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cui vi sono sale cinematografiche19. Come l’autore stesso racconta: “un itinerario lungo la frontiera tedesca/tedesca dentro un paesaggio sconosciuto in Germania, un “terrain vague” molto esteso, mille chilometri, una terra di nessuno. (...) Il film, la storia, era il confronto tra i due personaggi, era il risultato del confronto spazio/personaggi”20. Stilisticamente la figurazione dei paesaggi di questo film rimanda al reportage che il fotografo Walker Evans aveva fatto nel 1930 nel sud degli Stati Uniti durante la Grande Depressione, su incarico della Farm Security Administration. Il registra afferma di aver trovato un po’ di America in quelle terre di nessuno: territori depressi, divisi, vuoti, regioni senza speranza. E’ proprio lì che l’ispirazione delle foto di Evans ha giocato il ruolo più importante. La sua presenza si legge perfettamente in alcune scene: per esempio in quella in cui i due personaggi si trovano nella casamatta di confine oppure quando essi si trovano nella fabbrica abbandonata. Il regista ha deciso di fermarsi proprio davanti a quest’ultima manifattura in quanto realizzata in lamiera ondulata e, ricordando alcune foto di Evans, l’autore si è accorto delle sue potenzialità21. Rife-

rendosi al fotografo americano, Wenders, ritiene che probabilmente egli non sia stato il primo a rendersi conto dell’enorme potenziale senso visivo presente all’interno del paesaggio dell’America, ma è stato sicuramente il primo a riuscire a trovare, con le proprie foto, un linguaggio capace di conferire una forma a quel paesaggio. Nel film non vi è una vera e propria sceneggiatura: ogni scena è stata scritta giorno per giorno a seconda dei luoghi incontrati durante il viaggio della troupe lungo il confine22. Nel corso del film lo sguardo sul paesaggio è spesso “in itinere” ed è mediato attraverso il finestrino del mezzo di trasporto dei protagonisti, come direbbe Christian Metz “uno schermo al quadrato”23.

invitavamo ad attraversare la città lasciandosi guidare dalle proprie emozioni. L’obiettivo era quello di valorizzare e costruire un percorso nei luoghi della memoria. Il significato di questa azione era quella di portare il soggetto ad un’apertura mentale verso nuovi, inattesi e magari anche estranianti aspetti della realtà. Qui la

sperimentazione estetica diviene quindi l’occasione per una trasformazione, anche politica, di individui che si dotano così di una nuova consapevolezza. (AA.VV. I Situazionisti, Manifestolibri, Roma 1991) 19 Wenders W., Stanotte vorrei parlare con l’angelo, cit., p. 179

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Tuttavia, questo sguardo non è sempre in movimento ma ci sono anche dei momenti di sosta. In questi istanti, è come se il tempo si fermasse, e venisse concesso all’occhio dello spettatore di vagare su campi lunghissimi che sembrano esaurire le possibilità


Nel corso del tempo, Wim Wenders, Germania Ovest, 1976

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dello sguardo. Troviamo immagini totalizzanti il cui limite è un fuori campo assoluto e lo sguardo viene risucchiato dall’orizzonte. Queste inquadrature di paesaggio si

distinguono per la loro durata prolungata. Come rileva Jacques Aumont24, all’interno dell’inquadratura lunga risiede il fascino di una coincidenza utopica tra la realtà e la rappresentazione, legata a quella tra tempo filmico e sguardo. Il regista sembra subire questa fascinazione connessa ad una concezione del cinema quale arte della mobilità e del tempo della visione che, di conseguenza, rimanda al problema della rappresentazione del reale. Memorabile è la scena in cui i due protagonisti, Bruno e Robert si trovano all’interno di una cava, un luogo desolato, silenzioso, immobile. In quest’occasione è come se il tempo del film si fermasse e i due protagonisti camminassero all’interno della scena per definire le proporzioni dello spazio e l’illimitatezza dell’orizzonte. Inoltre, durante tutto il corso del film si nota l’assenza di un centro, di un fulcro sia narrativo che temporale, e anche le riprese

Interv. di Boissiere D., Lyon D., Cahier du cinéma, n. 449, 1991 p. 107 21 Ibidem 22 Wenders W., L’atto di vedere, cit. 23 Metz C., L’enunciazione impersonale o il luogo del film, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995 pp. 79-88

del paesaggio non permettono di definire un centro dell’immagine suggerendo una ricerca più personale e soggettiva. Rimanendo nel contesto della rappresentazione, è Wenders stesso ad ammettere di aver sempre aspirato a diventare pittore25. I suoi primi film sono da lui definiti come “quadri dipinti con la cinepresa (...) i miei modelli venivano dalla pittura prima che dal cinema”26. Egli, infatti, narra dei suoi referenti pittorici e tra gli artisti da lui preferiti vi è Caspar David Friedrich. Aumont ha analizzato la relazione esistente tra campo lunghissimo e pittura27. Secondo lo studioso le vedute rappresentate da Friedrich sono caratterizzate da una pittura a olio minuziosa che mantiene, pensando in termini fotografici, “a fuoco” dettagli anche molto distanti dal primo piano. Lo sguardo sembra proteso verso lo stesso fuori campo assoluto di Wenders. Il regista propone inquadrature frontali per il paesaggio, che, come le pitture di Friedrich, invitano alla contemplazione.

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Aumont J., L’occhio interminabile. Cinema e pittura, Marsilio, Venezia 1995 25 Interv. di JANSEN W., La verità delle immagini 26 Wenders W., L’atto di vedere, cit., p. 42 27 Aumont J., op. cit. 24


Paris, Texas, Wim Wenders, Germania Ovest, Francia, Inghilterra, Stati Uniti, 1984

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Deserto Rosso, Michelangelo Antonioni, Italia, 1964


Michelangelo Antonioni

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er spiegare come il cinema italiano, e nello specifico quello di Antonioni, si sia approcciato al paesaggio è necessario fare una breve introduzione storica e culturale per spiegare i cambiamenti avvenuti in Italia nel Dopoguerra. La società europea, infatti, va incontro a trasformazioni profonde; lo sviluppo dell’industrializzazione esaspera la separazione tra il soggetto (l’uomo) e l’oggetto (il mondo) e fa del mondo una cosa morta, un dominio28. Per quanto riguarda l’Italia, le trasformazioni prodotte dalla cultura industriale non sono completamente identiche a quelle del resto d’Europa. Spesso accade che il nuovo si unisca all’antico, che arcaico e moderno coesistano, creando certe formazioni ibride che altrove non sopravvivono. Si sviluppano forme diverse, definibili sincretiche, di unione tra presente e passato. Anche la cultura è segnata da profonde trasformazioni e forti conservazioni; da una parte c’è l’industrializzazione con la nascita del mondo moderno, dall’altra si manifesta la permanenza del mondo antico molto più

Antonioni M., Quel bowling sul Tevere, Einaudi, Torino 1983, p. 204 29

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che in altri paesi europei. Questa promiscuità culturale produce un particolare sguardo sul mondo. E’ in questo contesto che il cinema italiano comincia ad aprire gli occhi sul paesaggio e comincia, o ricomincia, a guardarsi intorno. Per illustrare alcuni cambiamenti che avvengono all’interno del cinema italiano è interessante utilizzare come esempi alcuni film di Michelangelo Antonioni.

Con Antonioni il paesaggio diventa un momento di riflessione sulla percezione e sui limiti del visibile. Avviene la scoperta dello spazio, della materia di cui è fatta l’immagine della luce e del colore. S’incrina l’identità del narratore classico e, di conseguenza, anche quella dello spettatore. Si aprono fessure nella rappresentazione dello spazio e del tempo, incertezze collegate all’intervento di nuovi personaggi: i luoghi del film. L’attività principale dei personaggi di Antonioni è guardare: questo implica che lo spettatore viva con loro questa crisi della

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rappresentazione. Egli scopre insieme ai protagonisti di non essere più al centro del mondo: l’osservatore si discioglie nella molteplicità degli sguardi e dei punti di vista. Il problema estetico diventa più che mai un problema etico e culturale: esso riguarda la posizione dell’uomo nel mondo. Lo spazio, come vedremo, cambia il suo ruolo: non è più semplice sfondo di un’azione, esso è protagonista. Di conseguenza i metodi di inquadratura cambiano. Nel cinema classico l’immagine risultava centrata intorno alla figura del personaggio; l’inquadratura, infatti, era costruita sul rapporto tra la figura e lo sfondo, fondamentale per la lettura dell’immagine. Nel cinema del regista ferrarese, invece, tale rapporto si ribalta: l’inquadratura centrale si perde o si sfrangia, dimostrando che la realtà ha molti centri e molte storie. Il personaggio non è più al centro di una storia, non è più nemmeno unitario, si scompone in una serie di sguardi. Davanti al paesaggio si scompone il soggetto: il personaggio e lo spettatore stesso apprendono che la loro identità è una costruzione fragile e precaria. Nel suo cinema non solo lo sfondo si sposta in primo piano


Blow Up, Michelangelo Antonioni, Gran Bretagna, Italia, Stati Uniti, 1966

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ma spesso il protagonista stesso scivola nello sfondo, si sposta fuori campo; altre volte lo troviamo immobile che osserva o si lascia guardare. Il cinema di Antonioni è un’educazione all’atto del guardare: qui la differenza fra vedere e guardare diventa fondamentale. Si apre una riflessione sul rapporto tra il reale e il possibile, in cui l’occhio rimane incerto tra vari aspetti delle cose, scopre che la cosiddetta “realtà” non è altro che una serie aperta, un campo di possibilità. Il regista afferma: “Una volta chiusa in un suo alveo una storia rischia di morirvi dentro, se non le si dà un’altra dimensione, se non si lascia che il suo tempo si prolunghi in quello esterno dove siamo noi, protagonisti di tutte le storie. Dove non c’è niente di concluso”29. La crisi dello sguardo tradizionale, all’interno del film Il deserto rosso, si manifesta chiaramente. All’interno di questa storia realtà e finzione si mescolano, in una combinazione indefinita di sguardi e prospettive in cui viene rivisitata e messa in dubbio una delle figure più importanti della scrittura filmica: la soggettiva. Essa è basata su una convenzione della scrittura filmica per cui il raccordo vedente-visto ci colloca al posto del perso-

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Ivi, p. 82

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naggio. Attraverso questa inquadratura noi possiamo vedere non soltanto quello che vede il personaggio ma quindi anche, essere partecipi del suo stato d’animo. Una delle scene madre del film si svolge a tratti proprio attraverso questo tipo di ripresa. Vediamo ciminiere, tubi contorti e grandi depositi. Ci troviamo nella periferia industriale di Ravenna e il regista è come se volesse realizzare un catalogo di immagini simboliche del mondo contemporaneo. Vediamo una serie di panoramiche sfuocate su un paesaggio impreciso e dai toni giallastri. In rassegna, una dopo l’altra, si vedono le enormi torri di raffreddamento stagliate in una natura che diventa artificiale. In questo paesaggio dai toni spenti, grigi, compaiono una donna e un bambino che si avvicinano a una fabbrica: indossano due cappotti colorati, unici colori vivi in questo luogo. La scena si sposta nel retro dello stabilimento: il paesaggio si trasforma, compaiono cespugli bruciati, il terreno è melmoso, si vedono cumuli di scarti e spazzatura. La protagonista, Giuliana, si ferma e si guarda attorno. Seguono una serie di quattro soggettive impressionanti, alternate con tre sguardi del-


Deserto Rosso, Michelangelo Antonioni, Italia, 1964

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la donna. Le soggettive sono monocrome: sembrano ricordi del vissuto, allucinazioni: collinette, mucchi di ceneri, un microcosmo di detriti metallici, tubi, ferri accartocciati, grigi brillanti, un ammasso di ceneri ancora fumanti. In questo passaggio lo spettatore non comprende più se si tratta di realtà o allucinazione, e questo dilemma ci seguirà nel corso di tutto il film. E’ una delle questioni principali de Il deserto rosso, il titolo stesso denuncia questo conflitto tra il vedere e il non vedere, fra vita e morte, tra i colori industriali brillanti e le monocromie spente della realtà. Antonioni stesso, con una punta amara, sottolinea questo paradosso affermando che il mondo artificiale può avere “una sua originale bellezza”30. Altra sequenza molto importante all’interno del film per comprendere il rapporto tra il personaggio, il suo sguardo e il mondo circostante è quella della gita in campagna. I due protagonisti, parlando tra loro, lamentano il disfacimento del paesaggio. Esso però appare ai nostri occhi, più che degrado, come una vera e propria rielaborazione pittorica. Si vede uno stagno limaccioso, ricoperto di una patina biancastra.

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Avviene un passaggio di inquadrature che confonde lo spettatore: c’è un’inquadratura breve e improvvisa che colora lo schermo di bianco, come se fosse una tavolozza. Il montaggio impedisce a chi sta guardando di costruire una struttura spaziale comprensibile. Non vi è coordinamento prospettico nella scena e ciò rende impossibile la collocazione del soggetto che guarda il film, e, sul piano del significato, rende impossibile al personaggio stesso trovare una posizione nel mondo. All’interno di questo film soggettiva e oggettiva, reale e virtuale, pittura e cinema si contaminano, producendo una forma nuova di scrittura che spaventa e affascina perché indecifrabile. Qui il regista intraprende una rilettura coltissima del paesaggio. Antonioni è l’autore che meglio comprende il fatto che non basta sostituire una nuova visione del mondo a una vecchia ma che occorre, prima di tutto, cambiare la lingua in cui ci si esprime e, soprattutto, mutare le forme della rappresentazione del mondo stesso.


Deserto Rosso, Michelangelo Antonioni, Italia, 1964

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Luigi Ghirri, Roncocesi, l’ultima fotografia, 1992


Luigi Ghirri “La mia idea della fotografia, come inesauribile possibilità di espressione, ha cercato nella realtà mondi e modi di rappresentarli. La fotografia, al di là di tutte le spiegazioni critiche e intellettuali, al di là di tutti gli aspetti negativi che pure possiede, penso che sia un formidabile linguaggio visivo per poter incrementare questo desiderio di infinito che è in ognuno di noi”31.

L

uigi Ghirri è una figura fondamentale per la fotografia del secondo Novecento. Ha influenzato profondamente la cultura fotografica internazionale grazie alla sua capacità di saper cogliere lo straordinario nell’ordinario. La cattura di luoghi e paesaggi urbani ed extraurbani è uno dei temi che emerge con grande forza nel lavoro del fotografo. Al suo nome, infatti, è spesso legata l’idea del fotografo del paesaggio dalle atmosfere sospese, dagli orizzonti lontani in cui s’intrecciano i segni e le tracce della presenza dell’uomo, del suo lavoro come della sua indifferenza, della sua cura o del suo abbandono.

Ghirri L., a cura di Costantini P., Chiaramonte G., Niente di antico sotto il sole: scritti e immagini per un’autobiografia, SEI, Torino 1997, p. 7 31

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Ghirri fotografo, ma anche scrittore: nei suoi scritti rileva il significato dei suoi progetti, elabora riflessioni personali ed esprime la sua concezione di fotografia. Gianni Celati ha scritto: “Per lui la fotografia era un lavoro del pensiero, come la filosofia e la poesia. E rientrava in un’attività che è sempre esistita, quella di formarci immagini del mondo, che siano una misura dell’esperienza”32. Colpisce del-

la ricerca di Ghirri il modo in cui egli fotografa i luoghi e la realtà dei paesaggi che ci circondano, come essi siano stati incorniciati in immagini in grado di suscitare atmosfere impreviste, poetiche ed emozionali. È cambiato il paesaggio che ci sta intorno, sempre meno incontaminato e libero, ma ancor di più è cambiato il nostro modo di guardarlo perché, consciamente ed inconsciamente, ormai operano in noi tante cose già viste, tanti linguaggi già ascoltati. Nelle sue foto i soggetti sono quelli di tutti i giorni, appartengono al nostro campo visivo abituale, sono immagini che intrave-

Malacarne G., a cura di Clemente I., Moro A., Architettura 42. Luigi Ghirri: architetture e paesaggi, edizioni Clueb, Bologna 2011 33 Ghirri L., op. cit., p. 57 34 Ghirri L., op. cit., p. 77 32

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diamo passivamente e isolate dal contesto abituale della realtà circostante. Esse, riproposte fotograficamente in un discorso diverso, si rivelano cariche di un nuovo significato e una nuova lettura. Citando la celebre scrittrice Susan Sontag, “collezionare fotografie è collezionare il mondo”33, Ghirri ci fa capire l’idea che sottende la fotografia contemporanea: il desiderio di guardare, vedere, rappresentare il mondo in modo ordinato, catalogato. Per Ghirri, invece, la fotografia si configura come scoperta e rappresentazione di immagini che siano anche nuove possibilità di percezione. Fotografare il mondo per comprenderlo – “ho sempre pensato la fotografia come fonte inesauribile di stimoli, sensazioni, interrogazioni, risposte e non singole parcellizzazione del vedere. La fotografia come grande avventura del pensiero e dello sguardo”34. Nascono nuove narrazioni e racconti, perché il problema non è più cercare storie o paesaggi dispersi ma la necessità è quella di un nuovo alfabeto visivo, unificando sguardo e visione, in equilibrio tra rivelazione e rivelazione dei luoghi, dei paesaggi. Questi paesaggi suggeriscono una sorta di raccon-


Luigi Ghirri, Kodachrome, 1978

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to, una lettura per elementi e luoghi analoghi. L’analogia è un procedimento che non si chiude in se stesso, che rimanda continuamente ad altro. Le fotografie di Ghirri hanno l’esigenza di raccontare e reinventare il già visto, esperienze note e conosciute a cui, per continuità, fare riferimento. “Forse alla fine i luoghi, gli oggetti, le cose o i volti incontrati per caso, aspettano semplicemente che qualcuno li guardi, li riconosca, e non li disprezzi relegandoli negli scaffali dello sterminato supermarket dell’esterno”35, così diceva Ghirri per sottolineare che quei luoghi appartengono più al nostro esistente che, esclusivamente, alle terre desolate. Aspettano forse nuove

parole, nuove rappresentazioni o nuove figure, perché molti non sono stati solo mutamenti del paesaggio, quanto cambiamenti del vivere. Sembra quasi di percepire una ne-

cessità affinché il paesaggio si trasformi e “non rimanga luogo di nessuna storia e di nessuna geografia”36. Nessun mondo è da nascondere o rimuovere. E l’inesauribile spettacolo del mondo è sempre una sorpresa per gli occhi di Ghirri, perfino in una vecchia pompa di benzina abbandonata nella campagna, nel-

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Ivi, p. 88 Ibidem

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la pagina di un giornale buttato per strada dove si legge “Come pensare per immagini”. Quello era il senso del suo lavoro: pensare per immagini, screditando la fotografia odierna, concepita come attività puramente meccanica. Ghirri, a partire da un approccio concettuale e astratto, si avvicina ai temi del paesaggio: inizia, infatti, con Atlante (1973), scatti di mappe geografiche per continuare più avanti con paesaggi reali, come nella serie Paesaggio Italiano. La fotografia mostra gli elementi che sono lì da sempre per rivelare la loro difficile e intima bellezza. La nebbia, il buio e la neve compaiono per ricordarci quanto forte sia l’identità di quei luoghi. Fra i tanti paesaggi fotografati Ghirri si è focalizzato su quello padano – quello che viveva quotidianamente, quello affettivo. Vi è il grande fascino dell’assenza e del vuoto che questo territorio sa esercitare. Come lui stesso ha scritto, nel paesaggio padano “non vi è nessun elemento spettacolare o inconsueto a cui aggrapparsi”. Ha quindi scelto di fotografare l’assenza, la piattezza disarmante, il vuoto di tali paesaggi.


Luigi Ghirri, Atlante, 1973

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A proposito del vuoto di questi luoghi il suo amico scrittore Gianni Celati afferma: “Esistono miliardi di posti del genere che stanno affiorando sulla superficie della terra. Il loro affiorare è quasi sempre marcato da quella strana fissità che assume lo spazio vuoto, lo spazio che non si riesce a capire perché non è usabile in alcun modo. E in questi terreni di caccia gli architetti si lanciano in grandi avventure, sempre con gli occhi puntati a un futuro che nessuno sa cosa possa essere”37. Ghirri,

secondo Celati, ha fatto un lavoro opposto: è riuscito a raccontare la stabilità dello spazio vuoto, lo spazio che non si riesce a capire. Ha compiuto quasi una sorta di pulizia negli intenti o scopi dello sguardo. Uno sguardo che cerca lo straordinario, l’eccezionale, l’avventura, ma scopre che tutto può avere interesse. Ha fotografato quelle parti del mondo anonime, non interessanti al primo sguardo, riportando la rappresentazione a presupposti più semplici ed essenziali. Ghirri propone di passare dalla fotografia di ricerca alla ricerca della fotografia e cerca

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Malacarne G., op. cit. Ivi

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di individuarne il ruolo, precisandone alcuni significati: “Ricercare una fotografia che instauri nuovi rapporti dialettici e che sia anche un possibile metodo per organizzare lo sguardo, affinché questo non rimanga più inerte di fronte ad un esterno sempre più incomprensibile e complesso. Ricerca di una fotografia che non violenti, giudichi, occulti, nasconda, trasformi, perché vedere è l’aspetto magico della fotografia e ha bisogno di più leggerezza e trasparenza, che non di pesanti armature, […] che consenta a un volto, ad un luogo, a un paesaggio di essere riconoscibile, famigliare, abitabile”38. L’idea di un paesaggio abitabile, dell’abitabilità del mondo e delle sue immagini, riporta alla memoria analoghe considerazioni sul significato della fotografia espresse in “La camera chiara” da Roland Barthes: “Una vecchia casa, un portico in ombra, un tetto di tegole una sbiadita decorazione araba, un uomo seduto contro il muro, una via deserta, un albero mediterraneo: questa fotografia antica mi commuove perché, molto semplicemente, è “là” che vorrei vivere. Per me, le fotografie di paesaggi (urbani o agresti che siano) devono essere abitabili, e non visitabili”39. Come Barthes, Ghirri invita a considerare la fotografia come “una grande avventura del pensare e del vedere” con cui “riuscire contemporaneamente


Luigi Ghirri, Verso Lagosanto, 1987

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a meravigliarsi, o a restare stupiti come se fosse la prima volta che guardiamo questo territorio stracolmo di storie, segni e memorie”40. Se è facile rimanere affascinati dalla novità, più arduo è sperimentare questa condizione rispetto a ciò che si conosce bene, ai luoghi nei quali siamo cresciuti e che quotidianamente ci accompagnano nelle nostre abitudini e nelle nostre vite. La fotografia di Ghirri non punta dunque al riconoscimento delle cose bensì alla loro visione, cioè al porsi di fronte al mondo con stupore, come se fosse la prima volta. Provando a descrivere la motivazione del suo lavoro Ghirri cita un passaggio di Borges: “Non c’è niente di antico sotto il sole”. Il nuovo può anche nascere da ciò che conosciamo, a condizione di saperlo osservare. Vedere un paesaggio come se fosse la prima e l’ultima volta: un sentimento che Ghirri ritrova guardando i paesaggi di Bruegel o di Hopper, le fotografie di Evans, o ascoltando la semplicità delle canzoni di Dylan, e che “il paesaggio non è là dove inizia la natura e finisce l’artificiale, ma una zona di passaggio, non delimitabile geograficamente, ma più un luogo del nostro tempo, la nostra cifra epocale”41.

Barthes R., La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 2003 40 Ghirri L., op. cit., p. 81 41 Ghirri L., op. cit., p. 137 39

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Luigi Ghirri, Rifugio Grostè, 1983

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Edward Burtynsky, Silver Lake Operations #1, Lake Lefroy, Western Australia, 2007


Edward Burtynsky

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in dagli esordi della fotografia, l’osservazione del paesaggio è stata legata alla contemplazione e alla ricerca del sublime nella natura. Alla fine del XX secolo, tuttavia, gli effetti devastanti operati dall’industria hanno richiesto una nuova visione. Nel corso degli ultimi vent’anni questa è stata la preoccupazione artistica del fotografo americano Edward Burtynsky. All’interno del panorama dei fotografi del paesaggio americano, Burtynsky, fotografo e artista canadese, si è distinto a livello mondiale per le sue fotografie a grande formato dei paesaggi industriali. Le sue opere appaiono interessanti all’interno del nostro percorso perché vanno ad esplorare con uno sguardo diverso gli spazi residuali, ossia quei luoghi in cui, a causa dell’industrializzazione, la natura è stata irrimediabilmente trasformata. Egli è alla ricerca di soggetti ricchi di dettagli, a scala molto elevata e che portino con sé un significato profondo. Cantieri di demolizione, scarti di estrazione mineraria, cave, raffinerie e altri luoghi che sono al di

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fuori della nostra esperienza quotidiana.

Le immagini di questi luoghi sono considerate come metafore del dilemma della nostra esistenza all’interno del panorama contemporaneo: vanno alla ricerca di un dialogo tra l’attrazione e la repulsione, tra la seduzione e la paura. Secondo l’artista non abbiamo mai smesso di prendere risorse dalla natura. Ciò che è diverso oggi è la scala. La società attuale è alla ricerca di un modalità per risolvere questo eccesso. La nostra dipendenza dalla natura nell’ottenere materie prime per i nostri consumi e la nostra preoccupazione per la salute del pianeta ci pongono in una complessa contraddizione. Per lui, queste immagini, hanno la funzione di riflettere proprio questa dicotomia. Il suo atteggiamento però è positivo: la natura, nel tempo, può recuperare anche la più profonda traccia umana sulla Terra. Il controverso rapporto con la natura e l’obiettivo del suo lavoro vengono espressi in maniera chiara dall’artista: “While trying to accommodate the growing needs of an expanding, and very thirsty civilization, we are reshaping the

http://www.edwardburtynsky.com/site_contents/ Photographs/Water.html 42

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Earth in colossal ways. In this new and powerful role over the planet, we are also capable of engineering our own demise. We have to learn to think more long-term about the consequences of what we are doing, while we are doing it. My hope is that these pictures will stimulate a process of thinking about something essential to our survival; something we often take for granted—until it’s gone”42. Documentare le conseguenze dell’industrializzazione sul pianeta causa negli osservatori delle sue fotografie una capacità di osservare il mondo in maniera diversa. Ciò che al primo sguardo appare semplicemente un paesaggio deturpato diviene una poetica evidenza delle risorse spese. Le miniere

e le cave abbandonate, le pile di pneumatici fuori uso, gli infiniti campi di torri di trivellazione del petrolio e le enormi petroliere mostrano come i nostri tentativi all’interno del progresso industriale spesso lascino un residuo di distruzione. Tuttavia c’è qualcosa di misteriosamente bello e mozzafiato nella grandezza di queste immagini. E’ come se la vastità della loro prospettiva per-


Edward Burtynsky, Rock of Ages #26, E.L. Smith Quarry, Vermont, USA, 1991

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metta una visione più profonda delle cose.

L’autore, in occasione di una raccolta di fotografie di cave dismesse43, approfondisce il concetto di paesaggio come architettura e lo definisce “atto di immaginazione”. La scelta di fotografare questo tipo di paesaggi è nata dalla volontà di ricercare nel mondo qualcosa che corrispondesse al tipo di forme nate nella sua immaginazione. Lui stesso ricorda: “I remember looking at buildings made of stone, and thinking, there has to be an interesting landscape somewhere out there because these stones had to have been taken out of the quarry one block at a time. I had never seen a dimensional quarry, but I envisioned an inverted cubed architecture on the side of a hill. I went in search of it, and when I had it on my ground glass, I knew that I had arrived. I had found an organic architecture created by our pursuit of raw materials”44. Le cave abbandonate sono diventate soggetto ideale per le sue fotografie. Si dichiara affascinato dalle “sorprendenti patine di superfici” ritrovabili sulle pareti rocciose di questi luoghi. Queste superfici sono in grado di rivelare contemporaneamente il processo della sua creazione e di rendere visibili le tecniche utilizzate

Mitchell M., Burtynsky: Quarries, Steidl, Germania 2007 44 http://www.edwardburtynsky.com/site_contents/ Photographs/Quarries.html 43

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dai cavatori. Le cave e le miniere a cielo aperto sono, per lui, come piramidi capovolte, ritrova così nella realtà le forme che si era creato grazie alla sua immaginazione. L’utilizzo dei grandi formati e della grande scala rappresenta una caratteristica peculiare del fotografo canadese. Molto spesso il suo approccio, definito attraverso la compressione dello spazio e l’utilizzo della luce e della prospettiva, produce un’ambiguità nella scala, in termini di fruizione da parte dello spettatore. Egli afferma che le persone cercano sempre di mettere una scala umana in ogni cosa con cui si approcciano. Sostiene che abbiamo bisogno di mettere la prospettiva umana in queste immagini e la nostra presenza è sminuita dagli spazi che abbiamo creato. Per questo motivo, attraverso l’utilizzo di macchine fotografiche a grande formato, immortala enormi porzioni di paesaggio ricche di dettagli, restituendo al pubblico un’immagine quasi a scala reale di un luogo che appare miniaturizzato. E’ in questo senso che con le sue opere il fotografo produce un senso di disorientamento nello spettatore. In conclusione si può dire che l’interesse e


Edward Burtynsky, Oil Fields #2, Belridge, California, USA, 2003

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l’ottica attraverso cui l’artista osserva questi paesaggi dello scarto è complesso. Egli sfrutta in maniera esemplare il mezzo artistico per far avvicinare i fruitori della sua opera a tematiche delicate, legate all’ambiente e alla contemporaneità.

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Edward Burtynsky, Mines #22, Kennecott Copper Mine, Bingham Valley, Utah 1983

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Edward Ruscha, Dodgers Stadium, 1000 Elysian Park Ave, Thirty-Four Parking Lots, 1967


Edward Ruscha

U

n altro artista che si è occupato in maniera assolutamente originale dei paesaggi dello scarto in America è Edward Ruscha, artista americano legato al movimento della Pop art. Nel corso della sua variegata carriera artistica ha lavorato con la pittura, la stampa, il disegno, il cinema e la fotografia. Il suo lavoro è per noi interessante perché fornisce un possibile strumento per leggere gli spazi residuali dei territori comuni e ci restituisce la scala, la frammentarietà, la ripetizione. La sua opera, Thirty-Four Parking Lots45 (1967), attraverso una serie di fotografie scattate dall’elicottero, rappresenta una serie di parcheggi, nei momenti in cui si presentano vuoti, nella città di Los Angeles. Infiniti anelli di parcheggi offrono 56.000 posti nel Dodgers Stadium, 1000 nell’Elysian Park Avenue . Le auto, che in teoria rappresentano il principio organizzativo del libro, sono importanti proprio per la loro assenza; è interessante notare come, osservando le fotografie, ci si trova a visua-

Ruscha E., Thirty-Four Parking Lots, Curtis Books, Philadelphia 1967 45

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lizzare i modelli astratti della griglia ideata per accoglierle46.

L’esito di quest’opera di catalogazione è un atlante di luoghi vuoti, spazi distesi, immessi nel disegno urbano e in continua attesa di occupazione. Ruscha documenta queste presenze, le restituisce oggettivamente e questo distacco, sommato al vuoto degli spazi, si fa commento critico. La sua è un’operazione di tipo artistico-culturale che vuole evidenziare e recensire la reale produzione di scarto da parte della società contemporanea. Lo scarto assume in questo lavoro il “valore” di elemento da leggere nella sua ripetitività. La campionatura dei parcheggi esula da un approccio manualistico e propone una visione “tipologica” del tema.

L’artista presenta queste immagini utilizzandole come mezzo “provocatorio”, per aprire uno sguardo sulla città attraverso la semplice esplorazione dei meccanismi di

http://www.tate.org.uk/context-comment/articles/ microtate-13 46

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costruzione del sistema urbano. Viene criticata la pianificazione delle metropoli americane e le conseguenze che da essa derivano. Emergono enormi spazi vuoti, talvolta abbandonati, in cerca di occupazione da parte delle automobili che ne restituiscano il senso o in attesa di nuovo uso. Attraverso precisi scatti di teatri drive-in, studi cinematografici, aerostazioni e complessi di uffici, la struttura della città è messa a nudo: si evidenzia il fenomeno dello sprawling, l’assenza di un centro urbano, in cui la macchina è diventata strumento essenziale per vivere la metropoli.

Questo tipo di intervento di “catalogazione” ci permette di ampliare il nostro sguardo sulla città contemporanea, su ciò che non si legge nelle carte e su ciò che la società moderna nasconde alla vista.

Queste opere, seppur risalenti al periodo a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, risultano ancora estremamente attuali. È importante per noi il modo in cui questo artista si approccia ai luoghi dello scar-


Edward Ruscha, Gilmore Drive-In Theatre, 6201 W 3rd St, Thirty-Four Parking Lots, 1967

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to e come li presenta. Nell’opera di Ruscha la lettura fotografica, isolando l’oggetto nell’inquadratura, ne esalta l’anonimato e, contemporaneamente, attraverso la serialità degli scatti, ne propone le diverse fittizie varianti. Questi spazi senza storia, con poco pensiero e poco progetto, presentati obiettivamente, quasi in maniera astratta, si offrono come evidenza dell’ordinario: intervalli ripetuti assurti a vocaboli nel racconto della città.

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Edward Ruscha, Thirty-Four Parking Lots, 1967

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I paesaggi dello scarto diventano soggetti di racconti sia nel cinema che nella fotografia. Le suggestioni fornite dal cinema, sia italiano che straniero, sono innumerevoli e significative: bastano alcune sequenze di immagini per illustrare i caratteri dei paesaggi in cui sono ambientate le storie, le lacerazioni causate dall’uomo e la frammentarietà incerta sulla quale si interrogano. Occuparsi, per i registi della seconda metà del Novecento, della marginalità, del senso di abbandono, della sublime bellezza dei paesaggi dello scarto non è stata solo una scelta di tipo tematico ma anche e, soprattutto, visiva, estetica, tale da determinare un forte impatto sull’immaginario collettivo. Esaminando i punti più significativi degli approcci dei due registi presi in esame, ci accorgiamo che esiste una differenza di relazione con il paesaggio. Da un lato, se il film di Wim Wenders si affaccia al paesaggio suggerendo delle riflessioni più di tipo temporale, il regista italiano Antonioni si approccia sottolineando maggiormente l’aspetto emotivo legato ad esso e ai protagonisti dei suoi film. Per quanto riguarda la fotografia il punto di vista sul paesaggio cambia, in quanto le

immagini legate ad esso, a differenza del cinema, non sono in movimento. Da questa caratteristica ne consegue che i fotografi hanno un diverso approccio a questi luoghi rispetto ai registri. Il paesaggio, qui, non è più sfondo o protagonista di una storia, diventa il vero e proprio soggetto dello scatto, dietro il quale spesso il fotografo conferisce un significato più profondo. Il fotografo italiano Ghirri immortala scene e luoghi appartenenti alla vita quotidiana riproponendoli fotograficamente in un discorso differente, caricandoli di nuovo significato e offrendo una nuova lettura. L’americano Burtynsky attraverso il singolare utilizzo del macro-formato offre allo spettatore viste stupefacenti dei luoghi dello scarto e questa attenzione alla loro straordinarietà suggerisce una particolare sensibilità alle tematiche di tipo ambientali ed ecologiche. Infine il fotografo Ruscha utilizza il mezzo fotografico per realizzare una sorta di fredda catalogazione dei luoghi dell’abbandono, in particolare dei parcheggi; tramite questo espediente riesce a farci riflettere anche lui sull’esistenza e sulla drammatica diffusione di questo genere di paesaggi.

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Capitolo 5 Casi studio


I

l tema della rovina appartiene alla modernità: a partire dalla drastica diffusione dell’industrializzazione e dalle distruzioni causate dalle guerre, lo scarto è entrato con forza nella cultura progettuale del Novecento. Questo fatto ha portato nuove sensibilità e idee legate a queste tematiche. I casi studio scelti si pongono come esito di tutte le riflessioni precedentemente esposte. Si vuole (di)mostrare come, attraverso interventi di varia natura, sia stato possibile riattivare luoghi solitamente considerati irrecuperabili. Queste operazioni progettuali si collocano in un’ottica differente rispetto ai consueti progetti di riqualificazione: non modificano la natura originale del luogo e non propongono ulteriori drastici interventi costruttivi su paesaggi già deteriorati dall’azione umana. Esse riescono a portare alla luce il reale valore e potenziale dei siti rinnovati, coinvolgendo anche coloro che abitano il luogo. Parlando dello scarto e delle rovine vi sono molti altri validi esempi non trattati in questa tesi ma parimente legati a questa tematica. Ad esempio, un tema molto attuale è quello della dismissione dei luoghi dedicati

all’industria: il Lingotto a Torino, stabilimento industriale della FIAT, o l’enorme area estrattiva della Ruhr in Germania. Un altro aspetto è quello dell’architettura che si fa scarto. Partendo dai resti architettonici lasciati dai grandi eventi sportivi - come è accaduto dopo le Olimpiadi di Atene nel 2004 - si può osservare quando sono le architetture stesse, non essendo completate o utilizzate, a produrre rovine nel paesaggio, come è successo nella città della cultura in Galizia lasciata incompleta dall’architetto Peter Eisenman per mancanza di fondi. Infine caso molto interessante e dal felice risultato è il recupero dell’High Line a New York, una linea ferroviaria sopraelevata in disuso trasformata in parco lineare da parte di Diller Scofidio + Renfro. I casi studio analizzati sono cinque: raccontano differenti storie e differenti tipi di intervento. Il filo conduttore che li lega è la sensibilità nell’approccioarsi al luogo dimostrata in ogni occasione e le finalità socioculturali che, superando i benefici economici ricavabili da operazioni simili, hanno guidato tutti i progetti.

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Capitolo 5.1 Detroit, Michigan, Stati Uniti


Fabbrica di automobili Packard, Detroit 2010


I

l caso di Detroit è un esempio interessante di come una città in bancarotta, deserta e semiabbandonata possa trovare, all’interno della sua comunità, gli strumenti per rinascere. Questa città del Michigan è stata la prima degli Stati Uniti a dichiarare formalmente bancarotta. Il debito della città ammonta a 18 miliardi di dollari, il tasso di disoccupazione è del 20%, la popolazione si è ridotta dai 2 milioni, negli anni in cui la città era una fiorente sede dell’industria automobilistica, a 700 000 e questa cifra è in continuo calo. La città è attualmente in forte stato di degrado, ovunque si possono osservare edifici pubblici e privati completamente abbandonati e per poche centinaia di euro è possibile acquistare un immobile1. La situazione odierna della città è ancora più scioccante se confrontata con quella del passato. Detroit, infatti, era riconosciuta a livello mondiale come fiorente culla dell’industria automobilistica. Qui, verso la fine del XIX secolo, decisero di insediarsi alcune delle migliori industrie del settore: Ford, Chrysler, General Motors. Fu proprio

www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-07-19/titolo-075751.shtml?uuid=AbvBHYFI 1

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l’industria a spronare la straordinaria crescita della città nel corso della prima metà del XX secolo, attirando un gran numero di lavoratori, in particolare della parte meridionale dell’America. E’ stata l’industria stessa però ad innescare la crisi. Negli anni Venti, infatti, si inizia ad osservare una diminuzione della popolazione all’interno dell’area urbana, data dal fatto che Henri Ford sposta la produzione al di fuori della città, dando inizio a un processo di decentramento. In seguito, negli anni Cinquanta, si assiste anche a un progressivo spostamento della popolazione bianca nell’hinterland. Le tensioni razziali che scoppiano durante la fine degli anni Sessanta contribuiscono ad accelerare questo processo. In particolare, nel 1967, in seguito alla chiusura di un bar clandestino, si verificano degli scontri conosciuti anche come “la rivolta della 12th Street”. Questa situazione crea uno stato di disordine pubblico che si trasforma presto in rivolta civile. Durante cinque giorni di conflitto, perdono la vita 43 persone (33 persone di colore e 10 persone bianche), vi sono 467 feriti e 7.231 arresti, i negozi ven-


The Eastown Theater, Detroit, 2009 - Agosto 2010 - Novembre 2010

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gono saccheggiati, i palazzi bruciati e più di 300 famiglie divengono dei senzatetto2. In seguito a questi disordini la città inizia a svuotarsi. La popolazione bianca, infatti, terrorizzata dalla situazione, si allontana dalla città. Anche le case automobilistiche iniziano a spostare alcuni impianti lontano da Detroit. La concorrenza Giapponese e la crisi del settore fanno il resto. La città inizia a diventare una città- fantasma. Ad acuire questa già delicata situazione interviene anche lo stato federale che, negli anni Ottanta, taglia i fondi per la città3. Le finanze di metropoli come Detroit, New York e Filadelfia in passato, negli anni Sessanta e Settanta, poggiavano sui fondi federali. Negli anni Ottanta tuttavia, sotto la presidenza di Ronald Reagan, quei fondi però spariscono. Le spese per le metropoli sono passate dal 12% al 3%. La città, che già deve far fronte alla diminuzione delle entrate delle tasse perché la popolazione è diminuita, si trova in gravissima difficoltà economica. La disoccupazione agli inizi degli anni Ottanta sfiora il 30%, vi è un aumento della criminalità e dei pignoramenti.

Ibidem http://www.linkiesta.it/declino-detroit 4 http://www.huffingtonpost.com/news/detroit-ruinporn 5 Detroit Vacant Land Survey, Commissione per la Pianificazione Urbanistica della città di Detroit, 24 agosto

Tutti questi fattori collaborano a rendere la città deserta. La città oggi conta 70 000 edifici abbandonati. Tutte queste case diroccate, bruciate, crollate, vengono chiamate dalla popolazione locale “Ruin Porn”4. In tutta la città sorgono edifici, anche di una certa qualità architettonica, completamente in disuso. Cattedrali circondate da un deserto costituito da fatiscenti case popolari. Vi si trovano vecchie fabbriche, incustodite da decenni, che hanno assunto le sembianze di giganteschi relitti, corrosi dal tempo e dalle intemperie. Immobili sventrati, vetri in pezzi sparsi ovunque, macchinari ricoperti dal ghiaccio e dalla neve. Un deserto abitato soltanto da cani randagi, tossicodipendenti, senza casa e altri soggetti ai margini della società. La municipalità ha tentato invano di prendere alcuni provvedimenti. All’inizio degli anni Novanta una commissione urbanistica effettua un resoconto, chiamato Detroit Vacant Land Survey5, per documentare il processo di spopolamento che ha investito la città a partire dagli anni Cinquanta. Questo

2 3

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1990


documento, inoltre, propone di dismettere e abbandonare la maggior parte delle aree vuote della città. L’obiettivo è quello di spostare e concentrare la popolazione in determinate aree e di trasformare le attuali aree vuote in zone agricole o industriali. Nel 1993, con un comunicato stampa incendiario basato sulle esortazioni della Commissione per la Pianificazione Urbanistica del 1990, il difensore civico Marie Farrell-Donaldson, chiede pubblicamente la sospensione dei servizi pubblici e il trasferimento della popolazione residua dalle parti più libere della città. Queste due azioni amministrative non colpiscono tanto per la loro impossibilità di attuazione, ma perché dimostrano chiaramente quanto la città stessa si stia abbandonando da sola6. Nel corso degli anni Novanta, inoltre, la città perde circa l’1% del suo patrimonio edilizio a causa di incendi dolosi, dovuti soprattutto ad atti vandalici. Pubblicamente, l’amministrazione cittadina denuncia apertamente la condizioni di degrado della città; contemporaneamente, però in privato, sostiene le azioni illegali dei piromani finanziando e implementando uno dei più

vasti e radicali programmi di demolizione nella storia dell’urbanistica americana. Questo programma è durato per tutti gli anni Novanta, frutto della combinazione tra gli incendi dolosi illegali e le demolizioni autorizzate successive da parte di immobiliaristi, imprenditoria e comunità civiche. Secondo Dan Hoffman “demolire ha superato il costruire come principale attività economica della città”7. Grazie a queste azioni, vastissime aree di Detroit oggi sono state cancellate. Nonostante una forte campagna pubblicitaria, sostenuta con fondi federali e, malgrado i tentativi decennali da parte della municipalità di riattivare la città, costruendo teatri, stadi sportivi, casinò e altri luoghi di intrattenimento, si assiste a una continua perdita di popolazione e di patrimonio edilizio. Vi è stato anche il tentativo stridente di “riciclare” alcuni landmark ormai inutilizzati dalla città. Per esempio il Michigan Theater è stato trasformato in un grande parcheggio coperto. Questi tipi di intervento, però, non hanno portato ad alcun risultato concreto per la rinascita della città. Il riciclo non può focalizzarsi solo nel cambio di destinazione d’uso dei singoli edifici, la sfida è a scala

AA. VV., Re-cycle, Strategie per l’architettura, la città e il pianeta, Electa, Roma 2011. p. 80 7 Hoffmann D., Stalking Detroit, Actar, Barcellona 2001, p. 100 6

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maggiore: non riguarda, infatti, la creazione di nuovi fabbricati perché la richiesta di luoghi edificati è troppo bassa.

Date queste premesse è apparso necessario pensare a un concreto riutilizzo degli spazi abbandonati. Da questo punto di vista la cittadinanza si sta muovendo nella giusta direzione: la comunità dei cittadini vuole riscattarsi e uscire dalla situazione attuale. Le iniziative più creative e reali sono partite proprio dal basso, dalla popolazione che vive ancora in questi luoghi.

A polarizzare queste energie è intervenuto Il Detroit Institute of Arts8. Come museo si è preso l’impegno di valorizzare gli artisti locali, in continua crescita. Negli ultimi anni, infatti, si è assistito all’aumento sempre più consistente del numero di artisti all’interno della città. Essi sono attirati sia dai prezzi irrisori con i quali è possibile affittare studi, anche di grandi dimensione, sia dall’atmosfera quasi surreale della città. Questa città è priva del tipico rumore e caos delle metro-

8 9

http://www.dia.org/ http://detroitsoup.com/

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poli contemporanee e qui si respira un’aria completamente diversa, quasi di indipendenza, in cui l’assenza di mercato permette libertà di espressione dello spirito creativo di questi artisti. All’interno della comunità cittadina si è assistito a un continuo sviluppo di nuove forme di cooperazione. Un esempio è il fenomeno pop-up della Detroit Soup9. L’idea nasce nel 2010, nel quartiere di Mexicantown, a Detroit, grazie a due artisti, Kate Daughdrill and Jessica Hernandez. L’idea consiste nello svolgere mensilmente delle cene pubbliche, a base di zuppa appunto, per incrementare i meccanismi di relazione all’interno della città e per supportare dei progetti di arte collettiva a Detroit. Il guadagno ottenuto dalla vendita delle singole cene (5 dollari a zuppa) viene, infatti, devoluto al progetto che, attraverso un voto, è decretato dai commensali il più interessante e creativo. Fino ad oggi sono stati puliti parchi, realizzate opere d’arte comunitarie e sono nate delle collaborazioni tra i cittadini. Oltre all’aspetto più materiale, infatti, si è focalizzata l’attenzione e l’impegno nel-


Michigan Central Station, Detroit 2010

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la creazione di relazioni: questa iniziativa è stata testimone di un incremento, all’interno della società, dell’interazione tra personalità diverse. Un altro progetto sviluppato è quello di arte comunitaria chiamato The Heidelberg Project10. E’ nato con l’obiettivo di migliorare la vita dei cittadini attraverso l’espressione artistica. Questo progetto mira a dare a tutti gli artisti emergenti di Detroit, una possibilità di rendere più professionale il loro lavoro e di avere l’opportunità di esporre pubblicamente le loro opere. Tyree Guyton, fondatore e direttore artistico di questo progetto, utilizza oggetti abbandonati per trasformare il quartiere in un’area piena di colori, energia e simbolismo. E’ un forum di idee, che porta nuove speranze per il futuro. In una città “difficile” come quella di Detroit, in cui vi è un alto tasso di disoccupazione e di criminalità, azioni di questo tipo possono aiutare a riattivare realmente quei meccanismi sociali che dovrebbero caratterizzare tutte le società. Oltre agli esperimenti di installazioni artistiche pubbliche, sono aumentati i movi-

http://www.heidelberg.org/ http://greeningofdetroit.com/ 12 http://www.indiegogo.com/projects/detour-indetroit 13 Ibidem 10 11

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menti di agricoltura urbana. Tra questi vi è un’associazione non-profit, guidata da Rebecca Salimen Witt, chiamata The Greening of Detroit11. Il loro obiettivo è di migliorare la città attraverso la bonifica e il riciclo di siti abbandonati con la realizzazione di giardini pubblici e orti urbani. Questi orti, oltre ad accrescere il senso di cittadinanza e a stimolare la collaborazione tra cittadini, data la diffusa condizione di povertà nella città, contribuiscono anche alla produzione locale di cibo. Infine, un progetto molto importante che segue la logica della nostra ricerca è Detour12 ad opera di Francesca Berardi. Seguendo una tendenza contemporanea, ha lanciato un crowdfunding on line per finanziare il suo progetto. Il motivo per cui ha scelto di intraprendere questa strada è scaturito dall’incontro con questa città. Lei stessa afferma: “l’atmosfera che si respira a Detroit è unica: sembra una città spettrale, abitata dal fantasma dell’utopia su quattro ruote, ma nasconde un grande patrimonio e potenziale”13. È convinta che questa città possa avere un futuro, che può dipendere dall’impegno degli abitanti e dalla meraviglia di chi la scopre inaspettatamente,


Fabbrica di automobili Packard, Detroit 2010

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come è successo a lei. La sua idea è quella di creare un libro guida della città lungo gli itinerari tracciati da alcuni residenti e attraverso le immagini scattate da artisti e fotografi locali. Utilizzando il punto di vista delle persone che abitano e vivono in città, vuole creare delle “mappe” che forniscano diverse chiavi di lettura. Esse saranno trasversali alla storia e al tessuto urbano preesistente. Il suo desiderio è anche quello di coinvolgere delle persone in grado di tracciare un percorso in bici o a piedi attraverso i luoghi più significativi della città. All’interno della guida, il contributo di grafici e di artisti della città è fondamentale. Essi, avendo base a Detroit, hanno uno sguardo totalmente diverso rispetto a quello di un possibile turista di passaggio. Inoltre, come lei afferma, “é importante guardare la città con gli occhi di artisti e fotografi perchè l’arte aiuta a capire meglio”14. Questa guida avrà, quindi, un duplice valore: pratico e, allo stesso tempo, artistico, per permettere a tutti di scoprire una città dalle grandi possibilità. Una città ricca di immagini forti e densa di storie che necessitano

14

Ibidem

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di essere raccontate. Attraverso parole e immagini vuole ridare luce ad una città dimenticata, ma che può essere la nuova frontiera per chi vuole scommettere su di lei. Detroit rappresenta solo uno dei tanti esempi di città abbandonate presenti nel mondo. Essa, attraverso le sue azioni, si impone come modello su tutte le altre. Questa città, con la partecipazione attiva di associazioni e dei suoi cittadini, sta dimostrando che, grazie a strumenti reali di partecipazione, è possibile riemergere dalla crisi.


Miller High School, Detroit, 1950 e 2010

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Capitolo 5.2 Aeroporto di Temepelhof, Berlino, Germania


Aeroporto di Tempelhof, Berlino 2010


E

x-sede di un aeroporto, uno dei primi costruiti in Europa, definito dall’architetto Norman Foster “la madre di tutti gli aeroporti”15. Tempelhof è l’esempio di come un immenso spazio inutilizzato possa riprendere vita, conservando l’unicità e la bellezza del suo paesaggio. Per la sua importanza storica mondiale viene anche chiamato “The Gateway of the World” e “Tempelhofer Freiheit”16 – la libertà del Tempelhof – durante il periodo del blocco di Berlino diviene, infatti, mito e simbolo di libertà. Per il suo grande valore simbolico nella storia moderna di Berlino, della Germania e del mondo dal 2007 è in attesa di giudizio per la tutela dell’UNESCO17. Oggi per gli anziani Tempelhof è la memoria, per i giovani della vivace Berlino è la leggenda da conservare e narrare. La storia di Tempelhof risale al XIII secolo, quando i cavalieri Templari fondano qui la loro sede. Il suo appellativo deriva appunto dal dal nome dei monaci guerrieri. Nel lasso di tempo tra il 1720 e la Prima

http://www.ilpost.it/2011/09/12/il-parco-pubblico-di-tempelhof/ 16 http://www.tempelhoferfreiheit.de/en/ 17 http://www.rescue-tempelhof.org/aktiv/aufruf.html 15

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Guerra Mondiale viene usato come campo di parata e nel 1923 diventa un aeroporto. Aperto da imprenditori ebraici, poi espropriato da Hitler, viene ingrandito dall’architetto nazista Albert Speer, che lo rende, secondo il volere del Fuhrer, il primo aeroporto moderno in Europa ed espressione propagandistica del regime nazista. Una triste e trascurata vicenda lega il sito alla Columbia-Haus, ovvero il quartier generale della Gestapo a Berlino negli anni Trenta. Uno dei peggiori luoghi di terrore nella Germania nazista, noto all’epoca perché i pedoni che camminavano fuori dall’edificio potevano sentire le urla provenienti dall’interno di quest’area. Accanto alla stazione della polizia viene poi creato un campo di concentramento, l’unico ufficiale nel suolo berlinese. Per dare spazio all’ampliamento dell’aeroporto, affidato a Ernst Sagebiel, nel 1936 viene chiuso. Questi progetta una struttura talmente estesa che per un certo periodo viene addirittura definito uno dei più grandi edifici al mondo. Alcuni ambienti non vengono completati perché la costruzione è interrotta a causa dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale.


Aeroporto di Tempelhof, Berlino 1948

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Dopo la caduta del nazismo l’aeroporto viene occupato dai Russi. Consegnato agli americani all’epoca della divisione di Berlino, è inglobato nella Berlino Ovest. Nel 1948 Berlino Ovest, isolata per undici mesi dall’Unione Sovietica, si ritrova improvvisamente al buio, senza elettricità, benzina e acqua. La capitale tedesca è in rovina, incapace di provvedere ai suoi abitanti senza aiuti esterni. Vengono, perciò, in soccorso gli Stati Uniti e altri stati europei che riforniscono Berlino Ovest. L’aeroporto di Tempelhof viene utilizzato come ponte aereo per far giungere beni di ogni tipo: benzina, carbone, cibo, vestiti, medicine. Quando gli alleati cominciano a lanciare dagli aerei dei mini-paracadute contenenti caramelle questi mezzi vengono dolcemente chiamati dai bambini tedeschi “Rosinenbomber” (bombardieri di caramelle). Con questo episodio l’aeroporto di Tempelhof diviene un simbolo, riconosciuto a livello internazionale, della difesa della libertà. Se non ci fosse stato il ponte aereo, probabilmente oggi Berlino non apparirebbe così ai nostri occhi. Dopo il ponte aereo e la riunificazione della

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Germania, il traffico aereo civile riprende gradualmente. In seguito però i voli iniziano a perdere affluenza e nel 2008 l’aeroporto viene definitivamente chiuso. Circa 400 ettari vengono, quindi, temporaneamente abbandonati. Con l’abbattimento del muro, Tempelhof si ritrova ad essere parte di un ambito quartiere, nel cuore della città. Il pericolo che una speculazione edilizia si possa realizzare è talmente alto che, attraverso manifestazioni e raccolta di firme, i cittadini cercano di dimostrare quanto tengano alla sorte di questo luogo. Il forte valore simbolico ed emotivo si contrappone, quindi, al potenziale commerciale e immobiliare. L’amministrazione di Berlino decide, in seguito, di non trasformarlo in centro commerciale o condominio di lusso ma di lasciarlo così com’è, aprendolo al pubblico nel 2010.

Tempelhof viene trasformato, quindi, in un vasto parco pubblico, il più grande per estensione all’interno di una capitale europea. Le grandi piste d’atterraggio e i prati vengono presi d’assalto


Aeroporto di Tempelhof, Berlino 2010

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sia in estate che in inverno. Un

immenso spazio pubblico all’aperto usato, in ogni occasione, dai cittadini e turisti: essi vanno a correre, sui pattini, in bicicletta, organizzano grigliate e picnic, praticano qualsiasi sport, anche scii di fondo e si rilassano. Ma non solo. Infatti, i numerosi hangar dell’aeroporto sono diventati le location più desiderate di Berlino. Grazie alla varietà e alla dimensione dei suoi spazi vengono allestiti eventi di ogni genere: conferenze, fiere internazionali, spettacoli musicali, festival, mostre e cerimonie. In occasione della fiera dell’abbigliamento Bread&Butter, ad esempio, i vecchi negozi di duty free e i vecchi hangar vengono occupati per le esposizioni dei brand. L’avventura vera e propria, però, è all’interno del terminal perché a Tempelhof niente è stato spostato o cambiato, tutto è come prima. Anche il nastro trasportatore dei bagagli e l’arredamento retrò. Si può vivere l’avventura con un tour guidato che fornisce una visione ben diversa da quella che abbiamo solitamente di un aeroporto, frenetico e affollato. Offre, inoltre, uno sguardo approfondito sul modo in cui l’aeroporto sia stato

http://www.allmende-kontor.de:81

18

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fondamentale nella storia di Berlino. L’aspetto più interessante di Tempelhof è la possibilità, aperta a tutti, di attuare iniziative per la cittadinanza berlinese. L’amministrazione del parco è, infatti, sempre alla ricerca di progetti che creino opportunità di svago o riposo, realizzando idee socialmente e culturalmente valide per la città. Una straordinaria iniziativa che rende la popolazione non solo partecipe attivamente, ma anche artefice del futuro della sua città. Tra queste iniziative vorremmo segnalarne una particolarmente coinvolgente. L’organizzazione Allmende Kontor18, dal nome di una forma medievale di giardinaggio comunitario, ha preso in concessione dal comune una parte del parco per trasformarlo in un orto e in un giardino. All’inizio si trattava solo un piccolo gruppo di berlinesi, ma con gli anni gli iscritti sono aumentati sempre più anche grazie al fatto che l’accesso all’orto urbano sia sempre stato completamente libero e gratuito. Hanno piantato più di 300 specie di piante, alberi da frutto e fiori. La concessione autorizza all’utilizzo dell’area per un periodo di tempo di 3 anni, esten-


Aeroporto di Tempelhof, Berlino 2010

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dibili ad altri 3, e in vista del termine del contratto tutte le piante devono poter essere rimosse facilmente. Allmende Kontor è anche desiderosa di creare un networking tra tutti gli spazi coltivati in città, dai giardini pensili agli orti comunitari, coinvolgendo anche le autorità amministrative. Un luogo per imparare, per sensibilizzare, per conoscere. È destinata a diventare l’indirizzo fondamentale per il giardinaggio e per comunità di orti urbani a Berlino. Il futuro di Tempelhof vede la realizzazione di un progetto di riqualificazione da parte di uno studio scozzese, Gross Max19. Fortunatamente il progetto prevede di mantenere la superficie piana del parco. Resterà, quindi, un grande spazio aperto ma articolato in modo diverso. Gli architetti hanno delle limitazioni economiche e per ogni ettaro del parco devono trovare delle soluzioni creative e innovative. Tra queste c’è la proposta di designare ogni anno un curatore del parco, personalità come Wim Wenders e Al Gore. L’idea più bizzarra è la creazione di una montagna artificiale alta 60 metri, alla cui cima è posta la statua di un angelo ispirata

http://www.ilpost.it/2011/09/12/il-parco-pubblico-di-tempelhof/ 19

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al film di Wim Wenders Il cielo sopra Berlino. Gli architetti dovranno anche accogliere le aspettative degli abitanti dei tre diversi quartieri in cui si trova il parco. La classe operaia di Neukölln, a est, vuole un posto dove organizzare picnic e barbecue, e ha paura che i cambiamenti possano alzare il prezzo degli affitti costringendola a spostarsi. Gli abitanti di Kreuzberg, quartiere alla moda nord-est, vogliono più strutture per lo sport e per il divertimento. Infine, il quartiere di Tempelhof, composto da piccole famiglie, è turbato per il possibile aumento del traffico. Il progetto dovrebbe essere concluso entro il 2017, quando il parco ospiterà la Fiera internazionale del giardinaggio. C’è molto da imparare da questo grande paesaggio urbano un tempo abbandonato, in attesa di una destinazione. È un esempio di come un’area dismessa possa prendere di nuovo vita, con utilizzi imprevisti e non pianificati. Tempelhof si è saputa reinventare, crescendo ed evolvendosi ogni anno. La vita quotidiana ha trovato libero sfogo e la popolazione si è potuta auto-organizzare senza rispondere


Hangar, Aeroporto di Tempelhof, Berlino 2010

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a vincoli legislativi, politici, economici, rendendolo uno spazio realmente collettivo e attivo. Inoltre, la partecipazione attiva dei cittadini ha reso questo spazio una grande risorsa economica per le amministrazioni locali.

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Pista di atterraggio, Aeroporto di Tempelhof, Berlino 2011

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Capitolo 5.3 Complesso archeologico di Angkor, Cambogia


Tempio Ta Prohm, Angkor, Cambogia


I

l Parco Archeologico di Angkor, considerato da molti l’ottava meraviglia del mondo, nella provincia settentrionale della Cambogia di Siem Reap, è uno dei siti culturalmente più importanti della Cambogia. Esso rappresenta un affascinante periodo della primordiale cultura Khmer ed è un imponente simbolo della loro eredità nel paese. In seguito a delle vicende storiche è stato abbandonato per più di cento anni e, in questo lasso di tempo, la natura si è riappropriata di questo luogo. Riscoperto alla fine del XIX secolo da alcuni archeologi francesi, è oggi meta di più di due milioni di turisti ogni anno20. Si estende su circa 400 chilometri quadrati e si compone di centinaia di templi, opere idrauliche (bacini, dighe, serbatoi, canali) e vie di comunicazione. Per molti secoli Angkor è stato il centro del Regno Khmer. A partire dal IX secolo le dinastie degli imperatori che si susseguono, costruiscono templi sempre più maestosi ed imponenti: Angkor Wat Bayon, Preah Khan e Ta Prohm, rappresentano edifici esemplari dell’architettura Khmer, caratterizzata da un forte legame simbolico con la natura. Per esempio,

Coe M., Preah Khan Monastic Complex: Angkor Cambodia, Scala Publishers Ltd, Londra 2011 21 Rooney F., Angkor: Cambodia’s Wondrous Khmer Temples, Odyssey Publications, New York 2011 20

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il tempio principale, Angkor Wat, costruito tra il 1112 e il 1150, rappresenta simbolicamente il Monte Meru, ovvero la dimora degli dei. Presenta cinque torri centrali che corrispondono ai cinque picchi della montagna. E’ cinto da due mura concentriche, a loro volta circondate da un fossato le cui acque sono simbolo dell’oceano che cinge il monte sacro21. Nel corso del XV secolo queste grandi costruzioni vengono quasi del tutto abbandonate. Le cause si ritrovano nell’attacco da parte di un altro popolo, i Thai, e nello spostamento del centro politico ed economico del regno Khmer. In seguito, Per più di 400 anni, Angkor fu consegnata all’oblio,trasformandosi in una rovina sepolta dagli alberi, celata tra la flora tropicale. Gli abitanti della zona erano a conoscenza dell’esistenza di questi resti ma del loro eccezionale passato si era persa la memoria. Questa grande città e i suoi siti restano in buona parte nascosti dalla vegetazione fino alla seconda metà dell’Ottocento, quando avviene la loro riscoperta da parte di archeologi francesi. Dopo la pubblicazione delle note di viaggio di Henri Mouhot, esplora-


Tempio Ta Prohm, Angkor, Cambogia

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tore ed archeologo francese, questi luoghi iniziano a diventare noti anche in Occidente. Lo studioso scrive: “eretto da qualche antico Michelangelo...E’ più grandioso di qualsiasi cosa ci abbiano lasciato i greci o i romani, e contrasta tristemente con la situazione selvaggia in cui versa ora la nazione”22. Durante la dominazione francese vengono intrapresi studi dei monumenti e si da, quindi, avvio anche al loro restauro. Nel 1907 la regione viene restituita dal regno del Siam alla Cambogia e la soprintendenza alla conservazione archeologica di Angkor viene assegnata all’EFEO. Nel 1920 viene inaugurato il Museo Nazionale della Cambogia e viene istituito il Parco di Ankgor. Durante la seconda guerra mondiale e nel corso della guerra civile i lavori vengono interrotti, il sito viene in parte minato dai khmer rossi che fortunatamente non danneggiano in maniera significativa i monumenti. I lavori di studio e restauro riprendono solo dopo il ritiro delle truppe vietnamite del 1989. Nel 1991 Federico Mayor, direttore dell’UNESCO, visita il sito, e l’anno seguente viene inserito tra i patrimoni dell’umanità23. Angkor viene definito dall’organizzazione

Mouhot H., Travels in Siam, Cambodia, and Laos, 19581860, Oxford University Press, Londra 1989 23 http://whc.unesco.org/en/list/668/ 24 http://www.wmf.org/project/preah-khan-temple 22

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esemplificativo di valori culturali, religiosi e simbolici, e portatore di contenuti ad alto significato architettonico, archeologico e artistico. A partire dal 1991 la manutenzione del sito è stata assunta dal World Monuments Fund24, il quale, in linea con i precedenti metodi, ha continuato a mantenere un approccio genericamente cauto, nella convinzione che un’attività di restauro su larga scala sarebbe stata inevitabilmente invasiva. Poiché è una peculiarità ormai caratteristica dei templi preferiscono rispettare l’aspetto quasi in rovina degli edifici. Viene posta l’attenzione sul fascino paesaggistico che luoghi di questo genere possono suscitare nei visitatori. Questi paesaggi infatti sono oggetto di grande interesse per il loro alto valore simbolico ed estetico. Si sono venute a creare numerose forme di spettacolarizzazione, dall’intenso turismo organizzato alla comparsa di questi luoghi in alcuni scenari di film.

Il parco archeologico si trova ora in stato di “rovina parziale”. Le costruzioni sono state lasciate nello stato in cui sono state trovate una volta liberate dalla vege-


tazione. La struttura degli edifici è stata consolidata, ma l’aspetto è rimasto invariato. Molto importante è il fatto che la natura, qui presente in maniera imponente, non sia stata rimossa, ma anzi, sia stata preservata e protetta per il suo carattere attrattivo.

Templi come quello di Ta Prohm e Preah Khan sono ancora completamente circondati dalla giungla. La coesistenza di queste rovine così importanti storicamente con il relativamente intatto ambiente naturale, li rende alcuni tra i più eccezionali siti ad Angkor. La natura offre qui una manifestazione spettacolare della sua potenza: immense ceibe scalzano le fondamenta e crepano i muri degli edifici. Questi alberi avvolgono gli edifici abbracciandoli con le loro radici arricchendo queste rovine di un carattere affascinante. Visitando questo sito si assiste a un conflitto tra uomo-natura dettato dal segno del tempo.

Luoghi di questo genere, in cui lo stato di rovina è ancora presente, sono occasioni uniche e irripetibili nel pianeta per avvertire il

senso del tempo all’interno di un sito archeologico. Lo strano accoppia-

mento di pietre e alberi esprime infatti un sentimento di pura temporalità. In seguito a una visita di questo luogo l’etnologo Augè scrive: “ La vista di questi luoghi offre uno spettacolo in grado di esercitare sui suoi visitatori un fascino indefinito, un sentimento del tempo puro che si fa strada tra l’incerta presenza del presente e i molteplici riferimenti al passato”25. Il mistero di Angkor è legato al suo destino. In questa radura è come se la natura si fosse ripresa lo spazio che l’uomo le aveva strappato: mettendo radici, ricoprendo ogni pietra con alberi, foglie e piante di ogni genere. Poi, dopo aver quasi cancellato ogni traccia di civiltà, ne restituì le rovine ma senza rinunciare del tutto al suo dominio. Ecco, allora, il prodigio di un capolavoro costruito, insieme, dal genio dell’uomo e dalle leggi della natura, in una sorta di lungo scontro che assomiglia, per assurdo, ad una bizzarra e involontaria collaborazione. Il fascino di Angkor non si esaurisce in questa dicotomia, in fondo, non è esprimibile né tanto meno spiegabile. In questa città fantasma c’è qualcosa che parla al nostro

Augé M., Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 41 25

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inconscio. Qualche cosa di indefinito che riusciamo ad intuire, senza doverlo necessariamente decifrare26.

http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/ dossier/Mondo/2009/viaggio-cambogia/reportage/ terza-tappa-angkor 26

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Complesso archeologico di Angkor Wat, Angkor, Cambogia

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Capitolo 5.4 Arte Sella, Borgo Valsugana, provincia di Trento, Italia


Giuliano Mauri, Cattedrale vegetale, 2001


A

rte Sella si differenza dagli esempi precedenti per la sua natura di paesaggio pressoché incontaminato dall’uomo. Il luogo dove si sviluppa l’associazione era, infatti, fino agli anni Ottanta, una valle abbandonata, dedita solo all’agricoltura e all’allevamento. Queste attività non hanno rovinato il territorio ma hanno conservato la sua bellezza paesaggistica. Grazie all’iniziativa di tre giovani ragazzi, la valle è stata valorizzata attraverso la nascita di un movimento culturale e artistico nella natura. Esso si distacca dalla Land Art per la scala degli interventi e i materiali utilizzati: Arte Sella agisce, infatti, solamente nella propria valle, non modifica il territorio e incoraggia gli artisti a recuperare ciò di cui hanno bisogno per le loro opere nei boschi circostanti. L’interesse e l’impegno degli organizzatori e degli artisti partecipanti hanno permesso a questo progetto di diventare un’esposizione d’arte contemporanea qualificata e riconosciuta a livello internazionale27. Cos’è esattamente Arte Sella? Non è un parco museo dove il visitatore trova sculture preservate e protette dal-

http://www.artesella.it Ivi

27 28

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la loro distruzione: ad Arte Sella, infatti, i lavori artistici sono “affidati” alla natura e al suo ciclo vitale. Inoltre, dal momento che il destino di questi materiali naturali è quello di ritornare a far parte dell’ambiente naturale al quale appartenevano originariamente, quando si degradano, non vengono ricostruiti. I suoi ideatori la definiscono “una manifestazione internazionale di arte contemporanea” dove “il progetto artistico vuole essere non solo un’esposizione qualificata di opere d’arte, ma anche e soprattutto un processo creativo: l’opera è seguita giorno per giorno nel suo crescere e l’intervento dell’artista deve esprimere il rapporto con la natura basato sul rispetto, traendo da essa ispirazione e stimolo”28. Arte Sella si trova i boschi della Val di Sella, nel comune di Borgo Valsugana, in provincia di Trento. Nasce da un’idea di Carlotta Strobele, laureata in filosofia e d’origine austriaca, Emanuele Montibeller, commerciante e artista di Borgo, e Enrico Ferrari, architetto e pittore. Il loro principale obiettivo era di costituire un’associazione per lo sviluppo locale del concetto d’arte nella na-


tura. All’inizio la popolazione del luogo si mostrò scettica, tanto da utilizzare l’espressione “fare Arte Sella” per descrivere un comportamento strano ma, con il trascorrere del tempo, la popolazione ha imparato ad affezionarsi. Esistono due percorsi nei quali il visitatore può ammirare le opere tra i fitti boschi della valle, uno gratuito e uno a pagamento. All’ingresso dell’ultimo vi è Malga Costa: un edificio rurale che veniva usato anticamente dai pastori per la produzione di formaggio, ora spazio espositivo e informativo. Ad Arte Sella le opere vivono con e nella natura. Qui, l’arte è sfiorata con le mani: ci sono etichette che invitano a toccare e a far suonare l’opera. Sensazioni uniche, ne è convinto Giacomo Bianchi, nuovo Presidente dell’associazione: “il fatto di vivere, toccare, sentire le opere in un contesto non musealizzato, a contatto con la natura, riduce le distanze e abbassa le difese verso l’arte contemporanea, la rende forse più accessibile”29. Vengono utilizzati materiali naturali come foglie, rami d’albero, pietre, terra, che aprono un dialogo con la natura. Gli elementi

http://franzmagazine.com/2012/03/30/giacomobianchi-nuovo-presidente-di-arte-sella-un-impegnoimportante/ 30 http://www.ideatre60.it/le-idee-accadono/post/arte-sella-arte-contemporanea-e-boschi-che-generanolavoro

naturali abbandonati al ciclo della natura, rientrando successivamente nel ciclo “continuano ad affermare il forte messaggio di una reciproca appartenenza tra noi e la natura stessa, la quale ci invita a non dominarla ma essere pienamente rispettosi dei suoi cicli”30. La mutazione delle opere è continua perché sottomessa alle condizioni atmosferiche e allo scorrere delle stagioni. Fin dal principio, Arte Sella ha creato dei criteri fondamentali che devono essere seguiti e rispettati: l’artista abbandona il ruolo di protagonista, come avviene anche con la Land Art, per affidarlo all’opera; il rispetto per la natura e l’ecologia – la natura non è più protetta ma interpretata nella sua assenza; le opere sono inserite in un processo creativo – escono dal paesaggio, lo abitano per poi tornare, secondo i tempi della natura, a farvi parte31. Dopo molti anni di attività, l’associazione ha acquisito maturità, apprezzamenti e consensi. Laura Tomaselli, ex Presidente, dichiara che Arte Sella si è trasformata “da pura associazione di volontariato ad una realtà strutturata che ha assunto personale”32.
Il pro

29

http://www.artesella.it http://www.ideatre60.it/le-idee-accadono/post/arte-sella-arte-contemporanea-e-boschi-che-generanolavoro 31

32

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getto si è sviluppato soprattutto grazie alle relazioni instaurate nel corso del tempo: “è un progetto che si nutre di relazioni, a partire dalla dimensione locale, per coltivarle anche a livello internazionale e in questo modo crescere”33. L’aiuto e il sostegno finanziario del comune di Borgo Valsugana e della Provincia Autonoma di Trento, ad esempio, si è rivelato indispensabile per l’aumento di molte iniziative. La valle viene visitata ogni anno da più di 50.000 persone. Budget quindi sempre più in crescita, supportato anche dai finanziamenti pubblici e dagli sponsor. Ultimamente la cultura, in generale, rappresenta un punto fondamentale nello sviluppo economico. E Arte Sella ne è una dimostrazione. Ogni anno artisti di fama internazionale si susseguono con le loro installazioni e le loro opere nei boschi della valle, lavorano direttamente sul luogo per adeguare la propria idea allo spazio prescelto e alla stagione. Più di 150 artisti, provenienti da diverse nazioni, hanno collaborato con Arte Sella, tra cui Nils-Udo, Giuliano Mauri, Sally Matthews, Bob Verschueren, Steven Siegel,

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Jaakko Pernu. L’opera più celebre è la Cattedrale Vegetale, realizzata da Giuliano Mauri nel 2001. È una cattedrale gotica che occupa una superficie di 1200 metri quadrati ed è composta da tre navate formate da ottanta colonne di rami intrecciati, alte dodici metri e di un metro di diametro. All’interno delle colonne sono stati piantati dei piccoli carpini. Le colonne sono artifici per accompagnare le piante nel loro processo evolutivo, le strutture sono destinate a marcire per lasciare il posto alle piante che, attraverso potature, saranno adattate fino a formare la Cattedrale. L’intento dell’opera viene ben spiegato dalle parole dell’artista: “costruisco artifici per accompagnare le piante nei vent’anni che servono loro per diventare adulte. Dopo questo tempo le strutture sono destinate a marcire, a diventare terra. Al loro posto, stante una potatura annuale, ci saranno ottanta piante a forma quasi di colonna che ricorderanno comunque il mio lavoro. Tra vent’anni la gente si accorgerà che c’è stata la creazione della natura che ha dialogato con l’uomo”34. Nel 2006 viene creata un’altra grande opera, il Teatro Naturale. L’ideatore Roberto Conte prende come modelli gli antichi te-


Roger Rigorth, Wassergehäuse/Watercore, 2013

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atri greci, sfruttando la pendenza naturale del terreno. La struttura è costituita da rami intrecciati. Può contenere fino a 400 spettatori, qui vengono spesso organizzati eventi, manifestazioni e spettacoli. “Non si sa ancora ciò che l’avvenire riserverà ad Arte Sella, ma una cosa è certa: il cuore della manifestazione resta, nonostante la sua singolarità nell’arte contemporanea, l’aver creato una comunità di persone fatta non solo dagli artisti, ma anche dagli organizzatori, i visitatori, gli operatori, che ha la convinzione che la terra non sia sottomessa all’uomo e che la Natura, la Bellezza e la Cultura siano valori da perseguire, ricercare, godere insieme in uno sviluppo armonioso e sostenibile del territorio”35.

Arte Sella ha tutelato e valorizzato un territorio grazie a un progetto culturale comunitario: è una risorsa a livello sociale, culturale, artistico ma soprattutto economico. Da questa iniziativa impariamo come un paesaggio possa essere potenziato senza essere consumato, aggredito o sfruttato. La natura mostra il suo ciclo di vita, il suo deperimento, e l’uomo ne è affascinato. L’arte

Ibidem http://www.artesella.it/spazi_cattedrale.html 35 http://www.artesella.it 33 34

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risulta un ulteriore supporto per ammirare questo flusso. Gli elementi naturali delle opere nascono, vivono e muoiono nel paesaggio: è un abbandono spontaneo che permette alla natura di fare il suo corso.


Francois Lelong, Il Sole, 2008

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Capitolo 5.5 Stalker | Osservatorio Nomade, Roma, Italia


Planisfero, Stalker, 1995


“La zona è forse un sistema molto complesso di insidie... non so cosa succede qui in assenza dell’uomo, ma non appena arriva qualcuno tutto comincia a muoversi... la zona in ogni momento è proprio come l’abbiamo creata noi, come il nostro stato d’animo... ma quello che succede, non dipende dalla zona, dipende da noi”. (Stalker di A. Tarkovskij, 1979)

Q

uesto caso studio si inserisce all’interno del nostro percorso in quanto esperienza di laboratorio d’arte urbana avente come oggetto i paesaggi dello scarto, inseriti in un’elaborata indagine pratica e teorica. Stalker è un soggetto collettivo, composto da architetti, artisti di varia astrazione e antropologi, che compie ricerche e azioni sul territorio, con particolare attenzione alle aree di margine o ai vuoti urbani, agli spazi abbandonati o in via di trasformazione. Stalker ha effettuato alcune azioni di “transurbanza” – come loro le definiscono – attraversando a piedi le zone interstiziali di numerose città come Roma, Milano, Torino, Parigi, Berlino e Miami. Il loro obiettivo

http://www.osservatorionomade.net/tarkowsky/ tarko.html 37 Gennari F., Progett/azioni, tra i nuovi esploratori della città contemporanea, “Flash Art”, n.64, 1996, p. 1 36

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è sviluppare una metodologia di analisi e di intervento su quelle parti di territorio urbano in continuo divenire inconscio denominate “Territori Attuali”. Attraverso azioni, progetti, concorsi, mostre, workshop e diverse forme di mappatura e riciclaggio del territorio, Stalker vuole indagare possibili alternative alle tradizionali modalità di intervento urbano36. Questo movimento è nato a Roma nel 1995 da un gruppo di giovani studenti di Architettura in forma di protesta per la semi-privatizzazione delle università. In quell’anno, per cinque giorni, hanno attraversato gli spazi vuoti ai margini della capitale: luoghi di speculazione edilizia abbandonati e diventati ormai foreste, valli popolate da improbabili pastori, stazioni della metropolitana in rovina, siti archeologici delle ere del Sacco di Roma e Tangentopoli37. La modalità di intervento proposta era sperimentale, basata su pratiche spaziali esplorative, attivate da dispositivi di interazione creativa con l’ambiente investigato e con gli abitanti. Tali dispositivi erano finalizzati a


Stalker, Andrei Tarkovsky, URSS, Germania Est, 1979

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catalizzare lo sviluppo di processi evolutivi auto-organizzanti, attraverso la tessitura di relazioni sociali e ambientali, lì dove per abbandono o per indisponibilità sono venute a mancare. La traccia di tali interventi ha costituito una mappatura sensibile, complessa e dinamica del territorio indagato. Essa è stata realizzata con il contributo dei più diversi approcci disciplinari, attraverso cui si è voluto investigare i mutamenti avvenuti nel rapporto tra uomo e ambiente. Gruppi di persone – tra i sette e i venti membri – appartenenti ad ambiti anche molto lontani tra loro (architetti, video maker, artisti, scultori e antropologi), grazie alle loro spedizioni collettive hanno riportato foto, video e planisferi di questi luoghi che sfuggono alla mappatura della cartografia tradizionale. Questa nuova mappatura, contenente sofisticati e molteplici dati, è risultata uno strumento di facile accessibilità capace di attivare interesse. La modalità operativa descritta, oltre ad essere stato un inedito strumento di conoscenza, ha contribuito a promuovere la diffusione di una maggiore consapevolezza della popolazione nei confronti del proprio territorio e quindi ha permesso di ottene-

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re feedback più efficaci di partecipazione creativa nella gestione delle problematiche territoriali e urbanistiche. Com’è possibile convertire il movimento, all’interno dello spazio fisico, da semplice spostamento di alcuni corpi nello spazio a un processo che effettivamente modifichi la nostra percezione delle forme architettoniche che costituiscono il territorio? Come può il camminare all’interno di un sito, tramutarsi in un’indagine e in una contestazione dei motivi che condizionano la costruzione di una mappa usata da tutti, una mappa che contiene il sito ma che fallisce nell’indicare la sua identità? Come possono queste occasioni di incontro essere in grado di innescare le indicazioni progettuali per l’uso collettivo di quei luoghi? La risposta a queste domande è ritrovabile nell’esito dei loro eventi: i planisferi. Questi sono il risultato di azioni in cui i membri del gruppo immergono loro stessi in zone che sono momentaneamente sfuggite dalle strutture di pianificazione urbana e si sono aperte ad altre possibilità. All’interno di queste mappe i luoghi sono


mostrati con due colori diversi. Il blu indica i “Territori Attuali”. Essi costi-

tuiscono il negativo della città costruita, aree interstiziali e di margine, spazi abbandonati o in via di trasformazione. Qui la metabolizzazione degli scarti dell’uomo, da parte della natura produce un nuovo orizzonte di territori inesplorati, mutanti e di fatto vergini. Con il termine “attuale”,

riferendosi a Foucault, intendono il “divenir altro” di questi spazi. L’attuale non è ciò che noi siamo, ma piuttosto ciò che diveniamo, ciò che stiamo diventando, il nostro divenire altro. Tali territori risultano difficilmente intellegibili, e quindi progettabili, perché privi di una collocazione nel presente ed estranei ai linguaggi del contemporaneo. La loro conoscenza non può che avvenire per esperienza diretta, possono essere testimoniati piuttosto che rappresentati, per questo motivo l’archivio di tali esperienze è l’unica forma di racconto dei territori attuali. In giallo sono invece rappresentati i luoghi che sono già stati categorizzati e mappati, conosciuti e dominati dalle autorità. Tra e

attraverso queste masse colorate vi sono dei punti bianchi che segnano i percorsi intrapresi da Stalker. Riguardo al mezzo di fruizione di questi luoghi, il camminare, vi sono chiare similitudini con l’importante movimento del Situazionismo. Camminare è un modo per trasformare la città e farsi trasformare da essa, per permette ad ognuno di essere trasportato dalla corrente delle situazioni. Questo abbandono appartiene al grande intento della Deriva Situazionista, anche se diverge da essa per un motivo importante. L’obiettivo, infatti, non è quello di prendere posizione in una situazione prefissata ma di entrare in una situazione che è per definizione fluida e la cui configurazione è sfuggevole38. Qual è dunque l’apporto che il gruppo offre a questi luoghi? Qual è il loro contributo all’interno della pratica urbana? La peculiarità è l’approccio nei confronti dell’architettura: per essi è un evento in continuo movimento, un’appropriazione dinamica della città e dei suoi territori, “una ricerca nomade, tesa a conoscere attraversando, senza irrigidire, omologare e definire l’oggetto del cono-

Davila Thierry, Urban explorer, “ArtPress”, n. 268, 2001, p. 41 38

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scere, per non impedirne il divenire”39. In un’intervista Romito, uno dei membri fondatori, afferma che “la deriva è una pratica architettonica per noi. Crea un sistema di relazioni nel tempo e nello spazio che vanno a caratterizzare e valorizzare i “territori attuali”. Abbando-

nare questi luoghi è la più potente forma di cura per quello che si è sviluppato aldilà della volontà umana e della pianificazione40. Per gli stalker omologare, attraverso il progetto, i vuoti urbani ai pieni non ha senso: i luoghi della nuova wilderness cresciuta tra le pieghe della città rappresentano la nostra civiltà, il suo divenire inconscio e molteplice. L’aspetto e la novità principale introdotta da Stalker è data dal fatto che essi si rifiutino di perseguire una poetica o un linguaggio architettonico e soprattutto che creino nuove condizioni per il lavoro dell’architetto. Si avvicinano all’architettura, riscoprendo una dimensione inclusiva nelle tecniche della progettazione. La loro attenzione per le forme dell’urbanità contemporanea si nutre di un sapere eclettico, non sistematico,

Santuccio S., The zone, “Il Progetto”, n.31, 2000 Dorono G, Experimental architecture, Fourth dimension, “Blue Print”, n. 23, 2000 41 Boeri S., Tre posti caldi, “Abitare”, n.396, 2000, p. 150 39 40

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eppure a suo modo rigoroso, che produce esperienze di mappatura del territorio – attraversamenti, descrizioni, atlanti – mettendo in evidenza le tracce spesso labili dei nuovi comportamenti abitativi. Il loro lavoro si indirizza in interventi temporanei, mobili, riproducibili, estremamente adattativi al contesto. La loro idea è che il campo dell’architettura oggi non abbia un’unica gravitazione nell’opera edilizia, non sia misurabile solo dalla sua mole ma sia enormemente esteso in universi comunicativi paralleli, e che praticare tutti questi livelli non significhi tradire il rigore del gesto architettonico, o disperderlo. Al contrario, e questo è il loro più grande contributo, significhi esplorare le nuove dimensioni di una professione che oggi veicola immaginari non solo attraverso fatti urbani concreti ma anche con azioni partecipate collettive41.


Francesco Careri, Planisfero - Constant. New Babylon, una cittĂ nomade, 2001

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Capitolo 5 Nuovi sedimi fertili

Planisfero Ultime Terre, NASA 2008


“Queste sono le ultime cose, scriveva. A una a una esse scompaiono e non ritornano più. Posso raccontarti quelle che ho visto, quelle che non esistono più, ma temo di non averne il tempo. Tutto sta accadendo così velocemente ora, che non riesco a tenervi dietro. Non mi aspetto che tu capisca. Non hai mai visto niente di tutto questo, e non potresti neppure immaginarlo. Queste sono le ultime cose. Una casa un giorno è lì e il giorno dopo è sparita. Una strada lungo la quale solo ieri camminavi, oggi non esiste più. Quando vivi in città impari a non dare nulla per scontato. Chiudi gli occhi per un attimo, ti giri a guardare qualcos’altro e la cosa che era dinnanzi a te è sparita all’improvviso. Niente dura, vedi, neppure i pensieri dentro di te. E non devi sprecare tempo a cercarli. Quando una cosa sparisce, finisce”

Da Nel paese delle ultime cose di Paul Auster


foreste tropicali e subtropicali umide di latifoglie

taiga

tundra

foreste tropicali e subtropicali secche di latifoglie

savana

foreste mediterranee

foreste tropicali e subtropicali di conifere

arbusti

deserto

foreste temperate di latifoglie e foreste miste

mangrovie

laghi

foreste temperate di conifere

praterie montane

roccia e ghiaccio

Planisfero Ultime Terre, Europa, NASA 2008di Erchire 2013


L

a terza parte della ricerca si focalizza sulla ricerca degli strumenti per la costruzione di una strategia di lavoro per la trasformazione di questi luoghi complessi e marginali dai quali si è partiti nell’indagine. Chiariti i limiti e le complessità dei Territori della dispersione e dei contesti residuali che oggi più che mai interessano la disciplina, delineati i caratteri degli spazi fertili con cui possiamo lavorare, comprese le potenzialità che si celano al loro interno (non sono più soltanto ambiti problematici, ma ricchi di condizioni di fertilità), si apre una riflessione di tipo metaprogettuale. Se la domanda iniziale di questo percorso è stata Cosa sono i paesaggi dello scarto?, ora la questione posta diviene: Come può l’Architettura qualificare lo spazio residuale? L’obiettivo non è quello di delineare un metodo, né di garantire il buon esito del progetto -che è sempre irripetibile e specifico- ma di esplorare il lavoro complesso su questi luoghi unici. Date queste premesse si cerca di definire una strategia guida, non assoluta né definitiva, costituita da elementi teorici,

209


articolati, specifici, interscalari, multidisciplinari, di riferimento per il progetto. Si è tuttavia consapevoli si muoversi in un campo aperto, che è alla ricerca continua di nuovi punti cardinali per orientarsi (tra i quali le suddette strategie) e prova, con questa sezione in particolare, a metterli in dialogo e risonanza. Si articolerà in tre tempi, ognuno dei quali rappresenta un avvicinamento, un passaggio necessario o un approccio ai luoghi da noi indagati. “Il pianeta é saturo” é una affermazione che riguarda la sociologia e le scienze politiche. Si riferisce non allo stato della terra, ma ai modi e mezzi adottati dai suoi abitanti per vivere. Segnala la scomparsa delle no man’s lands, o terre di nessuno, cioé di quei territori che possono essere definiti e/o trattati come vuoti di abitanti umani, nonché privi di un’amministrazione sovrana, quindi aperti alla colonizzazione e all’insediamento, che anzi reclamano a gran voce. Questi territori, oggi largamente assenti, per gran parte della storia moderna hanno svolto il ruolo cruciale di discariche per i rifiuti umani sfornati in quantitativi sempre crescenti nelle parti del pianeta investite dai processi di modernizzazione”1.

Bauman Z., Vite di scarto, Laterza, Roma 2005 http://www.wcs.org/ 3 http://www.ciesin.org/ 4 http://sedac.ciesin.columbia.edu/ 5 http://sedac.ciesin.columbia.edu/data/collection/ wildareas-v2 1 2

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Sulla base del fatto che l’influenza umana è una guida globale dei processi ecologici del pianeta - alla pari delle tendenze climatiche, forze geologiche e variazioni astronomiche -, il Wildlife Conservation Society2 (WCS) e il Center for International Earth Science Information Network3 (CIESIN) della Columbia University, ospitante la NASA Socio-economic Data and Applications Center4 (SEDAC), si sono uniti per mappare sistematicamente e misurare l’influenza umana sulla superficie terrestre. Il lavoro di ricerca (Last of the Wild v25) consiste nel creare tre indici caratterizzanti: The Human Influence Index, The Human Footprint Index e The Last of the Wild.6 I dati riguardanti la distribuzione geografica delle ultime terre derivano dalla combinazione e sovrapposizione dei dati relativi allo Human Influence Index e allo Human Footprint. Come si può osservare dalle mappe, da questo studio approfondito emerge che The Last of the Wild rappresenta per lo più le aree meno ospitali per l’uomo, cioè tutte le aree geografiche con un bioma partico-

L’Human Influence Index viene prodotto attraverso la sovrapposizione di otto fattori che si presume esercitino un’influenza sugli ecosistemi: distribuzione della popolazione umana (sq.km), aree urbane, terreni agricoli, strade, ferrovie, fiumi navigabili, linee di costa ed entità dell’illuminazione notturna. 6


lare che ha reso più difficile o impossibile l’insediamento e la colonizzazione umana: le foreste tropicali e subtropicali, le foreste di conifere tropicali e temperate, la foresta boreale, la taiga, la tundra, il deserto, la savana, le mangrovie, le rocce e i ghiacci. Questi dati palesano il fatto che i luoghi dello scarto siano oggi una risorsa preziosa: il pianeta è saturo, non esistono più ultime terre vergini su cui poter costruire. Per questo è necessario ripensare alla conservazione dei paesaggi residuali e scartati, e appare inevitabile il loro trattamento come nuovi sedimi fertili.

pretazione (la ricerca stessa talvolta si frammenta, perde continuità, fatica a delineare un quadro unitario), non impedisce di tentare la ricostruzione di un orizzonte di senso comprensibile e l’attribuzione di forme e relazioni leggibili. Il progetto di architettura quindi orienta un nuovo scenario in grado di coordinarsi e dialogare con le strategie e gli strumenti del progetto di paesaggio.

E’ fondamentale quindi comprendere quali siano i valori e i materiali latenti specifici sui quali fare perno, i quali di volta in volta devono essere interpretati e rieditati. L’architetto, con i contributi del paesaggista, dell’ingegnere, del biologo, dell’agronomo e dell’antropologo, in continuo scambio con queste e altre discipline, assume in questo processo un ruolo specifico e insostituibile, per la capacità che gli è propria di ri-comporre. L’eterogeneità dei paesaggi residuali, nonostante costituisca materiale di difficile inter-

Sulla base dei presupposti esplicitati e indagati, la ricerca pre-figura alcuni scenari aperti, offre cioè un panorama di sguardi possibili attraverso i quali il progetto si deve orientare, indicando gli elementi notevoli da recuperare e potenziare e quelli da scartare o variare. Il progetto scioglie le criticità del residuale e ne potenzia le peculiarità, avvia un processo di riqualificazione che si sviluppa nel tempo prolungato che la formazione di qualsiasi paesaggio richiede. Come un dispositivo, il progetto sugli spazi residuali e dei margini è una potenza in atto: dal tempo zero iniziale, quello dell’osservazione sulle cose, al tempo ennesimo dell’azione e della trasformazione progettuale, esso delinea un percorso evolutivo,

Più specificatamente, la superficie della terra viene suddivisa in una griglia, ad ogni punto della quale é associata la somma dei valori ottenuta pesando il punto rispetto agli otto fattori. L’influenza combinata di questi fattori produce l’Human Influence Index. Esso, a sua volta, viene normalizzato rispetto a biomi

globali per creare i dati per l’Human Footprint. I valori HF vanno da 1 a 100; un punteggio di 1 nelle foreste tropicali umide indica che quella cella della griglia fa parte del 1% meno influenzato o l’area più “selvaggia” nel suo bioma. Le aree che hanno meno influenza diventano i dati delle mappe di The Last of the Wild.

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mai lineare ma variabile, un divenire potenziale che già esiste nell’inizio (nello stato di fatto) e che deve essere svelato e attivato. Il progetto non può più essere unico gesto risolutore della complessità di questi spazi in transizione, né essere definito in ogni dettaglio e controllato in ogni tempo di realizzazione; non si conclude dopo l’azione trasformativa, ma diviene presupposto da cui partire per ulteriori andamenti. Emerge una strategia selettiva e mirata, sperimentale, aperta e continua. Attraverso questi molteplici e sovrapposti passaggi, il residuo può quindi essere trasformato in un luogo con una propria identità, riconoscibile e dotato di rinnovato significato.

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Scalo merci di Milano Porta Romana

Aree demaniali militari

Ex fabbrica INNSE

Ex stabilimento Italsider


ubicazione

area superficie totale coperta

destinazione d’uso originale

uso attuale

viale Isonzo, Milano 203 100 mq area destinata allo smistamento merci

area in stato di abbandono

Fonte: Sito del comune di Milano

ubicazione

Sardegna

area superficie totale coperta

144 230 ha, superficie costruita di 467.600 mq

destinazione d’uso originale

aree ed edifici ad uso militare

uso attuale

area in stato di abbandono

ubicazione

via Rubattino, Milano

area superficie totale coperta

400 000 mq

Fonte: Sito della Regione Sardegna

destinazione d’uso originale

uso attuale

stabilimenti industriali INNSE

area in stato di abbandono

ubicazione

Bagnoli, Napoli

area superficie totale coperta

1 769 107 ha

Fonte: Sito del comune di Milano

destinazione d’uso originale uso attuale Fonte: Sito del comune di Napoli

impianto siderurgico della società Italsider

area in stato di abbandono


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